Adattamento
Il termine indica, in generale, il conformarsi a determinate condizioni e situazioni. In biologia sta a significare la relazione tra le strutture e attività degli organismi e l'ambiente in cui vivono: l'adattamento ha infatti lo scopo di migliorare le capacità dell'individuo di sopravvivere e riprodursi in un contesto dato. Si distingue l'adattamento di tipo genetico, stabile e trasmissibile da un individuo alla prole, dall'adattamento di tipo fisiologico, non ereditabile, le cui modificazioni sono reversibili e avvengono in modo relativamente veloce. La fisiologia studia la capacità del corpo umano di adattarsi all'esposizione a una vasta gamma di condizioni ambientali e all'esercizio fisico.
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Al variare delle condizioni ambientali, gli esseri viventi subiscono cambiamenti come risultato dell'azione della selezione naturale sul patrimonio genetico della popolazione: a questo fenomeno si dà il nome di adattamento genetico. L'ambiente può anche determinare direttamente modificazioni non ereditarie negli organismi, rendendoli più adatti a esso: in questo caso si parla invece di adattamento fisiologico. Spesso questi due tipi di adattamento vengono confusi. Dal punto di vista evolutivo, la differenza sta proprio nel termine 'genetico', e cioè nella stabilità e nella ereditarietà della trasformazione. Un animale o una pianta geneticamente adattati all'ambiente in cui vivono conservano i caratteri che hanno ereditato e li trasmettono ai loro successori, anche se cambiano le condizioni di vita. Per es., gli animali delle regioni artiche, che la colorazione bianca rende meno visibili in quell'ambiente, non cambiano colore se portati a vivere in un ambiente diverso. Nell'adattamento fisiologico, invece, un organismo modifica i suoi caratteri al variare delle condizioni ambientali, ma il patrimonio genetico resta inalterato e l'informazione non viene ereditata dalla prole: è il caso di molte specie di pesci, di anfibi e di alcuni rettili, che alterano la loro colorazione a seconda dell'ambiente in cui vivono. Queste variazioni, oltre a essere reversibili, si verificano con la velocità tipica dei cambiamenti fisiologici. Esempi di adattamento fisiologico nell'uomo possono essere considerati l'aumento del battito cardiaco durante uno sforzo e il restringimento della pupilla se l'occhio viene colpito da una fonte luminosa intensa.
Tutti gli esseri viventi dispongono di mezzi utili per sopravvivere nel loro ambiente, acquisiti nel corso del processo evolutivo. La vita è infatti un equilibrio dinamico tra l'organismo e ciò che lo circonda, equilibrio che può essere mantenuto soltanto se l'ambiente è adatto a quel particolare essere vivente. Per es., gli animali acquatici, siano essi pesci, rettili o mammiferi, sono generalmente provvisti di appendici remiganti per il nuoto; gli organismi volatori, sia uccelli sia mammiferi, hanno ali; gli animali scavatori, dagli insetti ai mammiferi, mostrano spesso appendici modificate per facilitare lo scavo di gallerie nella terra. Da ciò emerge che la maggior parte degli animali che vivono in un certo ambiente presenta somiglianze morfologiche e fisiologiche, spiegabili proprio con le esigenze dettate dall'ambiente cui appartengono. Anche le piante sono dotate di speciali strutture che ne facilitano la sopravvivenza in un determinato ambiente: le piante del deserto si servono di particolari organi per assorbire e immagazzinare l'acqua e quelle rampicanti presentano foglie, fusto e radici modificati in modo da poter utilizzare sostegni per raggiungere meglio la luce solare.
