Adattamento
Il concetto moderno di adattamento, anche quando viene utilizzato in un contesto socio-scientifico, rimane legato al paradigma metodologico della biologia evoluzionistica; più esattamente, alla teoria darwiniana dell'evoluzione per selezione naturale. Fino a Darwin, il termine adattamento designava o l'armonia totale e immutabile esistente tra gli organismi appartenenti a una data specie e il loro ambiente, quale era stata scientemente predisposta per ciascuna specie dal supremo Creatore; oppure una forma di apprendimento dell'organismo trasmissibile ai discendenti, come postulava Jean-Baptiste de Lamarck, il primo grande teorico dell'evoluzione. Anche in seguito, l'idea dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti fu sostenuta da Herbert Spencer, il filosofo per il quale biologia, psicologia e sociologia erano capitoli inseparabili d'una stessa dottrina evoluzionistica. Una rottura era stata comunque operata dal concetto darwiniano di variazione: casuale, innata ed ereditaria. Non tutte le variazioni funzionali, morfologiche o comportamentali innate che si osservano fra gli individui di una medesima specie, asseriva Darwin, contribuiscono nella stessa misura alla sopravvivenza e alla riproduzione. Alcune rendono un individuo un po' più adatto - rispetto agli individui con variazioni differenti - a sopravvivere e riprodursi in un determinato ambiente. Dopo L'origine delle specie (1859), in cui compare per la prima volta - ma non nella prima edizione - l'espressione "sopravvivenza del più adatto", parlare in senso stretto di adattamento significò quindi effettuare una comparazione, in termini di probabilità rispettive di sopravvivenza e riproduzione, tra un organismo che si presenta casualmente dotato di un nuovo carattere, o con una variazione di un carattere preesistente, e altri organismi che appaiono invece privi di quel carattere, o si presentano con variazioni diverse.
Un incremento differenziale anche piccolo della probabilità di sopravvivere e riprodursi, indotto dal nuovo carattere o da altra variazione, può far sì che nel volgere di poche generazioni gli organismi in tal modo variati o varianti soppiantino la maggior parte degli altri organismi entro una data popolazione. Ma il processo non si arresta, perché ogni carattere variante è pur esso soggetto a variare via via che si replica nelle successive generazioni.Intrinseca al concetto biologico - darwiniano - di adattamento è quindi l'idea di variazione ereditaria, oltre che innata. Essa non si manifesta tra due tempi del singolo organismo: a livello fenotipico è possibile osservarla soltanto comparando due o più organismi. L'origine della variazione fenotipica risiede in una mutazione puntiforme, o in un riarrangiamento cromosomico del genotipo, che si esprimono soltanto in un nuovo organismo. La forma corrispondente di adattamento viene perciò detta adattamento genetico.Le variazioni funzionali, morfologiche o comportamentali che si osservano nel corso della vita di un singolo organismo, come le modificazioni del sangue e l'accresciuta resistenza al freddo di chi vive a lungo ad altitudini elevate, rappresentano per contro un adattamento fisiologico, non ereditario - contrariamente a quanto credeva Lamarck. Quanto alla crescita di capacità mentali inerenti, ad esempio, all'uso della scrittura e alla padronanza di determinate tecniche, si tratta piuttosto di forme di apprendimento che si verificano unicamente nel singolo organismo, senza comportare altre modificazioni che non siano la registrazione di informazioni nelle cellule cerebrali, e si estinguono infallibilmente con esso - contrariamente a quanto credeva Spencer.
La distinzione, concettualmente fondamentale, tra adattamento genetico, adattamento fisiologico e apprendimento, risulta invero, non di rado, difficilmente discernibile ove ci si riferisca a entità non assimilabili a un organismo. È il caso dei sistemi sociali, i quali acquisiscono e trasmettono la propria struttura informazionale unicamente per via culturale. Anche in tal caso, comunque, essa aiuta a percepire la differenza tra quelle variazioni che avvengono entro una data entità (come i mutamenti di struttura e di cultura che si verificano in una organizzazione complessa, ma scompaiono con questa senza essere trasmessi ad altre organizzazioni) e la comparsa di variazioni atte a diffondersi per via riproduttiva. Anche i sistemi sociali, come ogni sistema vivente, presentano tassi variabili, da 0 a n > 1, di fecondità e di idoneità. Pertanto l'adattamento genetico o evolutivo, l'adattamento fisiologico e l'apprendimento non possono venir posti sullo stesso piano, come se fossero tre forme di un medesimo fenomeno, nemmeno quando ci si riferisca a entità non biologiche. Da un lato, in quanto periscono con il singolo organismo, l'adattamento fisiologico e l'apprendimento possono sì contribuire alla sopravvivenza e alla riproduzione di questo, ma non hanno di per sé alcuna influenza sui caratteri dei discendenti. Dall'altro lato le capacità di adattare alle contingenze ambientali la propria fisiologia, e di apprendere da queste, sono pur esse dovute a un adattamento evolutivo, che ha premiato la loro trasmissione ereditaria da una generazione all'altra.
Elemento fondante del concetto di adattamento, nelle scienze sociali come nelle scienze biologiche, rimane quindi la nozione di contributo reso, da parte di caratteri funzionali, morfologici o comportamentali trasmissibili, alla sopravvivenza e alla riproduzione differenziali. Non solo e non tanto dell'individuo, che in certi casi può anzi decidere di perire per meglio sopravvivere in altre forme, quanto di una variante dell'entità fisica o simbolica di cui esso rappresenta una singola istanza; e quindi, in primo luogo, dell'insieme delle entità che a esso risultano affini, ovvero apparentate per molteplici tratti fisici o simbolici.
Definizioni ricorrenti da una generazione scientifica all'altra, quale "un organismo è un fascio di adattamenti" (v. Huxley, 1942), lasciano chiaramente intendere che, nel contesto, il termine designa uno specifico e isolabile carattere ereditario che accresce le probabilità di sopravvivenza e riproduzione. Questa accezione del termine è tuttora comune in biologia: "Quando i biologi osservano una struttura che ha uno"scopo' [...] evidente, essi la indicano con il termine adattamento - una caratteristica che rende un organismo più adatto (idoneo) al suo stile di vita ' (v. Luria e altri, 1981; tr. it., p. 510). In tal senso sono adattamenti il becco del cormorano, efficace attrezzo da pesca; la livrea bianca opportunamente vestita dall'ermellino in inverno; la colorazione scura che rende invisibile la falena Biston betularia quando si posa su tronchi sporchi di fuliggine. Quest'uso del termine adattamento trova invero scarsi riscontri nelle scienze sociali, sebbene capiti, in specie nei testi etnologici, di vedere definite come adattamento, ad esempio, la tecnologia oppure la disposizione a cooperare.
