ADALBERTO di Toscana
Figlio di Adalberto I e di Rottilde, è documentato quale marchese di Toscana dall'884 al 915. Era soprannominato "il ricco", non solo per le proprietà fondiarie, ma anche per i beni mobili, come sembrano dimostrare studi recenti, che lasciano anche intravvedere una certa attività commerciale ed industriale nei territori che costituivano la sua marca. Erede dei possedimenti provenzali già appartenuti al padre, sposò, al più tardi nell'895-98, Berta, figlia di Lotario II di Lorena e di Gualdrada, vedova del conte Tebaldo di Vienne e madre di quattro figli: Ugo, Bosone, Ermengarda e Teutberga (Ugo e Bosone rimasero in Provenza, quando la madre venne in Italia, ma erano destinati a diventare l'uno re d'Italia e l'altro marchese di Spoleto, mentre la figlia, Ermengarda, che la seguì, andò sposa al marchese Adalberto d'Ivrea). Berta fu consigliera ed ispiratrice della politica del marito.
A. ebbe, nelle agitate vicende del regno indipendente d'Italia, una parte che fu forse ancor più importante di quanto risulta dalle fonti; ma non pare abbia mai aspirato alla corona, preferendo muoversi con abilità tra i vari competitori ed assicurare la quasi completa indipendenza della marca di Toscana, senza affrontare incerte avventure. Non si sa quale posizione avesse assunto nell'888, al momento dell'elezione di Berengario e, l'anno seguente, quando Guido di Spoleto gli mosse guerra per togliergli il regno. L'antica solidarietà di interessi che univa la casa di Toscana e quella di Spoleto doveva essere ancora operante; ma l'anonimo autore dei Gesta Berengarii (cfr. E. Dümmler, Gesta Berengarii. Beiträge zur Geschichte Italiens im Anfange des zehnten Jahr., Halle 1871, p. 98) non annovera tra i combattenti il marchese A., e si limita a ricordare la presenza di un contingente di Toscani nell'esercito di Guido. Vero è che il poemetto fu composto in un momento in cui le relazioni di Berengario con Guido, figlio ed erede di A., erano ottime, da un poeta di corte, incline a non rievocare ricordi che potessero spiacere al suo re. Sta di fatto che nel maggio dell'890 A. era alla corte di Guido, e che nell'894, quando Arnolfo di Carinzia varcò le Alpi con il proposito di far valere i suoi diritti di erede dei Carolingi, A., insieme con il fratello Bonifacio e due dei suoi vassalli, si recò a Pavia al cospetto del nuovo re d'Italia; ma si trovò ben presto in contrasto con lui, tanto che fu arrestato. I motivi del contrasto sono oscuri, ma si può forse supporre che il potente marchese avesse chiesto al re, che voleva recarsi a Roma per ricevere la corona imperiale, di essere nominato - come suo padre ai tempi di Carlo III - messo imperiale e tutore del patrimonio di S. Pietro, quale contropartita del libero passaggio attraverso alla marca di Toscana. Liberato dopo aver prestato giuramento di fedeltà, A. fuggì con i suoi in Toscana e con tutte le forze di cui disponeva occupò i valichi degli Appennini da cui Arnolfo avrebbe potuto cercar di passare, così che il re ritenne prudente ritirarsi.
