Abstract
Nel sistema italiano di diritto internazionale privato la disciplina internazionalprivatistica dell’adozione si definisce coordinando il capo V della l. n. 218/1995 (artt. 38-41) e la legge sull’adozione (l. n. 184/1983) come modificata dalla l. n. 476/1998 e dalla l. n. 149/2001. Si tratta di un coordinamento complesso alla luce dei diversi principi cui si ispirano le fonti considerate, da operarsi tenendo conto del principio generale del superiore interesse del minore.
La disciplina dell’adozione contenuta all’interno della legge italiana di diritto internazionale privato (l. 31.5.1995, n. 218, artt. 38-41) si inserisce nel quadro della più complessa regolamentazione dell’adozione disposta dalla l. 4.5.1983, n. 184 (in seguito: l. adozione), così come modificata dalla l. 31.12.1998, n. 476 in seguito all’adattamento dell’ordinamento italiano alla Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993 per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, e dalla l. 28.3.2001, n. 149 (v. sul punto Cafari Panico, R., Considerazioni sulla nuova adozione internazionale, in Riv. dir. int. priv. proc., 2001, 885 ss.). L’applicazione delle norme di cui agli artt. 38-41 della l. 31.5.1995, n. 218 richiede pertanto una necessaria opera interpretativa di coordinamento con la disciplina complessiva della materia (Mosconi, F.-Campiglio, C., Diritto internazionale privato e processuale, Torino, II, 2011, 208 s.).
Al riguardo, pare innanzitutto possibile affermare che l’art. 38 regola innanzitutto gli aspetti, classificati in dottrina come requisiti soggettivi (ad es. legame matrimoniale degli adottanti, differenza di età tra adottante e adottato) e oggettivi (ad es. stato di abbandono del minore, affidamento preadottivo), che valgono come condizioni necessarie affinché il procedimento di adozione possa iniziare, e come elementi costitutivi (ad es. il presupposto negativo della mancanza di qualità di figlio naturale di uno degli adottanti in capo all’adottando), cui l’ordinamento individuato dalla norma di conflitto riconduce la possibilità di emanazione dell’atto di adozione. È prevista inoltre una disposizione speciale relativamente ai consensi richiesti per l’adozione (art. 38, co. 2).
Alcune incertezze riguardano invece la dichiarazione di adottabilità del minore. Tale dichiarazione, pronunciata dal Tribunale per i minorenni, costituisce per l’ordinamento italiano un presupposto particolare dell’adozione; essa ha carattere preliminare rispetto al procedimento di adozione ed è quindi difficile individuare la legge ad essa applicabile, perché nel momento in cui viene posta in essere non è ancora possibile conoscere l’identità dei futuri adottanti. La soluzione per tale questione può tuttavia essere raggiunta tramite l’estensione dell’art. 37 bis della l. adozione, ed il conseguente richiamo della legge italiana alla fattispecie della dichiarazione di adottabilità di minori stranieri che si trovino in Italia in situazione di abbandono, di competenza dei giudici italiani secondo quanto prevede l’art. 40. Ad analoghi risultati si giungerebbe peraltro seguendo l’altra soluzione suggerita al riguardo in dottrina, e cioè considerando la dichiarazione di adottabilità come un istituto di protezione dei minori cui si applicherebbe pertanto la legge di residenza abituale del minore in base a quanto dispone l’art. 42, che richiama in materia la Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961 sulla protezione dei minori (Bonomi, A., La disciplina dell’adozione internazionale dopo la riforma del diritto internazionale privato, in Riv. dir. civ., 1996, I, 373).
Analoghe incertezze concernono l’istituto islamico della kafalah (accoglimento del minore da parte di un affidatario che assume l’obbligo di provvedere al mantenimento, all’educazione e alla protezione dello stesso affidatogli tramite autorizzazione governativa, provvedimento giudiziale o atto notarile), rilevante nella giurisprudenza italiana che ha affrontato i casi di concessione del visto d’ingresso in Italia del minore straniero. Recentemente la Cassazione ha equiparato la kafalah all’affidamento, non avendo tale istituto effetto legittimante e non incidendo sullo stato civile del minore (Cass., 4.11.2005, n. 21395, in Riv. dir. int. priv. proc., 2006, 791 ss.; Cass., 20.3.2008, n. 7472, ivi, 2008, 809 ss.; Cass., 17.7.2008, n. 19734, ivi, 2009, 213; Cass., 28.1.2010, n. 1908, ivi, 2010, 213). Non è da escludersi tuttavia una sua possibile qualificazione quale misura di tutela dei minori secondo quanto prevede la Convenzione dell’Aja del 19 ottobre 1996 (Mosconi, F.-Campiglio, C., Diritto internazionale privato, cit., 213).
L’art. 40 disciplina la giurisdizione in materia di adozione in maniera completa e organica, con riferimento sia alla costituzione del rapporto di adozione (art. 40, co. 1) sia ai rapporti personali e patrimoniali tra adottante e adottato (art. 40, co. 2).
