Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Per la radicale novità della sua opera Adolf Loos, cresciuto in Europa ma amante dell’America e dalla cultura anglosassone, è spesso considerato il primo degli architetti moderni. Nel cuore di un passaggio culturale e storico unico quale la Vienna fin de siècle, Loos propone una sintesi teorica e concreta che sarà modello per molti autori del Novecento.
Il viaggio in America (1894-1897) e il ritorno in Austria
Nel 1897, dopo tre anni passati in America, Adolf Loos rientra a Vienna profondamente trasformato. Aveva intrapreso quel viaggio dopo il servizio militare con grandi difficoltà economiche; si era mantenuto facendo il lavapiatti e occasionalmente il giornalista. A Philadelphia lo aveva ospitato uno zio paterno, mentre a Manhattan – riferisce Richard Neutra – occupa lo scantinato di un sarto ebreo. Era partito sostenendo di voler visitare l’Esposizione colombiana di Chicago, ma non sappiamo chi avesse incontrato e conosciuto, quali architetture avessero affascinato il futuro architetto. Sulla via del ritorno, si ferma a Parigi e a Londra, dove rimane conquistato dallo spirito pratico, dai modi eleganti e poco edonistici dei suoi rappresentanti. Ha ragione Jules Lubbock nel vedere in lui un nuovo Beau Brummel che, tentando un parallelo fra architettura e sartoria, aveva incorporato il dandismo nella moderna concezione dell’architettura del XX secolo.
Diverse e discontinue le sue relazioni coniugali: sposa Lina Obertimpler; poi Bessie Bruce, ballerina di cake walk conosciuta in un locale viennese (nel 1927 progetterà una casa a Parigi per Josephine Baker); poi ancora Elsie Altmann che ne curerà una biografia postuma (1968) e infine, poco prima di morire, Claire Beck. La fascinazione per la società anglosassone può cogliersi in una serie di articoli apparsi, tra il 1897 il 1900, sul “Neue Freie Press”, che gli procurano grande notorietà fra il pubblico viennese: “C’è ancora nel nostro tempo, qualcuno che lavora alla maniera dei Greci? Oh sì! Gli Inglesi come popolo, gli ingegneri come categoria. Gli Inglesi, gli ingegneri sono i Greci dei nostri giorni. A loro dobbiamo la nostra cultura. Essi sono gli uomini perfetti del XIX secolo [...]” (Vetro e argilla, 1898). In questi scritti Loos dà sfogo a un sentimento moralistico verso la moderna società austriaca. Nel 1903, in allegato alla rivista “Kunst” di Peter Altenberg, Loos pubblica due numeri di “Das Andere” (“L’altro”) con un sottotitolo assai provocatorio: “Giornale per l’introduzione della civiltà occidentale in Austria”. Bersaglio delle sue critiche è il nascente movimento secessionista guidato da Wagner, il vate dell’architettura viennese fin de siècle. Ribaltando la concezione wagneriana, secondo la quale un oggetto poco funzionale non può definirsi bello, Loos afferma che “tutto ciò che è pratico è bello” (Das Praktische ist schön). Wagner (Moderne Architektur, 1895) aveva predicato l’abbandono e la rottura con le tradizioni stilistiche fondate sull’imitazione del passato, in nome di un’architettura di altissimo livello professionale, e sostenuto che gli artigiani andassero liberati dal passato e rieducati alle nuove forme del moderno ispirate a un ideale naturale. Loos, figlio di un marmista, condanna tale presunzione rivendicando invece il sapere manuale degli artigiani, forti della tradizione e della storia: “io so che sono un artigiano che deve servire gli uomini del suo tempo”. Il formalismo secessionista ha generato un grave fraintendimento, sembra sostenere Loos: l’architettura e l’artigianato avrebbero dimenticato la ragione della loro natura, e perso i loro scopi reali pretendendo di dover essere portatori di un messaggio superiore.
