ADRIANO (prima dell'adozione, Publius Aelius Hadrianus; dopo l'assunzione al trono, Imperator Caesar Traianus Hadrianus Augustus)
Imperatore romano che governò dal 117 al 138. Publio Elio Adriano era nato nella provincia Baetica ad Italica (oggi Santiponce, non lungi da Siviglia), antica colonia romana, fondata dagli Scipioni durante la seconda guerra punica (v. le prove contro un'asserzione di nascita a Roma della Historia Augusta in Rivista di Storia Antica, 1903, p. 147). La famiglia di lui era però di origine italica, dicevasi della città picena di Hadria. La data della nascita è concordemente segnata al 24 gennaio del 76. Suo padre Publio Elio Adriano, personaggio di grado senatorio, era cugino di Traiano, e a Traiano, non ancora imperatore, fu affidata la tutela del giovanetto Adriano quando il padre di lui morì (a. 86).
Condotto a Roma, il giovanetto coltivò con grande passione studî letterarî, artistici, scientifici, sì che poteva dirsi non aver egli lasciato inesplorato campa alcuno del sapere. Iniziò a diciassette anni la carriera politica, occupando uno degli uffici del vigintivirato, e fu poi tribuno legionario. Durante questo suo servizio militare, si verificarono degli avvenimenti inaspettati che dovevano portare il giovane tribuno tra le figure di primo piano del suo tempo. Il 18 settembre 96 cadeva ucciso Domiziano, e il Senato chiamava a succedergli il vecchio e mite giurista Marco Cocceio Nerva, il quale, non sentendosi la forza di tenere a freno i turbolenti pretoriani, adottò come figlio e chiamò collega all'impero un uomo gradito e rispettato dall'esercito: Marco Ulpio Traiano. Era questi in quel tempo al governo della Germania superiore, e trattenne nella sua provincia il giovane pupillo che militava nella legione V Macedonica in Mesia, e che si era recato a portargli l'omaggio dell'esercito danubiano. Il 27 gennaio 98 Nerva moriva, e Traiano rimaneva solo imperatore. A. fu il primo a portargli la notizia, vane essendo restate le insidie tesegli, per ritardare il suo viaggio, dal cognato Giulio Serviano, che aveva anch'egli un comando in Germania.
Il nuovo imperatore non si affrettò a correre a Roma, ma ancora per oltre un anno rimase a dare solido assetto ai territorî romani della regione renana, ed assicurarne i confini, sì che fosse vana ogni minaccia e ogni turbolenza delle libere tribù germaniche. Durante questo tempo il giovane Adriano, cui non mancavano eccellenti qualità militari e politiche, dovette rendere buoni servigi, e meritare la considerazione del suo imperiale congiunto. E anche maggiore simpatia dovettero attrargli in Roma, dove giunse con Traiano nella seconda metà del 99, le brillantissime sue doti di uomo di mondo, parlatore efficace, ricco di dottrina, intenditore e cultore squisito di ogni arte, e nel tempo stesso vigoroso soldato, valente in molti esercizî fisici, esperto di arte di governo, e conoscitore di popoli diversi dell'impero.
In particolar modo la saggia e virtuosa Pompeia Plotina, moglie di Traiano, proteggeva il giovane parente, sino ad indulgere alla sua vita dissoluta e dissipatrice. E forse per correggere queste che si volevano ritener giovanili esuberanze, si adoperò il dolce richiamo di una bella, giovanissima sposa, scelta nella casta stessa imperiale: la leggiadra Sabina, figlia di Matidia, nipote di Traiano. A. diveniva così doppiamente parente dell'imperatore.
La carriera politica di A. ci è segnata sino all'anno 112 da una iscrizione ateniese (Corp. Inscr. Lat., III, 550), dalla quale apprendiamo che egli fu nel 101 questore addetto alla persona dell'imperatore. Nell'anno seguente accompagnò Traiano alla prima spedizione dacica in qualità di comes o ufficiale del seguito; fu poi tribuno della plebe nel 105 e nell'anno stesso pretore, e come pretorio posto al comando della legione I Minervia. Il favore dell'imperatore, che gli concesse il privilegio di attendere in un solo anno a tre uffici, si spiega col desiderio di farlo partecipare come comandante di un reparto alla seconda guerra dacica, che in quell'anno cominciava. A. seguì tutta la campagna, terminata trionfalmente con la morte di Decebalo e con la sottomissione dell'intera Dacia, e fu lasciato poi a governare una provincia vicina al teatro della guerra: la Pannonia inferiore. Nell'anno 108 fu nominato console con M. Trebazio Prisco. Nel 112 fu eletto arconte in Atene, onore che a pochissimi Romani fu concesso, e che indubbiamente significava il compiacimento dei Greci per il fervido filellenismo di A. e ad un tempo il desiderio di accaparrarsene sempre più la benevolenza, nella speranza che egli dovesse ascendere al trono imperiale. Nel 114, iniziandosi la grande spedizione contro i Parti, A. fu chiamato a parteciparvi in qualità di legato, e partì probabilmente con l'imperatore. Nella povertà grande della nostra tradizione non sappiamo precisamente quale parte egli prese alla guerra, quali comandi e quali incarichi ebbe.