Relativamente al primo aspetto, si è rilevato che i criteri indicati dall’art. 40, co. 1, non valgono soltanto per la pronuncia dell’adozione, ma possono essere invocati anche per i provvedimenti che si inseriscono in modo strumentale nel procedimento di adozione (dichiarazione dello stato di adottabilità del minore, dichiarazione di idoneità dei coniugi all’adozione, pronuncia di affidamento preadottivo) e per la revoca dell’adozione nei casi in cui essa sia consentita dalla legge regolatrice del rapporto (Bonomi, A., La disciplina dell’adozione, cit., 359). Con particolare riguardo alla revoca, si osserva che la mancanza di un espresso richiamo della stessa nell’art. 40 (richiamo presente invece del progetto di riforma del diritto internazionale privato italiano) non può condurre ad escluderla dall’ambito d’applicazione dell’art. 40, co. 1, pur essendo la stessa un evento eccezionale che può non trovare applicazione qualora il giudice italiano ravvisi profili di contrarietà all’ordine pubblico (Mosconi, F.-Campiglio, C., Diritto internazionale privato, cit., 214).
Per quanto concerne poi la giurisdizione in materia di rapporti personali e patrimoniali fra adottante e adottato, è opportuno sottolineare che l’art. 40, co. 2, non può ritenersi applicabile anche nelle ipotesi di adozione legittimante. Ciò sulla base delle argomentazioni di logica sistematica che concernono l’interpretazione dell’art. 39, con riguardo all’adozione legittimante.
I criteri di giurisdizione utilizzati dall’art. 40 delineano in maniera abbastanza ampia la competenza del giudice italiano.
Per quanto riguarda la costituzione del rapporto di adozione, si può notare che l’art. 40, co. 1, individua diversi criteri di giurisdizione, dei quali quello previsto dalla lett. b) riguarda esclusivamente le adozioni dei minori stranieri, mentre quelli indicati dalla lett. a) operano indifferentemente per le adozioni di minori e maggiori.
Per la costituzione del rapporto di adozione è dunque sufficiente la cittadinanza o la residenza italiana degli adottanti o anche di uno solo di essi (come nel caso deciso da Trib. min. Catanzaro, 27 settembre 2004, in Riv. dir. int. priv. proc., 2007, 779 ss.), oppure la cittadinanza italiana dell’adottando, realizzandosi così l’estensione dei criteri di competenza territoriale previsti dall’art. 29 bis l. adozione per le adozioni legittimanti di minori stranieri alla generalità delle fattispecie di adozione. Infatti in questi casi, l’art. 29 bis prevede la giurisdizione italiana se l’adozione è richiesta da coniugi residenti in Italia nei confronti di un minore straniero residente all’estero o da cittadini italiani residenti all’estero: nella prima fattispecie, è competente il tribunale per i minorenni del distretto di residenza; nella seconda ipotesi, il tribunale per i minorenni del luogo di ultima residenza o in mancanza, il tribunale per i minorenni di Roma (si veda tuttavia App. Messina, decr. 5.7.2000, in Fam. dir., 2001, 563 ss., in cui si dà applicazione al criterio del luogo in cui uno dei coniugi ha avuto l’ultima residenza nel caso in cui l’altro coniuge non sia cittadino italiano e non abbia mai avuto residenza in Italia).
In particolare, il riferimento dei collegamenti in esame a “uno” degli adottanti può consentire di affermare l’operatività dei criteri di giurisdizione in esame anche in ordine alle fattispecie di adozioni poste in essere da parte di una persona singola.
Con la disposizione dell’art. 40, co. 1, lett. b), viene ampliata ulteriormente la giurisdizione italiana con riferimento al caso del minore straniero che, non residente in Italia, vi si trovi in stato di abbandono.
Relativamente ai rapporti personali e patrimoniali tra adottante e adottato, l’art. 40, co. 2, prevede, oltre ai criteri di cui all’art. 3, la circostanza che l’adozione si sia costituita in base al diritto italiano, collegamento specifico per la materia della giurisdizione volontaria nella legge italiana di diritto internazionale privato (art. 9).
L’esame dei criteri definiti dall’art. 40 evidenzia l’estensione molto ampia della giurisdizione italiana in materia di adozione, cui si pensa possa sottrarsi soltanto la domanda di stranieri non residenti nei confronti di adottando straniero non presente in Italia. Tale estensione è suscettibile di alcune critiche, rivolte ad evidenziare il carattere esorbitante dei criteri previsti dall’art. 40 soprattutto in relazione alla pronuncia diretta di provvedimenti adottivi, che potrebbero così incontrare notevoli difficoltà per essere riconosciuti all’estero nei paesi con cui la situazione presenta contatti ben più significativi (Bonomi, A., La disciplina dell’adozione, cit., 361).
A tale riguardo, ha suscitato non poche perplessità l’impiego del criterio di collegamento dello «stato di abbandono», circostanza, che, seppur corrispondente all’art. 37 bis della l. adozione appare tuttavia suscettibile di valutazione discrezionale e dunque difficilmente in grado di individuare il giudice competente con sufficiente certezza e prevedibilità, se non interpretato piuttosto con riferimento alla dichiarazione di adottabilità.
