aequivocatio
. " Aequivoca verba " definiva Isidoro (II XXVI 2) quelle parole che hanno un medesimo suono, ma si riferiscono a cose diverse. Nella dottrina retorica l'uso delle parole equivoche era indicato fra i vitia che intaccano la perspicuitas dell'orazione; l'ambiguitas, secondo Quintiliano, induce all'errore e si verifica quando più cose hanno il medesimo nome o una parola ha sensi diversi, o infine una parola ha significati diversi se letta integralmente o divisa (VII IX 1-4). L'equivoco tuttavia fu ricercato nella poesia medievale per rendere più difficile e prezioso il dettato. D. non mostra particolare predilezione per questo artificio, che nella sua opera ricorre nelle forme consacrate dalla tradizione e non mai in quelle più complesse.
L'esempio più evidente è quello della rima equivoca, usata soprattutto nelle sestine, dove la medesima parola-rima ricorre più volte con significati leggermente differenti, sicché in questo caso viene utilizzata proprio l'ambiguità della parola. Nella Commedia, dove spesso ricorre la rima equivoca e il poeta ricerca quelle parole dallo stesso suono, che hanno un significato del tutto diverso fra loro, non v'è luogo propriamente per l'ambiguità, in quanto la ricerca consiste appunto nel ripetere il medesimo suono evidenziandone il senso diverso (che corrisponde allo schema della traductio). Eppure il gusto dell'equivoco è presente in alcuni bisticci, quali più volte vòlto (If I 36), li nostri voti e vòti in alcun canto (Pd III 57), In terra è terra il mio corpo (XXV 124).
L'equivoco dovrà piuttosto cercarsi nell'uso ambiguo di un vocabolo, che accanto al senso originario serba un senso metaforico o generalmente non proprio. Lo si veda a proposito dei concetti di ‛ vita ' e di ‛ morte ', di ‛ servitù ' ecc., sui quali la tradizione letteraria si era esercitata fondandosi sul significato spirituale che la religione attribuiva a quei termini. Notevoli a questo riguardo sono il caso di If III 46 (Questi non hanno speranza di morte), che si riferisce sia all'evidente impossibilità che muoia chi è già morto, sia alla verità religiosa dell'immortalità dell'anima, e il caso di Pd XXVI 59 (la morte ch'el sostenne perch'io viva), che accosta il significato proprio di ‛ morte ' a quello spirituale di ‛ vivere '. Allo stesso modo il bisticcio figlia del tuo figlio (Pd XXXIII 1) nasce dall'equivoco significato di ‛ figlio ', che indica sia il rapporto dell'uomo col genitore, sia quello della creatura con Dio.
Nella Vita Nuova un simile equivoco è dato dall'uso di ‛ salute ' nel duplice senso di ‛ atto cortese ' e di ‛ redenzione ' (la salute la quale mi fue negata, XII 6; la donna de la salute, III 4). Analogamente il nome di ‛ Beatrice ', scopertamente fondato sulla corrispondenza fra le cose e i nomi che le designano, è usato talora in modo ambiguo, riferito cioè alla funzione spirituale della donna più che alla sua identità o viceversa: quella nostra Beatrice (XII 6), Ell'ha perduta la sua beatrice (XL 10 12; cfr. XXIV 3, XLII 3).
Di questo stesso genere è l'uso equivoco di ‛ leone ', assunto a designare, oltre la bestia con i suoi significati simbolici, l'insegna del re di Castiglia (il grande scudo / in che soggiace il leone e soggioga, Pd XII 54) e la costellazione (Pd XVI 37). In questo caso l'interesse (che può estendersi a quello della parola ‛ giglio ', usata per indicare il fiore e l'insegna) non deriva dal particolare effetto dell'artificio retorico, quanto dal fatto che quello del ‛ leone ' (verus, pictus, coelestis) era l'esempio addotto da Isidoro nel passo in cui parlava degli " aequivoca verba ".