ROSSI, Adriano
de’. – Nato a Firenze, probabilmente prima del 1333, da Frosone di Arrigo di Boccaccio de’ Rossi e da Soave di messer Giovanni Frescobaldi, faceva parte della ricca e potente famiglia dei Rossi, una casata fiorentina che contava antichissime origini, sin dai Longobardi.
Non risulta abbia partecipato alla vita pubblica con incarichi particolari: solo in vecchiaia, nel 1396, fu estratto a sorte come podestà di Monopoli in Valdarno, ma molto probabilmente non accettò l’incarico. I primi documenti certi che lo nominano sono del 1351, ove per questioni relative a una ricevuta eredità è nominata anche sua moglie, Niccolosa di Neri di Manfredi Sassetti, vedova di Francesco Botticini.
Rossi era vicino di casa e conoscente di Giovanni Boccaccio: abitava infatti sulla piazza di Santa Felicita, proprio dirimpetto alla chiesa, nel quartiere dove risiedevano altre famiglie notabili fiorentine, come i Machiavelli e, appunto, Boccaccio (anche a Certaldo la casa di Boccaccio, come si evince dal testamento del 28 agosto 1374, era muro a muro con una di Fornaino di Andrea de’ Benghi de’ Rossi).
Altro suo vicino di casa era quel Domenico Silvestri più che probabile autore del volgarizzamento del De viris illustribus di Donato Albanzani e del De remediis utriusque fortunae di Giovanni da San Miniato, oltre che traduttore delle Invectivae contra medicum di Petrarca. Domenico Silvestri indirizzò a Rossi l’unico suo sonetto in volgare rimasto, Io ti ricordo, caro amico fino, in risposta a quello inviatogli da Rossi, Quando dovessi fare alcun cammino. Le loro famiglie dovevano essere così intime che Filippo, figlio primogenito di Silvestri, squittinato per le Arti maggiori nel 1391, compare come testimone alla stesura del testamento di Rossi.
La data di morte di Rossi coincide con l’inizio del nuovo secolo: il suo testamento è dell’agosto 1400.
Per Rossi la poesia in volgare da lungo tempo era di casa: poeta era stato il suo bisnonno, il potente banchiere di parte nera Lambertuccio de’ Frescobaldi, e anche suo nonno Giovanni di Lambertuccio, in corrispondenza con Ventura Monachi, ma poeta ancor più grande era stato il fratello di Giovanni, Dino Frescobaldi; infine rimatore, fra i migliori della sua generazione, era il cugino di sua madre, Matteo, che morì a soli quarant’anni durante la peste del 1348. Proprio a Matteo, de’ Rossi inviò nel 1333 un gruppo di sonetti sulla piena devastante dell’Arno a Firenze nel novembre di quell’anno. Così recita la lunga rubrica che introduce i testi nel ms. Biblioteca apostolica Vaticana, Chigiano, L.IV.131, c. 357r: «nel 1333 a dì 3 novembre, venne un diluvio d’acqua che ruppe tutti i ponti di Firenze salvo che Rubaconte, sì che un galant’huomo mandò a Matteo di Dino di messer Lambertuccio Frescobaldi questo sonetto. E mandonne altri due sopra la proposta materia». Che il «galant’huomo» qui citato sia Adriano de’ Rossi è provato dalla rubrica che accompagna i sonetti in un manoscritto di notevole autorevolezza attributiva, il codice di Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Redi, 184, c. 126r. E che i due manoscritti derivassero dalla medesima fonte comune è stato dimostrato da Michele Barbi, anche se mediatamente, come integra ora Claudio Giunta nello stemma proposto per il poeta Alberto degli Albizi. A proposito di quest’ultimo sarà di qualche interesse riportare le informazioni che ancora il ms. Chigiano trasmette circa la copia dei testi: «Finito di scrivere canzone e sonetti di messer Alberto di Pepo degli Albizi da Firenze fatti per la nobilissima e honestissima donna sua Madonna Elena, figlia di Giovanni Franceschi, scritti per mano di Matteo di Piero di Bancho degli Albizi e copiati da propii scritti di mano del decto messer Alberto; martedì sera addì xiii d’ottobre 1394 a le 4 hore di notte si finirono di scrivere» (c. 713r). Abbiamo dunque la testimonianza che un booklet con le poesie di Alberto era stato composto, poi ricopiato da un suo parente e confluito nella fonte del manoscritto vaticano proprio a chiudere una sezione: la c. 713v è infatti bianca e su c. 714r troviamo la rubrica suddetta relativa ai testi sullo straripamento dell’Arno di Adriano de’ Rossi. L’episodio della piena del fiume, che è anche ricordata da Giovanni Villani (Cronica, XI, 2), diede materia a numerosi altri componimenti, di Antonio Pucci, di ser Marino Ceccoli di Perugia, fino a quelli che si leggevano sulle lapidi di Ponte Vecchio.