L’art. 38 stabilisce tre diversi criteri di collegamento applicabili, in concorso successivo, alle diverse fattispecie di adozione, ad eccezione dell’adozione legittimante di minore, richiesta al giudice italiano, per la quale è prevista in ogni caso l’operatività della legge italiana dalla disposizione dell’art. 38, co. 1, seconda parte. Occorre inoltre considerare la possibilità del rinvio (art. 13) al diritto italiano, oppure all’ordinamento di uno Stato terzo, ad opera della legge individuata in base all’art. 38, ma solo in relazione alle adozioni di maggiorenni e alle adozioni non legittimanti di minori, dato che in ordine alle adozioni legittimanti resta comunque ferma l’applicazione del diritto italiano.
Sempre con riguardo alle adozioni di maggiorenni la disciplina prevista dall’art. 38, co. 1, deve essere coordinata con la disciplina dei consensi eventualmente prevista dalla legge nazionale dell’adottando, secondo quanto prevede l’art. 38, co. 2.
La cittadinanza dell’adottante o degli adottanti, se comune, è il primo criterio indicato dalla disposizione in esame. Tale criterio, tradizionale nel sistema italiano di conflitto, pone la necessità di confrontarsi con gli ordinamenti di cittadinanza degli adottanti e quindi con la possibilità che entro gli stessi l’adozione possa essere pronunciata anche a favore di coppie non coniugate, ma conviventi. Per superare tale possibilità, occorrerebbe configurare le norme dell’ordinamento italiano che disciplinano l’adozione prevedendo che essa possa essere pronunciata solo su richiesta di coppie coniugate come norme di applicazione necessaria (art. 17 l. n. 218/1995), ma tale soluzione pare esclusa dall’incompatibilità della stessa con il principio generale del superiore interesse del minore. Pertanto pare possibile la pronuncia in Italia dell’adozione per le coppie conviventi purché di sesso diverso, al fine di evitare i profili di contrasto con l’ordine pubblico (Tonolo, S., Le unioni civili nel diritto internazionale privato, Milano, 2007, 154 ss.; Mosconi, F.-Campiglio, C., Diritto internazionale privato, cit., 215).
Il collegamento della cittadinanza pone inoltre il problema di vedere se possa darsi luogo alla pronuncia di un’adozione richiesta da un adottante singolo, dal momento che, anche se la l. 184/1983 ammette le adozioni di minori da parte di un solo adottante solo in casi particolari e con effetti non legittimanti (sul punto v. C. cost., ord. 27.3.2003, in Fam. dir., 2003, 327; per un’applicazione di questa disciplina con riguardo a un’adottante italiana, si v. Trib. min. Catanzaro, 27.9.2004, in Riv. dir. int. priv. proc., 2007, 779 ss.), è possibile che previsioni di segno diverso siano contenute nella legge nazionale o nella legge di residenza dell’adottante (solo per le fattispecie di adozione non legittimante). Ciò anche alla luce della norma dell’art. 6.1 della Convenzione di Strasburgo del 24 aprile 1967, elaborata sotto gli auspici del Consiglio d’Europa in materia di adozione dei minori (in vigore dal 25 agosto 1976 e sottoposta a revisione con la Convenzione del 27 novembre 2008 non ancora in vigore), che consente l’adozione da parte di un solo adottante. L’orientamento prevalente nella giurisprudenza italiana attuale si individua nell’affermata possibilità di riconoscere tali adozioni secondo quanto prevede l’art. 44 della l. adozione, ovvero senza effetti legittimanti (si veda in tal senso Cass., 14.2.2011, n. 3572, in Fam. dir., 2011, 701, con nota di Astone, M., La delibazione del provvedimento di adozione internazionale di minore a favore di persona singola).
Nelle ipotesi in cui l’adottante singolo sia apolide o titolare di più cittadinanze, sarà comunque possibile individuare la legge applicabile sulla base di quanto dispone l’art. 19, e quindi fare riferimento per l’apolide alla legge dello Stato del domicilio o di residenza, e per il pluricittadino alla legge dello Stato con il quale egli ha il collegamento più stretto, oppure, se sussiste, a quella italiana. L’operatività della disposizione dell’art. 19, in base alla quale la cittadinanza italiana prevale in ordine alla disciplina di fattispecie in cui siano coinvolti soggetti con più cittadinanze, potrebbe invece creare alcune incertezze applicative in ordine alle adozioni poste in essere da coniugi aventi una comune cittadinanza straniera, pur essendo uno di essi cittadino italiano. La dottrina ha però escluso, in questo caso, la possibilità di preferire la cittadinanza italiana: si applicherà pertanto il criterio di collegamento della cittadinanza comune in quanto elemento di collegamento più vicino alla materia familiare (Tonolo, Art. 38, cit., 151).
Nei casi in cui la cittadinanza conduca a un ordinamento plurilegislativo viene in rilievo l’art. 18 l. n. 218/1995.