La presenza delle varie forme di adattamento non deve sorprendere, perché le specie attualmente viventi sono proprio quelle che hanno potuto sopravvivere in quanto ben adattate. Infatti, una specie che non sia in grado di produrre cambiamenti appropriati a eventuali variazioni ambientali necessariamente si estingue. Un gran numero di queste specie estinte è stato identificato attraverso i resti fossili. L'esempio più spettacolare di estinzione di massa è senza dubbio quello dei rettili giganti, che vissero da 200 a 100 milioni di anni fa. L'adattamento rappresenta il problema biologico fondamentale che le teorie evoluzionistiche hanno tentato di spiegare. La prima teoria evoluzionistica, enunciata da Lamarck nel 1809, muoveva proprio dalla considerazione che specie diverse hanno stili di vita particolari e organizzazioni perfettamente in accordo con esse. A questo proposito, il biologo francese avanzava due possibili spiegazioni. La prima, in linea con la tradizione e le credenze del tempo, ammetteva che a ogni individuo fosse stata attribuita, fin dalla sua 'creazione', un'organizzazione adatta all'ambiente in cui sarebbe vissuto. La seconda, in cui egli si riconosceva, ipotizzava che ogni specie si fosse adattata all'ambiente ricevendo da questo la spinta a modificare le proprie strutture, che potevano così essere trasmesse alla prole.
I dati paleontologici, che dimostrano l'esistenza nel passato di specie estinte, furono scarsamente considerati da Lamarck, ma costituirono il principale motivo ispiratore della teoria evoluzionistica esposta da Darwin nell'Origine delle specie (1859). Le esperienze fatte durante il suo viaggio sul Beagle lo indussero a ritenere l'adattamento all'ambiente come il punto focale dell'evoluzione. Egli spiegò questo fenomeno con la teoria della selezione naturale, secondo cui ogni specie presenta una certa variabilità, nell'ambito della quale sono favorite le combinazioni più adatte a ogni particolare ambiente. I punti più vulnerabili della teoria darwiniana riguardavano proprio l'esistenza, in una determinata popolazione, di una varietà iniziale di forme, nonché di una perenne fonte di variabilità, senza la quale i processi evolutivi sarebbero destinati a esaurirsi in breve tempo. Era lo stesso Darwin ad ammettere una 'profonda ignoranza' sulle leggi delle variazioni. Oggi si sa che la variabilità rilevante ai fini dell'evoluzione ha basi genetiche ed è dovuta anzitutto alle mutazioni, cambiamenti qualitativi che avvengono a caso nella molecola del DNA (Deoxyribonucleic acid, acido desossiribonucleico). Negli organismi a riproduzione sessuata, la variabilità può essere incrementata mediante l'assortimento indipendente dei cromosomi e il crossing-over che avvengono durante la meiosi. Una serie di esperimenti effettuati su batteri ha ormai dimostrato che l'adattamento è il risultato di una selezione di mutazioni preesistenti nella popolazione e non di una mutazione direzionale stimolata dall'agente selettivo.
L'idea della selezione naturale è forse l'aspetto più originale e geniale della teoria evoluzionistica enunciata da Darwin. A questa intuizione lo spinsero sia l'osservazione degli effetti della selezione artificiale praticata dall'uomo su piante e animali, sia la lettura di un'opera di T.R. Malthus (pubblicata per la prima volta nel 1798), in cui si evidenziava la sproporzione esistente tra l'incremento numerico della popolazione e quello dei mezzi di sussistenza. Il principio di Malthus suggerì a Darwin i concetti di 'lotta per l'esistenza' (struggle for life) e di 'sopravvivenza del più adatto' (survival of the fittest), secondo i quali in natura gli individui maggiormente adatti a sopravvivere in un dato ambiente vengono selezionati favorevolmente. Questo è il nodo centrale della teoria darwiniana: gli organismi più adatti, infatti, avranno più prole e diffonderanno maggiormente nella popolazione quei caratteri che li rendono tali.
2.