La spedizione intrapresa con grande energia e con brillantissimi successi non portava però a definitivi risultati. Come i Russi contro Napoleone, così i Parti contro Traiano fidarono più nella vastità sterminata e nelle difficoltà del loro paese che non nelle loro forze militari. E due altri avvenimenti, un gravissimo terremoto che quasi distruggeva nel 115 la base delle operazioni, Antiochia, e una feroce insurrezione giudaica alle spalle dell'esercito operante, dalla Mesopotamia fino all'Egitto, alla Cirenaica e a Cipro, compromettevano seriamente i risultati ottenuti. Nell'inverno 116-117 Traiano attendeva a ricostituire e rinsaldare l'esercito sfinito da tre anni di combattimenti e di interminabili marce, quando la salute di lui fattasi malferma e le notizie di torbidi su altre frontiere lo persuasero a tornare a Roma, dove la sua presenza era non meno necessaria che sulla fronte di combattimento.
A. era allora divenuto governatore di Siria, la grande e difficile provincia guarnita di larghe forze militari, e in quel momento base di operazioni contro i Parti. S'intende perciò che, lasciando Traiano il comando supremo degli eserciti in campo, questo non poteva restar confidato ad altri che ad A. Il vecchio imperatore aveva appena iniziato il viaggio di ritorno, quando, aggravatosi improvvisamente il male, dovette arrestarsi a Selinunte di Cilicia, dove il 7 o l'8 agosto del 117 lo raggiunse la morte.
La successione non mancò di presentare qualche difficoltà. Traiano aveva dato grandi segni di benevolenza e di distinzione al suo antico pupillo, ma non lo aveva adottato come figlio. La sanità e la vigoria fisica goduta sino alle ultime settimane di vita non gli avevano fatto sembrare ancora necessario addivenire a un provvedimento di questo genere, e d'altra parte non potevano mancare nell'animo rigido, misurato, probo di Traiano gravi esitazioni sulla convenienza di affidare l'impero all'irrequieto, disuguale, fantastico, dissoluto suo cugino. Troppi errori erano stati già commessi nelle successioni imperiali, e troppo gravi danni erano venuti a un così prezioso e necessario istituto dalle insufficienze o dalla malvagità di taluni dei Cesari.
L'adozione sarebbe avvenuta negli ultimi giorni della vita; anzi si sussurrò pure che non fosse avvenuta mai, che la morte di Traiano sarebbe stata celata, e sarebbe stato simulato l'atto dell'adozione con un falso morente, complice Plotina. Le discordi testimonianze degli antichi hanno provocato discussioni numerose e vivaci tra i moderni scrittori (fino al 1907 riassunte da W. Weber, Untersuchungen zur Geschichte des Kaisers Hadrian, p. 1 seg.; cfr. poi Brassloff, in Hermes, XLIX, 1914, p. 590). In fondo, il provvedere con la maggior rapidità e sicurezza a troncare il periodo di una vacanza del trono imperiale in quel momento, con una guerra lasciata a mezzo e una grave insurrezione mal domata, era un'assoluta necessità, né era possibile senza immenso rischio scavalcare A., vicino e investito del comando di un forte gruppo di eserciti. Sicché è perfettamente credibile, che, avvenuta o no l'adozione, la morte di Traiano sia stata tenuta celata per i due o tre giorni necessarî ad avvertire Adriano rimasto in Antiochia. Il nuovo imperatore riconosciuto e acclamato subito dall'esercito, e poi senza troppe difficoltà dal Senato, al quale egli si affrettò a scrivere, segnò il suo dies imperii all'11 agosto, mentre la morte di Traiano può essere avvenuta il 70 l'8 agosto (cfr. Corp. Inscr. Lat., XIV, 4235; Röm. Mitt., V, 1890, p. 288; Holzapfel, in Klio, XVII, 1920, p. 86; Kornemann, ibidem, VII, 1907, p. 278 e VIII, 1908, p. 398).
Con A. ascendeva sul trono dei Cesari il più perfetto e squisito prodotto delle due civiltà riunite d'Ellade e di Roma. Completo per solida vigoria fisica, per resistenza a ogni fatica, per vivacità d'intelligenza, per larghezza di cultura, per solida esperienza amministrativa e militare, non v'era conquista dello spirito ellenico nelle lettere, nelle scienze, nelle arti, non v'era sapienza di pensiero romano nel diritto, negli ordinamenti politici, nelle armi che egli non avesse attinta. Ci dicono i suoi biografi che egli era profondamente versato in letteratura e in filosofia, e dipingeva e scolpiva, suonava e cantava, e scriveva versi latini e greci, e amava con particolare trasporto l'architettura, e persino di geometria e di medicina si interessava. E nella sua carriera politica e militare si era rivelato amministratore sagace, buon generale, lavoratore instancabile, conoscitore esperto delle civili e guerresche necessità dell'impero. Non gli mancavano però gravi difetti; profondamente egoista, si preoccupava più del proprio piacere che del proprio dovere, più del bello che del giusto e del buono, era disuguale, esagerato, non sempre sincero, dissoluto, incontentabile, tormentato e tormentoso, e, come dice Aurelio Vittore (Epitome, 14), eccelso nei vizi e nelle virtù.