Il testo certamente più celebre e diffuso di Adriano de’ Rossi è però Il selvagiume che vien a Fiorenza, un caustico ritratto della corruzione dei magistrati fiorentini, ‘comprati’ attraverso doni di selvaggina, in un mondo appunto che non segue più coscienza e diritto ma ove: «chi peggio ci fa quelli è il migliore». Il componimento, che parrebbe avere peraltro stretti legami con la novella LXXVII di Franco Sacchetti, è citato anche da Domenico Bandini di Arezzo nel Fons memorabilium universi (1370-80): «sed me tremulum faciunt illa carmina fiorentina que Florencie didici sub his notis: Il selvagiume che vien a Fiorenza». E anche Antonio Pucci dedicò a Rossi uno dei suoi sonetti più spiritosi: Io fui iersera Adrian, sì chiaretto, ove gli racconta che nell’ebbrezza del vino vede sfuggire persino il letto e il materasso e vede l’amico sottrargli l’ultimo bicchiere di trebbiano.
In conclusione: il canzonieretto di Adriano de’ Rossi dovette essere ben noto ai poeti coevi e benché costituito da soli dieci componimenti, come ebbe a sottolineare Ezio Levi, resta uno dei più graziosi del Trecento. Accresce inoltre il suo valore rilevare che il sonetto rinterzato Tre giovan son (larghi) piacenti e saggi parrebbe la fonte di una delle questioni del Filocolo e anche che nel sonetto La ’nforticchiata barba che ti fai, ove si accenna a una disavventura capitata ad Avignone, si ritrova l’accusa di tracotanza e vigliaccheria rivolta a Vieri di messer Pepo Adimari e soprattutto una citazione della Commedia di Dante: «Non dico delle cose di Fiorenza / di che porti la lenza / all’occhio; e Dante ancora te ne incarca / là dove dicie: “dove Agniel si parca”». Il riferimento è forse a Inferno XXV, 60-69, dove si parla di Angelo Brunelleschi (solo le Chiose Selmi riferiscono in proposito) ma, più probabilmente, a Paradiso XVI, 115-117, dove Dante allude proprio agli Adimari, già condannati nel crudele profilo di Filippo Argenti (Inferno VIII, 31-48): «L’oltracotata schiatta che s’indraca / dietro a chi fugge, e a chi mostra ’l dente / o ver la borsa, com’agnel si placa». Non è questa l’unica citazione di Dante da parte di Rossi: nei suoi componimenti si rinvengono infatti altri ricordi danteschi nei citati prestatori caorsini (Inferno XI, 50), nella statua di Marte a Ponte Vecchio (Paradiso XVI, 145), nei malnati tutori dei pupilli (Convivio IV, 27).