Poco meno usuale è la definizione di adattamento come stato dell'essere adattato, o come processo del diventare adatto (v. Sommerhoff, 1974, p. 75). Senza ulteriori qualificazioni, la definizione di adattamento come stato, assai comune anche nelle scienze sociali, è inaccettabilmente generica. Non può infatti esistere un punto zero rispetto al quale misurare in assoluto lo stato di adattamento (qualsiasi entità vivente, per il solo fatto di essere vivente, appare in buona misura adattata al suo ambiente), né uno stato ottimale di adattamento (poiché qualsiasi entità, per quanto ben adattata, può essere superata, in termini di probabilità di sopravvivenza e riproduzione, da una variante dello stesso tipo).
È quindi giocoforza relativizzare lo stato di adattamento mediante due possibili riferimenti: 1) riferendolo a un tempo anteriore o posteriore della medesima entità, come in questa definizione del sociologo tedesco Helmut Schoeck: "L'adattamento [è] uno stato finale relativo di un processo di adattamento [...] che si verifica quando un individuo, un gruppo, una minoranza o una istituzione si vengono a trovare dopo un certo periodo, per lo più grazie a un mutamento consapevole di proprie caratteristiche, in una condizione che rende l'interazione con altri partners nello stesso ambiente meno soggetta ad attriti di quanto non fosse all'inizio del processo" (v. Schoeck, 1969, pp. 19-20); 2) riferendolo, come avviene di norma nelle scienze biologiche, ad altre entità della stessa specie o sottospecie dell'entità considerata, coesistenti nello stesso ambiente o nicchia ambientale, ma esibenti rispetto a essa variazioni di morfologia, strutture e funzioni interne e comportamento. Rilevanti, tanto in biologia che nelle scienze sociali, sono le connessioni tra i concetti di adattamento e di funzione. Huxley, tra gli altri, ebbe a definirli due aspetti della medesima cosa. In effetti, se si definisce un adattamento come un carattere che contribuisce alle probabilità di sopravvivenza e riproduzione di un organismo perché accresce la sua capacità di procurarsi e utilizzare energia o informazione, si è con ciò stesso definita la funzione di quel carattere.
Nella teoria dell'azione di Talcott Parsons, forse la più influente della seconda metà del Novecento, la connessione tra adattamento e funzione ha portato a individuare nell'adattamento uno degli imperativi funzionali di ogni sistema, che si concreta in un sottosistema specializzato nel far fronte a tale imperativo. In ogni sistema d'azione, di cui i sistemi sociali sono soltanto una classe - ancorché d'interesse centrale per la sociologia - gli imperativi funzionali, le funzioni che il sistema deve comunque svolgere per riuscire a sopravvivere, sono: il perseguimento di scopi; il mantenimento, ovvero la riproduzione della struttura profonda (o latente, nel lessico parsoniano); l'integrazione delle componenti interne; il procacciamento o la produzione di risorse materiali e simboliche, applicabili per la loro generalità a scopi alternativi, funzione che Parsons definisce appunto adattamento (v. Parsons, 1961).
Nel modello parsoniano a ogni livello sistemico si ritrovano attività - in combinazioni variabili di energia e di informazione - selettivamente rivolte a soddisfare una data funzione, e circoscrivibili, sotto il profilo analitico, come sottosistemi del sistema di riferimento. Ogni sottosistema è analizzabile a sua volta con il medesimo schema. Ne segue che la funzionesottosistema di adattamento, che a livello di società è rappresentata in concreto dall'economia (v. Parsons e Smelser, 1964), si ritrova nuovamente come sottosistema, al livello sottostante, entro ciascuno dei sottosistemi societari; dentro la stessa economia, ma, ad esempio, anche dentro la politica, che rappresenta in questo modello la concrezione a livello societario del perseguimento dello scopo. L'analoga funzione-sottosistema si ritrova poi agli altri livelli dell'azione - il ruolo, la personalità, l'organismo - e a ciascuno di questi livelli essa contiene, come proprio sottosistema, una replica di se stessa.
Un inconveniente di siffatta identificazione dell'adattamento con una singola funzione sub-sistemica specializzata sta nel mascherare l'importanza del contributo che alle probabilità di sopravvivenza e riproduzione del sistema recano indistintamente tutte le sue funzioni. Negli stessi termini del modello parsoniano le probabilità di sopravvivenza dei sistemi sociali, ivi comprese le società come individualità storiche, possono venire compromesse da carenze nel perseguire gli scopi collettivi, nell'integrazione, o nel mantenimento della struttura latente, non meno che da carenze nel procacciamento di risorse. Il rapporto di un sistema vivente con l'ambiente, che costituisce il nucleo duro e distintivo del concetto di adattamento, può venire migliorato o peggiorato da variazioni in una qualsiasi delle funzioni fondamentali, o in una qualsiasi combinazione di esse, non soltanto dalla funzione 'economica'.
Tale nucleo concettuale viene meglio sfruttato ove si concepisca l'adattamento come un insieme di rapporti a più livelli e in più tempi tra un sistema vivente - sia esso organico, psichico o sociale - e il suo ambiente, nel quale si verificano le condizioni sotto elencate.
1. L'essenza di tali rapporti è uno scambio di informazione e di energia tra il sistema e l'ambiente (nonché entro il sistema) nel quale la sopravvivenza del sistema è legata in ultimo a un saldo attivo dello scambio energetico, a prescindere dal volume dello scambio, ma non necessariamente a un saldo informazionale parimenti attivo. Distribuire informazione nell'ambiente più che nel sistema si è infatti dimostrata una strategia evolutiva efficace.
2. Variabili in tali rapporti sono, da un lato, la capacità del sistema di procurarsi e utilizzare con efficacia ed efficienza, ai propri fini di sopravvivenza e riproduzione complessiva - includente cioè gli affini biologici e simbolici - informazione endogena ed esogena, atta a sua volta a procurare e strutturare con efficacia ed efficienza l'energia disponibile nell'ambiente; dall'altro, l'informazione e l'energia potenzialmente disponibili nell'ambiente.
