POLITI, Adriano
POLITI, Adriano. – Nacque a San Quirico d’Orcia, presso Siena, nel 1542 da Marc’Antonio Politi, nobile locale, e da Virginia Cerina.
Dopo essere entrato nell’Ordine dei gesuiti a seguito della morte del padre, Politi allacciò rapporti di amicizia durevoli con i maggiori letterati locali, in particolare con Bellisario Bulgarini e Scipione Bargagli, diventando membro prima dell’Accademia degli Accesi e poi di quella degli Intronati. Di queste, come di altre relazioni intessute da Politi con scrittori coevi, rimane attestazione ampia, e da indagare ancora nel dettaglio, in un manoscritto (Siena, Biblioteca comunale, D.VI.8) che ospita lettere di e a Politi, per larga parte inedite, comprese tra il 1562 e il 1618.
Benché fosse considerato uno degli scrittori di maggior peso a Siena, si allontanò dalla città per trascorrere gran parte della propria vita a Roma in qualità di segretario di cardinali, tra cui Antonio Capizucchi, Giovanni Antonio Serbelloni, Federico Cornaro e Cinzio Aldobrandini. Il lungo periodo romano si interruppe nel 1605 con la salita al soglio pontificio di Paolo V, dal quale non ricevette i benefici inizialmente auspicati (Politi, Lettere, 1624, pp. 266-273).
Nel 1603, mentre era cappellano della basilica di S. Lorenzo in Damaso, mandò alle stampe una fortunata traduzione in volgare senese di Tacito intitolata Annali et istorie di Cornelio Tacito. Tradotte nuovamente in vulgare toscano… Con una breve dichiaratione d’alcune parole, per intelligenza dell’Istoria (Roma, L. Zannetti), che godette di ben dieci ristampe fino al 1665.
L’edizione apparve corredata di una lettera di dedica a Francesco Visdomini firmata da Orazio Giannetti, pseudonimo del Politi, datata Siena, 10 marzo 1603, nella quale erano enucleati alcuni dei capisaldi fondamentali di quella tradizione senese di studi linguistici, cui Politi appartenne (insieme con Claudio Tolomei, Girolamo Buoninsegni, Orazio Lombardelli, Bulgarini e Bargagli), che a cavallo tra Cinque e Seicento si cimentò in maniera sistematica in questioni linguistiche, grammatiche e lessicografiche, sostenendo da un’ottica municipalistica le polemiche intorno al Vocabolario della Crusca. Osteggiando la traduzione in «volgare fiorentino» del primo libro degli Annali tacitiani a opera di Bernardo Davanzati (Firenze 1596) e in opposizione esplicita alle tesi bembesco-salviatiane, Politi ammetteva la priorità del dialetto senese nell’orbita del primato del toscano, rispetto al fiorentino di marca cruscante, attribuendo valore precipuo alla vivacità e alla forza culturale del parlato, aperto, diversamente dallo scritto, a processi di sviluppo lessicale.
Politi andava a collocarsi, dunque, sulla linea tracciata da uno dei testi cardinali della ‘scuola’ senese, Il Turamino overo del parlare e dello scrivere sanese dell’amico Bargagli (Siena, M. Florimi, 1602), un trattato in forma dialogica, dedicato allo stesso Politi, che sosteneva i diritti dell’idioma senese e che, lambendo aree di interesse prettamente morfologico o fonetico, segnalava i senesismi usati nei testi delle tre Corone fiorentine. Ma, oltre ad accogliere le «parole originarie» canonizzate nel dialogo di Bargagli, Politi attingeva direttamente dall’«uso» vivo della lingua parlata tra le contrade di Siena: «Parerà anco forse a Vostra Signoria che nello scrivere senese non siamo in tutto conformi alle buone regole et osservationi che ne dà nel suo Turamino il Signor Cavaliere Scipione Bargagli, a cui deve molto e la lingua e la patria nostra, però che egli ha ivi portate le parole originarie, e noi ci siamo allargati anco a quelle che pur in patria sono state introdotte et accettate dall’uso» (c. 5v).
