Baghdad, addio
«Provvisoria e instabile stabilità»: così è stata definita la situazione politica e sociale dell’Iraq. Dopo il ritiro militare degli USA, non c’è stato il temuto peggioramento. Ma continuano a dominare corruzione, lotte tra fazioni, rivendicazioni autonomistiche.
Il ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq a fine 2011 è stata la diretta conseguenza del mancato rinnovo dell’accordo in scadenza fra i due governi (il cosiddetto SOFA, Status of Forces Agreement).
Il timore che ciò avrebbe avuto un pesante impatto sulla sicurezza del paese si è fortunatamente rivelato (almeno in parte) infondato. I dati disponibili sugli attentati, attacchi e uccisioni mirati non si discostano infatti significativamente dall’anno precedente, a testimonianza della sostanziale tenuta delle forze di sicurezza irachene (ISF) nel gestire in maggiore autonomia il controllo del territorio. Al contrario, emergono segnali di preoccupante aumento delle tensioni e delle violenze nel Centro-Nord dell’Iraq, quale effetto del peggioramento del clima politico fra il governo centrale iracheno (GoI) e il governo provinciale del Kurdistan (KRG). Nelle aree contese, vengono segnalate continue frizioni fra i contingenti ISF e i peshmerga (le milizie curde).
Di fatto, la fine della presenza militare statunitense ha favorito una riduzione degli attacchi dei movimenti jihadisti, qaedisti o delle milizie sciite radicali, dato che ha tolto loro uno degli obiettivi privilegiati dei loro attacchi. L’organizzazione di importanti eventi internazionali a Baghdad (vertice della Lega Araba, riunione del gruppo internazionale che tratta con l’Iran sul nucleare) è stata un successo per il governo anche dal punto di vista della sicurezza, con i gruppi terroristici incapaci di colpire in modo significativo. Tuttavia, si è anche assistito alla ripresa di fenomeni etno-settari nelle file delle forze di sicurezza, con il ritorno, ad esempio, di ‘parate’ nelle città o nelle aree contese da parte di milizie legate a gruppi religiosi, etnici o a partiti. La fragilità del senso di appartenenza nazionale è testimoniata anche dall’enfasi con cui si sottolineano i pericoli derivanti dalle cosiddette ‘fedeltà multiple’ (ossia, la forza dei legami settari tra militari è al di sopra della fedeltà costituzionale) e dalla necessità di aumentare la professionalità dei vertici delle forze armate.
Il ritiro statunitense ha altresì favorito il passaggio di militanti armati dai gruppi della guerriglia alle bande di criminali comuni, responsabili di assassini su commissione e, soprattutto, di rapimenti per estorsione, un fenomeno difficilmente quantificabile ma dato in forte aumento e che diffonde un clima di insicurezza nella società irachena. Il limite maggiore di questa fase ‘post-statunitense’ è rappresentato dalla crisi del sistema politico; una crisi ormai sclerotizzata in una sterile contrapposizione fra gruppi di interesse, partiti, singoli attori politici, tutti incapaci di trovare una soluzione di compromesso che permetta di evitare la paralisi del Consiglio dei rappresentanti (il Parlamento) e delle commissioni incaricate di risolvere gli annosi problemi dell’Iraq post-Saddam (aree contese fra arabi e curdi, la ripartizione dei proventi del petrolio, la revisione della costituzione frettolosamente approvata nell’ottobre del 2005, la piena re-inclusione della minoranza sunnita).
Il primo ministro Nuri al-Maliki è sempre più spesso accusato di voler trasformare il suo governo in un regime dittatoriale ed è considerato dalla quasi totalità degli altri movimenti politici la causa primaria dello stallo politico e dell’impossibilità di completare le nomine dei ministeri più importanti (Interni, Intelligence, Difesa), ancora vacanti dal 2010.
L’alleanza curda, il partito nazionalista Iraqiyya (vicino alle posizioni dei sunniti) e gli sciiti radicali di Muqtada al-Sadr hanno minacciato ripetutamente di sfiduciare il primo ministro in Parlamento. Sfiducia che tuttavia non si è finora concretizzata, anche per il timore che possa esplodere una crisi costituzionale incontrollata. Il dato strutturale dell’instabilità, al di là dei fattori contingenti e delle rivalità personali, è evidentemente dato dalla difficoltà di integrare nel discorso politico iracheno obiettivi e percezioni antitetici: il concetto di federalismo sostenuto dal KRG appare, agli occhi del governo centrale, null’altro che un’indipendenza mascherata.
