Abstract
L’assetto dualista dei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale, delineato in modo variegato dalla dottrina positivista italiana, trova conferma nelle disposizioni della Costituzione italiana che configurano apposite garanzie di attuazione del diritto internazionale. Ne consegue che leggi statali e regionali incontrano precisi limiti di legittimità costituzionale costituiti dal rispetto di obblighi internazionali e di conseguenza i giudici nazionali devono interpretare le stesse leggi in conformità a tali obblighi. Inoltre, il novellato art. 117, co. 1, Cost. ha introdotto un principio generale di coerenza del rispetto di obblighi internazionali a prescindere dalla loro preventiva “ricezione” nell’ordinamento interno. Ne consegue che il contenuto dell’obbligo internazionale si determina direttamente tramite rinvio mobile al suo ordinamento di origine.
Notoriamente i rapporti tra diritto internazionale e diritto interno vengono ricondotti all’alternativa tra monismo e dualismo: il primo – nella sua accezione correntemente più diffusa – sancisce il primato formale del diritto internazionale sul diritto interno, il secondo asserisce invece il carattere indipendente dei due sistemi giuridici per cui l’attuazione del diritto internazionale avviene solo se e nella misura in cui sia l’ordinamento statale a disporla. L’alternativa teorica in tema di rapporti tra diritto internazionale e diritto interno assume connotati ed esiti diversi a seconda del contesto storico che lo condiziona. Centocinquanta anni di esperienza giuridica unitaria italiana dimostrano quanto siano state relative le soluzioni di volta in volta indicate e praticate. Così, pur essendo comune convincimento che nell’ordinamento italiano sia da tempo prevalsa la soluzione “dualista” da cui discende la stessa espressione “adattamento” del diritto interno al diritto internazionale, non sono mancati accezioni e temperamenti della soluzione dualista via via crescenti fino a determinare l’attuale assetto “neo-dualista” che valorizza fortemente la continuità regolatoria tra i due ordinamenti col risultato di dover riconsiderare significato e funzione della stessa espressione “adattamento”. Per cogliere meglio questa evoluzione, si deve risalire alla matrice eclettica che fin dall’inizio la concezione dualista ebbe in Italia.
La concezione dualista si afferma in Italia a cavallo tra l’Ottocento ed il Novecento per merito principalmente di Anzilotti. Questi assumeva, al pari di Triepel cui si ispirava, il fondamento “positivo” della norma giuridica nella c.d. «volontà dichiarata» che ne era all’origine, anche quando si trattava di una regola di diritto consuetudinario (Anzilotti, D., Gli organi comuni nelle società di Stati, in Opere, Scritti di diritto internazionale pubblico, II, 1, Roma, 1956, 610). Sulla base di questa premessa, Anzilotti si contrappone – drasticamente e con successo – a quanti continuavano a seguire dopo P.S. Mancini un approccio giusnaturalista ed idealista, nel quale si stemperava la distinzione tra diritto internazionale e diritto interno. Per Anzilotti, il diritto internazionale era un sistema di rapporti coordinati tra Stati regolati essenzialmente da accordi volontari. La «volontà collettiva» che conferiva loro carattere obbligatorio sul piano internazionale si distingueva dalla volontà positiva con cui lo Stato poneva in essere le norme dell’ordinamento interno, anche se in attuazione del diritto internazionale. Alla luce di questa cornice concettuale venivano valutate le tecniche normative utilizzate nella prassi per attuare obblighi internazionali. La concezione dualista di Anzilotti trovava pieno conforto a proposito del c.d. “procedimento ordinario”, mediante il quale si procedeva a riformulare materialmente le regole internazionali in un atto interno secondo le modalità normalmente richieste dall’ordinamento italiano per disciplinare in modo compiuto una data materia. Tuttavia, il procedimento ordinario, oltre ad essere laborioso, presenta da sempre il rischio che l’attuazione dell’obbligo internazionale avvenga in modo impreciso, qualora il legislatore statale vi sovrapponga proprie indicazioni non pienamente in linea con l’obbligo internazionale (Morelli, G., Nozioni di diritto internazionale, VII ed., Padova, 1967, 88). Perciò è stato il più delle volte preferito il ricorso al c.d. “ordine di esecuzione”, contenuto in un apposito atto normativo che vincola l’operatore giuridico ed in specie il giudice a dare – appunto – «piena ed intera esecuzione» ad un determinato strumento pattizio. Nell’ambito di una concezione positivista incentrata sul monopolio statale del diritto interno, Anzilotti configura l’ordine di esecuzione come atto di ricezione materiale della norma internazionale teso a ri-produrla nell’ordinamento interno trasformandone il contenuto originario. Questa “trasformazione” era a suo avviso resa necessaria per la differente base sociale dei due ordinamenti, dal momento che il contenuto originario della norma internazionale aveva come destinatari esclusivamente i soggetti costitutori della stessa, vale a dire gli Stati. Di conseguenza, un qualunque meccanismo statale di attuazione interna della regola internazionale non poteva assumerla nel suo contenuto originario, ma adattarlo ai soggetti privati che ne sarebbero divenuti destinatari. Il termine “adattamento” viene così forgiato al duplice scopo sia di modulare il diritto positivo dell’ordinamento interno in funzione del risultato richiesto dal diritto internazionale, sia di “adattare” il contenuto originario della norma internazionale ai soggetti privati destinatari della stessa. Il dualismo di Anzilotti non era tuttavia radicale. Egli, pur sottolineando che la distinta ed indipendente volontà positiva dei due ordinamenti li rendeva in linea di principio reciprocamente indifferenti, percepiva un elemento di continuità quando rilevava l’esistenza nell’ordinamento interno di un principio, evidentemente di natura costituzionale, che imponeva agli organi dello Stato di rispettare il diritto internazionale.