La traduzione di Tacito riscosse critiche, come riferisce una lettera inedita di Politi a Bulgarini scritta da San Quirico il 23 settembre 1607, dove si allude alle dure reazioni di Paolo V e dei «prelati fiorentini» (Siena, Biblioteca comunale, Mss., D.VI.8, c. 326rv). Densa di intenti programmatici si rivela anche una riedizione ampliata degli Annali et Istorie… tradotte in vulgar senese del 1611 (Roma, G.A. Ruffinelli), nella quale Politi inseriva una «breve apologia intorno alla lingua», a ribadire i principi fondamentali della propria teoria ‘senesizzante’.
Dal 1605 al 1613 Politi sostò nella propria dimora di San Quirico, alternando qualche sporadico soggiorno romano, per poi trasferirsi stabilmente a Sarteano, presso Siena. Al 1611 risale una lettera al Politi scritta da Alessandro Tassoni, che gli forniva informazioni circa alcune «operette» stampate di Ludovico Castelvetro, in particolare la Giunta alle Prose della volgar lingua del Bembo (Tassoni, 1978, pp. 80 s.). Nel 1614 mandò alle stampe a Roma l’opera che lo rese celebre, il Dittionario toscano compendio del Vocabolario della Crusca. Con la nota di tutte le differenze di lingua che sono tra questi due populi, fiorentino e senese (tip. G. Mascardi).
Nella lettera prefatoria diretta al nipote Curzio, scritta da Roma il 4 dicembre 1613, Politi confermava, in conformità a quanto pronunciato a più riprese sulle soglie del volgarizzamento in senese di Tacito, una prospettiva fieramente modernista, affermando «che il secolo d’oggi sia il vero buon secolo di questa lingua». In questa maniera Politi poteva mettere in rilievo le caratteristiche fonetiche, morfologiche, ortografiche e lessicali della lingua toscana (e non fiorentina, si badi), criticando apertamente la sopravvalutazione che del fiorentino trecentesco avevano operato gli Accademici della Crusca. Trasse dunque dal Vocabolario della Crusca, a stampa nel 1612, un dizionario assai più esile, evitando di segnalare occorrenze ed esempi dagli scrittori antichi e moderni e aggiungendovi una quota di termini tratti dal dialetto senese, «adoperate da’ nostri scrittori, e particolarmente da’ nostri comici, quali possono molto bene ancor essi insegnar la lor lingua toscana».
Trasmettendo sul frontespizio, per volere esplicito dello stampatore, il sottotitolo «compendio del Vocabolario della Crusca», il Dittionario provocò le dure reazioni di Bastiano De’ Rossi, segretario della Crusca, che censurò duramente l’opera di Politi, il quale, a sua volta, contrattaccò scrivendo ai membri del consesso fiorentino; privatamente, in una lettera non datata a Niccolò Sacchetti, si difendeva dalle «punture» inflittegli dall’«Inferigno» (nome accademico di De’ Rossi) biasimando gli assunti essenziali del purismo trecentesco con la citazione di due auctoritates anticruscanti, Paolo Beni e Alessandro Tassoni (Politi, Lettere, 1624, pp. 354 s.). Nel Dittionario Politi segnalava, accanto ai termini fiorentini, gli equivalenti senesi, collocando in appendice al volume un elenco di voci non usate o comprese dai fiorentini, allo scopo di evidenziare i divari linguistici tra i due dialetti. Benché intaccasse la supremazia del fiorentino cruscante, il Dittionario fu molto richiesto sul mercato librario (si contano ben undici ristampe fino al 1691), diventando un punto di riferimento per quanti, come Uberto Benvoglienti e Girolamo Gigli, si pronunciarono, nei secoli successivi, sulle dispute linguistiche sorte tra Siena e Firenze.
Gli anni immediatamente precedenti alla morte furono molto prolifici sul piano editoriale. Nel 1623 uscì a Siena, presso Emilio Bonetti, la commedia Gl’ingannati (titolo che ricalca quello dell’omonima commedia collettiva degli Intronati di Siena), che da prospettiva ancora campanilistica doveva esaltare la «purità della […] lingua senese» (dalla lettera di dedica di Bonetti a Codro Vannocci Biringucci del 23 aprile 1623). Si tratta di una classica commedia d’intreccio, di ispirazione plautina, dove la simulazione e il travestimento assumono una funzione narrativa cruciale.
