AEDO
. Il "cantore" di professione, l'ἀοιδός, appare nella stessa tradizione come creatore e primo divulgatore dei canti epici nella Grecia antica. L'Iliade non ha cenno di aedi, eccetto che di uno nella descrizione dello scudo di Achille ("θεῖος ἀοιδός, XVIII, 604), il quale accompagna le danze con il canto e con il suono della ϕόρμιγξ, e di quelli che intonano canti di dolore sul cadavere di Ettore (XXIV, 720). In un verso (espunto da Aristarco) appare pure Achille che, accompagnandosi con la ϕόρμιγξ, canta le "gesta degli eroi" (IX, 186). Ma questo fa Achille al campo per passatempo, mentre l'aedo è il cantore di professione, che diletta con i suoi canti (ἀναθήματα δαιτός) gli ospiti delle case principesche dopo il banchetto. Quest'immagine dell'aedo si ha dalla Odissea, dove appaiono due famosi cantori, Femio (Φήμιος Τερπιάδης) nella corte di Ulisse ad Itaca, e il cieco Demodoco (Δημόδοκος) nella reggia di Alcinoo, re dei Feaci: niente è più gradito, al dire di Ulisse (IX, 3-11), fra i Feaci, che l'ascoltare, mangiando e bevendo, un buon cantore.
Accompagnandosi con la ϕόρμιγξ, l'aedo canta "le gesta degli dei e degli eroi" (Od., I, 338): il ritorno travagliato degli Achei (I, 326), la contesa fra Ulisse ed Achille (VIII, 75), la caduta di Ilio (VIII, 500 segg.), oppure la gustosa storia degli amori di Ares (VIII, 367): materia insomma di quella stessa tradizione epica che troverà sistemazione nei due poemi omerici.
Per l'origine e formazione dei due poemi la figura dell'aedo ha particolare importanza, poiché essa non è di solo cantore che ripeta poesie altrui, bensì di creatore che vanta la sua ispirazione dalle Muse: "Una divinità ispirò a me ogni sorta di canti", dice Femio (XXII, 357), e Ulisse, come elogio a Demodoco, dice: "Sia che la Musa ti sia stata maestra, oppure Apollo" (VIII, 488); dalle Muse invoca l'ispirazione l'aedo (VIII, 499), come fanno anche i poeti dell'Iliade e dell'Odissea.
Come nei primi aedi la creazione originale dei nuovi canti doveva avere parte preponderante, ma ciò non escludeva la ripetizione di canti preesistenti, così nelle fasi successive della tradizione è da credere che gli aedi non fossero sempre puri ripetitori, ma anche poeti che portavano un contributo originale. L'ispirazione che si chiede alle Muse, non si riferisce soltanto alla materia e alla forma, ma anche alla scelta del canto più bello e più famoso: la Musa spinge Demodoco a scegliere il canto della contesa fra Ulisse e Achille, canto (οἴμη) "la cui fama era salita al cielo".
Nonostante l'ispirazione divina, non sembra che l'arte dell'aedo fosse considerata più che quella di altri δημιοεργοί (XVII, 385). Quando, nella scena dell'uccisione dei Proci, Femio si salva dall'ira di Ulisse per l'intervento di Telemaco, questi intercede per lui come per l'araldo Medonte, mettendoli più o meno sullo stesso piano (XXII, 330-80).
Che l'aedo cantasse o recitasse, è difficile stabilire, giacché ἀείδειν viene detto dai Greci anche della recitazione. Ma il fatto stesso dell'accompagnamento con la ϕόρμιγξ è indizio che doveva trattarsi di canto, giacché nella fase propriamente recitativa dei rapsodi (v.) la cetra viene sostituita da un bastone (ῥάβδος) come quello che i parlatori tengono in mano nelle assemblee (Il., I, 101, 246; Od., II, 28). Era, la ϕόρμιγξ, un istrumento a corda che, come la κιθάρα a sette corde e il βάρβιτον, i Greci avevano ereditato dall'antica civiltà cretese-micenea, come mostra la stessa non grecità dei nomi. Il modo di accompagnamento al canto che questo strumento era chiamato a eseguire, non ci è noto.
Bibl.: E. Bethe, Homer, I, Lipsia 1914, p. 1 segg.; U. v. Wilamowitz, Ilias und Homer, Berlino 1921, p. 340 segg.