Anche i caratteri tipicamente umani sono il risultato dei processi di adattamento agli ambienti in cui l'uomo si è evoluto nel corso dei milioni di anni della sua storia. Il differenziamento della famiglia degli Ominidi, che ha portato alla genesi dell'uomo attuale (specie Homo sapiens), ha avuto inizio probabilmente circa 10 milioni di anni fa. I fossili più antichi attribuibili alla famiglia degli Ominidi (in quanto presentavano già la postura eretta) risalgono comunque a non più di 3 o 4 milioni di anni fa (Australopithecus afarensis). Non si sa con precisione quali pressioni selettive abbiano spinto l'uomo verso il bipedalismo: se la liberazione delle mani, l'aumentata capacità di procurarsi il cibo e di trasportarlo, la maggiore possibilità per le femmine di accudire i piccoli, oppure l'aumento dell'attrazione tra maschi e femmine in seguito all'esposizione degli organi sessuali secondari. In ogni caso, l'intero scheletro ha dovuto subire profonde modificazioni per consentire l'adozione della stazione eretta e della locomozione bipede (fig. 1). Nel corso dell'evoluzione del genere Homo sono stati selezionati individui con una massa cerebrale sempre maggiore e un cranio adatto a contenere l'aumentato volume cerebrale (fig. 2). Lo splancnocranio (mandibola e mascella) si è quindi ridotto a favore del neurocranio, dov'è situato l'encefalo (figg. 3 e 4). Con l'aumento di dimensioni di quest'ultimo, la fronte si è allargata, completando così l'evoluzione della struttura della faccia umana. Un altro importante cambiamento, la cui funzione è ancora controversa, è consistito nella perdita di gran parte dei peli. Una delle spiegazioni più plausibili è che l'assenza dei peli fosse funzionale a un migliore raffreddamento del corpo, necessario durante l'inseguimento delle prede nelle caldissime regioni africane. È proprio in Africa infatti che, sulla base di prove biochimiche, si ritiene abbia avuto inizio la storia evolutiva dell'uomo, durata circa 200.000 anni, durante i quali si sono sviluppate quelle caratteristiche specifiche che lo hanno reso adatto a vivere nelle diverse regioni della Terra.
La statura piccola costituisce un esempio di adattamento biologico alla vita della foresta tropicale, dove la temperatura, anche se non elevatissima, è comunque abbastanza alta da rendere necessari accorgimenti per disperdere il calore corporeo. In caso di bassa statura, infatti, il rapporto tra superficie e volume del corpo è maggiore (fig. 5) e il suo raffreddamento, che avviene attraverso la superficie, risulta facilitato. La temperatura ambientale ha condizionato anche la morfologia di altri caratteri. Per es., una forma di adattamento ai climi freddi è rappresentata dalle narici piccole, così come dai capelli duri, pesanti, lisci e ben aderenti al cranio. Le narici strette, infatti, fanno sì che l'aria molto fredda abbia il tempo di riscaldarsi prima di giungere ai polmoni. Al contrario, i popoli africani hanno narici molto larghe e capelli crespi e sollevati dal cranio, in modo da favorire la traspirazione. Un altro esempio è costituito dal cranio facciale di tipo mongolo, con il volto largo e schiacciato, che risulta vantaggioso nei climi freddi, dove una faccia priva di appendici prominenti aiuta a difendersi dal gelo. Nei climi caldi, invece, si dimostra più utile un volto sporgente e allungato, come quello degli africani.
Anche il colore della pelle assume un importante valore adattativo in relazione all'ambiente in cui si vive. Nelle regioni tropicali è 'conveniente' essere scuri di pelle, perché la pigmentazione protegge dalle radiazioni solari e dal rischio di tumori della pelle; nelle regioni nordiche, invece, una forte pigmentazione non è necessaria, anzi risulterebbe dannosa. Infatti, l'uomo ha bisogno della vitamina D per fissare il calcio e per favorire il normale accrescimento delle ossa, tanto che la sua deficienza provoca il rachitismo. La produzione di vitamina D avviene negli strati profondi del derma e necessita dell'azione dei raggi solari; a latitudini elevate la quantità di raggi ultravioletti è già scarsa e risulterebbe decisamente insufficiente se fosse anche assorbita dal pigmento presente in elevata quantità negli strati superficiali di una pelle scura. Si pensa perciò che la minore pigmentazione della pelle che si riscontra a latitudini elevate possa essere un adattamento che favorisce la produzione di vitamina D. Dal punto di vista biochimico, invece, le varie razze sono assai simili. I geni responsabili delle differenze visibili, come il colore della pelle o le strutture facciali, sono quelli selezionati per l'adattamento in risposta al clima. Non esiste quindi una razza 'migliore': esistono solo razze diversamente adattate ai vari ambienti.