Loos detesta i grafismi compiaciuti dei secessionisti e forse anche per questo non ama disegnare: “Il miglior disegnatore può essere un cattivo architetto, il miglior architetto può essere un cattivo disegnatore. Già nella scelta della professione di architetto viene richiesto il talento per l’arte grafica. Tutta la nostra nuova architettura è inventata alla tavola da disegno, e i disegni che ne risultano trovano poi una rappresentazione plastica, come i quadri al museo delle cere. Per gli antichi maestri invece il disegno era soltanto un mezzo per farsi capire dall’artigiano esecutore” (Architettura, 1912).
Nel suo più celebre scritto, Ornamento e delitto (1908), non è l’ornamento in genere a essere condannato, ma l’ornamento art nouveau di Henry van de Velde, quello secessionista di Joseph Olbrich, che considera privi di senso; ciò peraltro non significa che egli sostenga un nuovo ideale estetico basato sull’assenza di ornamenti, come spiegherà più tardi: “Io però non ho mai sostenuto, come ad absurdum hanno fatto i puristi, che l’ornamento debba venir eliminato in modo sistematico e radicale. Però, dove le esigenze stesse del tempo lo hanno escluso, là non è più possibile reintrodurlo. Così come l’uomo non ricomincerà mai più a tatuarsi il volto” (Ornamento ed educazione, 1924). Si può essere decorativi – sembra dire Loos e con lui qualche decennio più tardi Mies van der Rohe – senza compiacersene, come insegnava l’antichità che costituirà sempre il termine di paragone più alto della sua prosa: “Ogni volta che con i mediocri e i decoratori l’architettura si allontana dal suo modello, ricompare il grande architetto a riportarli all’antichità [...]”.
Idee all’opera
L’accento classicista del suo primo edificio, la Villa Karma (1903-1906) a Clarens vicino a Montreux, è emblematico in tal senso. Sebbene non interamente autografo del nostro, che subentra a Henri Lavanchy e al quale succederà Hugo Ehrlich, l’edificio reinterpreta il tipo della villa antica secondo le contemporanee ricostruzioni ottocentesche. Una di queste, proposta all’Esposizione Universale di Parigi nel 1889, condivide con Villa Karma diversi elementi: il basamento leggermente aggettante e soprattutto la terminazione angolare con altana. Forse Loos conosce il progetto per una Maison de campagne (1773) di Claude-Nicolas Ledoux con quattro torri angolari terminate da un tetto piano aggettante. Altri elementi dell’esterno rimandano a precedenti del classicismo tedesco: il colonnato d’ingresso è ripreso da Loos nei progetti per le ville Konstandt a Olomouc in Moravia (1919), von Simon a Vienna (1924) e per il Palazzo Bronner a Vienna (1921), mentre il camminamento pergolato può forse derivare dal castello di Charlottenhof a Potsdam-Sanssouci (1826-1829) di Karl Friedrich Schinkel che Loos definisce “il grande modellatore della fantasia” (Vecchi e nuovi orientamenti nell’architettura, 1898) – soluzione cara a Le Corbusier che la impiegherà nelle sue ville Jeanneret e Schwob alla Chaux-des-Fonds.
Il monumentalismo plastico di Villa Karma torna in un progetto per una casa di campagna degli stessi anni (1905-1906) e in altri studi per una villa con bow-window rotondi (1919 ca.) e, ancora, in alcuni schizzi per un teatro da erigere a Vienna (1900-1912) la cui un’ultima proposta prevede un tetto a piramide gradonata (1912-1913), soluzione ripresa per il monumento funerario a Max Dvorák (1921). Anche gli interni di Villa Karma, con sottili lastre di marmi diversi, fregi, cornici e soffitti cassettonati si riallacciano a una più estesa tradizione classica.
Loos è in grado di conferire monumentalità anche a spazi estremamente angusti, come il Kärntner Bar a Vienna (1907), nel quale un uso intelligente degli specchi sui tre lati del bar amplifica l’impressione dello spazio interno: collocati su un alto basamento, gli specchi riflettono il soffitto ligneo, ma non le persone nel locale, in modo da non rivelare immediatamente l’artificio illusionistico.