3. La suddetta capacità del sistema è atta ad ampliare e ridefinire costantemente caratteri, conformazione e confini dell'ambiente - e a tal proposito si parla di capacità alloplastiche - ma soltanto fino a certi limiti. Un ambiente a massima entropia, anche se solo locale, non può fornire né informazione né energia.
4. Il procacciamento e l'uso di informazione ed energia sono tanto più efficaci ed efficienti quanto più il sistema perviene a estrarre dall'ambiente delle regolarità di accadimento, ovvero quanto più elevata è la sua competenza cognitiva, in una circolarità potenzialmente senza limiti ma suscettibile di blocchi e regressioni.
5. I rapporti in questione - scambi di informazione e di energia - si attuano sia entro il sistema (tra le sue parti o sottosistemi), sia tra il sistema - ma di fatto tra uno o più dei suoi sottosistemi - e vari sottosistemi o livelli dell'ambiente. A uno scambio relativamente efficace ed efficiente di informazione/energia tra due sottosistemi interni, o tra un sottosistema del sistema di riferimento e uno o più sottosistemi dell'ambiente, descrivibile quindi come un adattamento relativamente buono, possono accompagnarsi, e di solito si accompagnano, altri scambi interni ed esterni meno efficaci o efficienti, configuranti quindi un adattamento peggiore.
6. L'adattamento può essere riferito, ovvero contribuire, a due diverse misure di idoneità, quella individuale e quella complessiva. La prima misura la capacità del singolo sistema di lasciare discendenti; la seconda, la capacità di lasciare discendenti da parte di componenti materiali o simboliche del sistema stesso. Un tratto strutturale o comportamentale che contribuisce al primo tipo di idoneità può risultare neutrale, se non addirittura dannoso, rispetto al secondo.
7. L'adattamento globale di un sistema a un ambiente, che di fatto risulta misurabile empiricamente soltanto dalla sua idoneità individuale o complessiva a posteriori, risulta dalla combinazione dei suoi adattamenti sub-sistemici o locali, nella quale un singolo caso di cattivo adattamento - cioè di inefficiente o inefficace inter- o intra-scambio di informazione/energia - è capace di compromettere tutti gli altri adattamenti locali.
8. Il tempo, infine, è una dimensione essenziale. Un buon adattamento locale o globale al tempo t₁ può rivelarsi disastroso al tempo t₂.Tale definizione deriva da una ricostruzione per quanto possibile rigorosa della struttura profonda del concetto di adattamento, quale appare traversare tutte le discipline che lo hanno utilizzato, dalla biologia alla teoria generale dei sistemi e alle scienze sociali. Essa dovrebbe, tra l'altro, far giustizia dell'obiezione - a dire il vero alquanto trita - per la quale parlare di adattamento significa necessariamente asserire che tutte le caratteristiche di un organismo o sistema vivente siano adattative, o derivino da un adattamento riuscito, concepito (erroneamente) come soluzione a un problema a esso preesistente (v. Lewontin, 1977).
A partire da metà Ottocento, la sociologia, l'economia, la psicologia sociale, l'antropologia sociale e culturale hanno interpretato in vari modi il concetto di adattamento, spesso associandolo ad altre idee forti delle rispettive epoche. Ravvivatosi con gli anni settanta a causa degli echi destati, non solo sul terreno scientifico, dal programma di ricerca sulle basi evolutive del comportamento umano proposto dai socio-biologi (v. Wilson, 1975), il dibattito contemporaneo in tema di adattamento continua a essere segnatamente condizionato da tali associazioni.Con varianti e affinamenti che arrivano sino ai nostri giorni, diversi indirizzi delle scienze sociali hanno associato al concetto di adattamento principalmente le idee di progresso, di relazione sociale armoniosa, di accomodamento volontario o forzato alle esigenze dell'ambiente sociale, di equilibrio di tipo economico tra sistemi, o tra sistema e ambiente. Oltre che in Spencer (v., 1882-1896), per il quale l'adattamento e il progresso consistevano primariamente - al pari dell'evoluzione delle specie, secondo che postulava allora una malintesa concezione embriologica dell'evoluzione medesima - nella differenziazione delle strutture sociali, verso la fine dell'Ottocento l'associazione tra adattamento e progresso si ritrova con tratti particolarmente marcati nell'opera di Jacques Novikov (v., 1893) e di Michelangelo Vaccaro (v., 1893). La lotta per l'esistenza di organismi, gruppi e società, e la correlativa eliminazione dei meno adatti favorirebbero, secondo questi protosociologi, un adattamento sempre migliore dell'uomo al mondo vegetale e animale, alle forze cosmiche e ai gruppi sociali. Simile tendenza, anche se talora si arresta o regredisce, è chiaramente osservabile in tutta la storia delle società umane, affermava Vaccaro, al punto che si può parlare di una vera e propria legge dell'adattamento. Il perenne operare di tale legge offre una solida base al progresso delle società umane.
L'idea di relazione sociale più o meno armoniosa è stata associata al concetto di adattamento, tra gli altri, da studiosi quali Gabriel Tarde (v., 1895) e Leopold von Wiese (v., 1924-1929), dopo Georg Simmel, uno dei maggiori rappresentanti della sociologia formalista. Per Tarde adattamento significava armonia a due livelli: tra le idee albergate nella mente di un individuo, e tra le diverse menti che, in quanto siano esse stesse internamente armoniose, sono meglio atte a cooperare tra loro, a beneficio della società intera. Per von Wiese l'adattamento è una delle forme basilari di relazione sociale, assimilabile a una categoria grammaticale nella sintassi immutabile delle interazioni tra gli individui. Esso corrisponde al primo grado dell'associazione, quello che si fonda sul riconoscimento delle reciproche differenze, e prelude a relazioni più ravvicinate quali l'assimilazione e l'unione. Concezioni non dissimili, in quanto scorgono nell'adattamento una relazione sociale improntata alla tolleranza e al compromesso, sono osservabili anche nella sociologia americana - e non per caso - stante l'influsso che la sociologia formalista ebbe su parecchi dei suoi fondatori (v. Ross, 1905).Negli studi di sociologia storica del capitalismo di Werner Sombart, il concetto di adattamento subisce una caratteristica inversione di significato, a causa della sostituzione dell'unità di riferimento. Parlando di adattamento della popolazione agli sviluppi del capitalismo, Sombart non si riferiva alle probabilità di sopravvivenza della prima, come richiederebbe l'etimo di adattamento, bensì ai problemi di sopravvivenza del secondo. È la popolazione che, concentrandosi nelle città, abituandosi a una marcata divisione del lavoro, limitando le rivendicazioni salariali, ha dovuto accomodarsi alle esigenze di unificazione dei centri di comando, di razionalizzazione dell'uso delle risorse tecniche e umane, di remunerazione del capitale, proprie del nuovo modo di produzione (v. Sombart, 1916-1927²).