La storia evolutiva dell'uomo non riguarda unicamente il passato remoto, perché fenomeni di adattamento si sono verificati anche in tempi relativamente recenti. Uno di questi è la talassemia, una malattia genetica che comporta la formazione di un'emoglobina anomala, con una grave forma di anemia. La malattia si manifesta soltanto in coloro che ereditano l'allele mutato da entrambi i genitori, i quali sono quindi portatori sani (genotipo eterozigote). Nel corso del tempo, questo allele dannoso sarebbe dovuto scomparire nella popolazione, in quanto i talassemici non raggiungono l'età della riproduzione (anche se oggi la loro vita media si è molto allungata). Al contrario, in alcune regioni (quali la Sardegna, il delta padano e molte aree costiere del Mediterraneo) la frequenza di questa mutazione è ancora piuttosto alta e ciò è dovuto al particolare valore adattativo dei genotipi eterozigoti che, nelle zone malariche, mostrano una maggiore resistenza a tale malattia. In questi ambienti, infatti, gli eterozigoti, che non morivano né per la malaria né per la talassemia, avevano maggiore possibilità di sopravvivere e riprodursi. Benché la malaria sia stata debellata in quelle regioni, è probabilmente ancora troppo presto per osservare una diminuzione nella frequenza della mutazione come risultato di un nuovo adattamento alle modificate condizioni ambientali. Forse, tale diminuzione non si verificherà neppure in futuro, se saranno garantite ai talassemici migliori condizioni di cura (come il trapianto di midollo osseo), tali da consentire loro di vivere più a lungo e di riprodursi.L'uomo, nel tempo, ha imparato ad adattare sempre più l'ambiente alle proprie esigenze, rendendo quindi possibili la sopravvivenza e la riproduzione di molti individui, che altrimenti avrebbero fitness uguale a zero (per fitness in genetica si intende l'idoneità per l'ambiente misurata in relazione alla capacità di un organismo di trasmettere i suoi geni alla generazione successiva). Con il progresso nella diagnosi e nella terapia delle malattie ereditarie, questo processo potrà essere amplificato, comportando probabilmente l'incremento della frequenza di mutazioni che determinano condizioni patologiche di vario grado.
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Con ogni probabilità l'uomo moderno è esistito fondamentalmente con la stessa composizione genetica per 50.000, forse 100.000 anni o più. L'Homo sapiens si trovò a occupare una nicchia ecologica in qualità di cacciatore-raccoglitore e furono favoriti quei cambiamenti evolutivi nel suo codice genetico che ne resero possibile la sopravvivenza. Noi ci ritroviamo dunque a essere adattati a uno stile di vita da cacciatore-raccoglitore, che trova riscontro anche nella nostra vita emotiva e sociale. Gli adattamenti più importanti per la sopravvivenza sono stati quelli relativi all'attività fisica abituale, includendo in questo concetto sia la resistenza sia i picchi di attività alternati a periodi di riposo.
Dopo un intervallo relativamente breve di cultura legata all'agricoltura durato circa 10.000 anni, siamo approdati a una società urbanizzata e altamente tecnologizzata, dominata in molte parti del mondo da uno stile di vita sedentario. Gli sviluppi tecnologici avvenuti negli ultimi cento anni hanno indotto una velocità di cambiamento molto superiore a quella che si è registrata durante i precedenti due milioni di anni di evoluzione dell'uomo. I nostri antenati vivevano in piccole bande di forse 15-30 individui a formare una società di tipo cooperativo, in cui gli individui e l'ambiente interagivano continuamente influenzandosi a vicenda, mentre noi oggi viviamo in enormi città con 10, 15, 20 milioni di abitanti. Molte delle espressioni del comportamento umano che costituivano una risposta adattativamente appropriata alla vita in gruppi numericamente esigui sono divenute impraticabili nelle grandi società moderne; tuttavia un'adeguata comprensione della nostra eredità biologica potrebbe consentirci di modificare l'attuale, in parte autodistruttivo, stile di vita.