Nel negozio Knize a Vienna (1913) è la vetrina d’ingresso il punto nodale sul quale si concentrano le attenzioni dell’architetto: un elegante portale in granito nero lucido di Svezia definisce, con i suoi smussi angolari rotondi, un invito che rimanda al vestibolo bombato di Villa Karma, soluzione che diventerà una sorta di firma loosiana, ripresa pochi anni dopo da Le Corbusier nel soggiorno di Villa Schwob.
Continuità e modernità
Il primo edificio interamente concepito da Loos, la casa nella Michaelerplatz a Vienna (1909-1911), costruita per le sartorie Goldman e Salatsch, subisce attacchi violentissimi da parte della stampa e dell’opinione pubblica, provocando l’intervento delle autorità municipali. Si parla addirittura di bandire un concorso per rifare la facciata, fortunatamente scongiurato dalla ferma opposizione dei migliori rappresentanti della cultura viennese, fra cui Karl Kraus. S’imputa a Loos di avere tradito la tradizione architettonica viennese, ma lui ribatte: “Ogni parola che capita di leggere a lode della nostra vecchia città, per la salvezza della sua immagine che sta scomparendo, trova in me certamente un’eco assai più profonda che in molti altri. Che io però, proprio io, abbia potuto essermi reso colpevole di un delitto perpetrato su quest’antica immagine della città, un rimprovero del genere mi colpisce più duramente di quanto molti non crederebbero. Eppure avevo progettato la casa in modo che si inserisse quanto più possibile nella piazza [...] Ho sempre avuto l’illusione di aver risolto questo problema nel senso dei nostri vecchi maestri viennesi!” (Una lettera sulla casa della Michaelerplatz, 1910). L’edificio insiste sulla piazza in modo da completarne il disegno. I modi seguono quelli della tradizione costruttiva locale: la bipartizione di facciata, sebbene proposta nelle linee di un classicismo essenziale e quasi disadorno, riprende infatti il fronteggiante palazzo imperiale della Hofburg di Fischer von Erlach. L’alto basamento, in marmo cipollino, ospita sui due livelli i magazzini; la parte superiore, intonacata a calce bianca come “le vecchie case viennesi”, è adibita a residenze. Il basamento, a sua volta bipartito da un semplice architrave in ferro, presenta un registro inferiore più alto, scandito da marmoree colonne doriche di memoria schinkeliana (ricordano quelle dell’Altes Museum) e uno superiore più basso, finestrato a bow-window secondo un motivo locale. Ai lati la bipartizione del basamento è invertita (più bassa è la fascia inferiore), mentre il motivo della finestra ritorna ma incorniciato da colonne libere. Nella parte superiore abitativa le aperture vengono fortemente semplificate rispetto alla fascia commerciale. Le fioriere, che diminuiscono salendo, vengono inserite in seguito delle proteste dei viennesi e costituiscono l’unico elemento ornamentale assieme al cornicione sommitale la cui modanatura appuntita replica quello del vicino palazzo di Fischer von Erlach (a sua volta debitore del borrominiano palazzo di Propaganda Fide).
L’interno, uno dei primi loosiani, sarà distrutto dai nazisti nel 1938 e ricostruito nel 1990, sulla scorta di alcuni disegni autografi, in occasione di una grande mostra antologica sull’architetto. Qui, per la prima volta, Loos mette in opera la sua rivoluzionaria concezione spaziale, il Raumplan, o piano spaziale, mutuandolo dalla cultura anglosassone, in parte ispirato alla pianta delle case di campagna inglesi. Egli ritiene che gli ambienti debbano avere altezze differenti a seconda della loro destinazione e che pertanto non possano stare in un unico piano, ma debbano fondersi in piani diversi. Partendo dall’interno Loos ottimizza la scatola edilizia eliminando inutili pareti divisorie, corridoi e ricavando gli arredi nei vani dei muri. Ciò consente “un risparmio di spazio colossale” per il fatto che a parità di volume si può ottenere una maggiore superficie abitabile.