Un'accezione affine dell'adattamento - l'adattamento non come stato o carattere che accresce le probabilità di sopravvivenza o riproduzione, bensì come accomodamento eteronomo di una data entità a una situazione che la sovrasta - è presente in molti testi di sociologia dell'epoca, tra i quali ebbe grande influenza un diffuso manuale di Robert E. Park ed Ernest W. Burgess (v., 1921). Nella sociologia americana dei primi decenni del secolo l'adattamento reinterpretato in tal modo venne assunto come scopo dell'intera disciplina, e su di esso fu orientata la formazione di una generazione di 'ingegneri sociali'.
L'adattamento è stato teorizzato come una forma di equilibrio tra un soggetto individuale o collettivo e l'ambiente sociale, non dissimile dall'equilibrio del consumatore o dell'impresa studiato dall'economia marginalista, soprattutto da alcune versioni volgari del funzionalismo; laddove altre - compresa quella di Parsons, pur ripetutamente modificata - avevano invece insistito sul suo carattere di dominio attivo del primo sul secondo. È tuttavia difficile sottrarsi alla tentazione di intendere implicitamente l'adattamento come una forma di equilibrio, derivante dall'azione di un soggetto che modifica la sua domanda di risorse in funzione di curve che combinano la scarsità di queste con l'utilità per esso, ove non ci si rifaccia all'adattamento come stato pluridimensionale, che va osservato a differenti livelli e in diversi tempi.
Poiché le idee di progresso, di armonia sociale, di accomodamento o aggiustamento dell'individuo alla società, nonché di equilibrio economico, sono state sottoposte a critiche radicali sia dalle scienze sociali, sia dalla maggior parte delle ideologie politiche del Novecento, la lunga associazione con esse del concetto di adattamento ha nuociuto non poco alla sua comprensione e diffusione, benché esso si riferisca a stati e processi di sistemi viventi i quali, propriamente intesi, appaiono sovente non solo estranei, ma anzi in contrasto con tali idee.
L'adattamento è uno stato di un'entità sistemica da specificare di volta in volta, che sarà detta unità di adattamento. A seconda degli interessi dell'osservatore, possono venir considerati come unità di adattamento: l'individuo; sistemi intraindividuali, come l'organismo o il sistema di orientamento; gruppi di ogni dimensione; sistemi sociali, sia concreti che analitici; sistemi culturali; etnie o nazioni; popolazioni; società globali. Di ciascuna unità è possibile considerare differenti livelli di adattamento. Nell'adattamento umano gli antropologi culturali sogliono distinguere almeno tre livelli. Radcliffe-Brown, ad esempio, parlava di adattamento dell'individuo al sistema sociale; di adattamento della struttura normativa e regolativa al sistema; infine di adattamento del sistema sociale all'ambiente (v. Radcliffe-Brown, 1952). Posteriore è la distinzione tra un livello interno di adattamento, che riguarda soprattutto il sé di ego, l'individuo di riferimento; un livello sociale, che si riferisce ai rapporti tra ego e gli altri; un livello fisico/biologico, che si riferisce ai rapporti con la natura (v. Bock, 1969; tr. it., p. 246).
Sebbene nel testo citato di Bock l'adattamento sia contestualmente definito come riferentesi alla capacità d'una data popolazione di sopravvivere in un dato ambiente, la descrizione dei tre livelli concerne palesemente l'individuo, con i suoi sistemi intrapsichici. Essa lascia pertanto in ombra il fatto che il contenuto di ciascun livello di adattamento cambia profondamente a seconda dell'unità cui viene riferito. Sebbene una popolazione sia composta pur sempre da individui, lo scambio di informazione e di energia tra una data popolazione e le altre, o all'interno di essa, o tra di essa e l'ambiente fisico/biologico, è fenomeno qualitativamente diverso, a prescindere dal volume, dall'analogo scambio tra un individuo e un gruppo. Del pari profondamente diversi sono gli scambi di informazione e di energia tra due o più sistemi sociali concreti; tra due o più sistemi sociali analitici; tra un sistema sociale concreto o analitico e il suo ambiente, ancorché il livello di adattamento cui ci si riferisce nei diversi casi sia il medesimo.In tutti questi casi, di fatto, lo scambio di informazione e di energia tra le rispettive unità di adattamento passa fisicamente attraverso individui, ma ciascun individuo compare in ciascuna unità in una funzione diversa, di rado coordinata con le altre. Di solito, inoltre, esso svolge ciascuna funzione in modo partitamente inconsapevole. Ne segue che la presenza d'una società ben adattata al sistema internazionale non implica che tutti i suoi cittadini presentino, individualmente, un elevato grado di adattamento alla propria società. In modo analogo, l'adattamento di un'azienda al sistema economico nazionale non è dato dalla somma degli adattamenti individuali dei suoi dipendenti; l'adattamento dell'economia nazionale all'economia internazionale non corrisponde alla somma degli adattamenti delle aziende che la formano; l'adattamento della popolazione italiana alla popolazione europea non è un multiplo degli adattamenti individuali a livello fisico/biologico, e così di seguito, quale che sia la particolare combinazione o permutazione di unità e livelli di adattamento che si voglia considerare.