La ricerca di cibo richiedeva ai cacciatori-raccoglitori un'attività fisica quotidiana, ed effettivamente il corpo umano è adattato alle necessità di un impegno fisico moderato e regolare. In un individuo giovane e non obeso, il 40% circa della massa corporea è costituito da muscoli scheletrici. Il muscolo scheletrico è l'unico tessuto in grado di innalzare il proprio tasso metabolico fino a cento volte quello di riposo. Per l'omeostasi del corpo è di vitale importanza l'energia fornita dai processi metabolici delle cellule, così come è decisivo un adeguato trasporto di ossigeno ai mitocondri. Durante l'attività muscolare si richiede un aumento di prestazioni al sistema di trasporto dell'ossigeno, cioè alla ventilazione polmonare e alla circolazione sanguigna. Nell'attivazione e regolazione delle varie funzioni intervengono sia il sistema nervoso centrale (SNC) sia il sistema endocrino. Il sistema nervoso centrale è in qualche modo condizionato, nella sua struttura e funzione, dalla necessità di coordinare l'attività muscolare. Esso registra gli impulsi nervosi provenienti dagli organi visivi e vestibolari, dai propriocettori di articolazioni, muscoli e tendini e dalla pelle. Sulla base di queste informazioni il SNC è in grado di coordinare i movimenti. Poiché l'attività muscolare, soprattutto se intensa, coinvolge un elevato numero di strutture e funzioni del corpo, è importante comprendere gli adattamenti che intervengono durante e in seguito all'attività muscolare, che offrono peraltro un esempio delle eccezionali capacità del corpo di adattarsi.
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Lo svolgimento della vita richiede che l'energia chimica presente nelle sostanze nutrienti assunte dall'ambiente possa essere trasformata in una forma di energia utilizzabile da un'ampia varietà di processi biofisici e biochimici necessari per la sopravvivenza. La reazione fondamentale per la produzione di energia è la scissione idrolitica dell'adenosintrifosfato (ATP, Adenosine triphosphate) in adenosindifosfato (ADP, Adenosine diphosphate) e fosfato inorganico (Pi):ATP + H₂O → ADP + Pi + energia.La quantità totale di ATP presente nei muscoli scheletrici è così esigua che può esaurirsi in seguito a uno sprint di pochi secondi. È quindi di estrema importanza che l'ATP venga risintetizzato molto rapidamente e questo processo richiede energia. I due sistemi fondamentali che forniscono l'energia necessaria per la sintesi dell'ATP sono la glicolisi anaerobica, cioè l'idrolisi in assenza di ossigeno dei carboidrati (glucosio e glicogeno) fino a ottenere acido piruvico e acido lattico, e l'ossidazione aerobica, cioè l'idrolisi in presenza di ossigeno di carboidrati, grassi e proteine fino a ottenere anidride carbonica (CO₂) e acqua (H₂O). Le reazioni chimiche di questi processi sono illustrate nella fig. 6. La trasformazione del glicogeno in acido lattico avviene nei muscoli attraverso nove passaggi, ognuno dei quali è catalizzato da un enzima specifico. Altri enzimi intervengono nel ciclo dell'acido citrico e nella catena di trasporto degli elettroni. In un salto della durata di 0,2 s l'ATP è il produttore di energia dominante. La sintesi dell'ATP consumato viene effettuata mediante una combinazione dei processi aerobico e anaerobico. La glicolisi anaerobica è preponderante nei primi 2 min dell'esercizio, ma se il periodo di massimo sforzo viene prolungato la via aerobica prende il sopravvento. Per ciascun litro di ossigeno utilizzato a livello dei mitocondri, si rende disponibile per la sintesi dell'ATP una quantità di energia pari a circa 20 kJ (5 kcal).