Sarà dunque di certo interesse sottolineare il valore, per un poeta così legato a quel tessuto compatto di opere e uomini che componeva la realtà fiorentina del suo tempo, di un suo manoscritto autografo fortunatamente giunto sino a noi, ossia il codice conservato ad Aix-en-Provence, Bibliothèque Méjanes, n. 185, che trasmette il Teseida di Boccaccio con chiose. Il codice, cartaceo, appare come un perfetto manufatto del Trecento, i fascicoli sono appena imbastiti e legati insieme all’originaria camicia di pergamena. Attraverso le filigrane le carte parrebbero databili al 1368-70. All’inizio di c. 1r si legge tuttavia una precisazione preziosa: «In nome di Dio amme(n) a dì 19 di luglio nel 1394 Adriano de’ Rossi chominciò a scrivere questo libro» e poi a c. 64r b in basso «Iscritto e chompiuto questo libro [per me Adri|ano de Rossi di Firenze] (cancellato) adì xxi di settembre mccclxxxxiiii il dì di santo matheo apostolo amme(n)» (G. Vandelli, Un autografo della Teseida, in Studi di filologia italiana, II (1929), pp. 1-76). Rossi dunque copiò l’opera di Boccaccio durante l’estate, in poco più di due mesi, e la terminò il giorno di s. Matteo del 1394. Come ebbe a rilevare poi GiuseppeVandelli (ma l’intuizione è ancora di Levi), circa la geografia della copia, il Teseida ebbe molti insigni trascrittori, quasi tutti abitanti nel popolo di S. Felicita (Laurenziano Plutei, XC sup. 91 c. 162: «scricto per mano di me Lorenzo di Filippo Machiavegli a dì xv di gennaio 1430») e un altro scritto da Andrea di messer Bindo de’ Bardi nel 1402 (Firenze, Biblioteca nazionale, II.II.25). I codici che trasmettono il Teseida sono numerosi, fra essi l’autografo Biblioteca Medicea Laurenziana, Acquisti e Doni, 325. L’analisi della tradizione permise a Gianfranco Contini di organizzarla in tre rami (α, β, γ) risalenti non all’autografo, ma a tre diversi originali in evoluzione nel tempo. I manoscritti ancora trecenteschi sono però pochissimi e tutti privi di glossa. Il testimone autografo di Adriano de’ Rossi risulta così essere compreso fra i codici più antichi: è l’unico ad avere un’esplicita data di copia ed è l’unico a essere provvisto di un corredo di chiose. Recentissima è l’agnizione che il manoscritto conservato a Philadelphia (University of Pennsylvania Library, n. 254) sia della stessa mano del manoscritto di Aix e dunque anch’esso attribuibile a Rossi. Nei due manoscritti da lui copiati si rinvengono dunque non solo i più antichi testimoni del Teseida, gli unici esemplati da uno scrittore coevo a Boccaccio e, in quello di Aix, il più antico manoscritto relatore di quelle chiose che costituiscono l’unico esempio di prosa boccacciana ante Decameron.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Carte Pucci, vol. X, n. 14: Rossi, cart. 1°; Notarile antecosimiano, Notaio Bonagiunta di Francesco, 1348-56, vol. II, cc. 90B, 94; Diplomatico, S. Miniato al monte (Olivetani), 1° agosto 1400.
S. Debenedetti, Dieci sonetti fiorentini (Per le nozze di Edgardo Morpurgo con Ada Levi, XV novembre 1893), Firenze 1893, pp. 6, 14-16; Id., Lambertuccio Frescobaldi poeta e banchiere fiorentino del secolo XIII, in Miscellanea di studi critici pubblicati in onore di G. Mazzoni, a cura di A. Della Torre - P.L. Rambaldi, I, Firenze 1907, pp. 19-57, passim; Id., Matteo Frescobaldi e la sua famiglia, in Giornale storico della letteratura italiana, XLIX (1907), pp. 314-342, passim; E. Levi, Adriano de’ Rossi, in Giornale storico della letteratura italiana, LV (1910), pp. 201-265, passim; C. Giunta, Le rime di Alberto degli Albizi, in Estravaganti, disperse, apocrifi petrarcheschi, a cura di C. Berra - P. Vecchi Galli, Milano 2007, pp. 363-370, passim; G. Brunetti, A. de’ R., Autografi dei letterati italiani. Le origini e il Trecento, a cura di G. Brunetti et al., I, Roma-Padova 2013, pp. 149-156, passim; Ead., La lectura di Boccaccio: il Teseida fra autografo e ricezione, in Boccaccio in versi. Atti del Convegno, Parma... 2014, a cura di P. Mazzitello et al., Firenze 2016, pp. 71-87 passim.