Al limite, ciascuna unità di riferimento può presentare un buon adattamento, mentre l'adattamento delle unità che la compongono, e quello delle unità di cui essa è un componente, può risultare pessimo. Ciò implica pure che il contributo dato da una forma di adattamento alle probabilità di sopravvivenza e di riproduzione del sistema di riferimento - ossia alla sua idoneità individuale - non è detto corrisponda ad analogo contributo in direzione della sua idoneità complessiva.Cionondimeno, la differenza e l'indipendenza relativa delle varie unità e dei diversi livelli di adattamento, così come la differenza delle funzioni che l'individuo svolge in diversi sistemi, insieme alla inconsapevolezza con cui le svolge, non escludono la presenza di cospicue interazioni tra unità e livelli; in ispecie se nella valutazione del grado di adattamento si introduce, conforme alla definizione data nel cap. 2, la dimensione tempo. Infatti, se un livello di (elevato) adattamento al tempo t₁ di date unità u,u viene ottenuto consumando risorse che al tempo t₂ risultano scarse per l'unità U, di cui u,u sono componenti, è probabile che al tempo t₃, se non già al tempo t₂, il grado di adattamento di u,u venga anch'esso compromesso. Effetti di composizione, talora perversi, operano nel campo degli stati di adattamento come in ogni altro campo dell'organizzazione bio-socio-culturale delle società umane.
Qualsiasi comportamento che concorra ad accrescere l'idoneità individuale o quella complessiva, migliorando - dal punto di vista dell'unità di adattamento - gli scambi di energia e di informazione tra un sistema e il suo ambiente, o tra i sottosistemi del sistema stesso, può essere definito un comportamento adattativo. Con termini che Freud riferiva (i primi due) all'individuo, ma che si possono applicare a ogni unità di adattamento, sino ai sistemi sociali e alle società, i comportamenti adattativi sono classificabili in autoplastici, alloplastici ed esotropici.
Tra i primi rientrano i comportamenti messi in atto da un organismo, un gruppo, un sistema sociale per modificare proprie strutture e funzioni, o altri caratteri fenotipici, che conseguono - siano o no dei comportamenti intenzionali - un miglioramento dei suoi rapporti con un dato ambiente. I comportamenti alloplastici, eccezionalmente sviluppati nell'uomo, sono quelli diretti a modificare i caratteri dell'ambiente per adeguarli ai caratteri dell'unità di adattamento. Esotropici infine sono quei comportamenti che consistono nella ricerca ed esplorazione di ambienti nuovi, al fine di migliorare il proprio adattamento o sottrarsi a un suo peggioramento causato da un mutamento dell'ambiente precedente. Le tre classi di comportamento adattativo interagiscono tra loro sia a livello genetico che ai livelli somatico ed esosomatico, formando un particolare circuito coevolutivo.
Un comportamento adattativo può venir prodotto da vari fattori, quali: una variazione del genotipo; un processo di apprendimento; un'invenzione inconsapevole, risultante da azioni volte in origine ad altri scopi; uno scopo consapevolmente perseguito. Ciascun tipo di comportamento adattativo derivante da questi fattori si connette in modo diverso al concetto di razionalità. L'evoluzione su basi genetiche di comportamenti adattativi, con particolare riguardo ai comportamenti sociali, rientra nel campo di studio dell'etologia e della sociobiologia, la cui fondazione risale in realtà fino a Darwin. Uno specifico comportamento sociale adattativo che etologia e sociobiologia spiegano su basi genetiche, ma in modo diverso rispetto alla teoria classica dell'evoluzione, è l'altruismo. Altruistico, nel linguaggio a-morale della teoria dell'evoluzione, è semplicemente qualsiasi atto che riduca le probabilità di sopravvivere e riprodursi dell'agente, mentre migliora quelle del beneficiario dell'atto. Dal punto di vista della teoria darwiniana dell'evoluzione, l'altruismo appare inspiegabile, perché l'idoneità degli organismi altruisti - la loro capacità di lasciare discendenti - dovrebbe tendere a zero, a causa del continuo peggioramento relativo del loro grado di adattamento.
La teoria sociobiologica spiega l'altruismo sostituendo all'organismo, come unità di adattamento, il gene. Mediante un calcolo fondato sui coefficienti di affinità genetica, è infatti possibile dimostrare che a certe condizioni, seppure l'organismo altruista venga leso o perisca nel compiere l'atto altruistico, il comportamento altruistico tenderà comunque a diffondersi nella popolazione di riferimento. Ciò avviene quando l'atto altruista concorre ad aumentare il successo riproduttivo d'un numero sufficiente di altri organismi i quali, in quanto consanguinei con l'attore, sono portatori degli stessi geni. Mediante schemi analoghi, centrati sul concetto di trasmissione ereditaria, per via genetica, della predisposizione a manifestare in date situazioni un dato comportamento, etologi e sociobiologi spiegano la diffusione di numerosi comportamenti adattativi (v. Barash, 1977). In questo caso la razionalità non è un carattere dell'individuo o del gruppo, bensì della natura.
Diverso è il caso dei comportamenti appresi, nonché di quelli derivanti dal perseguimento consapevole di uno scopo. Ove rientri in una tipologia di comportamenti che in quelle date circostanze hanno di regola successo, un comportamento diretto a uno scopo è per definizione un'attività 'adattata' alle circostanze in cui ha luogo (v. Sommerhoff, 1974, pp. 75 ss.). È cioè un'attività che sfrutta efficacemente, e non per accidente ma per intenzione, informazioni e salti energetici disponibili nell'ambiente interno dell'agente e nell'ambiente esterno, in uno scambio che presenta alla fine un bilancio favorevole all'agente. La più tipica di tali attività intenzionalmente direzionate è il lavoro umano, archetipo di ogni comportamento adattativo della specie.
A un ordine diverso pertiene la razionalità adattativa dei comportamenti appresi. Estremamente sviluppati negli esseri umani, grazie allo sviluppo dei sistemi simbolici, i comportamenti appresi sono osservabili in migliaia di altre specie. Alla base di essi vi sono processi di induzione tramite i quali gli esseri viventi modellizzano il mondo fisico e sociale, estraendone le regolarità collimanti con le proprie strutture e funzioni, ovvero con il proprio particolare piano organizzativo, e registrandole nelle cellule 'libere' del proprio sistema nervoso (prevalentemente site, nei Primati, nella corteccia cerebrale).Un modello adeguato del mondo ha un rilevante valore adattativo, da vari punti di vista: riduce la probabilità di commettere errori, e con essa i rischi per la sopravvivenza e la riproduzione; orienta l'azione, accrescendone l'efficacia; integra il sistema psichico, riducendo le possibilità di conflitti interni; in generale, migliora l'efficacia e l'efficienza degli scambi energetici e informazionali dell'entità di riferimento con l'ambiente - che è semplicemente uno dei vari modi per definire la razionalità.