La concezione dualista di Anzilotti venne invece radicalizzata da Perassi, quale conseguenza del suo approccio costruttivistico che si ispira a Kelsen senza condividerne la concezione monista. Questa discende dalla “dottrina pura” del giurista austriaco, che omologa ogni norma giuridica positiva quale “giudizio ipotetico” e dunque consente una costruzione unitaria e piramidale dell’intera esperienza giuridica idonea a ricondurla ad un’unica norma-base postulata ma indimostrabile, da cui appunto scaturirebbero prima le norme internazionali e poi quelle statali. Perassi (Perassi, T., Teoria dommatica delle fonti di norme giuridiche in diritto internazionale, in Riv. dir. int., 1917, 195 ss.) si richiama a questo schema ma ponendo una distinta norma-base a fondamento di ciascun ordinamento giuridico. Perciò la prospettiva perassiana preserva l’indipendenza dell’ordinamento statale ed anzi ne accentua la capacità “autogenetica” nei casi in cui il diritto interno faccia rinvio al diritto internazionale: quale che sia la formula impiegata, si tratta sempre di un procedimento di produzione giuridica proprio dell’ordinamento statale teso a creare nell’ordinamento interno le norme occorrenti per attuare il diritto internazionale. In coerenza con questa impostazione dommatica, Morelli (prendendo spunto dall’art. 7 della Costituzione della Repubblica spagnola del 1931) configurò l’esistenza nell’ordinamento italiano di una norma implicita («tacita») di adattamento speciale con riferimento alle norme consuetudinarie generalmente riconosciute ormai sganciate dall’originaria matrice volontaristica (Morelli, G., L’adattamento del diritto interno al diritto internazionale in alcune recenti costituzioni, in Riv. dir. int., 1933, 3 ss.). Diversamente dall’ordine di esecuzione che operava rispetto al singolo trattato, la formula morelliana richiamava “in blocco” tutte le norme che rientravano in quella determinata fonte internazionale e pertanto operava automaticamente l’adattamento a ciascuna di esse. Anche se la soluzione era assai vicina al modello kelseniano, Morelli restava agganciato alla concezione dualista per rispetto del carattere autonomo ed indipendente dell’ordinamento statale che esprimeva il rinvio. Al contempo, la procedura tacita di adattamento automatico stava a dimostrare che la dottrina dualista, pur restando fedele alle proprie premesse dommatiche, perseguiva l’obiettivo pratico volto a “conformare” pienamente l’ordinamento giuridico italiano rispetto al diritto internazionale. La stessa esigenza della “trasformazione” inerente al fenomeno dell’adattamento si ridimensionava quando lo stesso contenuto della norma internazionale fosse idoneo a produrre effetti diretti nell’ordinamento interno. Coniugato con il richiamo alla norma pacta sunt servanda, il rinvio ricettizio diveniva per taluni solo “formale” (Battaglini, G., Convenzione europea, misure d'emergenza e controllo del giudice, in Giur. cost., 1982, 417), incrinando la distinzione tra i due sistemi giuridici fondata sulla loro autonoma base sociale.
L’eclettismo della concezione dualista si ripropone a parti invertite nella dottrina di Santi Romano sulla pluralità degli ordinamenti giuridici. Proprio perché incentrata sul carattere “istituzionale” della loro autonomia, la dottrina romaniana rigetta l’inquadramento formale del diritto internazionale nel diritto interno atteso che i due sistemi «si presuppongono a vicenda» (Romano, Santi, Corso di diritto internazionale, IV ed., Padova, 1939, 47). Perciò, mentre il diritto internazionale presuppone una organizzazione giuridica alla base dello Stato e del suo ordinamento, il diritto interno «contiene una norma fondamentale, che, almeno in linea di principio, impone … il rispetto del diritto internazionale» (ibidem). Secondo Romano, il coordinamento tra i due sistemi ha luogo tramite la tecnica del «rinvio mobile», per effetto del quale la norma internazionale si applica nell’ordinamento interno senza essere formalmente inquadrata in una sua fonte di produzione giuridica. Questa intuizione, oggi particolarmente attuale (infra), non viene però sviluppata coerentemente da Romano perché egli, condizionato dalla differente base sociale dei due ordinamenti, riprende lo schema dualista di Anzilotti ed esclude l’idoneità della norma internazionale di impiantarsi da sé nell’ordinamento interno senza una “trasformazione” del suo contenuto originario (Romano, Santi, Corso di diritto internazionale, cit., 48 ss.).
Quando, nel secondo dopoguerra, l’Assemblea costituente si propose di definire la Costituzione della nuova Repubblica, non discusse tanto la scelta dualista maturata nella prima parte del Novecento quanto piuttosto il modo in cui formularla. Gli internazionalisti Ago e Morelli, partendo dal dato già acquisito della norma “tacita” di adattamento alle norme consuetudinarie generali, proposero di inserire nel nuovo testo costituzionale una disposizione, in base alla quale «tutte le norme interne che sono o saranno necessarie per l’esecuzione degli obblighi e per l’esercizio dei diritti derivanti da norme di diritto internazionale generale o da trattati internazionali stipulati in conformità delle disposizioni della Costituzione, fanno senz’altro parte dell’ordinamento giuridico dello Stato, senza bisogno che siano esse emanate mediante un apposito atto» (Ministero per la Costituente, Relazione su «I rapporti internazionali dello Stato nella futura Costituzione italiana», in Riv. dir. int., 1977, 336). La proposta dei due internazionalisti di introdurre a livello costituzionale un meccanismo automatico ed unitario di adattamento per ogni tipo di norma internazionale garantiva l’assioma dualista circa il carattere originario ed indipendente dell’ordinamento statale. L’Assemblea costituente accolse invece il suggerimento di Perassi, teso a limitare il meccanismo automatico di adattamento – poi enunciato nell’attuale art. 10, co. 1, Cost. – alle sole norme di diritto internazionale generalmente riconosciute secondo la formulazione che per il suo ispiratore era quella “dualisticamente” più corretta (Perassi, T., La Costituzione italiana e il diritto internazionale, Milano, 1952, ora in Scritti giuridici, Milano, 1958, 430 s.).