Appena divenuto imperatore, liquidò rapidamente la questione partica. Poco incline a condurre lunghe guerre, non persuaso di un risultato definitivamente buono, non ancora sicuro della solidità del suo trono, rinunciò senz'altro alle tre provincie che Traiano aveva aggiunte all'impero (Assiria, Mesopotamia, Armenia) e delle quali del resto già due erano state di fatto abbandonate, e ricondusse il confine alla riva destra dell'Eufrate. Questo modo di agire fu in quel momento quasi certamente saggio e indispensabile, ma dovette indubbiamente dispiacere non poco ai migliori generali di Traiano, già poco disposti ad ammettere una superiorità di Adriano e malcontenti di essere stati trascurati per lui. Si sussurrò di invidia verso il predecessore quale movente principale di tanto prudente astinenza, e l'eco di tali maldicenze arrivò sino ai tardi scrittori (Eutrop., VIII, 6).
Né si trattò soltanto di mormorii e di lamenti. Uno dei generali più in vista dell'esercito traianeo era il principe mauro Lusio Quieto che si era straordinariamente segnalato e nelle guerre daciche e in quelle partiche. Egli e Mario Turbone erano stati incaricati di reprimere l'insurrezione giudaica. A. tolse subito ogni comando a Lusio Quieto e lo inviò a Roma. Turbone fu dall'Egitto allontanato e inviato in Mauritania. Ma più gravi provvedimenti si richiesero. Quattro degli uomini più ragguardevoli e più rappresentativi del periodo traianeo, ex-consoli, generali di grande fama: Caio Avidio Nigrino, Aulo Cornelio Palma, conquistatore della provincia di Arabia, Lusio Quieto, L. Publilio Celso furono messi a morte d'ordine del Senato. Si parlò di congiura contro la vita dell'imperatore, che avrebbe dovuto esser colpito durante un sacrificio o a caccia. Adriano nella sua autobiografia dichiarava che le condanne furono pronunciate contro la sua volontà (Kornemann, Das Attentat der Konsulare, in Klio, VIII, 1908, p. 185).
Si è parlato di servilità del Senato, quasi fosse stato troppo precipitoso a condannare per ingraziarsi il nuovo sovrano, ma non si considera quanto importasse non permettere che risentimenti o gelosie potessero turbare l'equilibrio e la tranquillità del mondo, e come a conservare questo supremo bene, qualunque anche doloroso sacrificio dovesse essere incontrato.
Dopo la condanna dei quattro, Adriano che dalla Siria era passato in Asia Minore, poi in Mesia e in Dacia, minacciata da un'invasione di Rossolani, si affrettò a venire a Roma (monete del 118 con la leggenda: Adventus Augusti, Cohen, 91, 92; relazione dei sacrifici offerti dai fratelli Arvali per la venuta in Roma: Corp. inscr. lat., VI, 2078; 32374). Gli premeva di rassicurare coloro che avessero concepito qualche timore pel grave avvenimento della simultanea uccisione di quattro personaggi consolari. Si ricordi che il Senato, duramente colpito da Domiziano, aveva richiesto dagli imperatori da esso creati, Nerva e Traiano, assicurazioni circa la incolumità personale dei suoi membri. La stessa promessa fece ora Adriano, e pensò poi a ingraziarsi il popolo con un grandioso donativo (congiarium), con la celebrazione del trionfo partico, nel quale fu tratta sul carro trionfale l'effige di Traiano, e con la cancellazione dei debiti verso il fisco imperiale, facendo ardere le relative tabelle nel Foro (probabile figurazione in un rilievo passato in Inghilterra a Chatsworth, Röm. Mitt., XIV, 1899, p. 222).
Ma sopra tutto egli dovette affermare il suo programma di pace e di benessere che intendeva assicurare a tutto l'impero, e che perfino la misera biografia della Historia Augusta fa rilevare con vigorosa chiarezza: adeptus imperium.... tuendae per orbem terrarum paci operam intendit (Vita Hadriani, 5).
Se pertanto la pace sembrava al nuovo principe tanto prezioso bene, da dover ad esso sacrificare non solo la naturale tendenza dell'impero a diffondere sempre più largamente la propria forma di civiltà, ma anche i suoi personali tutt'altro che scarsi talenti militari, era però doveroso agire in modo, che essa non dovesse esser turbata da altri, specialmente se gli altri, ossia le popolazioni viventi oltre i confini dell'impero, nella loro civiltà inferiore, non altro motivo potevano avere a turbarla, se non bassi istinti di preda. Ed ancora se Roma rinunciava al fascino della propria insuperabilità nelle armi, doveva per la sicurezza del proprio dominio, necessario alla felicità del mondo, far sentire quanto più largamente era possibile i beneficî del suo governo e della sua amministrazione. A raggiungere questi due scopi A. trovò indispensabile visitare e rivisitare le provincie e i confini, studiandone i bisogni e apportandovi ogni possibile vantaggio.
Cominciò così la grande serie dei suoi viaggi che lo tennero occupato pel maggior tempo del suo governo. Non mancava certo di seguire con essi una sua particolare inclinazione, ma erra chi ha voluto spiegare questo continuo viaggiare unicamente come risultato di un'irrequietezza e quasi di una manìa senza serie ragioni. Il suo modo stesso di viaggiare ci dà la misura della sua serietà. Conduceva seco un piccolissimo seguito e pochissimi armati, ma molti tecnici e operai e agrimensori, e moltissimo viaggiava a piedi, vecchio e infaticabile fante romano (in generale sui viaggi cfr. Dürr, Die Reisen des Kaisers Hadrian, Lipsia 1881).