In mancanza di una legge nazionale comune degli adottanti, operano, in ordine successivo, i criteri di collegamento della residenza comune o del luogo in cui la vita matrimoniale è prevalentemente localizzata, evidenziando la caratterizzazione “a cascata” della disposizione dell’art. 38, co. 1, prima parte. Relativamente a tale scelta, si è giustamente osservato che risulta curiosa la previsione della localizzazione della vita matrimoniale come criterio sussidiario rispetto a quello della residenza dei coniugi nello stesso Stato, a differenza di quanto stabilito dall’art. 29 per i rapporti personali tra coniugi (Bonomi, A., La disciplina dell’adozione, cit., 367). Tuttavia, in linea generale, è possibile affermare che tale disposizione non produrrà conseguenze pratiche di rilievo, dal momento che nel caso in cui i coniugi risiedano nello stesso paese si dovrà ritenere ivi localizzata la loro vita matrimoniale.
Alcune incertezze potrebbero sorgere invece nelle ipotesi in cui i coniugi abbiano più residenze comuni in Stati diversi, oppure qualora essi siano residenti in paesi differenti. In entrambi i casi, assumerà rilievo il criterio della localizzazione della vita matrimoniale, nell’individuazione della quale potranno concorrere vari indizi, quali ad es. la durata dei periodi trascorsi presso ogni residenza, il carattere eventualmente provvisorio di una residenza, il luogo in cui abitano i figli, ecc. Per i coniugi residenti in Stati diversi, l’accertamento del luogo in cui si svolge la vita familiare diventa più difficile, e basato su indizi di carattere psicologico, come ad es. le prospettive di lavoro dei coniugi, l’esistenza di una casa di proprietà comune o la decisione di acquistarla.
L’art. 38 stabilisce l’applicazione della legge italiana «quando è richiesta al giudice italiano l’adozione di un minore idonea ad attribuirgli lo stato di figlio legittimo» (art. 38, co. 1, l. n. 218/1995).
Si tratta pertanto di una disposizione che richiama la disciplina prevista dalla l. n. 184/1983, così come modificata dalla l. 31.12.1998, n. 476, in ordine a due gruppi di ipotesi: da un lato le adozioni dei minori stranieri che si trovano in stato di abbandono in Italia e dall’altro le adozioni dei minori stranieri già adottati all’estero o comunque provenienti dall’estero per essere adottati in Italia da parte di coniugi italiani (anche se residenti all’estero) e di coniugi stranieri residenti in Italia. L’esteso ambito d’applicazione della disposizione in esame riduce pertanto notevolmente l’operatività dei criteri di collegamento previsti dall’art. 38, co. 1.
Non pare possibile seguire l’interpretazione secondo cui il rapporto tra le disposizioni contenute nell’art. 38, co. 1, va risolto attribuendo priorità e prevalenza alla norma di conflitto tradizionale (art. 38, co. 1, prima parte), al fine di limitare al massimo l’operatività della c.d. “eccezione”. Si tratta, infatti, di una soluzione contraria alla ratio della disciplina materiale italiana, rivolta esclusivamente ad evitare che possano pronunciarsi in Italia adozioni legittimanti sulla base di una legge diversa da quella italiana (Picone, P., La riforma italiana del diritto internazionale privato, Padova, 1998, 465). Il coordinamento tra le disposizioni in esame va dunque raggiunto in altro modo, e cioè attribuendo alle stesse un differente campo d’applicazione che consenta però di raggiungere l’uniformità di trattamento tra minori italiani e minori stranieri in stato di abbandono in Italia, prevedendo per tutti la sottoposizione a idonee garanzie (Picone, P., La riforma italiana, cit., 467). Appare allora evidente che l’art. 38, co. 1, prima parte, si riferisce alle adozioni non legittimanti, e l’art. 38, co. 1, seconda parte, regola invece le adozioni legittimanti da pronunciare in Italia.
L’art. 39 richiama i criteri di collegamento previsti dall’art. 38, per regolare i rapporti personali e patrimoniali tra l’adottato e la famiglia adottiva. Sembra pertanto che tale disposizione intenda ricondure ad un’unica disciplina tutti gli aspetti del rapporto di adozione, senza distinzioni inerenti alle diverse tipologie di adozione, ai soggetti adottati e all’oggetto dei rapporti in esame.
Tuttavia, occorre rilevare che alcune perplessità sono state manifestate in dottrina sull’applicabilità della norma dell’art. 39 alle adozioni legittimanti, per le quali l’art. 38, co. 1, seconda parte, richiama, come si è visto, la legge italiana.