Durante un esercizio fisico intenso e prolungato è importante che la produzione di calore sia controbilanciata dalla sua dispersione nell'ambiente circostante al fine di prevenire il surriscaldamento del corpo. Il calore è trasportato dai muscoli in attività verso la superficie del corpo, da dove può essere dissipato per radiazione, conduzione e convezione se la temperatura ambientale è inferiore a quella della pelle. Anche le ghiandole sudoripare presenti nel derma contribuiscono all'eliminazione del calore e al raffreddamento della pelle. Questo processo assume particolare importanza se l'attività fisica si svolge a temperature elevate. Il tessuto muscolare scheletrico è l'unico tessuto in grado di aumentare drasticamente il suo tasso metabolico. Nella maggior parte dell'attività fisica quotidiana il metabolismo è di tipo aerobico, cioè dipendente dal continuo apporto di ossigeno ai muscoli. La fig. 7 illustra il metodo classico impiegato per misurare il consumo di ossigeno durante l'esercizio, mentre la fig. 8 illustra graficamente come esso vari durante l'esercizio su un cicloergometro, se si aumenta il carico di lavoro fino a raggiungere la massima potenza aerobica per l'individuo in esame. Il consumo di ossigeno al di sopra del livello di riposo è dovuto quasi esclusivamente ai muscoli in attività. Nel corso di un impegno fisico di intensità elevata, come per es. nello sport, un aumento della concentrazione di acido lattico nel sangue indica che i processi anaerobici sono intervenuti nella produzione di energia. In questo caso, mentre la ventilazione polmonare e la circolazione sanguigna si adeguano all'aumentata domanda di ossigeno dei muscoli, i processi anaerobici e l'ossigeno legato alla mioglobina (una molecola simile all'emoglobina), e così immagazzinato nei muscoli, contribuiscono alla produzione di energia. La ventilazione polmonare mantiene automaticamente la pressione alveolare dell'ossigeno così elevata che le concentrazioni di ossigeno nel sangue che lascia i polmoni sono praticamente uguali sia durante un'attività intensa sia a riposo. I muscoli in attività estraggono più ossigeno dal sangue che li irrora, così che, a fronte di un aumento di quattro volte della gettata cardiaca (quantità di sangue pompato da ciascun ventricolo in un minuto), il consumo di ossigeno cresce di dieci volte. Durante l'esercizio si ha conseguentemente un aumento della differenza arterovenosa di ossigeno. L'incremento della frequenza cardiaca, piuttosto che quello della gettata sistolica (quantità di sangue pompata dal cuore a ogni battito), è responsabile dell'innalzamento della gettata cardiaca.
Le sostanze che forniscono la maggior parte dell'energia necessaria per la sintesi dell'ATP sono i lipidi e i carboidrati; tra questi ultimi il glicogeno, immagazzinato nei muscoli, rappresenta la fonte principale.
Durante l'esercizio fisico l'attività del sistema nervoso simpatico aumenta, proporzionalmente all'intensità dell'esercizio. Questo aumento determina una ridistribuzione del flusso ematico, garantendo un maggiore apporto di sangue alla massa muscolare attiva. Si osserva infatti vasocostrizione a livello dei reni, del tratto gastrointestinale e dei muscoli scheletrici, mentre nei muscoli in attività si nota, come risultato dell'aumentato metabolismo, una vasodilatazione. Il rapporto tra consumo di ossigeno e gettata cardiaca si mantiene notevolmente costante.L'attività del sistema nervoso simpatico stimola il tessuto adiposo a rilasciare acidi grassi, che si rendono così disponibili come substrato per il metabolismo muscolare. Durante un esercizio moderato e di breve durata (10 min), gli acidi grassi costituiscono circa il 50% del substrato ossidato, essendo il rimanente rappresentato da carboidrati, principalmente glicogeno. Le proteine forniscono una quantità di energia praticamente trascurabile all'apparato contrattile. Durante un esercizio prolungato si assiste a un graduale aumento della percentuale di energia prodotta a partire dagli acidi grassi finché la potenza aerobica si mantiene al di sotto del 70% circa del massimo individuale. Con l'aumentare del carico di lavoro, l'ossidazione dei carboidrati diventa via via predominante, finché non viene raggiunta la potenza massimale aerobica, durante la quale i carboidrati costituiscono l'unico substrato ossidato. Oltre questo valore la glicolisi anaerobica, di cui l'acido lattico è il prodotto finale, rimane l'unico sistema per fornire l'ulteriore energia necessaria per risintetizzare ATP. La fig. 9 illustra schematicamente come la gettata cardiaca, la gettata sistolica, la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa massima varino all'aumentare dell'intensità dell'esercizio per assicurare un adeguato rifornimento di ossigeno.