Tuttavia in altre disposizioni la Costituzione esprime indicazioni diverse. In base all’art. 11 Cost., previo consenso degli organi costituzionalmente competenti e in condizioni di parità con altri Stati, l’ordinamento giuridico italiano accetta di limitare la propria sovranità per assicurare piena effettività ad un «ordinamento» gestito da un’organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni. Ispirandosi chiaramente al 14º considerando della Costituzione francese del 1946 («Sous réserve de réciprocité, la France consent aux limitations de souveraineté nécessaires à l’organisation et à la défense de la paix»), l’art. 11 stabilisce un indirizzo «costituzionale» di politica estera di modo che anche i relativi risultati di diritto internazionale sono idonei a flettere la stessa sovranità costituzionale se rispondenti ai presupposti ed alle finalità indicate dalla Costituzione. Anche in questo caso la garanzia per il diritto internazionale è espressa autonomamente dalla Costituzione e dunque preserva l’essenziale della matrice dualista. Ma, diversamente dalla formula dell’art. 10, co. 1, che si collega alla dottrina normativista e dommatica di Perassi, l’art. 11 trae spunto dalla dottrina «istituzionale» di Santi Romano, in quanto le «limitazioni di sovranità» dello Stato italiano conseguono dal modo in cui la realtà “ordinatoria” auspicata dall’art. 11 si storicizza in un’organizzazione internazionale coerente per le sue finalità con i parametri indicati dalla Costituzione. Per di più, l’art. 11, facendo riferimento a «limitazioni di sovranità», accoglie implicitamente l’idea che le funzioni “pubblicistiche” dell’ordinamento internazionale “costituzionalmente” qualificato possano direttamente investire i soggetti privati compresi nella sfera di sovranità statale. In tale norma hanno trovato «sicuro fondamento» le limitazioni di sovranità dell’ordinamento italiano per effetto dell’integrazione europea ora incentrata sull’UE (C. cost., 24.6.2010, n. 227, § 7). Ma questi effetti sono sempre riconducibili all’arretramento di funzioni sovrane dello Stato quale giustificato e richiesto dall’art. 11 Cost., tanto che la Corte costituzionale mantiene sempre fermo l’assioma dualista, continuando a parlare di coordinamento tra ordinamenti indipendenti ed autonomi a proposito dei rapporti tra diritto interno e diritto dell’UE.
Infine, ha trovato progressivamente accoglienza in Costituzione l’idea del vincolo al rispetto degli obblighi internazionali per gli organi depositari della funzione legislativa. La versione iniziale della Costituzione circoscriveva questa indicazione all’art. 10, co. 2, imponendo la riserva di legge sul trattamento degli stranieri, ma subordinando la legittimità costituzionale della relativa disciplina legislativa alla sua compatibilità con norme e trattati internazionali. Il vincolo costituzionale di rispetto degli obblighi internazionali è stato esteso prima alla funzione legislativa di Regioni speciali ed ordinarie e quindi generalizzato nei confronti del legislatore statale con la legge di revisione costituzionale n. 3 del 2001. L’art. 117, co. 1, Cost. ora risulta così formulato: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». La circostanza che questa “clausola di rispetto” sia collocata nella disciplina sui rapporti tra Stato e Regioni non impedisce di rilevarne la portata generale in relazione alla legislazione statale quale ne sia l’oggetto (C. cost., 24.10.2007, n. 348, § 4.4, e C. cost., 24.10.2007, n. 349, § 6.2). Per la Corte costituzionale la nuova disposizione avrebbe colmato una lacuna del sistema (C. cost. n. 349/2007, cit., § 6.2). L’affermazione è pertinente ma non esaustiva della valenza innovativa di questa novella costituzionale. Certamente con l’art. 117, co. 1, novellato, si completa la gamma delle garanzie costituzionali che così ora comprendono anche trattati estranei all’art. 11 e consuetudini internazionali non generalmente riconosciute sprovviste di garanzia costituzionale ex art. 10, co. 1.
Il legislatore costituente ha mantenuto il proprio approccio selettivo, nel senso che il grado di questa nuova garanzia costituzionale è, come si vedrà, inferiore a quelle operanti ex artt. 10, co. 1, e 11. Ma l’art. 117, co. 1, richiama genericamente sia «i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» che «gli obblighi internazionali». Una simile generalità di prospettiva pone anzitutto questioni di coordinamento con le altre garanzie costituzionali, che abbiano per oggetto alcuni obblighi internazionali richiamati dall’art. 117, co. 1. Il coordinamento tra le varie garanzie deve avvenire salvaguardando il principio unitario di coerenza al diritto internazionale: l’effetto utile di tale principio comporta il riferimento alla garanzia costituzionale più favorevole nel caso concreto alla norma internazionale. Ma l’art. 117, co. 1, mette in luce un aspetto radicalmente innovativo che investe l’intero fenomeno dell’adattamento: il riferimento diretto ed unitario al rispetto di obblighi internazionali dello Stato. Questo nuovo approccio costituzionale, se per un verso accentua l’originario eclettismo dualista delle garanzie costituzionali del diritto internazionale, per un altro le ricompone in una logica unitaria.