La dottrina appare, infatti, quasi concordemente orientata a negare l’operatività dell’art. 39 alle adozioni legittimanti (per l’applicabilità dell’art. 39 in materia si veda tuttavia Mosconi, F.-Campiglio, C., Diritto internazionale privato, cit., 221 ss.), seppure con argomentazioni diverse. Secondo alcuni, il richiamo alla legge italiana di cui all’art. 38, co. 1, seconda parte, dovrebbe valere non solo per regolare la costituzione dell’adozione legittimante, ma anche per disciplinare gli effetti che da tale adozione derivano, direttamente sottoposti alle norme di applicazione necessaria della l. adozione (ad es. acquisto del cognome dei genitori adottivi da parte dell’adottato). Pertanto, l’art. 39 potrebbe ricevere attuazione soltanto in relazione alle ipotesi di adozione non legittimante, realizzandosi così l’uniformità di disciplina in ordine alla legge applicabile alla potestà dei genitori sui figli legittimi, legittimati, naturali riconosciuti e adottivi (Bonomi, A., La disciplina dell’adozione, cit., 376-377).
La conferma di tale ultima soluzione si può peraltro leggere nell’art. 35 della l. adozione, che stabilisce il principio secondo il quale l’adozione pronunciata all’estero produce nell’ordinamento italiano gli effetti di cui all’art. 27, e cioè l’acquisizione dello stato di figlio legittimo degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome, e la cessazione dei rapporti dell’adottato con la famiglia d’origine, salvi i divieti matrimoniali. Di conseguenza, ai rapporti tra il minore e la famiglia adottiva risulta applicabile l’art. 36 l. n. 218/1995, assicurando così al minore adottato la parità di trattamento con i figli legittimi (Poletti di Teodoro, B., L’adozione internazionale, Tratt. Bonilini-Cattaneo, III, Filiazione e adozione, Torino, 1997, 448-449).
L’art. 39 non contiene alcuna precisazione di carattere temporale in ordine all’applicabilità dei criteri di collegamento in esame, a differenza di quanto dispone l’art. 38 che li riconduce al momento in cui l’adozione viene posta in essere. Pertanto, in relazione ai rapporti tra l’adottato e la famiglia adottiva, si ritiene che la legge applicabile possa variare seguendo eventuali modificazioni del criterio di collegamento (cittadinanza, residenza, localizzazione della vita matrimoniale), conformemente a quanto previsto per la disciplina di altri rapporti familiari, quali ad es. i rapporti tra coniugi e i rapporti tra genitori e figli. Si tratta di una scelta criticabile dal momento che la situazione di diritto, ben valutata al momento della costituzione dell’adozione, mediante la presenza del richiamo temporale fisso, si trova a subire le vicende relative agli eventuali cambiamenti di una sola parte del rapporto adottivo, la parte più forte, con il pericolo che l’adottato sia privato delle garanzie che riteneva esistenti al momento della costituzione dell’adozione.
Per quanto concerne l’ambito d’applicazione materiale dell’art. 39, è significativo il riferimento sia ai rapporti personali sia ai rapporti patrimoniali. Esso consente infatti di ricondurre alla medesima disciplina varie questioni.
Si regolano così, in base alla legge individuata dall’art. 39, alcuni aspetti, quali ad es. il diritto al nome, la definizione dello status di figlio adottivo, la mancata costituzione di parentela civile tra l’adottato e la famiglia dell’adottante, l’obbligo di convivenza. Relativamente al diritto al nome, si ricorda che la sottoposizione alla disciplina prevista dall’art. 39 si determina in base a quanto dispone l’art. 24, co. 1, seconda parte.
Si sottraggono invece all’operatività della disciplina in esame i c.d. effetti ex lege dell’adozione, come ad es. gli effetti sui rapporti con la famiglia d’origine e sulla cittadinanza dell’adottato. Per quanto concerne la disciplina dei rapporti con la famiglia d’origine è stata segnalata l’opportunità di colmare la lacuna della l. n. 218/1995 tramite la norma dell’art. 38 (Mosconi, F.-Campiglio, C., Diritto internazionale privato, cit., 223 ss.). In considerazione del fatto che la conoscenza dei rapporti tra l’adottando e la famiglia d’origine costituisce un fattore importante nella determinazione dell’adozione, ad es. ai fini dei consensi che devono essere prestati dagli interessati, appare logico ricondurre tale materia alla legge che regola la costituzione dell’adozione e al momento in cui essa avviene.
Nell’ambito dei rapporti patrimoniali, regolati dall’art. 39, rientrano altri aspetti, quali ad es. gli obblighi di mantenimento, la rappresentanza legale e i poteri di amministrazione sul patrimonio dell’adottato, l’usufrutto legale che l’adottante ha su tale patrimonio. Relativamente a quest’ultimo istituto, è possibile osservare che la disciplina in esame corrisponde, peraltro, a quanto prevede l’art. 51, co. 2, l. n. 218/1995, perché l’adozione rientra nei rapporti di famiglia che consentono di derogare alla lex rei sitae in ordine all’acquisto dei diritti reali. Non sono invece riconducibili a tale norma i diritti alimentari per i quali opera il regolamento CE n. 4/2009 del 18 dicembre 2008, relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari (in GUUE, n. L 7 del 10 gennaio 2009, 1 ss.; su di esso, si veda Baruffi, M.-Cafari Panico, R., Le nuove competenze comunitarie. Obbligazioni alimentari e succcessioni, Padova, 2009; Pocar, F.-Viarengo, I., Il regolamento (CE) n. 4/2009 in materia di obbligazioni alimentari, in Riv. dir. int. priv. proc., 2009, 805 ss.; Ancel, B.-Muir-Watt, H.- Aliments sans frontières, Le règlement CE n. 4/2009 du 18 decembre 2008 relatif à la compétence, la loi applicable, la reconnaissance et l’exécution des décisions et la coopération en matière d’obligations alimentaires, in RCDIP, 2010, 457 ss.).
