WILDT, Adolfo
– Nacque il 1° marzo 1868 a Milano, primogenito di sei figli di Adamo, custode di palazzo Marino, di lontane origini svizzere, ma milanese da generazioni (il nonno di Adolfo aveva combattuto nelle Cinque giornate di Milano, nel 1848). Nulla è noto riguardo alla madre.
Lasciata la scuola a nove anni, dopo vari mestieri di apprendistato manuale (come barbiere, orafo, quindi marmista), entrò a undici anni nella bottega dello scultore Giuseppe Grandi; a tredici passò in quella di Federico Villa, dove imparò veramente ad affrontare il marmo, «lavorando più di trivella e di lima che non di scalpello» (Carpi, 1931), e negli anni 1885-86 seguì un corso di disegno e figura presso l’Accademia di Brera, dove ebbe come docenti Francesco Barzaghi e Ambrogio Borghi, ma studiò soprattutto i maestri antichi, conosciuti attraverso le riproduzioni fotografiche (formazione e immaginario visivo che determinarono le sue scelte linguistiche, nell’accentuazione del chiaroscuro in scultura). Lavorò in questi anni come finitore con diversi scultori lombardi, molto richiesto per la sua perizia tecnica (venne soprannominato l’oregiatt per il virtuosismo con cui scolpiva gli orecchi).
Nel 1891 sposò Dina Borghi, dalla quale ebbe i tre figli Artemia, Francesco (v. infra) e Alma. Con l’opera Vedova (Atte) partecipò nel 1893 alla sua prima mostra, organizzata dalla Società per le belle arti di Milano, ed eseguì la sua prima scultura funeraria, il Monumento della famiglia Losa (Cimitero di Vigevano). Nel 1894, alla II Triennale di Brera, conobbe Franz Rose, un ricco proprietario terriero prussiano, che diventò suo amico e mecenate: quell’anno firmò con lui un contratto in cui gli garantiva la prima copia di tutte le sue opere, in cambio di uno stipendio annuo di 4000 lire. Tali opere erano destinate alla residenza di Rose a Döhlau, una villa-museo arricchita da opere simboliste e copie dall’antico: Wildt eseguì per lui copie da opere egizie, ellenistiche, da Donatello, Mino da Fiesole, Desiderio da Settignano, e molte opere ora mutilate o distrutte.
Così descrisse egli stesso il rapporto con Rose: «L’unica preoccupazione del mio amico fu quella d’infondermi serietà nella mia arte, forza, forza e profondità di studi in ogni mia opera che creavo, non cercò, pur amandomi come un figlio, di evitarmi il dolore. Cercò con ogni mezzo di impedire che le mie opere risentissero dell’ambiente artistico in cui vivevo, e mi tenne lontano da tutti con una gelosia strana, che se fu per me un bene fu anche in un certo qual modo un grande male» (Siviero, 1931).
Nel 1895 presentò la Martire alla mostra annuale al Glaspalast di Monaco, vincendo una medaglia d’oro, e soggiornando una prima volta in Germania.
Nel 1900 aprì uno studio in corso Garibaldi 97 a Milano ed espose alla Secessione di Monaco L’uomo che tace. In questi anni, grazie al sostegno di Rose, espose con regolarità a Monaco (1895, 1900, 1902), Berlino (1896, 1901), Dresda (1904), rimanendo pressoché inosservato in patria. L’unico a notarlo fu Gian Pietro Lucini, che vide il suo Uomo che tace e Impressioni di un vecchio, esposti alla IV Triennale di Brera del 1900.
Nel 1904, in seguito alla sua partecipazione alla Grosse Kunstausstellung di Dresda, uscirono i primi scritti dedicati alla sua opera, a firma del critico Max von Bieberstein. Nel 1907 realizzò alcune copie dall’antico per la villa del collezionista Hermann Messtorff a Pallanza.