Occorre tuttavia distinguere tra razionalità locale e razionalità globale dei comportamenti adattativi. Generalizzando l'impostazione di J. Elster, che prende a riferimento l'organismo come macchina biologica, si può dire che un sistema manifesta una razionalità globale se è capace di attendere e di usare strategie indirette. In caso contrario la sua razionalità sarà soltanto locale. Un sistema "è capace di attendere se sa dire No a una mutazione favorevole al fine di poter dire Sì a una ancora più favorevole in un tempo successivo. [... Un sistema] è capace di usare strategie indirette se sa dire Sì a una mutazione sfavorevole al fine di poter dire Sì, in un tempo successivo, a una molto favorevole" (v. Elster, 1979, p. 9). In questa definizione di razionalità globale il punto critico - per il sistema di riferimento ma anche per l'osservatore che intenda valutarne il grado di razionalità - è evidentemente la capacità del sistema, sia esso un organismo, una persona, un gruppo o una società, di anticipare la 'favorevolezza' delle 'mutazioni' future, nonché di compararla con la 'favorevolezza' delle mutazioni presenti.
Applicando forme di razionalità globale, un individuo, un gruppo, una società possono adottare scientemente dei comportamenti, inclusi quelli autoplastici che consistono nel modificare se stessi, i quali anticipano mutamenti dell'ambiente e sebbene non migliorino l'adattamento nel presente rendono più probabile un miglior adattamento per il futuro. In questi casi si può parlare di preadattamento. È tuttavia possibile che un preadattamento sia dovuto al caso, come capita agli organismi che una micro- o una macro-mutazione viene a dotare di un carattere morfologico o funzionale al momento inutile, ma che poi si rivela, a fronte di imprevedibili mutamenti ambientali, un fattore differenziale di sopravvivenza.
Veri e propri sistemi sociali - rapporti e relazioni stabili tra posizioni e forme di attività, strutturalmente indipendenti dagli individui che a un dato momento occupano le prime e svolgono le seconde - sono stati sviluppati autonomamente da parecchie migliaia di specie animali. Lo stesso dicasi dei sistemi tecnologici - pratiche standard per la soluzione di problemi materiali ricorrenti, di norma integrate da strumenti o utensili che servono da 'protesi', ossia da pro-tensione o potenziamento di capacità naturali. Sia i sistemi sociali che i sistemi tecnologici rappresentano mezzi di adattamento, che si aggiungono ai caratteri morfologici e funzionali degli organismi di una data specie, essendosi di norma coevoluti con essi. I gruppi parentali dei gorilla, le strutture di casta di api e termiti, la famiglia nucleare di molti uccelli, il branco dei lupi sono sistemi sociali finemente articolati, mediante i quali tali specie hanno accresciuto o difeso, a seconda dei tipi e della variabilità dei rispettivi ambienti, la loro probabilità di sopravvivere e riprodursi, ovvero l'idoneità individuale o complessiva. Così pure sono mezzi di adattamento i nidi dei passeriformi, le dighe dei castori, le tane delle marmotte, le tele dei ragni: espressioni finali di complessi sistemi tecnologici formati da processi nervosi (e, nei Primati, anche mentali), da tecniche di raccolta e apprestamento dei materiali, da processi di fabbricazione, collaudo e riparazione.A loro volta, dall'aratro di legno, e anzi dalla selce scheggiata, ai robot intelligenti e alle reti telematiche, i sistemi tecnologici sviluppati dall'uomo tendono ad accrescere l'adattamento di individui e popolazioni perché migliorano il rapporto tra energia umana impiegata ed energia estratta dall'ambiente onde essere utilizzata, in varie forme, a fini di consumo e produzione alimentare, protezione dal clima, costruzione di attrezzi, difesa da predatori animali e umani.
L'efficacia dei sistemi tecnologici come mezzi di adattamento è illustrata drammaticamente dallo stretto rapporto esistente tra livello medio di sviluppo tecnologico di un paese, da un lato, e, dall'altro, durata media dell'esistenza, accanto alla qualità media della vita in termini di esposizione alla fatica, rischio di malattia, mortalità infantile: quanto più basso il primo, tanto più breve la seconda, e tanto peggiore la terza.Da parte loro i sistemi sociali concorrono in molti modi a migliorare direttamente l'adattamento dei gruppi e delle popolazioni umane e, indirettamente, degli individui che le compongono - non necessariamente di tutti. In forma di famiglia o di clan, di organizzazione economica o di amministrazione pubblica, di associazione politica o religiosa, di comunità locale o di Stato, i sistemi sociali sono atti a organizzare un gran numero di energie e intelligenze individuali, convertendole in una misura più che proporzionale di energia e intelligenza collettiva.In tal modo l'insieme di questi sistemi - che globalmente prende il nome di organizzazione sociale - permette a una data popolazione, rispetto a una che non disponga di un livello analogo di organizzazione, di esplorare, sfruttare e controllare un territorio più ampio; di tenere a bada le popolazioni confinanti; di accrescere le proprie capacità di difesa e di attacco; di sviluppare e utilizzare sistemi tecnologici più potenti e complessi; di proteggere meglio i propri gruppi più deboli; di aggregare e integrare popolazioni di minori dimensioni, eventualmente appartenenti a razze ed etnie differenti, in una sola società.
Come mezzi di adattamento i sistemi sociali sono più importanti dei sistemi tecnologici; infatti, anche se la maggior parte di questi viene distrutta, a causa di eventi bellici o disastri naturali, quasi tutte le società umane sembrano in grado di ricostruirli rapidamente, a condizione che la loro organizzazione sociale sia rimasta intatta. Per contro, il crollo dei sistemi sociali riduce drasticamente il grado di adattamento. La storia del XX secolo è ricca di testimonianze in tal senso, così come la sociologia dei disastri.
Diversamente da ogni altra specie, la specie umana ha dato origine a un terzo ordine di sistemi, quelli simbolici: sistemi formati da simboli normalizzati, autoreplicantisi, memorizzabili e trasmissibili in varie forme, quali linguaggi naturali e artificiali, credenze religiose e concezioni del mondo, feste e rituali, ideologie politiche e sistemi cognitivi, precetti morali e canoni estetici. Oltre a possedere un'efficacia adattativa intrinseca, a causa della loro funzione integrativa della personalità e dei gruppi, i sistemi simbolici hanno consentito di moltiplicare con rapidità straordinaria, considerati i ritmi dell'evoluzione biologica, l'efficacia adattativa dei sistemi degli altri due ordini.