Per la Corte costituzionale, l’art. 10, co. 1, Cost. ha l’effetto di produrre norme di adattamento di rango costituzionale (sent. 18.6.1979, n. 48), concretizzandosi in un meccanismo di revisione tacita della Costituzione che di fatto deroga alla procedura di revisione indicata dall’art. 138 (Pierandrei, F., La Corte costituzionale e le modificazioni tacite della Costituzione, in Foro pad., 1951, IV, 186 ss.). In base all’art. 11 Cost., il trasferimento di funzioni sovrane a favore dell’UE ed il conseguente esercizio delle stesse “svuota” correlativamente quelle dello Stato anche costituzionalmente sancite. Nella lettura fin qui prevalsa, questa seconda garanzia costituzionale non impone la “riproduzione” della norma di origine estranea, benché ne vada rispettato il primato sulla norma interna configgente. Ma proprio perché tale primato è estraneo al sistema delle fonti interne, la Corte costituzionale italiana non lo spinge al punto – cui giunge invece la visione sostanzialmente monista della Corte di giustizia dell’UE – di rendere “nulla” ogni disposizione o atto giuridico interno che sia contrastante con il diritto dell’UE. Ricorrendo ad un artificio giuridico (non sempre presente nella giurisprudenza comune), la Corte costituzionale ritiene che il contrasto sia solo apparente poiché in realtà l’ordinamento italiano avrebbe deciso di “arretrare” le proprie funzioni sovrane in presenza di atti europei direttamente applicabili, così da dar luogo alla nota dottrina della “non-applicazione” del diritto interno. Infine, nell’interpretazione della Corte costituzionale, l’art. 117, co. 1, garantisce il rispetto degli obblighi internazionali, traducendoli in parametro di legittimità costituzionale delle leggi ordinarie di Stato e Regioni alla stregua di “norme interposte” tra queste e la stessa Costituzione. La garanzia costituzionale non ha però, diversamente dall’art. 10, co. 1, la funzione di “ri-produrre” gli obblighi internazionali inquadrandoli formalmente nel sistema delle fonti interne. Ciò avrebbe senso solo se l’art. 117, co. 1, fungesse da norma sull’adattamento quasi ricalcando la proposta Ago-Morelli presentata e discussa nel periodo dell’Assemblea costituente. Ma l’art. 117, co. 1, ha il solo scopo di far valere direttamente l’obbligo internazionale per gli organi legislativi senza incidere sui meccanismi che potranno essere scelti per attuarlo nell’ordinamento interno.
Invero, il vincolo imposto al legislatore ordinario in forza dell’art. 117, co. 1, Cost. è anche inerente alle altre due disposizioni costituzionali di garanzia del diritto internazionale, vale a dire gli articoli 10, co. 1, e 11 Cost. L’art. 117, co. 1, innova rispetto al quadro originario delle garanzie costituzionali, in quanto stabilisce il parametro di legittimità costituzionale facendo esplicitamente e direttamente riferimento all’obbligo internazionale (e comunitario) dello Stato. Data la portata generale del nuovo disposto costituzionale, questa indicazione condiziona anche il modo in cui devono operare le garanzie poste dagli articoli 10, co. 1, e 11 Cost., nel senso che prima ancora che sovvenga una qualche forma di attuazione interna (speciale o ordinaria) dell’obbligo internazionale, questo è sicuramente già operante nell’ordinamento interno e condiziona di conseguenza gli organi deputati a rispettarlo in relazione alle funzioni che esercitano. Questa rilettura del testo costituzionale sviluppa l’originaria intuizione di Anzilotti che, pur partendo da una concezione dualista, assegnava – come si è visto – valore precettivo all’obbligo internazionale nell’ordinamento interno.
L’aggiornata concezione neo-dualista della Costituzione ha il vantaggio di far assumere nell’ordinamento interno l’obbligo internazionale nel significato e la portata che esso ha nell’ordinamento d’origine. Indipendentemente dall’approccio selettivo della Costituzione in tema di garanzie, il delineato principio di coerenza obbliga a considerare direttamente nell’ordinamento internazionale il valore degli obblighi “primari” degli Stati. Nell’ordinamento internazionale contemporaneo, la tradizionale configurazione di fonti pattizie reciprocamente derogabili va collocata all’interno di un sistema gerarchico che vede al vertice un nucleo di norme imperative di portata universale che impongono obblighi erga omnes ed hanno natura inderogabile (se non da norme di pari natura); vi sono poi obblighi erga omnes che non hanno natura inderogabile nonché obblighi solidali tra Stati parti del trattato (erga omnes partes) che possono anche avere valenza inderogabile come nel caso della CEDU. Al tempo stesso, tuttavia, il carattere selettivo delle formule di garanzia costituzionale potrebbe non essere pienamente congruo rispetto alla fonte normativa internazionale presa di volta in volta in esame nel diritto interno. Si consideri la CEDU che, pur essendo espressione di un “ordine pubblico regionale” sostanzialmente inderogabile, allo stato attuale trova garanzia nell’art. 117, co. 1, Cost., ricevendo così una minore copertura di quella che l’art. 10, co. 1, offre a norme consuetudinarie generali derogabili. Ma opportunamente la Corte costituzionale garantisce alla CEDU una più vasta operatività fino a considerarla equivalente ad una norma costituzionale (cfr. Salerno, F., La garanzia costituzionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. int., 2010, 637 ss.).