Gli anni dal 1906 al 1908 vennero descritti dall’artista come un periodo di impotenza e insoddisfazione creativa, come una «notte mentale» che lo tormentò «fino a rasentare la follia» e lo portò a distruggere e mutilare le opere a cui lavorava (tra cui il gruppo dei Parlatori, ridotto a un’unica figura progressivamente amputata di parte della testa, di un braccio e delle gambe): «Intorno a me si era fatto il vuoto. Nel mio studio, ovunque io mettessi le mani, nasceva la rovina. M’ero smarrito, non riuscivo a trovarmi. Passavo intere settimane chiuso nel mio studio, dormendo per terra, crocifisso al mio tormento» (Wildt, 1928, p. 121). Riuscì a elaborare la crisi scolpendo, nel 1909, l’autoritratto Maschera del dolore, opera che, recante sul fondo tre croci allusive agli anni difficili appena trascorsi, fu considerata dal suo autore come l’avvio di una nuova fase creativa e in seguito fu inviata alle principali esposizioni della sua carriera. Qui egli condensò quelle componenti che sarebbero state caratteristiche di tutta la sua opera: le deformazioni e i tagli espressionistici, la maschera cava e ancorata alla lastra del fondo, l’oro del decorativismo secessionista, la superficie polita del marmo.
Il 1912 fu un anno cruciale per l’artista: espose la Trilogia alla Triennale di Brera, vincendo il premio Principe Umberto, il primo riconoscimento pubblico ottenuto in Italia.
L’opera, oggi collocata in una nicchia nel parco della villa Belgiojoso Bonaparte a Milano, ebbe una lunga gestazione, a partire da una fontana per la residenza di Rose a Döhlau, sviluppata nel gruppo dei Beventi presentato nel 1906 alla Permanente e poi distrutto, e in seguito nella figura del giovane inginocchiato per il gruppo dei Parlatori, poi mutilato e isolato: durante queste graduali rielaborazioni e scarnificazioni Wildt, afflitto dalla crisi esistenziale e creativa di cui si diceva, concepì la Trilogia con un bozzetto (noto da fusioni in bronzo, una delle quali è alla Galleria d’arte moderna di Milano) e modelli in gesso, fino ad affrontare, nel novembre 1908, il blocco di marmo di Candoglia, e fissando il progetto con un disegno che ne delineava il contesto decorativo di destinazione.
La critica italiana accolse quest’opera con sconcerto, rilevando il carattere «gotico», «barocco» (Bozzi, 1912) e oltremontano del lavoro di Wildt, aspetti che da questo momento costituirono dei topoi nella ricezione dell’opera dello scultore (consolidati dal cognome, che durante il regime egli fu persino invitato a italianizzare). Morto improvvisamente Franz Rose pochi giorni prima del conferimento del premio, la Trilogia iniziò un lungo percorso che, a partire dalla donazione da parte del fratello Karl Rose al Comune di Milano, la vide dimenticata per anni e smontata in pezzi, quindi ripresa ormai priva del basamento bronzeo perduto ed esposta nel 1919, per l’Esposizione regionale lombarda di arte decorativa di Milano, nel cortile della Società Umanitaria. Qui rimase fino al 1924, quando fu ‘provvisoriamente’ spostata nei giardini della Villa Reale, dove è tuttora collocata (sul lungo processo di acquisizioni e degrado del gruppo scultoreo si veda Oldani, in Adolfo Widt, 2015).
La morte di Rose costrinse Wildt ad allacciare rapporti con l’ambiente culturale milanese e ad aprirsi alla critica e al mercato italiani: strinse amicizia con l’editore Giovanni Scheiwiller (che divenne suo genero quando sposò sua figlia Artemia nel 1917), con il critico Raffaello Giolli, che nel 1914 pubblicò sulla rivista Vita d’arte il primo articolo monografico uscito sull’artista in Italia (polemico nei confronti dell’accusa di derivazione dalla scultura di Ivan Meštrović: cfr. Giolli, 1914; Giusti, in Anima mundi, 2007), e con il critico e pittore Vittore Grubicy de Dragon, figura determinante nella Milano dei primi due decenni: nel suo studio incontrò Arturo Toscanini, Gaetano Previati e Ugo Bernasconi. Quest’ultimo nel 1917 gli dedicò un lungo articolo sulle pagine della rivista Emporium e in seguito una monografia per i tipi Scheiwiller All’insegna del pesce d’oro (Bernasconi, 1917 e 1941).