Nel corso di questo secolo molti ricercatori si sono chiesti quale momento del processo di trasferimento e di utilizzazione dell'ossigeno, dalla sua assunzione dall'ambiente fino ai mitocondri nei muscoli scheletrici, fosse il fattore limitante, prendendo di volta in volta in considerazione la ventilazione polmonare, il trasporto dell'ossigeno dai polmoni ai mitocondri e la quantità di enzimi nei mitocondri. Oggi si ritiene generalmente che il fattore limitante sia rappresentato dalla gettata cardiaca, che porrebbe un tetto al consumo massimale di ossigeno durante esercizi in cui sono coinvolte grandi masse muscolari.In soggetti sani e con un apporto sufficiente di nutrienti, la concentrazione di emoglobina (Hb, Hemoglobin) nel sangue e, quindi, il contenuto di ossigeno nel sangue arterioso presentano valori relativamente simili negli uomini e nelle donne; nelle donne sono in media inferiori circa del 12%. Più importanti nel determinare il consumo massimale di ossigeno sono i valori della gettata sistolica e, dunque, della gettata cardiaca. Né la frequenza cardiaca massima né la concentrazione di emoglobina variano significativamente con il variare dell'intensità dell'attività abituale, mentre la gettata cardiaca si adatta rapidamente sia all'allenamento sia a uno stile di vita sedentario.
3.
La capacità adattativa dell'organismo umano gli assicura la normalità di funzioni anche in presenza di mutamenti delle condizioni ambientali. Così, per es., l'organismo è in grado di rispondere all'esposizione al caldo o al freddo, sia breve sia per periodi ripetuti e prolungati, con opportuni adattamenti fisiologici, mantenendo relativamente stabile la temperatura corporea interna (v. termoregolazione). Analogamente, l'esposizione acuta a una ridotta concentrazione di ossigeno nell'aria inspirata (ipossia), quale si verifica ad alta quota, provoca di riflesso un aumento della ventilazione polmonare (v. montagna). Un adattamento degno di nota si verifica quando una persona che è stata per un certo tempo in un ambiente ben illuminato si sposta in uno scarsamente illuminato. La retina si adatta lentamente all'oscurità aumentando la sua sensibilità alla luce. Il massimo dell'adattamento è completato in tempi differenti dai due diversi tipi di recettori sensibili alla luce presenti nella retina: i coni e i bastoncelli. Sono necessari circa 5 minuti per i coni presenti nel centro della retina (fovea) e circa 15 per i bastoncelli situati nella parte più periferica della retina. Facendo ritorno in un ambiente ben illuminato, la sensazione di eccessiva luminosità scompare entro circa 5 minuti, grazie al regredire dell'adattamento all'oscurità. Un altro tipo di adattamento si riferisce all'adeguamento delle risposte sensoriali di fronte alla ripetizione dello stimolo. Ne può essere un esempio la capacità di alcune persone di ignorare totalmente il ticchettio di una pendola, pur mantenendo la possibilità di riportare l'attenzione sul rumore in qualsiasi momento. Infine è una forma di adattamento anche l'abbronzatura della pelle in seguito all'esposizione ai raggi ultravioletti. Essa dipende dalla proliferazione delle cellule del derma (melanociti) responsabili della produzione di pigmento, che ha luogo circa 24 ore dopo l'esposizione.
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