Vi è inoltre da considerare che, a fianco delle norme internazionali “primarie”, si rafforzano nell’ordinamento internazionale contemporaneo sia le norme “secondarie” riguardanti i presupposti per l’attribuzione di un fatto illecito internazionale e le relative conseguenze vincolanti per lo Stato o altro soggetto internazionale che lo abbia commesso, sia le norme “terziarie” concernenti meccanismi o procedimenti per mezzo dei quali si compongono le controversie internazionali ed in particolare si procede all’accertamento per via giudiziaria della responsabilità internazionale. Non vi è sostanziale disarmonia tra le garanzie costituzionali se il meccanismo è inserito in un trattato e la relativa determinazione vincolante riguarda obblighi primari di natura pattizia, poiché per l’una e per gli altri varrà di norma l’art. 117, co. 1, Cost. Se poi il trattato è istitutivo di una organizzazione internazionale e – come nel caso della UE – il relativo “ordinamento” rientra tra le finalità dell’art. 11 Cost., questa garanzia varrà in modo parallelo per ogni atto di quell’ordinamento, comprese le pronunce delle sue giurisdizioni. Diversamente una distonia – o se si vuole, un certo “strabismo” - costituzionale potrebbe emergere qualora la competenza del giudice internazionale – in specie la Corte internazionale di giustizia – abbia un fondamento meramente pattizio ma la sua funzione di accertamento riguardi obblighi primari contenuti in una norma consuetudinaria generalmente riconosciuta. Al riguardo potrebbero venire in giuoco due distinte garanzie costituzionali per la sentenza internazionale. Una è il riferimento all’art. 11 Cost., richiamando sia la natura di “organo” delle Nazioni Unite riconosciuta alla Corte internazionale di giustizia dall’art. 92 della Carta dell’ONU, sia il vincolo al rispetto delle relative sentenze stabilito dall’art. 94 della stessa Carta. L’altra è costituita dall’art. 117, co. 1, per garantire il fondamento pattizio sottostante al consenso espresso dallo Stato per l’esercizio della competenza da parte della Corte. In entrambi i casi si verificherebbe il fenomeno dello “strabismo costituzionale” sopra richiamato. Evocando l’art. 11 si potrebbe delineare nell’ordinamento italiano una valenza costituzionale della sentenza internazionale maggiore di quella spettante ex art. 117, co. 1, al trattato internazionale eventualmente oggetto della controversia giudiziaria. Se viceversa si fa riferimento all’art. 117, co. 1, per garantire la sentenza internazionale, questa avrebbe una garanzia inferiore dell’obbligo di diritto internazionale consuetudinario generalmente riconosciuto, che invece resterebbe nell’art. 10, co. 1. In conclusione, proprio la diretta considerazione nell’ordinamento interno dell’obbligo internazionale primario cui quella decisione si riferisce permette di far valere un’unica garanzia costituzionale tanto per la norma primaria quanto per gli obblighi di natura secondaria e terziaria che vi afferiscono. Così, gli obblighi derivanti dalla sentenza internazionale rientrano tra quelli di diritto internazionale generalmente riconosciuti in quanto la sentenza non fa che accertarli, in chiave assolutamente dichiarativa, nei confronti dello Stato italiano (Cass. pen., 9.8.2012, n. 32139, in Riv. dir. int., 2012, 1196 ss.).
Il principio costituzionale unitario di coerenza verso gli obblighi internazionali dello Stato tiene conto della loro formazione nell’ordinamento di origine. A seguito di tale evento, gli organi competenti dello Stato devono stabilire se il modo d’essere del diritto interno sia adeguato per il loro adempimento. Pertanto lo Stato deve assicurare tale coerenza secondo le modalità costituzionalmente pertinenti o opportune. È una costante della prassi italiana provvedere ad una apposita procedura di revisione costituzionale per assicurare il rispetto di obblighi internazionali pattizi che derogano puntualmente a regole costituzionali. In base a tale procedura varie disposizioni costituzionali sono state modificate: gli artt. 10, co. 4, e 26, co. 2, per consentire l’estradizione in casi di genocidio nel rispetto della Convenzione sulla repressione del crimine di genocidio (l. cost. 21.6.1967, n. 1); l’art. 111, per riprendere i principi sul giusto processo posti dall’art. 6 della CEDU nell’interpretazione che ne ha dato la Corte europea dei diritti dell’uomo (l. cost. 23.11.1999, n. 2); l’art. 27, co. 4, per sancire il divieto assoluto della pena di morte anche rispetto a reati militari in relazione all’analogo divieto sancito dal Protocollo n. 13 della CEDU (l. cost. 2.10.2007, n. 1). La XIII disposizione transitoria, co. 2, che vietava il rientro dei componenti maschi di Casa Savoia è stata addirittura soppressa in armonia con quanto previsto dall’art. 3, § 2, del 4º Protocollo addizionale della CEDU (dopo che l’Italia aveva rimosso la relativa riserva: l. cost. 23.10.2002, n. 1). Il ricorso alla procedura di revisione costituzionale è un’applicazione peculiare del procedimento ordinario di attuazione degli obblighi internazionali, reso necessario non tanto in considerazione del contenuto della norma internazionale, quanto per esigenze di ordine costituzionale.
Per analoghe considerazioni di ordine costituzionale, l’attuazione delle norme internazionali deve tener conto del riparto di competenze all’interno dello Stato tra i vari organi titolari della funzione legislativa. La novella costituzionale del titolo V e la successiva legge di attuazione 5.6.2003, n. 131 hanno riproposto questo approccio. Fermo restando il limite degli obblighi internazionali sancito dall’art. 117, co. 1, la loro attuazione avviene secondo il principio di sussidiarietà (art. 118, co. 1) rispettando le competenze costituzionalmente garantite di Stato e Regioni. Nella sfera delle loro attribuzioni legislative ed amministrative, le Regioni provvedono direttamente all’attuazione degli accordi internazionali conclusi dallo Stato o dalle stesse Regioni. Temperamenti a questa competenza costituzionalmente garantita sovvengono solo per rispetto di esigenze unitarie. Rientra nella sfera di competenza – in specie legislativa – delle autorità centrali ogni iniziativa tesa a preservare la responsabilità unitaria dello Stato – nell’attuazione di obblighi internazionali. L’interferenza statale sul riparto ordinario di competenze può esprimersi sotto forma sia di principi generali appositamente predisposti, sia di norme di “interposizione” tra quella internazionale e quella regionale.