Per forse due milioni di anni quest'ultima non fu, presumibilmente, maggiore - misurandola in termini di idoneità individuale e complessiva - di quella assicurata dai sistemi sociali e tecnologici sviluppati da molte altre specie. Soltanto in tempi evolutivamente recenti - a partire da meno di 100.000 anni fa - emersero sistemi simbolici sufficientemente sviluppati da permettere agli uomini di cumulare, memorizzare e trasmettere con diversi veicoli ogni sorta di conoscenze sociali e tecnologiche, nonché di anticipare gli effetti delle azioni che si intraprendono avendo per oggetto sistemi degli altri due ordini. Tramite i sistemi simbolici, divenne fattibile la produzione intenzionale di sistemi sociali e tecnologici sempre più efficaci, come mezzi di adattamento, a confronto di quelli sviluppatisi come semplici "fenotipi estesi" (v. Dawkins, 1982). In quanto sono estensioni del biogramma geneticamente vincolate, questi ultimi sono infatti costretti a riprodursi senza modificazioni rilevanti, salvo quelle indotte da modificazioni del genotipo, di generazione in generazione.I sistemi simbolici si sono coevoluti con i sistemi sociali e con i sistemi tecnologici, e in concreto sono inseparabili da entrambi. Non esistono infatti sistemi sociali, né sistemi tecnologici, che non siano permeati da sistemi simbolici. Ma da un punto di vista analitico questi ultimi rappresentano un livello diverso dell'azione e dell'organizzazione sociale, relativamente indipendente dai sistemi sociali, molti dei quali sono suscettibili di coesistere e persistere identici in relazione con sistemi simbolici tra loro affatto differenti. È precisamente la loro indipendenza che fa dei sistemi simbolici degli strumenti atti ad accrescere a dismisura le capacità dei sistemi sociali come di quelli tecnologici, rendendo possibile sia l'invenzione di nuovi sistemi a prescindere dall'esperienza, sia la loro continua revisione in base all'esperienza. Se la specie umana è diventata - almeno fino a oggi - la specie dominante del pianeta, lo deve all'eccezionale aumento del suo grado di adattamento generato da codesto circuito coevolutivo di sistemi sociali, tecnologici e simbolici.
L'invenzione e l'immenso sviluppo dei sistemi simbolici hanno però avuto anche effetti divaricanti sui processi di adattamento umani. I sistemi simbolici forniscono all'individuo una capacità di orientamento totalmente indipendente dagli istinti, e più in generale da qualsiasi scambio di informazione contingente con l'ambiente. Grazie a essi, l'essere umano ha acquisito una capacità quasi infinita di definire la propria collocazione fisica, e quella simbolica, rispetto a un numero indefinito di altre entità fisiche e simboliche. A differenza di tutti gli altri animali, l'uomo non può più 'perdersi', nello spazio fisico come in quello simbolico, se non in condizioni limite, ambientali o mentali, mentre la sua azione può dirigersi verso una gamma illimitata di scopi materiali e ideali.
D'altra parte con lo sviluppo dei sistemi simbolici si sono affacciate per la prima volta, nella storia evolutiva dell'uomo, varie possibilità di conflitto tra comportamenti adattativi (v. Boyd e Richerson, 1985). Di per sé, i sistemi sociali e tecnologici, per la maggior parte della loro storia evolutiva, ovvero fino a un determinato grado di complessità, non sono stati altro, come s'è detto, che dei prolungamenti del biogramma umano, il particolare fenotipo esteso della specie; e come ogni fenotipo in rapporto stretto con il genotipo, essi svolgevano una evidente e univoca funzione adattativa, senza altri sistemi che potessero competere per attrarre a proprio favore l'azione umana.
Con l'avvento dei sistemi simbolici, che permeano a fondo i sistemi sociali e tecnologici, la funzione adattativa di molti di questi viene per un verso velata, e per un altro dissociata dalla funzione adattativa dei primi se non anzi contrapposta. In molti casi l'azione umana si trova così esposta alla necessità - spesso non evidente o inconsapevole - di scegliere tra il contribuire alla propria idoneità per mezzo di un sistema simbolico oppure per mezzo di un sistema sociale o tecnologico; pervenendo non di rado a contribuire alla sopravvivenza e alla riproduzione di tali sistemi, forse anche più che alla propria. Il che potrebbe pur essere, su un piano diverso, un modo per sopravvivere in altre forme, incorporee o non organiche.
Se adattamento significa contributo alla sopravvivenza e alla riproduzione, la valutazione dello stato di adattamento di una qualsiasi unità di riferimento presuppone che siano note la o le entità che l'unità stessa desidererebbe veder sopravvivere e riprodursi. Nel caso degli esseri umani la distinzione tra organismo e gene come unità di adattamento, ovvero tra idoneità individuale e complessiva, non è sufficiente. Quali creatori di sistemi simbolici, essi hanno inventato nuove forme di sopravvivenza e riproduzione, per l'appunto simboliche, che sono diventate parte costitutiva della loro mente. Il desiderio di sopravvivere e riprodursi si dirige quindi, nel loro caso, a non meno di quattro classi di referenti diversi: l'organismo, il proprio corpo; i consanguinei, i portatori degli stessi geni biologici; la mente culturalmente specificata, il proprio sistema di orientamento; i propri simili simbolici, i portatori degli stessi 'geni' (o memi, o culturgeni) culturali (v. Gallino, 1987).
Entro questo orizzonte qualsiasi comportamento può risultare adattativo per una classe di referenti, ma non per le altre, e nemmeno per altri referenti della stessa classe. Lo stato di adattamento di un individuo va perciò visto come una complessa combinazione degli adattamenti dei suoi referenti, così come sono rappresentati nella mente del soggetto, perché è attraverso loro che passa la sua complessiva capacità e realtà di sopravvivenza e riproduzione a un tempo fisica e simbolica, biologica e culturale. Non solo la maggior parte degli individui non si sentirebbero ben adattati se a un elevato benessere fisico fosse unita la prospettiva di una scomparsa della loro cultura, ma molti, anzi, appaiono disposti a ridurre a zero il grado di adattamento del loro organismo, ovvero a perire fisicamente, se credono che ciò possa contribuire alla sopravvivenza e alla riproduzione della loro cultura.