La facciata e l’interno
La complessità degli interni loosiani non è assolutamente traducibile attraverso piante e sezioni, mentre si caratterizza da continui, spesso impercettibili, cambi di quota. Tale concezione prende una forma compiuta in un complesso di case costruite a Vienna, Parigi, Praga fra il secondo e il terzo decennio del secolo. Inizialmente la priorità dell’interno si riflette all’esterno, come si evince da una disposizione delle finestre che trascura provocatoriamente l’esigenza compositiva delle facciate. La varietà degli affacci interni viene portata all’esterno impiegando profili gradonati a terrazza (Casa Scheu, Vienna 1912; Villa Müller, Praga 1928-1930) – anticipatori dei tetti percorribili di Le Corbusier – e coperture curve in lamiera (Case Steiner, Vienna, 1910; Casa Horner, Vienna, 1913). Nel corso degli anni Loos cerca un punto d’equilibrio, ristabilendo nelle fronti d’ingresso una disposizione simmetrica nei rapporti fra pieni e vuoti (Casa Tzara, Parigi, 1925; Villa Moller, Vienna, 1927-1928; Villa Müller Praga, 1928-1930). Se si escludono le sobrie siedlung operaie viennesi la nuda plasticità degli esterni loosiani appare non meno rivoluzionaria dei suoi interni, contravvenendo al suo proposito per cui, “l’esterno della casa”, come un abito, non debba “dar nell’occhio”.
Nel 1922 Loos partecipa al concorso per il “Chicago Tribune”, vinto dal modesto progetto di Raymond Hood e J.M. Howells. Dichiarando di essersi attenuto rigorosamente alle richieste del bando, che richiedono di erigere “il più bello e riconoscibile edificio per uffici nel mondo”, concepisce una colonna gigante che sarebbe diventata il simbolo di Chicago. Sceglie un motivo rimasto inalterato nei secoli, una colonna dorica che nella sua classica tripartizione (basamento, fusto e capitello) traduce perfettamente le parti del grattacielo americano: “La grande colonna dorica sarà costruita. Se non a Chicago, in qualche altra città. Se non per il ‘Chicago Tribune’, per qualcun altro. Se non da me da un altro architetto”. Era un’idea grandiosa che ancor oggi suonerebbe appropriata alla megalomania e all’appropriazione incolta dell’antico, non solo americana.
Una complessa eredità
Adolf Loos, con Otto Wagner e il movimento secessionista, è espressione di quello straordinario crepuscolo dell’arte austriaca che Bruno Bettelheim ha ben stigmatizzato nella Vienna di Freud, dove il rapporto con la tradizione del mestiere e dello stile fonda le proprie radici nel dramma e nella consapevolezza di un’epoca al tramonto. Otto Wagner aveva colto il problema teorico della nuova architettura, ma non era riuscito a metterlo compiutamente in pratica. La polemica inscenata da Loos contro l’ornamento appare un po’ scontata e molte delle sue argomentazioni tradiscono il debito contratto, come lui stesso ammette fra le righe dei suoi scritti, con le idee di Gottfried Semper. Anche Olbrich e Hoffmann, i professori secessionisti tanto criticati, propongono negli stessi anni una semplificazione classicista basata su superfici piane con minimi ricorsi a risalti decorativi (a titolo esemplificativo si confronti la Villa Karma con il coevo Sanatorio di Purkersdorf realizzato da Hoffmann fuori Vienna).
Considerato un precursore di molte idee del movimento moderno la lezione di Loos è stata spesso equivocata. La sua idea di modernità è alternativa a quella delle avangardie del Novecento. Pur muovendo dai medesimi presupposti dei modernisti il fine è del tutto antitetico: egli non crede nella possibilità di rifondare una nuova società tramite una nuova architettura poiché è convinto non sia possibile alcun riscatto sociale tramite l’architettura. Nulla appare a lui più lontano dell’idea del nuovo come valore; ragione per cui l’architettura non può in alcun modo identificarsi con l’invenzione formale.
In ciò probabilmente risiede l’insegnamento più attuale di Adolf Loos, che ha interessato, anche in anni recenti, architetti come Aldo Rossi al quale si deve una delle analisi più penetranti della sua opera (“Casabella”, 233/1959) oltre a un continuo tributo nelle sue architetture.