La Costituzione, pur disponendo garanzie per il diritto internazionale, lascia una relativa libertà allo Stato sulle sue modalità di attuazione nell’ordinamento interno. Solo il procedimento di adattamento automatico alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute posto dall’art. 10, co. 1, Cost. stabilisce direttamente un meccanismo speciale di attuazione, che peraltro può essere integrato da un meccanismo ordinario qualora se ne renda bisogno. Per l’attuazione di singoli trattati, rientra nella libertà del legislatore – statale o regionale – predisporre il procedimento speciale che formula l’ordine di esecuzione oppure fare ricorso ad un puntuale procedimento ordinario di attuazione. Teoricamente potrebbe anche non essere necessario fare ricorso ad alcuna procedura se il diritto interno fosse già oggettivamente predisposto per assicurare il rispetto dell’obbligo internazionale: la formula dell’art. 117, co. 1, è da sé sufficiente per dare diretta rilevanza giuridica all’obbligo internazionale nell’ordinamento interno e dunque farne discendere gli effetti di coordinamento con la normativa preesistente. Nella prassi si continua però a corredare il trattato di un ordine di esecuzione, sempre inserito nella legge di autorizzazione alla ratifica del medesimo ove ricorra la procedura indicata dall’art. 80 Cost.; gli effetti dell’ordine vengono per così dire ritardati al momento in cui si perfeziona la formazione del vincolo internazionale per lo Stato italiano (benché la giurisprudenza italiana assegni talora valore interpretativo del diritto interno a convenzioni internazionali che non siano ancora in vigore per lo Stato nonostante l’autorizzazione alla ratifica data dal Parlamento: cfr. Palombino, F., La rilevanza della Convenzione di Oviedo secondo il giudice italiano, in Giur. cost., 2011, 4811 ss.).
Alla luce dell’art. 117, co. 1, va però riconsiderata la funzione delle due procedure speciali di adattamento. È evidente, infatti, che la diretta considerazione dell’obbligo internazionale nell’ordinamento interno espunge la funzione classica rimessa al procedimento speciale, ed in specie all’ordine di esecuzione, di “ri-produrre” la normativa internazionale nell’ordinamento interno senza di cui quella stessa normativa sarebbe stata del tutto irrilevante per l’operatore giuridico interno. Invero una legge che risultasse in contrasto con un obbligo internazionale in vigore per l’Italia sarebbe suscettibile di sindacato di illegittimità costituzionale anche se non vi fosse alcun ordine di esecuzione adottato con legge; parimenti, un atto regolamentare sarebbe assoggettabile al sindacato della giustizia amministrativa per violazione della Costituzione. Perde pure spessore la tesi dualista secondo cui il rinvio alla norma internazionale, perché produca effetti nell’ordinamento interno, debba essere emanato con un atto che sia idoneo ad integrare o modificare la normativa interna preesistente; del resto, ciò non è mai valso per il meccanismo di adattamento automatico di cui all’art. 10, co. 1, Cost. che “ri-produce” sempre norme di rango costituzionale anche quando la materia regolata dalla norma internazionale non lo richiederebbe. In effetti l’ordine di esecuzione è stato talora emanato con atto regolamentare nell’assunto – talora del tutto erroneo (d.P.R. n. 217/1982 contenente l’ordine di esecuzione del Protocollo n. 4 alla CEDU) – che la materia regolata dal trattato rientrasse tra le competenze della pubblica amministrazione. Ma la natura formalmente sub-legislativa dell’ordine di esecuzione non lo priverebbe ugualmente della garanzia costituzionale ex art. 117, co. 1, con la conseguenza di fungere da parametro di legittimità costituzionale per leggi ordinarie dello Stato o delle Regioni. Ciò non altera il sistema generale dei rapporti tra fonti nell’ordinamento interno, poiché è la stessa garanzia costituzionale dell’art. 117, co. 1, che assorbe la forma dell’atto con cui è stato emanato l’ordine di esecuzione.
Ancora meno plausibile appare l’impiego del procedimento speciale di rinvio al diritto internazionale per “trasformare” il contenuto della norma internazionale in norma interna. Al riguardo viene in rilievo l’opera di affinamento progressivo del diritto internazionale di rendere le proprie norme – primarie, secondarie e terziarie – direttamente applicabili a privati. Non si è dinanzi ad un’estensione della base sociale dell’ordinamento internazionale, poiché i soggetti costitutori delle sue norme internazionali restano sempre gli Stati o enti da questi derivati quali le organizzazioni internazionali. Piuttosto i soggetti costitutori creano norme che hanno altri destinatari oltre a sé medesimi. La norma internazionale può quindi riguardare diritti del soggetto privato nei confronti dello Stato o anche nei confronti di un altro privato. La circostanza che il principio costituzionale di coerenza al diritto internazionale dia diretta rilevanza agli obblighi internazionali nell’ordinamento interno ne preserva ovviamente la loro originaria dimensione individuale o interindividuale. Anzi, la scelta dell’ordinamento statale di predisporre, attraverso il procedimento di adattamento automatico o l’ordine di esecuzione, un semplice rinvio alla regola internazionale ne conferma indirettamente la potenziale idoneità ad operare sul piano individuale o interindividuale. I due procedimenti speciali, a prescindere dalla diversa garanzia costituzionale che si attaglia loro, operano nello stesso senso, poiché realizzano una piena continuità regolatoria del diritto internazionale nel diritto interno. E proprio in ragione di ciò, la Corte costituzionale utilizza le prescrizioni contenute in trattati internazionali per un’interpretazione evolutiva della Costituzione se più analitiche e favorevoli di essa (C. cost., sentt. 26.6.1969, n. 104, § 5; 24.7.1996, n. 303, § 2), quasi una sorta di osmosi materiale tra norme costituzionali e norme internazionali (tra gli altri: C. cost., sentt. 