La poliformità degli adattamenti umani, derivante dalla molteplicità delle forme di sopravvivenza e di riproduzione degli esseri umani, aiuta a spiegare sia la varietà dei comportamenti localmente adattativi ma globalmente dis-adattativi, sia il fenomeno della sopravvivenza e riproduzione di sistemi culturali - tecnologici e ideologici, o in generale simbolici - il cui valore adattativo dal punto di vista biologico sembra scarso o affatto neutrale. A parte la capacità di sopravvivenza e riproduzione autonoma che taluni di tali sistemi, in specie tecnologici, paiono aver acquisito (v. Gallino, 1987, cap. 8), essi sono rappresentati nella mente collettiva come vettori di forme di sopravvivenza.
In combinazione con altre forme di sopravvivenza fisica e simbolica, essi paiono quindi assicurare un maggior successo riproduttivo complessivo, bioculturale, anche a individui o popolazioni il cui adattamento biologico, mentre è limitato, forse trarrebbe vantaggio dall'eliminazione di quegli stessi sistemi culturali.
Sebbene sia di rado chiamato col suo nome, il concetto di adattamento è chiaramente individuabile alle radici della cultura che appare ispirare, sul finire del XX secolo, sia i movimenti ecologisti, sia alcuni settori eterodossi delle scienze sociali. Si tratta di una cultura emergente, per la quale lo spettro di un possibile olocausto atomico e la constatazione dei danni inflitti dalle popolazioni umane all'ambiente fisico e alla biosfera, con intensità esponenzialmente crescente, hanno conferito all'idea di sopravvivenza della specie un senso impellente e tangibile, sconosciuto alle passate generazioni.
Sullo sfondo di tale cultura, cui si attaglia la denominazione di ecologia politica, v'è l'ipotesi che la razionalità locale dei sistemi economici contemporanei, coacervo planetario di molti generi di sistemi sociali, tecnologici e simbolici, possa rivelarsi quanto prima come una forma perniciosa di irrazionalità globale, se già non lo sia ora. È un fatto che, pur con gravi disuguaglianze intra- e internazionali, tali sistemi hanno assicurato un grado di adattamento senza precedenti alla specie umana, consentendole - infallibile indice biologico e ragione prima del consenso individuale e collettivo di cui essi hanno finora goduto - di raddoppiare le proprie dimensioni ogni trentacinque anni. Ci si chiede però se la manomissione dell'ambiente da essi compiuta non configuri ormai il rischio che vengano compromesse le prospettive di adattamento a lungo termine dell'intera specie, insieme con la biosfera di cui è stata irresponsabile parte.
Agli atteggiamenti, agli schemi mentali e ai comportamenti dispoticamente alloplastici di cui tali sistemi economici - non fa differenza se capitalistici o socialisti - sono intessuti, alla loro cultura riduzionistica e meccanicistica, la cultura emergente propone di sostituire l'idea di una cooperazione simbiotica con la natura, una visione sistemica della vita, il riconoscimento dei diritti degli animali, e infine una concezione olistica della salute del corpo e della mente (v. Capra, 1982). In sintesi, questa cultura emergente propone di tradurre in pratiche personali e pubbliche una concezione diversa, a paragone di quella della cultura dominante, dell'adattamento umano, individuale e collettivo.
Per un settore delle scienze sociali che all'inizio dell'ultimo decennio del secolo appare in crescita, sebbene ancora minoritario, la nuova sensibilità per i problemi della sopravvivenza e dell'adattamento dovrebbe tradursi in nuove forme di policy making, fondate su misure originali del livello di vita e di qualità della vita. Fino a oggi le misure del livello di vita sono state basate quasi esclusivamente su indicatori economici. Ma, per quanto siano disaggregati e ponderati, gli indicatori economici presentano una correlazione debole con il benessere fisico e psichico; in certi casi, anzi, presentano una relazione inversa, come mostrano quegli indicatori di malessere che sono i tassi di criminalità, suicidio, tossicodipendenze, malattie mentali rilevati nelle società avanzate (v. Saint-Marc, 1978).
D'altra parte, si afferma, il tentativo di misurare la qualità della vita mediante indicatori sociali ha ottenuto in genere risultati poco soddisfacenti, a causa soprattutto dei loro scarsi fondamenti teorici nelle scienze della vita. Studiosi di biopolitica - la scienza della policy orientata alla sopravvivenza - hanno quindi proposto di costruire una nuova famiglia di indicatori, basati sul concetto darwiniano di adattamento biologico. La misura globale in cui tali indicatori dovrebbero venire sintetizzati è la salute, intesa in "senso ampio, adattativo, come la capacità di compiere quelle attività che sono richieste per sopravvivere, per aver cura di sé, e per badare agli altri, in un dato ambiente" (v. Corning, 1983, pp. 182-183).
Rispetto alla congerie di indicatori di cui sono ricche le statistiche sociali, ma che raramente informano le concrete azioni di policy, non da ultimo per le contraddizioni logiche e reali che li sottendono, un macro-indicatore 'salute', fondato su un concetto estensivo di adattamento biologico, sarebbe forse un progresso. Cionondimeno, senza ulteriori approfondimenti dei problemi sottesi all'adattamento umano, i suoi fondamenti teorici resterebbero gracili. Per quanto radicato nell'essere umano, lo scopo di sopravvivere come entità biologica è in lui strettamente intrecciato allo scopo di sopravvivere come entità simbolica. Dal modo di costruire, e spesso di sciogliere, tale intreccio nel corso dell'esistenza dipende il benessere globale di ogni individuo.
Al lume di questa nozione di una mente composta da molteplici io di differente natura, fondamenti più solidi per un policy making orientato all'adattamento umano potrebbero essere forniti da una teoria polimorfica e polilivello, elaborata sistematicamente in vista delle specificità irripetibili di tale adattamento. Specificità dovute non solo al permanere di bisogni biologici alla base del comportamento dell'uomo civilizzato, secondo quanto sostengono giustamente gli studiosi di biopolitica, ma insite altresì nel suo coinvolgere simultaneamente, nel medesimo individuo, entità e processi biologici e simbolici, che sono insieme intrapersonali, interpersonali e intertemporali. (V. anche Sociobiologia).
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