L’art. 41 regola il riconoscimento dei provvedimenti in materia di adozione, determinando la necessità del coordinamento con le norme della l. adozione in materia (v. ad es. Cass., 18.3.2006,n. 6079, in Riv. dir. int. priv. proc., 2007, 166 ss.).
Pertanto la disciplina generalmente prevista dalla legge italiana di diritto internazionale privato, che assicura il riconoscimento automatico dei provvedimenti stranieri, si applicherà soltanto nei casi in cui non operino gli artt. 35 e 36 l. adozione. Occorre poi distinguere l’ipotesi in cui i provvedimenti stranieri sono pronunciati in un paese aderente alla Convenzione (art. 35), da quella in cui sono pronunciati in un paese terzo (art. 36).
Le differenze tra il procedimento di riconoscimento previsto dalla l. n. 476/1998 (artt. 35-36) e quello di cui agli artt. 64, 65 e 66 della l. n. 218/1995 evidenziano l’importanza di delimitare con certezza il raggio d’azione delle due discipline.
In linea generale, è possibile affermare che il procedimento di riconoscimento di cui alla l. adozione riguarda i provvedimenti di adozione relativi a minori stranieri. Già prima dell’entrata in vigore di tale legge la dottrina aveva infatti rilevato l’opportunità di circoscrivere l’operatività del richiamo di cui all’art. 41, co. 2, a tali provvedimenti di adozione; le adozioni di minori italiani realizzate all’estero dovevano, nel silenzio della legge, essere riconosciute in base alle disposizioni richiamate nel co. 1 dell’art. 41 (Cafari Panico, R., Art. 41, in AA.VV., Commentario del nuovo diritto internazionale privato italiano, Padova, 1996, 206 ss.).
È tuttavia ipotizzabile che si verifichi la necessità di un riconoscimento incidentale del provvedimento straniero di adozione di un minore italiano nel caso in cui ad esempio il tribunale per i minorenni venga investito di una procedura di adozione dello stesso minore. In quest’ipotesi, l’accertamento compiuto dal tribunale per i minorenni avrà efficacia limitata al procedimento di adozione in oggetto, secondo quanto dispone l’art. 67, co. 3. Tuttavia è sempre possibile che i soggetti nei cui confronti è stata pronunciata l’adozione chiedano l’accertamento in via principale dei requisiti del riconoscimento in base all’art. 67, co. 1, in caso di contestazione o di mancata ottemperanza di tale provvedimento (Bonomi, A., La disciplina dell’adozione, cit., 382).
Un’altra ipotesi in cui non sembra possa applicarsi l’art. 41, co. 2, della legge italiana di diritto internazionale privato riguarda le adozioni di minori stranieri, che non presentano legami significativi con l’ordinamento italiano, come ad esempio nel caso in cui vengano poste in essere da parte di persone straniere residenti all’estero.
Per quanto concerne invece le adozioni effettuate da cittadini stranieri residenti in Italia, sembra che la lettera dell’art. 29 bis, co. 1, l. adozione determini la necessità di estendere l’operatività della disciplina prevista da quest’ultima anche in ordine a tali categorie di provvedimenti. Analoghe considerazioni possono essere svolte anche relativamente alle adozioni poste in essere a favore di adottanti italiani residenti all’estero; l’art. 29 bis, co. 2, dispone in tal senso, e richiede pertanto che tali adottandi ottengano dal tribunale per i minorenni del luogo della loro ultima residenza in Italia la dichiarazione di idoneità all’adozione. L’applicazione delle nuove norme ai provvedimenti di adozione ad esse sottoposti risulta del resto esclusiva, anche al fine di evitare gli inconvenienti che una diversa soluzione determinerebbe in pratica. Si pensi infatti ai tentativi di elusione cui darebbe luogo la possibilità di rivolgersi alla corte d’appello, in base alle norme della legge italiana di diritto internazionale privato, in tutti i casi di adozioni “irregolari” (Cafari Panico, R., Art. 41, cit., 208).