Sempre nel 1917 Wildt partecipò alla Permanente di Milano e, notato con favore da Margherita Sarfatti, espose il gesso della Madre adottiva e Un Rosario, che in seguito individuò come opera spartiacque tra i busti espressionistici del primo decennio e le figure di quel misticismo sintetico che fu la via percorsa dall’artista negli anni Venti. Nel 1918 la sua Maria dà luce ai pargoli cristiani, esposta all’Esposizione nazionale di Brera, fu letta dalla critica come il momento di abbandono del goticismo espressionista a favore della riscoperta della tradizione del Quattrocento toscano: una versione di tale rilievo fu acquistata dall’industriale e appassionato d’arte Giuseppe Chierichetti, che in seguito commissionò allo scultore i monumenti ai caduti di Appiano Gentile e di Valduggia, il ritratto della figlia defunta Mariuccia e il mausoleo di famiglia al Cimitero monumentale di Milano. Con la personale del 1919 alla galleria Pesaro di Milano Wildt ottenne il favore di critica e collezionisti, e una certa stabilità economica che gli consentì di abbandonare l’attività di sbozzatore ripresa in seguito alla morte di Rose.
Nel 1920 la rivista L’Eroica gli dedicò un triplo numero monografico, illustrato dai suoi disegni e dalle fotografie a tutta pagina, ritagliate e incollate, di alcune opere, seguite da un lungo articolo di Ettore Cozzani sulla sua grafica, vista come espressione del misticismo simbolista e primitivista (Cozzani, 1920). Qui come altrove, le fotografie di Emilio Sommariva seguirono precise scelte linguistiche di Wildt nella documentazione fornita delle opere: accentuando gli scuri nel delineare superfici cave e piene e fornendo chiavi di lettura grazie a punti di vista privilegiati.
Il rapporto con Bernasconi fu all’origine dell’elaborazione e della pubblicazione nel 1921 del trattato L’arte del marmo, che condensava l’estrema perizia tecnica e la conoscenza dei materiali acquisita dallo scultore, volta dal pittore-scrittore Bernasconi in una prosa letteraria asciutta che prese la forma del dialogo platonico (cfr. d’Ayala Valva, 2002, e in Anima mundi, 2007). In seguito a questo scritto, spinto da analoghe motivazioni didattiche nel fornire ai giovani artisti il frutto della propria consumata esperienza in anni di accese discussioni sull’insegnamento artistico (Ojetti, 1923), lo scultore aprì nel 1922 a Milano la Scuola del marmo, serale e gratuita, trasferita l’anno successivo nei locali dell’Accademia di Brera: qui nel 1926 ottenne senza concorso la cattedra di plastica della figura (alla sua scuola si formarono, oltre al figlio Francesco, Lucio Fontana e Fausto Melotti).
Nel 1922, inoltre, partecipò alla Primaverile fiorentina e per la prima volta alla Biennale veneziana, ottenendo il premio Città di Venezia, con un’intera sala dedicata alle sue sculture (tra cui La famiglia) e alle opere in ferro battuto di Alessandro Mazzucotelli. Il consenso della critica, a queste date unanime, doveva molto all’impegno di Margherita Sarfatti (da lui ritratta nel 1930), che incluse lo scultore nel comitato direttivo e nella I Mostra del Novecento italiano nel 1926; ed egli partecipò a molte delle esposizioni del gruppo anche fuori d’Italia, pur mantenendosi estraneo stilisticamente alla retorica e al classicismo di regime. Nel 1923, per il primo anniversario della marcia su Roma e per la casa del fascio di Milano, realizzò un busto raffigurante Benito Mussolini che divenne l’icona di regime del nuovo Augusto, riproposta nel 1934 sulla copertina della biografia Dux scritta da Sarfatti. Esposto alla Biennale veneziana del 1924 insieme ai busti di Grubicy e Toscanini, il Mussolini mostrò la sua volontà di affrontare la ritrattistica in chiave monumentale o «architettonica» (Sarfatti, 1922; Avanzi, in Adolfo Wildt, 2015, pp. 44 s.), in seguito riproposta effigiando altri protagonisti dell’epica fascista: Nicola Bonservizi nella casa del fascio di Parigi (1925), Filzi, Battisti e Chiesa sull’arco della Vittoria a Bolzano (1926), Fulceri Paulucci de’ Calboli e Giulio Giordani a Roma nella casa madre del mutilato (1928), il Re Vittorioso nell’aula magna dell’Università di Milano (1930).