Partì da Roma nel 121, e visitò la Gallia, la Germania, la Rezia e il Norico, con particolar cura studiando e provvedendo ai confini del Reno e del Danubio, ai quali avevano già dato tutta la loro attenzione Domiziano e Traiano. Nell'anno appresso passò in Britannia, dove iniziò la costruzione di quel robusto vallo tra Solway e la foce della Tyne che doveva proteggere la provincia romana da incursioni dei selvaggi abitatori della Scozia (v. sotto). Tornato indietro dalla Britannia, attraversò di nuovo la Gallia e scese in Spagna, dove si trattenne a lungo a Tarraco e a Gades. Passò poi nel 123 in Mauritania, e sedò alcuni movimenti di quelle irrequiete tribù.
Voci di minacce partiche lo chiamarono in fretta ai confini orientali, e forse si recò direttamente per mare dalla Mauritania in Siria e al limes dell'Eufrate. La vigilanza dell'imperatore fece svanire i pericoli, e Adriano tornò per il Ponto, la Cappadocia, la Frigia, la Bitinia verso l'Egeo. Stando alle parole della vita nella Historia Augusta (13, 1) sembrerebbe che dall'Asia Minore attraverso le isole dell'arcipelago si fosse recato in Atene, ma è anche possibile vi sia pervenuto passando per la Tracia e la Macedonia, dove una presenza di lui è attestata da monete. Nell'inverno 125-126 egli era nella sua diletta Atene, dove ordinò grandiosi lavori di abbellimento alla città (Hist. Aug., 13; Pausania, I, 20) e volle essere iniziato ai misteri eleusini. Visitò poi molte altre città di Grecia, e passò in Sicilia, ritornando verso la fine del 126 o ai principî del 127 a Roma, donde dirigeva lettere ai cittadini di Stratonicea in data 11 febbraio e 1° marzo (Bull. Corr. Hell., XI, 1887, p. 109), e dove consacrò il nuovo grande tempio di Venere e Roma.
Ma nel luglio 128 egli era già in Africa, come ci è mostrato dall'iscrizione di Lambese contenente il suo discorso alle truppe di quel campo legionario che egli aveva ispezionato e fatto manovrare (Corp. inscr. lat., VIII, 2532). Il limes in Africa era meno sicuramente tracciato che in Germania o in Pannonia, e doveva esser guardato più che con muri e valli con una grande mobilità delle truppe di copertura. In questo tempo forse e in seguito a singolari benefici Cartagine prese il nome di Hadrianopolis.
Nell'autunno di quell'anno egli era di nuovo in Atene, a celebrare le feste eleusinie, e a sorvegliare le sue numerose costruzioni (cfr. in proposito E. Curtius, Stadtgeschichte von Athen, Berlino 1891 p. 264; W. Judeich, Topographie von Athen, Monaco 1905, p. 96, 332 seg.). E nella primavera del 129 era in Efeso, e di là visitava la Licia e la Panfilia (porta di A. in Attalea), la Cilicia, la Cappadocia fino all'alto Eufrate, e scendeva poi in Siria, in Antiochia e a Palmira e in Giudea, dove ordinò la ricostruzione della distrutta Gerusalemme sotto il nuovo nome di Colonia Aelia Capitolina. Scese poi in Arabia fino forse alla città del deserto Petra, che si chiamò Hadriana Petra, e nell'estate del 130 passò in Egitto. Dopo aver visitato e restaurato a Pelusio il sepolcro di Pompeo, si trattenne ad Alessandria, e pieno di curiosità per il misterioso paese dalla remotissima civiltà, ne intraprese la visita, rimontando per nave il Nilo.
Durante il viaggio, non si sa bene come, venne a morire il suo prediletto schiavo Antinoo che egli pianse con muliebri disperazioni, (come ci dice la Historia Augusta), e volle onorato di culto divino, di statue e di templi in tutte le città dell'impero. Probabilmente presso il luogo dove egli era morto fu fondata la nuova città di Antinoupolis.
Il 21 novembre 130 era egli in Tebe, e visitava il colosso di Amenofi II (Memnone), sul cui piede sinistro la poetessa Balbilla, che seguiva l'imperatore e l'imperatrice, incideva un epigramma greco a ricordo del constatato prodigioso suono di quella statua. Risalito ad Alessandria e passato in Cirenaica, dove dava opera a riparare terribili devastazioni dell'insurrezione giudaica degli ultimi anni di Traiano (cfr. iscrizioni a cippi miliarî in Africa italiana I, 1928, p. 318), ritornava poi in Siria, e di là per l'Asia Minore in Grecia, dove si tratteneva a lungo.
Mentre in tutte le provincie la visita imperiale aveva apportato considerevoli benefici e la conferma dei più devoti sentimenti di lealismo da parte dei sudditi, la decisione di dedurre una colonia a Gerusalemme, di costruirvi un tempio pagano nel luogo stesso del distrutto tempio di Salomone, e più ancora la proibizione della circoncisione, mossero a un'ultima disperata ribellione i Giudei.