Morto Guido, A. non intervenne nella breve guerra che s'era riaccesa tra Berengario e Lamberto, e solo quando quest'ultimo prevalse lo riconobbe come sovrano; quando, però, alla seconda calata di Arnolfo (896), Lamberto sembrò cedere senza combattere ed eclissarsi, A. si intese con Berengario che, dopo essersi messo al seguito di Arnolfo, s'era precipitosamente allontanato temendo per la propria vita. L'intesa doveva esser diretta sia contro Arnolfo sia contro Lamberto, ma la ritirata di Arnolfo e la ricomparsa di Lamberto la fecero sfumare. Anche il riavvicinamento tra A. e Lamberto fu di poca durata: riconciliatosi nella primavera dell'897, nell'agosto dell'898 A., fiancheggiato dal non meglio qualificato conte Ildebrando, si ribellò apertamente. La sua ribellione è messa in relazione con gli avvenimenti romani, con la doppia elezione di Giovanni IX, sostenuto dall'imperatore Lamberto, e di Sergio III, che, costretto a lasciare Roma, s'era rifugiato presso A.: doppia elezione che aveva la sua radice nella questione formosiana. Sta di fatto che il marchese, affiancato dal conte Ildebrando, mosse dalla Toscana e per il passo della Cisa marciò con le sue truppe verso Piacenza, con l'evidente proposito di tentare un colpo di forza su Pavia: accampatosi a Borgo S. Donnino, nella notte fu colto di sorpresa da Lamberto, che aveva saputo del suo arrivo mentre era a caccia nei boschi di Marengo, e, seguito da un centinaio appena di cavalieri, si era precipitato contro il nemico, facendone strage. Ildebrando si salvò con la fuga ed A. fu catturato in una stalla dove s'era nascosto. Portato a Pavia per esservi giudicato, l'improvvisa morte di Lamberto in un incidente di caccia e la prontezza con cui Berengario si insediò in Pavia gli salvarono la vita e gli ridiedero la libertà. Contingenti toscani presero parte allo sfortunato tentativo di Berengario di respingere gli Ungari che avevano invaso l'Italia; ma il marchese di Toscana appare, subito dopo, quale principale esponente di quel partito che invitò Ludovico, re di Provenza, nipote di Ludovico II, a venire in Italia e gli conferì la corona per motivi vari e complessi, tra i quali non ultimo il desiderio di Berta di procurare una posizione eminente in Provenza o in Italia ai figli delle sue prime nozze. Pare che Ludovico, dopo la sua incoronazione imperiale, abbia conferito ad A. le funzioni di messo imperiale in Roma; ma ciò non impedì che egli si trovasse in aperto contrasto con l'imperatore fin dalla sua sosta a Lucca nel viaggio di ritorno da Roma, per motivi forse più gravi di quelli prospettati dal cronista Liutprando, che parla dell'invidia e della diffidenza destata nell'imperatore dalla ricchezza e magnificenza del marchese. A. fu comunque il principale responsabile del mutamento di situazione, che costrinse il nuovo imperatore a lasciare l'Italia e ridette il potere a Berengario. Egli tuttavia serbò, per quel che risulta, neutralità assoluta al tempo della seconda venuta di Ludovico (904). D'accordo con il marchese Alberico di Spoleto, si oppose al progetto di incoronazione imperiale di Berengario, temendo una menomazione dell'autonomia della sua marca, e bloccò i passi dell'Appennino, da cui il re avrebbe potuto tentar di passare (907). Fu questa l'ultima iniziativa politica di A., che, per quanto si sa, trascorse gli ultimi anni in tranquillità.
Di una precedente azione politica a vasto respiro è forse prova l'offerta di doni, che, come si ricava da una lettera scritta da Berta, moglie di A., nel 906, furono inviati al califfo di Baghdad al-Muktafi, forse nella speranza, risultata poi vana, di allacciare rapporti con gli Arabi in funzione antibizantina.
Morì il 16 sett. 915, lasciando due figli, Guido e Lamberto. Fu seppellito nella cattedrale di Lucca.
Fonti e Bibl.: Liudprandi episcopi cremonensis Opera omnia, a cura di E. Dümmier, in Mon. Germ. Hist., ad usum schol., Hannoverae 1877, pp. 3, 18, 21, 22, 24, 26, 27, 41, 42, 47, 58, 61, 75, 82, 102, 166, 167; I placiti del "Regnum Italiae", a cura di C. Manaresi, I, Roma 1955, in Fonti per la Storia d'Italia, XCII, pp. 368-373, n. 102, 429-431, n. 116, 436-441, n. 118, 453-454; A. Hofmeister, Markgrafen und Markgrafschaften in italischen Königreich..., in Mitteilungen des Instituts für österreichische Geschichtsforschung, VII Ergänzungsband (1910), pp. 172 ss.; P. Brezzi, Roma e l'impero medioevale, Bologna 1947, pp. 87, 95, 105, 112; G. Fasoli, I° re d'Italia, Firenze 1950, pp. XXI, 2, 29, 35, 51, 64, 66, 68, 74, 75, 76, 77, 78 s., 83-84; C. G. Mor, L'età feudale, I, Milano 1952, pp. 13, 19, 21, 33, 34, 39, 40, 47, 52-54, 57, 59, 64, 66, 67, 69, 73, 90, 97, 100, 103, 104; II, ibid. 1953, pp. 67-94; G. Levi Della Vida, La corrispondenza di Berta di Toscana con il Califfo Muktafi, in Riv. stor. ital., LXVI (1954), pp. 24, 34; C. G. Mor, Intorno ad una lettera di Berta di Toscana al califfo di Bagdad, in Arch. stor. ital., CXII (1954), pp. 300, 304-307, 309.