Nelle ipotesi in cui prevalga la disciplina posta dalla l. adozione, i provvedimenti stranieri di adozione hanno efficacia automatica, in presenza delle condizioni previste dalla Convenzione, che tuttavia regola in maniera diversa le seguenti fattispecie. Nell’ipotesi in cui l’adozione sia stata pronunciata in un altro Stato contraente della Convenzione dell’Aja del 1993, prima dell’arrivo del minore in Italia, il tribunale per i minorenni del luogo di residenza in Italia dei coniugi al momento dell’ingresso, autorizzato dalla Commissione per le adozioni internazionali (istituita con d.P.R. 1.12.1999, n. 492 e oggetto di riordino con d.P.R. 8.6.2007, n. 108), verifica che nel provvedimento straniero risulti: la sussistenza delle condizioni delle adozioni internazionali previste dall’art. 4 della Convenzione; la non contrarietà dell’adozione ai principi fondamentali che regolano nell’ordinamento italiano il diritto di famiglia e dei minori, valutati in relazione al superiore interesse del minore; l’esistenza della certificazione di conformità alla Convenzione rilasciata dalle autorità dello Stato d’origine e l’autorizzazione all’ingresso e alla permanenza del minore in Italia da parte della Commissione per le adozioni internazionali. Dopo aver effettuato tali accertamenti, il tribunale per i minorenni ordina la trascrizione del provvedimento straniero nei registri dello stato civile e il minore acquista lo status di figlio legittimo e la cittadinanza italiana dei genitori adottivi (art. 35, co. 2-3, l.adozione).
Nell’ipotesi in cui l’adozione si concluda dopo l’arrivo del minore in Italia, il tribunale per i minorenni riconosce il provvedimento straniero come affidamento preadottivo, se non è contrario ai principi fondamentali che regolano in Italia il diritto di famiglia e dei minori, e ne stabilisce la durata per un periodo non superiore ad un anno dal momento in cui il minore viene inserito nella nuova famiglia (art. 35, co. 4). Decorso tale periodo, il tribunale per i minorenni pronuncia l’adozione, se ritiene che la permanenza del minore nella famiglia che lo ha accolto sia conforme al suo interesse, e ne dispone la trascrizione nei registri dello stato civile, al fine di consentire l’acquisto della cittadinanza italiana da parte del minore. In caso contrario, anche prima che sia decorso il periodo di affidamento preadottivo, lo revoca e adotta le misure di cui all’art. 21 della Convenzione dell’Aja. Contro il decreto che ordina la trascrizione, la giurisprudenza ha inizialmente ritenuto esperibile solo il ricorso straordinario per Cassazione ex art. 111 Cost. (Cass., 30.6.2005, n. 14031, in Riv. dir. int. priv. proc., 2006, 752), ammettendo successivamente il ricorso in appello (Cass., 18.3.2006, n. 6078, in Riv. dir. int. priv. proc., 2007, 162 ss.).
Se il provvedimento di adozione è stato pronunciato in un paese terzo, è necessario l’intervento del tribunale per i minorenni per la pronuncia con cui si accertino le condizioni di cui all’art. 36: la condizione di abbandono del minore o il consenso dei genitori naturali ad un’adozione che determini l’acquisizione dello stato di figlio legittimo e la cessazione dei rapporti con la famiglia d’origine; il decreto di idoneità degli adottanti (sul quale si veda Cass., 1.6.2010, n. 13332, in Riv. dir. int. priv. proc., 2010, 1024 ss.); l’intervento della Commissione per le adozioni internazionali nella procedura di adozione; il rispetto delle indicazioni contenute nel decreto di idoneità; la concessione dell’autorizzazione all’ingresso del minore da parte della Commissione (per il superamento dei dubbi di costituzionalità della disciplina appena considerata, si veda C. cost., ord. 31.7.2002, n. 415, in Riv. dir. int., 2002, 1089 ss.).
Alla luce delle considerazioni sino ad ora svolte, è pertanto possibile affermare che le adozioni sottratte all’operatività della nuova disciplina vengono riconosciute in base alle norme degli artt. 64, 65 e 66 della legge italiana di diritto internazionale privato: le adozioni di minori italiani disposte all’estero; le adozioni di minori stranieri disposte dal giudice straniero nei confronti di cittadini stranieri residenti all’estero; le adozioni dei maggiori, italiani o stranieri (Trib. min. Roma, decr. 9.1.1999, in Dir. fam., 1999, 715 ss.); le adozioni in «casi particolari» di cui all’art. 44 l. adozione (Trib. min. Bari, 12.7.2000, in Stato civ. it., 2000, II, 820). Non rilevano invece, in materia, le norme del regolamento CE n. 2201/2003 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che esclude dal proprio ambito applicativo le decisioni relative all’adozione (art. 1.3, lett. b).
Relativamente al procedimento per riconoscere i provvedimenti di adozione appena considerati, vengono in rilievo le norme degli artt. 64, 65 e 66, da applicarsi in maniera concorrente.