Fu a capo dell'insurrezione un Simone Barcocheba che coniò anche monete (Fr. Madden, Coins of the Jews, Londra 1881, p. 233) e che dopo un massacro della guarnigione romana riuscì a tenere per circa due anni Gerusalemme. La guerra non ebbe grandi battaglie campali, ma una serie di assedî di fortezze e ridotte sui monti impervî di Giudea, e, combattuta con selvaggio fanatismo da una parte, con spietata durezza dall'altra, non mancò di esser sanguinosissima. Pare quasi certo, che A. visitò il teatro della guerra, pur lasciandola condurre da suoi legati, l'ultimo dei quali, Sesto Minicio Faustino, fu per i suoi talenti militari chiamato dalla Britannia a schiantare l'insurrezione. Gerusalemme fu ripresa nel 134, e solo alla fine di quell'anno o nel 135 prese Adriano il titolo di imperator iterum che dovette segnare la raggiunta pacificazione (cfr. Schürer, Geschichte des Jüdischen Volkes, Lipsia 1901-1909, I, p. 670).
Il 5 maggio 134 era Adriano ritornato a Roma (lettera imperiale datata in Corp. inscr. graec., 5906), stanco e malaticcio, per non più muoversi dall'Italia. I suoi lunghi e operosi viaggi sono segnati da un prodigioso fiorire di opere pubbliche: edifici, strade, acquedottì in tutte le provincie. La documentazione epigrafica è in questa materia di straordinaria ricchezza, e comprova quanto nella loro misera brevità ci dicono le fonti scritte: in omnibus paene urbibus aliquid aedificavit (Vita, 19, 2); eius itinerum monumenta videas per plurimas Asiae atque Europae urbes (Fronto, p. 206; cfr. Dürr, l. c., passim; Weber, l. c. p. 86 seg.). Tornato in Roma, attese con fervida attività a edificare il suo grande mausoleo e il ponte sul Tevere che vi adduceva, nonché alle molteplici e svariate costruzioni della sua villa prediletta sulle pendici dei colli tiburtini. Il mausoleo ebbe la forma etrusca di colossale basamento cilindrico sormontato da grande tumulo di terra ornato di numerose statue, e forse terminato con la grande pigna di bronzo ora nel Cortile della Pigna al Vaticano. Nelle celle sepolcrali interne ebbero sepoltura Adriano e molti dei successori sino a Settimio Severo; già dal tempo di Aureliano cominciò il monumento ad assumere la funzione di fortezza che ebbe per tutto il Medioevo e per l'età moderna. Nella grandiosa villa tiburtina Adriano saziò i suoi desiderî e i suoi gusti di costruttore; non solo vi riprodusse quei monumenti che più lo avevano impressionato nei suoi viaggi (e la notizia data dalle fonti letterarie merita fede, perché alcuni degli edifici superstiti della villa sono sicuramente riproduzioni di tal genere) ma sembra essersi divertito a proporsi e a risolvere singolari problemi di statica, di costruzione, di equilibrio delle masse, di giuochi di spinte e di controspinte, con edifici di singolari piante e di svariati aspetti, con nuove fogge di coperture, specialmente nelle forme delle volte. La decorazione architettonica e il corredo di statue, di pitture, di opere d'arte d'ogni genere dovettero essere di fantastica ricchezza, a giudicare dalla copia inesausta di esemplari giunti sino a noi, nonostante le feroci distruzioni subìte dalla villa.
Ma questo appassionato viaggiatore, questo fervido amatore e cultore di arte, questo curiositatum omnium explorator, come lo chiama Tertulliano, sapeva anche essere un amministratore sagace, un uomo di affari e di finanza. Le riforme amministrative di lui larghe e copiose sono della più grande importanza per la storia dell'impero, e non è del tutto inesatto quanto si dice nella Epitome (14, 11), che l'assetto da lui dato agli uffici pubblici, militari e di corte, rimase fondamentalmente immutato sino a Costantino (cfr. Schurz, De mutationibus in imperio ordinando ab imp. Hadriano factis, Bonn 1883; Hirschfeld, Verwaltungsgeschichte, 1ª ed., Berlino 1877, p. 281).
Pur professando il maggior rispetto esterno per il senato, è certo che egli ne diminuì grandemente l'importanza e i poteri, riordinando con più larghe mansioni il consilium principis, attribuendo a funzioni sino allora di corte ed esercitate da liberti imperiali particolare valore, e facendole esercitare da cavalieri. Divennero così alti ufficiali della carriera equestre i funzionarî ab epistolis (segreiario imperiale), a libellis (capo della cancelleria), a rationibus (ragioniere generale), procurator patrimonii (amministratore dei beni della corona), procurator vigesimae hereditatium (procuratore della tassa sulle eredità).
Gli interessi e i diritti del fisco ebbero un loro speciale difensore nell'advocatus fisci; la pietosa e sapiente istituzione degli alimenta, destinata alla protezione dei fanciulli poveri e al piccolo credito agrario, ebbe un suo praefectus alimentorum, le poste riordinate un loro praefectus vehiculorum. Più ampî poteri, specialmente giudiziarî, ebbe il prefetto del pretorio, anch'egli proveniente dalla carriera equestre. Tutti questi uffici, non sottoposti a limiti di tempo e di collegialità, e direttamente rilevanti dall'imperatore, contribuirono a rinvigorire sempre più la concezione monarchica dell'impero. Un'altra istituzione famosa e destinata ad ampia possibilità di sviluppo fu quella del consiglio di stato (consiliarii Angusti). Nel campo finanziario, vasta portata ebbe la riforma per cui la riscossione delle imposte non fu più data in appalto, ma esercitata direttamente da funzionarî imperiali. Ed anche in materia legislativa e giuridica lasciò A. grandi orme, facendo compilare da Salvio Giuliano l'edictum perpetuum, definitiva codificazione dell'editto pretorio, e lasciando gran numero di importanti constitutiones (cfr. Haenel, Corpus legum, Lipsia 1857, p. 85 seg.; H. Hitzig, Die Stellung Kaisers Hadrian in der röm. Rechtsgeschichte, Zurigo 1892; Bonfante, Storia del diritto romano, Milano 1909).