Fra il 1925 e il 1926 Wildt completò un’importante impresa grafica, le dodici tavole dell’almanacco Le grandi giornate di Dio e dell’Umanità, stampato in sostegno dell’Opera nazionale degli orfani di guerra, voluta da padre Giovanni Semeria: l’ispirazione religiosa a sostegno di tale progetto rese il simbolismo delle immagini chiaro e di un plasticismo michelangiolesco, come rilevato da padre Semeria (cfr. Apa, 2008, p. 362). Altrove i disegni di Wildt, più legati alla dimensione privata, conservarono un’anima grafica lirica e sintetica affine al clima simbolista mitteleuropeo, scarnificata in una linea di solo contorno priva di chiaroscuro, e suggellata da dettagli decorativi e fondi oro di gusto klimtiano, in parallelo con le ricerche di Felice Casorati (cfr. Gatti, in Anima mundi, 2007; Tiddia, in Adolfo Wildt, 2015).
Nel 1926 Wildt espose alla Biennale veneziana il colossale busto di papa Pio XI e il S. Francesco, che accentuarono il carattere eccentrico e nordico del suo ‘novecentismo’, lontano dal classicismo di regime. Così il Filo d’oro (1927) presentava un’atmosfera sospesa e senza tempo, inquietante per quelle orbite vuote caratteristiche di molta scultura di Wildt, che procedeva per scavo e approfondimento degli scuri (si veda la S. Lucia, 1926, figura dalle orbite slabbrate volte verso la luce). La grande statua bronzea del S. Ambrogio, realizzata nel 1928 per il tempio della Vittoria a Milano, apparì arcaizzante e surreale, così come le figure del gruppo scultoreo in bronzo Et ultra per il Monumento funebre della famiglia Körner (1929, Milano, Cimitero monumentale), antinaturalistiche e scarnificate dall’amore spirituale che rappresentavano.
Nel 1929, nominato accademico d’Italia, gli fu dedicata una seconda monografia Hoepli a opera di Giorgio Nicodemi.
Alla I Quadriennale romana del 1931 Wildt espose il colossale gesso alto sei metri del Parsifal (Il puro folle), monumento commissionato in bronzo dal banchiere Leo Goldschmied per la sua villa di Bellagio e mai realizzato a causa dei costi troppo elevati. L’opera, accolta non favorevolmente dalla critica e dallo stesso Mussolini (che, distaccatosi allora da Sarfatti che la difendeva, durante la visita alla Quadriennale evitò la sala nella quale si trovava esposta), apparì come il testamento artistico di Wildt, scomparso prima della fine della mostra.
Alla morte dell’artista, avvenuta a Milano il 12 marzo 1931 per le complicazioni di un’influenza, i necrologi lo celebrarono unanimemente, ma progressivamente il suo nome fu oscurato, fino alla definitiva sfortuna critica negli anni del secondo dopoguerra, dovuta al suo legame con il regime.
La sua rivalutazione fu possibile solo a partire dagli anni Ottanta del Novecento, grazie agli studi approfonditi di Paola Mola, che individuò le ragioni dell’incomprensione nella «sostanza colta della sua arte, consumata nella quantità dei riferimenti stilistici» (1988, p. 70), e perciò, quando l’artista era in vita, sempre fraintesa perché non conforme all’ideologia della razza italiana e successivamente non compresa per la modernità del magistero formale.