27.7.2000, n. 376, § 6; 16.12.2011, n. 329, § 5). Ed è in forza della medesima continuità che valgono direttamente nell’ordinamento interno le determinazioni espresse da meccanismi internazionali di accertamento del diritto, di modo che la sentenza di un giudice internazionale che afferisca anche in chiave individuale o interindividuale ad una norma consuetudinaria generale o ad un trattato sarà direttamente rilevante per l’operatore giuridico interno attraverso la pertinente norma di rinvio. Un atto ad hoc potrebbe anche non essere necessario in considerazione del contenuto proprio dell’obbligo internazionale. Così la sentenza di condanna pronunciata il 3.2.2012 dalla Corte internazionale di giustizia nei confronti dell’Italia per aver questa violato rispetto alla Germania la norma di diritto internazionale generale sull’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione civile (in Riv. dir. int., 2012, 475 ss.) si impone immediatamente in capo ai giudici italiani nella misura in cui la decisione vincola lo Stato italiano ad un obbligo di non facere, vale a dire a non reiterare una qualunque attività processuale che comporti quel tipo di illecito anche in fase di esecuzione di una sentenza già passata in giudicato nel foro ed a prescindere dalla sua revocazione (cfr. Trib. Roma, 30.12.2012, n. 12456/2009, inedita; l’art. 3, co. 2, l. 14 gennaio 2013, n. 5, Adesione della Repubblica Italiana alla Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni, fatta a New York il 2 dicembre 2004, nonché norme di adeguamento all’ordinamento interno, novella l’art. 395 c.p.c. disponendo la revocazione per le sentenze passate in giudicato in contrasto con una sentenza – anche successiva – della Corte internazionale di giustizia che ha escluso l’assoggettamento di specifiche condotte di altro Stato alla giurisdizione civile. Quando il rinvio alla norma internazionale non sia sufficiente per assicurarne la piena e diretta attuazione, il legislatore deve disporre proprie regole in un atto normativo autonomo o anche nello stesso atto di rinvio, come accade se le norme ordinarie sono inserite nella stessa legge di autorizzazione alla ratifica che già contiene l’ordine di esecuzione. Si tratta di integrazioni che vengono apportate in via “ordinaria” ma che restano sempre funzionali al rispetto dell’obbligo internazionale già direttamente rilevante per gli organi politici dello Stato. Il principio costituzionale di coerenza sembra così voler sottrarre alla procedura di adattamento tanto la funzione di autonoma “ri-produzione” della norma internazionale che la sua “trasformazione” in norma interna. Lo stesso termine “adattamento”, svuotato largamente della sua originaria genesi dualista, sta ora a significare la volontà positiva dell’ordinamento di voler garantire l’attuazione di un obbligo internazionale seguendo i parametri stabiliti dal sistema costituzionale. In questo senso permane la logica dualista, ma ridotta ad un nucleo minimo essenziale: far dipendere dall’ordinamento interno, ed in specie dalla Costituzione, la garanzia di attuazione del diritto internazionale anche in forma diretta. Non dipende invece dal diritto interno la “validità” della norma internazionale, che va appurata in base al suo ordinamento d’origine. L’ordinamento interno deve solo prefiggersi di assicurare gli effetti della norma internazionale secondo i procedimenti pertinenti di attuazione.
Il vincolo costituzionale di coerenza al diritto internazionale introduce un “attore internazionale” che condiziona il modello tradizionale di coordinamento e di equilibrio tra i poteri dello Stato. È bene tener presente che questo impatto sovviene solo dopo che l’obbligo internazionale sia divenuto tale per l’Italia. Perciò nel caso di un trattato, occorre rispettare le procedure costituzionali che disciplinano (artt. 80 e 87) la formazione del consenso dello Stato a vincolarsi sul piano internazionale. Perfezionatosi l’obbligo internazionale, e fintanto che non sopravvenga una diversa determinazione tesa a rimuovere validamente tale vincolo (se avvenisse in violazione del diritto internazionale, si porrebbe una questione di legittimità costituzionale ex art. 11 o 117, co. 1, Cost.), l’adesione dello Stato ad un sistema pattizio comporta obblighi che vanno valutati sulla base del diritto internazionale. Il rinvio mobile al trattato formulato dall’organo statale competente include il significato e la portata che l’obbligo internazionale assume nell’ordinamento internazionale anche per effetto della propria evoluzione, tanto interpretativa che normativa, se del caso in interazione con altre norme internazionali. Gli organi gestori del potere estero possono anche determinare una condotta dello Stato che lo renda partecipe di una simile evoluzione, ma la relativa determinazione va sempre rapportata all’ordinamento internazionale.
La rilevanza costituzionale dell’obbligo internazionale investe di particolari responsabilità gli organi dello Stato preposti al controllo della Costituzione. A partire dal Presidente della Repubblica, quando egli appresta la propria funzione in relazione ad atti o condotte dello Stato che in qualche modo evocano il rispetto degli obblighi internazionali. In una lettera inviata nel 2000 da Ciampi, in qualità di Capo dello Stato, al Presidente del Consiglio Amato e poi ri-trasmessa nel 2001 al suo successore Berlusconi (in Puri Purini, A., Dal Colle più alto. Al Quirinale con Ciampi negli anni in cui tutto cambiò, Milano, 2012, 34 ss.), il Presidente della Repubblica osserva che l’art. 87 Cost., annoverando tra le sue funzioni quella di rappresentare l’unità nazionale, vi assorbe in modo particolare il settore della politica estera perché quello in cui «maggiormente si avverte un’essenziale esigenza di continuità per assicurare la quale il Presidente della Repubblica ha … una responsabilità specifica». Ancora più marcato è il ruolo della Corte costituzionale chiamata a far rispettare il vincolo costituzionale di garanzia degli obblighi internazionali, in particolare ex art. 117, co. 1, Cost. È significativo che, in presenza di un obbligo internazionale per la cui attuazione sarebbe stata dovuta una legge ordinaria di attuazione, la Corte costituzionale abbia finito per pronunciare una sentenza “additiva” di illegittimità costituzionale della legge. È accaduto con la sent. 7.4.2011, n. 113. Per tener conto degli indirizzi espressi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo tesi a configurare una restitutio in integrum per la vittima di una sentenza di condanna pronunciata in violazione di garanzie processuali fondamentali, la Corte costituzionale ha ritenuto la illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p. «nella parte in cui non prevede un ... caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo».