Spirito scarsamente religioso, A. non fu un pontefice massimo molto attivo, e anche verso i Cristiani egli fu largamente tollerante. Come capo dell'esercito, A. diede disposizioni importanti di organica e di tattica, e da lui cominciano le milizie ad esser levate nelle regioni stesse dove prestan servizio, contribuendosi così a formare una casta militare, e una preponderanza di certi elementi etnici (per es. dell'elemento illirico) che non fu senza conseguenze nell'ulteriore storia dell'impero. Allo scopo poi di raggiungere una sempre più perfetta unità nell'impero, furono sollevate le condizioni delle provincie e diminuiti i privilegi dell'Italia, che ebbe curatores delle sue città, correctores delle sue regioni, iuridici, legati imperiali specialmente incaricati di funzioni giudiziarie, e si fece sempre più vicina alle provincie sino a scadere di fronte a quelle meglio favorite per ricchezze naturali.
Gli ultimi anni di sua vita pare che A. trascorresse quasi per intero nella villa di Tivoli, preso da accessi di tristezza e di misantropia. Non era il peso dell'impero, prospero e tranquillo come non mai, quello che potesse turbarlo, ma la perduta sanità già così perfetta e fiorente, i dolori fisici, per un tanto raffinato uomo insopportabili, e l'assenza delle serene e intime gioie della famiglia.
Non aveva infatti figliuoli, né aveva saputo conservarsi l'affetto della bella Sabina, che aveva così gravemente offesa con i turpi e palesi trasporti per Antinoo. Il provvedere alla successione gli era di incomparabile amarezza, e non appena avesse fissato la sua attenzione su una persona che meglio gli sembrasse adatta al grande còmpito, quella stessa gli diveniva insopportabile ed odiosa. Aveva in ogni modo adottato come figlio un L. Ceionio Commodo che ebbe il nome di L. Elio Cesare, ma se lo vide morire il 1° gennaio 138. Restava un figlio di L. Elio, ma di troppo tenera età, perché potesse senza pericolo esser lasciato erede. A. adottò allora un saggio e virtuoso senatore, T. Aurelio Fulvo Boionio Arrio Antonino, con l'obbligo di adottare egli stesso il fanciullo, figlio di Ceionio Commodo. Gli ultimi mesi di vita di Adriano furono infelici; le sofferenze fisiche si fecero sempre più acute, tanto che più volte chiese a medici e a servi d'essere ucciso, e con le sofferenze fisiche divenne aspro, sospettoso, crudele il carattere. Quando il 10 luglio 138 egli morì a Baia, era generalmente odiato, e non poche preghiere dovette rivolgere al Senato il successore Antonino Pio, perché alla memoria di lui fossero concessi quegli onori divini, che solo a pochi pessimi imperatori erano stati negati.
La fonte più ampia per la storia di lui è la Vita nella Historia Augusta, che sembra esser derivata in modo speciale da Mario Massimo, continuatore delle biografie di Svetonio, che scriveva al tempo di Severo Alessandro. Il libro relativo all'impero di lui della storia di Cassio Dione è perduto, e non ne restano che i riassunti di Xifilino e di Zonara. Sia Mario Massimo, sia Cassio Dione sembra siansi molto giovati delle memorie autobiografiche che A. aveva scritto in latino e pubblicato col nome di un suo liberto. Brevi notizie nei tardi riassuntori del Basso Impero: Aurelio Vittore, Eutropio, nel Chronicon di Eusebio (cfr. Plew, Quellenuntersuchungen zur Geschichte des Kaisers Hadrian, Strasburgo 1890).
Abbondanati sono i testi epigrafici, alcuni dei quali di notevole importanza (cfr. Corp. Inscr. Lat., III, 550; VIII, 2532; XIV, 3579; VI, 967, 984; Corp. Inscr. Att., III, 464, 525; Corp. Inscr. Graec., 4725, 4731), numerosi i papiri, ricca la serie monetale (H. Cohen., Médailles Impériales, 2ª edizione, Parigi 1880-1892, II, pag. 704, L. Laffranchi, in Rivista Numismatica, XIX, 1906, pag. 329 segg.) e importantissimi gli avanzi monumentali, tra i quali sono principalmente da ricordarsi a Roma il Pantheon, il tempio di Venere e Roma, il Ponte Elio, il mausoleo sepolcrale; a Tivoli la superba villa; in Atene la nuova città l'Olympieion, il Panhellenion, la grande Stoa e decine e decine di altri monumenti in tutte le provincie dell'impero.
Bibl.: J. Dürr, Die Reisen des Kaisers Hadrian, Vienna 1881; H. Schiller, Geschichte der röm. Kaiser, Gotha 1883, I, p. 612; F. Gregorovius, L'imperatore Adriano, traduz. italiana di A. Tomei, Roma 1910; W. Weber, Untersuchungen über die Geschichte des Kaisers Hadrian, Lipsia 1907; B. W. Enderson, The life and principate of the Emperor Hadrian, Londra 1923.