Il figlio Francesco, nato il 14 aprile 1896 a Milano, entrò nello studio del padre all’età di dieci anni e con lui collaborò fino alla sua morte, vicino al genitore nel culto del mestiere di scultore e nella grafica di matrice secessionista e francescana (Ghidini, 1926). Dopo il servizio militare nella prima guerra mondiale, sposatosi nel 1927 con Carolina Corsi, ebbe due figli (Bruno e Marco), e, deceduta nel 1946 la prima moglie, sposò l’anno seguente Adele Giuseppina Botta. Insegnò dal 1931 al 1964 all’Accademia di Brera, nella Scuola del marmo fondata dal padre e al Politecnico dove fu titolare della cattedra di plastica ornamentale dal 1933 al 1966.
Fu attivo soprattutto a Milano, dove, oltre a produrre molta scultura cimiteriale, si occupò del restauro e della sistemazione dei marmi e delle terrecotte dei Musei del Castello Sforzesco. Partecipò alle seguenti esposizioni: I Sindacale lombarda (Milano 1928); I Sindacale nazionale (Firenze 1933); Biennali di Venezia (1934 e 1936); Parigi, Cracovia, Bucarest, Sofia, Vienna, Varsavia e San Paolo del Brasile (1935-37).
Sue opere scultoree sono conservate a Milano, in palazzo Marino, nel palazzo di Giustizia, nell’ospedale di Niguarda (bassorilievo con La guarigione dello storpio), nel duomo (un Angelo musicante nel tornacoro) e nella chiesa di S. Maria delle Grazie (sepolcro dei coniugi Conti), nel Museo Casa natale di Leonardo a Vinci (busto bronzeo di Leonardo).
L’anno prima della morte, avvenuta l’11 luglio 1969 a Milano, pubblicò il libretto La Pietà Rondanini. Genesi e tecnica, per i tipi di Vanni Scheiwiller (suo nipote) All’insegna del pesce d’oro. Qui si soffermò sui diversi effetti espressivi dati da ognuno degli strumenti utilizzati per l’intaglio diretto del marmo, evidenziando nelle diverse membra il «tormento di ricerca subordinato al pensiero interiore» (Wildt, 1968, p. 8).
Fonti e Bibl.: G.P. Lucini, Quarta Esposizione Triennale di Milano. I e II, in Emporium, XII (1900), pp. 323-336, 339-353; M. von Bieberstein, A. W., in Illustrierte Zeitung, 4 febbraio 1904; C. Bozzi, L’Esposizione nazionale di Brera, in Il Secolo, 1° ottobre 1912; R. Giolli, A. W., in Vita d’arte, VII (1914), 73, pp. 18-22; U. Bernasconi, Artisti contemporanei: A. W., in Emporium, XLVI (1917), pp. 58-69; M. Sarfatti, A. W. e l’Esposizione alla Galleria Pesaro, in Il Popolo d’Italia, 10 febbraio 1919; E. Cozzani, A. W., in L’Eroica, X (1920), 70-72, pp. 23-29; U. Ojetti, A. W. e la scolpitura, in Corriere della sera, 12 maggio 1921; M. Sarfatti, Delle scuole e del marmo, in Il Popolo d’Italia, 10 marzo 1921; A. Wildt, L’arte del marmo, Milano 1921; M. Sarfatti, La «Primaverile» a Firenze. Scultura e scultori, in Il Popolo d’Italia, 28 aprile 1922; G.L. Luzzatto, A. W. scultore, in Rassegna nazionale, XLV (1923), 41, pp. 116-124; U. Ojetti, Commenti. Una inchiesta sull’insegnamento artistico, in Dedalo, III (1923), 3, pp. 732-734; Id., Lo scultore A. W., ibid., VII (1926), 2, pp. 442-446; A. Wildt, A. W. parla della sua vita e della sua arte, in Il Secolo XX, XXVII (1928), 3, pp. 118-122; G. Nicodemi, A. W., Milano 1929; A. Carpi, A. W. il maestro, in L’Italia, 13 marzo 1931; G. Marangoni, A. W., in La Cultura moderna, XL (1931), 5, pp. 