Nel 1624 uscì a Venezia (A. Pinelli) una raccolta di Lettere, in due sezioni, la prima di lettere «scritte a nome del Cardinal San Giorgio suo padrone», la seconda di lettere «scritte a nome proprio». In quest’ultima emerge un ventaglio di corrispondenti di tutto rilievo: oltre ai già citati Bulgarini, Bargagli e Tassoni, si rilevano, tra gli altri, i nomi di Bartolomeo Zucchi, Filippo Massini e Ascanio Piccolomini.
Si evidenziano alcune missive in particolare, come quella non datata a Scipione Bargagli, nella quale Politi espone un giudizio sul dialogo Delle imprese (Venezia 1594). Pur apprezzando la novità della materia trattata («Lodo infinitamente il pensiero d’aver composto, e di voler dar ora alla stampa il trattato o discorso delle imprese; essendo materia molto vaga, curiosa et in un certo modo anco nuova»), Politi marca, per voce del gruppo cui l’opera era stata sottoposta in lettura, le carenze formali del dialogo (pp. 91-94). Di là dalle questioni linguistiche discusse ampiamente in un’altra lettera al Bargagli (pp. 148-155), emerge per originalità una missiva indirizzata all’arcivescovo di Chieti, Ulpiano Volpi, nella quale Politi esalta, per ragioni di verve e naturalità linguistiche, il teatro comico, genere che richiederebbe «un talento particolare et una particolare attitudine, un giuditio molto acuto e una destrezza d’ingegno molto singulare» (pp. 336 s.).
La raccolta è siglata da un Discorso della vera denominatione della lingua vulgare usata da’ buoni scrittori, dedicata a Giulio Pannocchieschi d’Elci. Il Discorso muove dalla lettura dell’Anticrusca (Padova 1612) del Beni e della conseguente Risposta (Verona 1613) di Orlando Pescetti, avviando la risoluzione di un quesito: «come si debba chiamar la lingua vulgare, che s’usa da’ buoni scrittori, cioè fiorentina, o toscana o pur italiana». Politi passa così in rassegna le tesi di tutti gli schieramenti, orientandosi verso la soluzione ‘italiana’ e ammettendo poi di preferire il Memoriale della lingua (Venezia 1602) di Giacomo Pergamini al Vocabolario della Crusca, capace di «insegnare ad altri la lingua fiorentina e la disusata del secolo 1300, ma non la lingua toscana approvata dall’uso de gli scrittori più nobili del secolo presente» (p. 462). Il Discorso termina con un augurio legittimo, cioè che il vocabolario cruscante venisse al più presto ridotto «in forma più utile e più proportionata al servizio pubblico» (p. 464).
La morte colse Politi a Sarteano intorno al 15 gennaio 1625; il 16 il corpo fu trasportato a Siena, dove venne seppellito nella cappella Politi della chiesa di S. Francesco.
Fonti e Bibl.: G. Ghilini, Teatro d’huomini letterati, I, Venezia 1647, p. 1; I. Ugurgieri Azzolini, Le pompe sanesi, overo relazione delli huomini e donne illustri di Siena e suo stato… parte prima, Pistoia 1649, pp. 584 s.; C. Neri, A. P. filologo senese del XVI secolo, tesi di laurea (relatore B. Migliorini), Firenze 1950; C. Neri, Il Dittionario Toscano di A. P., in Lingua nostra, XII (1951), pp. 5-10; F. Borromeo, Indice delle lettere a lui dirette conservate all’Ambrosiana, Milano 1960, p. 276; P. Bianchi, A. P. e il suo Dittionario Toscano, in Annali della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università degli Studi di Perugia, VII (1969-1970), pp. 179-345; A. Tassoni, Lettere, a cura di P. Puliatti, Bari 1978, I, pp. 80 s.; II, p. 357; M. Vitale, La scuola ‘senese’ nelle questioni linguistiche fra Cinque e Seicento, in Lingua e letteratura a Siena dal ’500 al ’700. Atti del Convegno... 1991, a cura di L. Giannelli et al., Siena 1994, pp. 1-40 e ad indicem.