Adriano come architetto. - Soltanto di un'opera architettonica si ha notizia certa che da lui fu, non solo ideata, ma pure disegnata: il tempio di Venere e Roma sulla Velia (all'estremità orientale del Foro Romano). Con questa costruzione, comprendente due templi addossati per le absidi e chiusi in un unico colonnato, si collegherebbe la disgrazia in cui sarebbe caduto, presso l'imperatore, l'architetto Apollodoro di Damasco, per aver osato criticarne i disegni. Quanto alla rimanente incomparabile attività edilizia di A. (più notevole nelle provincie che in Italia), supposto pure che, giusta l'opinione del Rivoira (disforme da quella del Promis), egli sia stato - come architetto - non solo un vero caposcuola, ma il rappresentante della nuova architettura (romana) "termale e palaziale" in contrasto e addirittura in conflitto con la vecchia architettura "particolarmente templare" (greca), rappresentata da Apollodoro, non sempre sarebbe facile sceverare l'opera personale dell'imperatore da tutto ciò che fu edificato o riedificato o restaurato per ordine suo. Ma, se Adriano fosse stato in realtà l'autore di tante opere quante inclina ad attribuirgliene il Rivoira (p. es., il rifacimento del Pantheon), è probabile che notizie più precise ci sarebbero pervenute in proposito. Oltre al tempio di Venere e Roma, si può tutt'al più, con sufficiente fondatezza, attribuirgli qualche costruzione della sua villa presso Tivoli e forse anche il suo mausoleo. D'altro canto, il preteso invio dei disegni per il tempio di Venere e Roma ad Apollodoro, inteso a fargli capire che, anche senza di lui, in Roma si potevano edificare monumenti importanti, potrebbe se mai significare che, pure sotto Adriano, Apollodoro aveva fino allora tenuto la parte direttiva. Ma ormai si propende a considerare opera di fantasia le notizie che sul conto di Apollodoro ci fornisce Cassio Dione (v. v. apollodoro di damasco).
Bibl.: Cassio Dione, LXIX, 4; C. Promis, Gli architetti e l'architettura presso i Romani in Mem. della R. Accad. delle Scienze di Torino, s. 2ª, XXVII, pp. 7, 177 segg.; G. Rivoira, Di Adriano architetto e dei monumenti adrianei in Rendic. della R. Accad. dei Lincei, s. 5ª, XVIII (1900), p. 172 segg.
Vallo di Adriano.
Tra il 78 e l'81 d. C. Agricola (v.), in seguito a importanti guerre, aveva portato la conquista romana molto avanti nel settentrione della Britannia. Adriano riportò il confine a 130 km. più a sud, e fra il 122 e il 127 stabilì una linea fortificata o limes. Dal 1890 in poi, scavi metodici hanno fornito interessanti rivelazioni su questa linea di confine, che si componeva essenzialmeme di due elementi: il muro e il vallo.
Il muro. - Questo si estendeva senza interruzione per 117 km. dall'uno all'altro mare, tra l'imboccatura della Tyne e quella della Solway. È costruito in pietre miste a calce e le sue due facce presentano blocchi accuratamente squadrati: lo spessore alla base varia da 2 a 3 metri, l'altezza doveva raggiungere in alcuni punti 5-6 m. Delle torri rettangolari, che non sporgevano dal bastione, si levavano a distanze determinate: si è calcolato che dovevano essere 320. Dal lato settentrionale il muro era preceduto da una fossa larga e profonda, di dimensioni variabili, che raggiungeva anche 12 m. di larghezza all'orlo, e 4 m. di profondità.
Questo sistema di difesa era completato da tutto un insieme di fortezze. Ve n'erano di due specie: alcune erano dei veri campi, castra stativa o stationes; le altre dei fortini secondarî, che gli archeologi inglesi hanno chiamato mile-castles, perché situati ad un miglio l'uno dall'altro. Erano circa 73, avevano forma quadrangolare e in media misuravano 18 m. da E. a O., 15 m. da N. a S., si appoggiavano al muro, che ne formava il lato aettentrionale. La costruzione delle loro mura è identica a quella del bastione, e ciò dimostra che sono contemporanei.
La questione è più complessa per i castra. Alcuni sembrano anteriori al muro e concepiti come opere isolate, indipendenti, circondate da un fossato su tutti i lati; altri al contrario sono stati costituiti dall'ingrandimento di un mile-castle. La Notitia Dignitatum (Occ., 38) e l'Anonimo Ravennate (V, 31) ci hanno lasciato una lista di queste stationes. Erano, a partire da oriente:
Segedunum (Wallsend); Pons Aelius (Newcastle on Tyne); Condercum (Benwell); Vindobala (Rutchester); Hunnum (Halton Chesters); Cilurnum (Chesters); Procolitia (Carrawburgh); Borcovicus (Housesteads); Vindolana (Little Chesters o Chesterholm?); Aesica (Greatchesters); Magnae (Carvoran); Amboglanna (Birdoswald); Petrianae (Caslesteads o Cambeckfort?); Congavata (Stanwix?); Gabrosentum (Burgh upon Sands); Tunnocelum (Drumburgh?); Glannibanta (Bowness?).
