Addis Abeba
Nata per essere capitale
Addis Abeba fu fondata perché diventasse la capitale moderna di un impero africano che voleva a sua volta diventare moderno. Ma la città non è potuta sfuggire allo stravolgimento prodotto dal colonialismo prima e dal sottosviluppo poi, e oggi fa un po' pensare a un lavoro lasciato a metà.
Addìs Ababa, come si chiama in amarico (una delle lingue etiopiche più diffuse), e cioè "nuovo fiore", è il nome che l'imperatore di Etiopia Menelik II, già re dello Scioa ‒ uno dei regni etiopici più importanti ‒, scelse per questa città quando, nel 1889, decise di fondare una nuova capitale, più ampia e moderna della precedente. Capitale dello Scioa era stata fino allora la città di Entotto, non lontana da Addis Abeba. Entotto era una città africana di tipo tradizionale, cioè piuttosto un grande villaggio rurale che una città come si può immaginarla in Europa: quasi non aveva abitazioni in muratura ed era un insieme di gruppi di capanne; non aveva vere strade o piazze, ma sentieri e slarghi; era un po' campagna e un po' mercato e i viaggiatori dell'Ottocento la descrivono piena di animali al pascolo.
Quando dunque Menelik divenne imperatore di Etiopia, lasciò la vecchia capitale e volle fondarne una nuova, grande e razionale, 'all'europea'. Venne scelto un terreno abbastanza pianeggiante, ma sempre sull'altopiano: l'Etiopia, del resto, si estende su un altopiano molto elevato e Addis Abeba (2.400 m sul livello del mare) è la capitale africana a più alta quota. Su una collina fu costruito il ghebì, cioè il palazzo dell'imperatore, che ancora oggi è il punto di riferimento più evidente della città. Sia per rendere più gradevole e salubre il luogo, sia per avere a disposizione molto legname da ardere, per cucinare e per scaldarsi, venne piantata una vera e propria foresta di eucalipti: alberi australiani, non africani, che furono importati appositamente perché crescono con molta rapidità (quindi producono molta legna in poco tempo); all'epoca, poi, si pensava che fossero una difesa contro le zanzare che trasmettono la malaria. In buona parte gli eucalipti esistono tuttora, anche se la città ormai ha circa 2.500.000 abitanti e si è ampliata molto oltre i margini della foresta.
Per governare la rapida crescita della città, fra la Prima e la Seconda guerra mondiale si pensò di adottare un piano regolatore, scelto con un concorso internazionale, ma l'occupazione italiana dell'Etiopia (1935) impedì che quel piano venisse applicato. Furono così modificate le destinazioni dei quartieri e le direttrici dello sviluppo edilizio della città. Intorno al ghebì, per esempio, che era isolato e in posizione dominante, furono costruiti uffici, scuole, le residenze dei funzionari coloniali, mentre la piazza del Grande mercato, aperta dagli Italiani, finì per diventare un centro alternativo rispetto al ghebì, attirando il traffico e le attività commerciali. L'aspetto monumentale della città, tuttavia, non venne compromesso. Anche grazie alla lunga e prestigiosa storia dell'Etiopia, Addis Abeba rappresenta per gli Africani una specie di città-simbolo; tanto che, per esempio, fu scelta come sede dall'Organizzazione per l'unità africana (oggi Unione Africana).
Soprattutto negli ultimi tre decenni del Novecento, Addis Abeba ha avuto uno sviluppo improvviso: ancora nella metà degli anni Sessanta non arrivava a mezzo milione di abitanti; ma poi centinaia di migliaia di persone si riversarono nella capitale, abbandonando le regioni più colpite da una serie di gravi carestie e dalle guerre che coinvolsero il paese (contro la vicina Somalia, contro gli indipendentisti eritrei, tra le stesse popolazioni etiopiche). Con l'arrivo inaspettato di così tanti nuovi abitanti, come molte altre grandi città africane anche Addis Abeba si è trovata circondata da poverissimi quartieri di baracche e capanne (bidonvilles), privi dei servizi essenziali e di attività economiche, dalle condizioni igieniche malsane, spesso ricavati in aree agricole molto lontane dal centro della città.