Si deve però tener presente che l’azione degli organi di controllo costituzionale avviene sulla base della garanzia costituzionale autonomamente disposta dall’ordinamento interno e non invece in ragione di una assunta condizione gerarchicamente sovraordinata del diritto internazionale. È tale impostazione che costituisce tuttora una barriera invalicata per l’affermazione di una concezione monista nei rapporti tra diritto internazionale e diritto interno, tale che faccia dipendere direttamente ed esclusivamente dal primo la validità del secondo.
Il vincolo costituzionale ad operare nel rispetto del diritto internazionale si riverbera infine sull’attività del giudice, in specie quando questi sia chiamato ad attuare direttamente la norma internazionale oggetto di rinvio. Invero, anche nella concezione dualista classica al giudice spettava un compito atipico dovendo egli svolgere in concreto la “trasformazione” del contenuto originario delle norme oggetto di rinvio; ma era certamente ragionevole presumere che lo Stato agisse nell’ordinamento interno «in modo conforme a ciò che gli è imposto dai suoi doveri internazionali» (Anzilotti, D., Il diritto internazionale nei giudizi interni, in Opere, Scritti di diritto internazionale pubblico, I, Roma, 1956, 459). La nuova configurazione costituzionale supera l’esigenza dommatica della “trasformazione”, ma assegna al giudice compiti rilevanti e per certi versi più complessi.
Anzitutto, l’esistenza di una garanzia costituzionale per ogni tipo di obbligo internazionale formalizza e generalizza il vincolo dell’interprete di procedere ad una interpretazione conforme del diritto interno. Quale che sia la garanzia costituzionale rilevante, è la sua stessa formulazione per una data tipologia di norme che obbliga l’operatore giuridico a privilegiare sistematicamente una data interpretazione della legge, in specie se questa attua in via ordinaria la norma internazionale. La c.d. “presunzione di conformità” opera anche a garanzia di norme internazionali che non siano immediatamente esecutive come di frequente accade in relazione alle direttive dell’UE. La sfera di manipolazione normativa dell’interprete è assai ampia, fino a consentire il ricorso all’analogia legis. La coerenza del diritto interno può sovvenire anche attraverso la dottrina dell’effetto utile, facendo venire in rilievo tra le diverse disposizioni possibili solo quelle che favoriscano l’attuazione della norma internazionale.
In secondo luogo, la garanzia costituzionale vincola il giudice ad operare in diretta considerazione dell’obbligo internazionale sotteso alla norma internazionale oggetto di rinvio e deve dunque misurarsi con il significato e la portata della stessa nell’ordinamento di origine in un dato momento storico. Così il vincolo interpretativo si ripropone nell’attuazione di sentenze internazionali di «estrema chiarezza» (Cass., 28.4.2010, n. 16507).
Come la garanzia costituzionale di attuazione del diritto internazionale costituisce un’espressione rivisitata della logica dualista, parimenti è in forza di questa stessa logica che l’ordinamento interno può evocare la propria sovranità costituzionale disattendendo all’occorrenza il rispetto degli obblighi internazionali e dunque la loro attuazione. È la nota dottrina dei “contro-limiti” che trova riscontro in forme diverse rispetto a tutte le garanzie costituzionali del diritto internazionale ed europeo.
In relazione all’art. 117, co. 1, Cost. novellato il giudice costituzionale ha chiarito che gli obblighi internazionali fungono da parametro di legittimità costituzionale delle leggi (con conseguente vincolo all’interpretazione conforme) solo dopo che se ne sia valutata la conformità con tutta la Costituzione (C. cost., 24.10.2007, n. 348, § 4.7). Perciò l’ordine di esecuzione del trattato, pur essendo oggetto di garanzia costituzionale, è suscettibile di sindacato di legittimità costituzionale come ha mostrato a più riprese la Corte costituzionale. Disattendendo il trattato o la singola disposizione pattizia, la Corte costituzionale mostra quanto sia forte la gerarchia normativa tra Costituzione e trattato, facendo prevalere la prima anche a costo di determinare la responsabilità internazionale dello Stato.
Una diversa e più elevata soglia di legittimità costituzionale sussiste rispetto ai Trattati istitutivi dell’UE e norme da essi derivate per i quali vale la garanzia costituzionale dell’art. 11 (C. cost., 27.12.1973, n. 183, § 9). Quest’ultima disposizione fa salvo lo scrutinio della Corte costituzionale per accertare la compatibilità del diritto dell’UE «con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale» o con i «diritti inalienabili della persona umana» (C. cost., 21.4.1975, n. 232, § 3.1; 18.12.1995, n. 509, § 2).
Un parametro sostanzialmente affine di contro-limiti sovviene per le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute (C. cost. n. 48/1979, cit.), con la differenza che tali contro-limiti non verrebbero mai in giuoco rispetto alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute che fossero tali al tempo dell’Assemblea costituente. Vi è in questo approccio un residuo della concezione dualista tradizionale, in base alla quale vanno considerate nell’ordinamento interno le norme “di adattamento” alle norme internazionali già prodottesi prima dell’entrata in vigore della Costituzione e che il Costituente avrebbe “delibato” in blocco. Se si accoglie invece la dottrina del “rinvio mobile”, non c’è differenza da svolgere rispetto alle norme consuetudinarie generali quale che sia il tempo della loro formazione, tanto più che è solo tra quelle di più recente formazione che si ritrovano le norme di natura “imperativa” alle quali l’ordinamento costituzionale italiano dovrebbe assicurare un maggior grado di garanzia senza però far mai venire meno la dottrina dei “contro-limiti”.
Nell’attuale prospettiva neo-dualista, la dottrina in questione costituisce la manifestazione ineludibile di sovranità costituzionale dello Stato, anche se i suoi effetti dovessero essere confliggenti con l’obbligo internazionale dello Stato e dunque determinare la sua responsabilità internazionale.
Artt. 10, co. 1-2, 11, 117, co. 1, Cost.
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