257-266; G. Nicodemi, Artisti scomparsi: A. W., in Emporium, LXXIII (1931), 436, pp. 194-213; M. Sironi, Il maestro, in Il Popolo d’Italia, 13 marzo 1931; C. Siviero, In memoria di A. W. Una lettera autobiografica dello scultore, in Il Messaggero, 17 marzo 1931; M. Sarfatti, Dux , Milano 1934; U. Bernasconi, A. W., Milano 1941; P. Mola, A. W. Note biografiche e critiche dal 1894 al 1912, in Storia dell’arte, 1983, n. 48, pp. 139-158; Ead., W., Milano 1988; A. W. 1868-1931 (catal.), a cura di P. Mola, Milano 1989 (in partic. P. Mola, W. classico gotico e barocco, pp. 9-31; V. Scheiwiller, Il filo sottile e dorato di A. W., pp. 33-37); P. Mola, W. e Brera, breve storia di un’utopia, in Arte lombarda, 1993, n. 104, pp. 69-77; L. De Gobbis, A. W. tra tradizione e innovazione: la scultura monumentale, in Arte lombarda, 1995, n. 113-115, pp. 147-153; P. Mola, Miscellanea wildtiana, ibid., pp. 153-162; G. Ginex - O. Selvafolia, Il Cimitero monumentale di Milano: guida storico-artistica, Cinisello Balsamo 1996; F. Fergonzi, Auguste Rodin e gli scultori italiani (1889-1915), in Prospettiva, 1999, n. 95-96, pp. 24-50; A. W. e i suoi allievi. Fontana, Melotti, Broggini e altri (catal., Brescia), a cura di E. Pontiggia, Milano 2000 (in partic. E. Pontiggia, A. W. L’anima e la sua veste, pp. 11-32; L. Giudici, Momenti di critica wildtiana, pp. 215-220); M. d’Ayala Valva, Ugo Bernasconi e A. W.: i Precetti e l’Arte del Marmo, in Annali della Scuola normale superiore di Pisa, cl. di lettere e filosofia, s. 4, VII (2002), 1, pp. 235-260; P. Mola, I gessi di W. a Ca’ Pesaro, in Quaderni veneti, 2003, n. 37, pp. 179-191; Anima mundi. I marmi di A. W. (catal., Gemonio), a cura di D. Astrologo Abadal - S. Crespi - A. Montrasio, Cinisello Balsamo 2007 (in partic. M. d’Ayala Valva, L’arte del marmo di A. W. e di Ugo Bernasconi: le ragioni di un libro, pp. 64-73; C. Gatti, L’opera grafica di A. W., pp. 56-63; L. Giusti, Giolli e W.: l’arte all’ordine del giorno, pp. 48-55); M. Apa, P. Giovanni Semeria e l’arte. Da Torquato Tasso ad A. W., in Barnabiti studi, XXV (2008), pp. 351-389; W.: l’anima e le forme (catal., Forlì), a cura di P. Mola, Cinisello Balsamo 2012 (in partic. P. Mola, Avatar e il Laocoonte, pp. 19-77; F. Mazzocca, Artista senza pace e senza bellezza. W. e la sua controversa fortuna, pp. 79-107); A. W. L’ultimo simbolista (catal.), a cura di P. Zatti, Milano 2015 (in partic. B. Avanzi, Un’arte «inesorabile e perfetta». W. e il Novecento italiano, pp. 41-49; A. Oldani, La Trilogia di W., fortuna e sfortuna di una scultura, pp. 63-71; A. Tiddia, L’arcaismo sottile e dorato dei disegni di W., pp. 73-82). Su Francesco Wildt: Milano, Archivio storico dell’Accademia di belle arti di Brera, TEA.L.VI.6; L. Ghidini, Novelle e leggende alate. Cinquantasei disegni di Francesco Wildt, Milano 1926; F. Wildt, La Pietà Rondanini. Genesi e tecnica, Milano 1968; A. Panzetta, Wildt, Francesco, in Dizionario degli scultori italiani dell’Ottocento e del primo Novecento, Milano 1994, p. 205; R. Bernabei, in Between God and man. Angels in Italian art, Jackson (Miss.) 2007, p. 174; Wildt, Francesco, in Saur Allgemeines Künstlerlexikon. Bio-bibliographischer Index A-Z, I-XII, Leipzig 2007-2009, XII, ad vocem.