Gli artt. 65 e 66 regolano il riconoscimento delle sentenze e dei provvedimenti stranieri di volontaria giurisdizione che abbiano conseguito effetti nell’ordinamento applicabile al rapporto secondo le norme di diritto internazionale privato, facendo riferimento a condizioni agevolate rispetto a quelle richieste dall’art. 64 per il riconoscimento delle sentenze straniere in genere. Nell’ambito degli artt. 65 e 66 si richiede infatti solo la non contrarietà del provvedimento straniero all’ordine pubblico e il rispetto dei diritti essenziali della difesa nel procedimento straniero da cui è scaturito. In questo modo la nuova disciplina ha ripreso l’orientamento accolto, nel vigore del sistema previgente, secondo il quale se un provvedimento straniero aveva validamente conseguito effetti in un paese straniero, non era necessario il riconoscimento di tale provvedimento se l’ordinamento, ove già avesse avuto effetto, fosse risultato quello applicabile alla fattispecie in forza delle norme di diritto internazionale privato del foro. Tuttavia la legge italiana di diritto internazionale privato ha ristretto l’ambito d’applicazione di tale riconoscimento limitandolo alla capacità delle persone, ai rapporti di famiglia e ai diritti della personalità. Nello specifico, al di là dei provvedimenti concernenti l’adozione legittimante di un minore per i quali l’art. 41, co. 2, prevede come si è detto un altro procedimento di riconoscimento, le norme di conflitto che consentono di dar luogo a un richiamo internazionalprivatistico di provvedimenti stranieri di adozione sono quelle poste dall’art. 38, co. 1. Il riconoscimento in esame potrà riguardare provvedimenti assunti o comunque produttivi di effetti nello Stato nazionale dell’adottante, oppure, qualora ad adottare sia una coppia di coniugi, nello Stato di cui entrambi sono cittadini o, in mancanza di cittadinanza comune, nello Stato nel quale entrambi risiedono o, in difetto anche di residenza comune, nello Stato nel quale la loro vita matrimoniale è prevalentemente localizzata al momento dell’adozione.
Per quanto riguarda il limite dell’ordine pubblico, è opportuno rilevare la necessità di considerare le indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo che, nella sentenza Wagner (28.6.2007, Wagner c. Lussemburgo, n. 76240/01, consultabile all’indirizzo http://hudoc.echr.coe.int) ha recentemente riconosciuto la dimensione transnazionale del diritto al rispetto della vita familiare garantito dall’art. 8 della CEDU anche con riguardo alla posizione di adottati e adottanti. Nel caso, le autorità lussemburghesi avevano negato il riconoscimento di una sentenza peruviana a una cittadina lussemburghese non coniugata, sulla base della motivazione secondo la quale nell’ordinamento del Lussemburgo l’adozione non è consentita alle persone singole, motivazione resa rilevante dal controllo sulla legge applicata, che, nel caso, avrebbe dovuto essere quella richiamata dalle norme di conflitto lussemburghesi, ovvero la legge nazionale dell’adottante. L’art. 370 del codice civile lussemburghese prevede infatti che «les conditions requises pour adopter sont régies par la loi nationale du ou des adoptants». Di conseguenza, rileva nel caso di specie l’art. 367 del codice civile, che, tra l’altro, stabilisce che l’adozione ‘piena’ possa essere pronunciata solo a favore di coppie coniugate e non di singoli, che possono ottenere esclusivamente l’adozione ‘semplice’. La Corte accoglie il ricorso fondato sulla violazione degli artt. 6, 8 e 14, ritenendo prioritario l’interesse della minore allo status costituito in capo ad essa in corrispondenza all’esercizio del suo diritto alla vita privata e familiare, e affermando così che le autorità lussemburghesi «ne pouvaient raisonnablement passer outre au statut juridique crée valablement à l’étranger et correspondant à une vie familiale au sens de l’article 8 de la Convention», configurando in questo modo anche una violazione del divieto di discriminazione sia nei confronti dell’adottante che dell’adottata. Le importanti indicazioni della Corte di Strasburgo in merito alla considerazione del rispetto alla vita familiare del minore e più generalmente rispetto al rilievo della tutela dell’interesse di quest’ultimo quale “controlimite” al riconoscimento di giudicati stranieri, in linea con la prassi internazionale ed europea che tende a temperare il ricorso al limite dell’ordine pubblico internazionale con l’obbligo di tenere in considerazione il superiore interesse del minore, potranno rilevare anche nell’ambito dell’ordinamento italiano (sul punto v. anche la sentenza 4.10.2012, Harroudj c. Francia, ric. n. 43631/09, consultabile in http://hudoc.echr.coe.int).
Relativamente al riconoscimento in Italia dei provvedimenti di adozione pronunciati all’estero nei confronti di adottanti non coniugati, l’orientamento prevalente nella giurisprudenza italiana attuale si individua nell’affermata possibilità di riconoscere tali adozioni secondo quanto prevede l’art. 44 della l. adozione, ovvero senza effetti legittimanti (si veda in tal senso Cass., 14.2.2011, n. 3572, cit., 701; Cass., 18.3.2006, n. 6078, in Riv. dir. int. priv. proc., 2007, 162 ss.).
Artt. 3, 9, 13, 17, 18, 19, 24, 29, 36, 38-41, 51, 64-67 l. 31.5.1995, n. 218; artt. 29 bis, 35-36, 37 bis l. 4.5.1983, n. 184; art. 6.1 della Convenzione di Strasburgo del 24 aprile 1967, in materia di adozione; art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950.
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