Per molti sunniti, i programmi di re-inclusione di questa minoranza nel quadro istituzionale iracheno sono parziali e deficitari, mentre agli occhi di molti sciiti essi appaiono delle concessioni eccessive a una minoranza che per decenni ha monopolizzato il potere e che è stata responsabile di sistematiche violenze ai loro danni. Al di sotto di queste linee di frattura, vi sono poi le influenze negative dei vari paesi confinanti, i quali cercano di interferire per rafforzare questo o quel movimento, ovvero per mantenere l’Iraq in una situazione di fragilità e di precarietà. Al fine di rafforzare la propria immagine di attore regionale ormai stabilizzato, il GoI – nei primi mesi del 2012 – ha organizzato i già ricordati eventi internazionali, i cui risultati in termini diplomatici, pur modesti, hanno permesso di riallacciare dei contatti con i paesi arabi del Golfo (i più critici verso il ‘nuovo Iraq’).
In un contesto così difficile di «provvisoria e instabile stabilità», come è stato efficacemente definito, assume allora grande importanza la crescita dell’economia quale fattore di stabilizzazione sociale. Anche qui, il quadro è a tinte contrastanti: da un lato l’aumento della produzione petrolifera fornisce a Baghdad crescenti risorse finanziarie; dall’altro lato, perdurano la cattiva gestione dei fondi statali, i ritardi nella ricostruzione delle grandi opere infrastrutturali (gli iracheni devono ancora oggi far fronte a serie limitazioni nelle forniture di acqua ed energia) e soprattutto la dilagante corruzione che, a ogni livello, esemplifica l’inadeguatezza della nuova classe politica, generando un pericoloso clima di insoddisfazione e frustrazione.
Un ritiro ‘strategico’
Il disimpegno militare americano dall’Iraq, promesso da Obama in campagna elettorale, è un evento non privo di implicazioni strategiche a livello globale e in particolare nello scacchiere asiatico. Ridurre la presenza militare statunitense in Medio Oriente significa infatti liberare risorse, umane e materiali, per altre aree ritenute prioritarie, a partire dal Pacifico. Non è casuale che il ritiro dall’Iraq coincida con l’invio di unità militari in Australia e con lo sviluppo di dottrine di guerra aeronavale - in evidente funzione anticinese. Se le forze militari americane sono malviste in un paese reduce da otto anni di occupazione, non è così per gli Stati del Sud-Est asiatico dove la presenza degli Stati Uniti rappresenta una sicurezza contro le mire espansionistiche, anche territoriali (come nel Mar Cinese Meridionale), di una Cina in costante ascesa economica e militare.
Politica e settarismo
Le inclinazioni ‘settarie’ di molti politici iracheni sono apparse con evidenza non solo nelle scelte politiche interne, ma anche in quelle internazionali.
Il governo di Nuri al-Maliki è stato ad esempio l’unico, insieme a quello iraniano, a sostenere il regime di Bashar al Assad in Siria contro la ribellione in corso sin dal 2011. Un sostegno spiegabile con il fatto che al-Maliki è sciita (così come il governo teocratico iraniano) e che gli alawiti sono una setta sciita eterodossa, cui si oppone una rivoluzione prevalentemente sunnita nelle cui file militano anche jihadisti iracheni e di altri paesi, gli stessi che si sono distinti, negli anni precedenti, per le stragi di sciiti iracheni (spesso perpetrate da attentatori giunti nel paese attraverso la Siria).
Le parole
■ Pathani (anche pashtun). Gruppo etnico-linguistico che abita la regione del Pashtunistan fra l’Afghanistan meridionale e orientale e il Pakistan.
■ Peshmerga. Termine che indica i guerriglieri curdi e i pathani in Afghanistan.
■ Sadrista. Movimento di combattenti, il cui nome deriva da Muqtada al-Sadr, loro leader, che divenuto partito ha ottenuto 40 seggi in Parlamento alle elezioni di marzo 2010.
Lo spettro della guerra civile
L’eventualità che esplodano violenze su larga scala tra sciiti, sunniti e curdi in un Iraq non più occupato dall’esercito americano non si è, per ora, verificata. Tuttavia, lo spettro della guerra civile viene evocato dagli attentati che scuotono il paese con frequenza quasi mensile, richiamando i fantasmi del 2006-07 quando sunniti e sciiti si affrontarono in una guerra civile a bassa intensità poi tenuta faticosamente sotto controllo con strumenti militari e politici dal governo iracheno e dalle autorità militari americane.