affetti
Il dolore psichico
Il dolore è un’esperienza universale, al tempo stesso sensoriale ed emotiva, in perenne e complessa interazione tra il corporeo e lo psichico. Nonostante il dolore psichico sia riconducibile a uno stato affettivo, mentre il dolore fisico lo è a una esperienza sensoriale, è molto difficile – e a volte impossibile – separare nettamente i due tipi di dolore. Il dolore fisico può creare condizioni di dolore psichico e viceversa. È esperienza largamente condivisa come anche al più raffinato tormento dell’animo si accompagnino manifestazioni concrete, per es., le lacrime, lo spasmo allo stomaco, l’accelerazione dei battiti cardiaci. Così come una sensazione proveniente dal corpo può sollecitare fantasie e pensieri carichi di inquietudini e minacce.
Secondo la teoria psicoanalitica, lo stretto connubio corpo-mente e massimo nell’infanzia, quando le sensazioni fisiche e le esperienze mentali non sono ancora chiaramente differenziate. A questo riguardo Anna Freud nel 1930 scrive: ≪Un bambino nel primo anno di vita sente ogni tensione, bisogno o frustrazione come dolore, non essendoci ancora la possibilità di una vera distinzione tra un’esperienza diffusa di disagio e un’esperienza più acuta e circoscritta di vero dolore≫ (L’influsso della malattia fisica nella vita del bambino, 1930). All’inizio della vita l’Io e un io corporeo, in una inscindibile unita psicofisica che obbedisce al principio del piacere-dispiacere. Questo principio regola il funzionamento mentale e consiste nel tentativo di evitare ogni sensazione spiacevole al fine di ripristinare uno stato di benessere: tutto ciò che è penoso – dal morso della fame agli incubi – è vissuto come una minaccia che proviene dall’esterno. La difesa illusoria di poter mettere fuori di se il male e immediata ma fragile; solo la lenta maturazione del principio di realtà consente il riconoscimento della fonte della sofferenza e un più efficace negoziato con le cause del dispiacere. Il dolore psichico, se non supera la soglia di tolleranza dell’individuo nelle varie fasi della vita, è essenziale per l’organizzazione della struttura della mente e per la costituzione dell’Io, che, attraverso il riconoscimento della separazione e della perdita potenziale della persona amata, rinuncia progressivamente all’illusione infantile dell’onnipotenza.
Secondo la teoria freudiana, l’Io al tempo delle origini è inteso come una struttura neurologica, una rete di neuroni investiti dagli stimoli sensoriali che funziona in modo selettivo, creando barriere alle percezioni, negando il passaggio alla coscienza di un certo quantum di energia eccedente le capacità di sopportazione della struttura psichica in fieri, potenzialmente dannoso. Il bisogno di tale barriera protettiva è massimo all’inizio della vita. Per attivarla è essenziale la funzione della madre o di chi si prende cura dell’infante. Sono le cure materne a creare condizioni che sollevano il bambino da quote di dispiacere eccessivo, ripristinando lo stato di benessere necessario. Per es. è noto che un bambino può non sobbalzare al rumore dei tuoni quando e tenuto affettuosamente in braccio dalla madre. A fronte però di minacce reali (fame, malattie), o a carenze della funzione protettiva materna (depressione, abbandono), che la capacità di tolleranza del bambino non riesce a gestire, si ha una azione traumatica e, di conseguenza, il processo della crescita mentale può essere frenato o distorto. Solo progressivamente, nel corso dello sviluppo, si giunge alla distinzione tra realtà interna e realtà esterna e alla capacità di sopportare il dolore mentale e di dargli significato. L’affetto penoso si coniuga cioè con rappresentazioni (per es., la separazione dalla madre); così la sofferenza diviene pensabile e tollerabile, senza che si debba ricorrere a massicci meccanismi difensivi, quali il diniego delle percezioni. Come ha scritto Sigmund Freud, quando il neonato possiede nella mente l’immagine della madre assente, può sperare nel suo ritorno e può cominciare a provare un anelito esente dalla disperazione.
L’essenza della terapia psicoanalitica non è solo un’esperienza cognitiva, ma è anche e soprattutto una nuova esperienza emotiva, dove nella dinamica del transfert (➔) e del controtransfert si rivivono e si nominano antiche relazioni in una nuova rete di significati che coinvolgono sia il paziente sia l’analista. In tale ricco intreccio di pensieri e di emozioni una certa quota di dolore psichico e inevitabile, ma in buona misura costituisce un’esperienza positiva e strutturante poiché consente di tollerare la sofferenza senza dover ricorrere a operazioni difensive comunque mutilanti l’interezza della persona e la comunicazione sia intrapsichica che interpersonale. L’essere umano è caratterizzato e condizionato da una serie di eventi biologici: la nascita, la dipendenza dai genitori, l’immaturità sessuale, le malattie, la morte. Questi momenti suscitano conflitti, ribellioni, difese più o meno efficaci, che sono sempre intrecciati; tra loro nel corso dello sviluppo, per cui ogni conflitto successivo rimanda al precedente. Ogni stadio può essere un momento organizzatore della vita psichica. In ogni fase ci spetta però il difficile compito di distinguere la sofferenza patologica prodotta dall’ansia e dall’angoscia a fronte dei singoli eventi della vita rifiutati o temuti, da quella fisiologica legata all’accettazione degli eventi che devono essere vissuti sia negli aspetti frustranti, sia in quelli gratificanti. Lo psicoanalista deve avere una particolare attenzione alla qualità della sofferenza psichica o all’assenza di essa manifestata dal paziente nell’ambito delle diverse fasi della cura, durante la quale l’analizzato deve essere condotto ad abbandonare l’illusione di poter sfuggire totalmente al dolore causato dalle esperienze della vita. Come puntualizzava Sigmund Freud, nel suo ironico pessimismo esistenziale, la psicoanalisi non può promettere la felicita; può però trasformare la sofferenza nevrotica in comune infelicità, legata all’esistenza e alla natura umana.