Queste "stazioni" erano poste a distanze irregolari: l'intervallo medio era di 4 miglia (= m. 6,500). La maggior parte sono appoggiate al muro: tre sole, Vindolana, Magnae, Petrianae sono a S. del muro e anche del vallo. Avevano la forma consueta dei campi (rettangolo con gli angoli smussati) e una porta centrale per ogni lato; la superficie variava da i a 2 ettari (Tunnocelum, per eccezione, ha 30 are). Le maggiori formavano delle vere piccole città, di cui si sono riconosciute le vie e i diversi edifici.
Nel 1895 si scoperse un muro erbaceo, murus cespiticius, che sembra costituisse una prima linea di difesa, prima che si cominciasse la costruzione del muro di pietra. Ma non è una ragione per pretendere, come si è fatto, che il muro di Adriano sia rappresentato da questo e che quello di pietra sia opera di Settimio Severo. Nessuna delle iscrizioni lasciate in questa regione dalle legioni II Augusta, VI Victrix, XX Valeria Victrix, e commemoranti i lavori di fortificazione compiuti dai legionarî, ha una data anteriore a Adriano o posteriore alla metà del III secolo (cfr. Corp. inscr. Lat., VII, p. 102, col. 2). Daltronde, gli scavi del 1911 hanno stabilito che la parte inferiore del muro di pietra risale alla prima metà del II secolo. Dal complesso delle circostanze appare dunque probabile che sotto Adriano si concepisse dapprima il limes come un sistema di fortificazioni collegate dal muro d'erba, poi, sempre sotto questo principe, si rinforzasse il sistema, sostituendo il muro erbaceo con uno di pietra e moltiplicando le fortezze.
Il vallo. - Quello che si chiama propriamente il vallum è anteriore al muro di pietra. Era più breve, misurando 5 km. di meno a ciascuna estremità: all'E. si fermava a Newcastle, all'O. a Dykesfield. Era costituito da una larga fossa, preceduta a N. da un terrapieno e a S. da due successivi, il primo dei quali più piccolo degli altri due. Il fossato, dal fondo piatto e dai fianchi svasati, è generalmente di dimensioni inferiori a quello che accompagna il muro; i terrapieni sono formati di terra mescolata a blocchi di pietra in una proporzione abbastanza forte; in certi punti si elevano ancor oggi a un'altezza di 2 m. Il piccolo terrapieno domina immediatamente il lato meridionale del fossato; i grandi, tanto a N. che a S., ne distavano circa 7 m. L'intervallo che separava questo sistema, che costituisce il vallum, dal muro di pietra posto a settentrione, è di larghezza variabile: 60 m. di media con un minimo di 27 e un massimo di 800 (soprattutto al centro). È occupato da una strada, larga 5 m. e mezzo, che congiungeva i due mari e che si tiene in generale assai vicina al muro.
Qual era lo scopo di questo vallum? Quando è stato costruito? Per parecchio tempo lo si è considerato come una difesa militare e come costruito nello stesso tempo del muro di pietra, per assicurare una protezione completa alla strada strategica, tanto contro i briganti al S., quanto, al N., contro le tribù indipendenti della Scozia (Bruce, The Roman wall, p. 58 segg.). Oggi, con Haverfield si è d'accordo nel considerarlo un'opera puramente civile: i terrapieni sono troppo deboli per costituire una difesa militare efficace, e d'altra parte il vallum è tracciato in linea retta e trascura di racchiudere le posizioni strategiche, tagliando le paludi secondo la linea più breve. Si è dunque in presenza di una semplice linea di confine segnante i limiti della provincia. Essa sarebbe stata tracciata qualche anno prima della costruzione del muro: si è riconosciuto di recente che, a intervalli determinati, sono state praticate nel vallo delle brecce per dar passaggio ai veicoli i quali, da cave situate più a S., portavano le pietre necessarie per la costruzione del muro (cfr. G. Simpson, Transactions of the Cumberland and Westmoreland Antiquanan Society, XXII, 1922).
È possibile che il muro sia stato riparato da Settimio Severo. Il testo di Sparziano, che attribuisce a questo imperatore "una linea fortificata per mezzo di un muro condotto attraverso l'isola dalle sue parti fino all'Oceano" (Spart., Sev., 18, 2), forse va interpretato così. Ma questa testimonianza è unica, e si sa che gli scrittori della Historia Augusta non meritano molta fede.
Bibl.: Bruce, The Roman wall, Londra 1867; id., The handbook to Roman wall, 4ª ed., Londra-Newcastle 1895; Hübner, in Corp. Inscr. Lat., VII, pp. 99-103; Haverfield, The romanization of the Roman Britain, 4ª ed., Oxford 1923; id., Romano-British Northamptonshire (coll. Victoria county history), 1902; F. Sagot, La Bretagne Romaine, Parigi 1911, pp. 144-165; J. Ward, Romano-British buildings and earthworks, Londra 1911, pp. 118-137; R. G. Collingwood, in Journal of Roman studies, 1920, pp. 37-66; Henderson, The life and principate of the emperor Hadrian, Londra 1923, p. 151 segg.; B. C. A. Windle, The Romans in Britain, Londra 1923, p. 56 segg.; V. Chapor, Le monde romain (coll. L'évolution de l'humanité), Parigi 1927, pp. 399-401.