affidamento condiviso
affidaménto condiviso locuz. sost. m. – Il Codice del Regno d’Italia del 1865 conosceva solo rare ipotesi di separazione dei coniugi, quindi solo con l’introduzione del divorzio (1970) e le riforme del diritto di famiglia (1975) e della disciplina sullo scioglimento del matrimonio (1987) è maturata la progressiva consapevolezza sulle conseguenze che la crisi del rapporto tra i genitori produce sui figli. Di qui, in ragione di studi di carattere sociologico e psicologico, l’attenzione sempre maggiore, anche da parte del legislatore, per l’incidenza della rottura del vincolo matrimoniale sulla vita dei figli minori, tanto più se in età delicate quali fanciullezza e adolescenza. Questa evoluzione, culturale prima che giuridica, è culminata nella l. 54/2006 che, recependo le istanze più moderne e adeguando l’ordinamento italiano alla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, vi ha introdotto una disciplina ispirata al principio della bigenitorialità. Per il novellato art. 155 del codice civile, infatti, anche nel caso di crisi tra i genitori i figli hanno diritto di ricevere, da entrambi, cura educazione e istruzione; nonché di conservare con ciascuno di essi un rapporto equilibrato e continuativo. Con disposizione significativa ai fini dell’eguaglianza sostanziale dei cittadini, è stato altresì precisato che il principio deve trovare applicazione indistinta: dunque anche ai figli di genitori non sposati ovvero nati in costanza di matrimonio poi dichiarato nullo. Si può dire che la novità porti a conclusione un percorso. Fino al 1987, il giudice era guidato dal criterio dell’affidamento esclusivo, essendo chiamato a valutare, in funzione delle circostanze concrete, a quale dei genitori assegnare i figli e riservando all’altro – il cosiddetto non affidatario – i diritti di visita (il più delle volte in determinati giorni della settimana), di avere con sé il figlio in alcuni periodi dell’anno in funzione degli impegni scolastici e di contribuire alle decisioni di maggiore rilievo per la crescita; con l’obbligo, comunque, di concorrere alle spese per il sostentamento. Si trattava di soluzione spesso inappagante, da un punto di vista giuridico, per il rischio di laceranti giudizi volti a individuare il genitore considerato più adatto all’affidamento, nella gran parte dei casi riconosciuto alla madre (inequivoco il dato statistico). Elevati anche i pericoli di natura personale e psicologica: per il genitore affidatario, di assumere l’intero peso della crescita dei figli; per il non affidatario, di non sentirsi partecipe del percorso del minore o di non avvertirne la responsabilità; per i figli, di non essere adeguatamente seguiti. Va ascritto al merito dei magistrati e della dottrina più sensibili l’aver mitigato tale sistema con l’elaborazione di modelli di affidamento diversi (quello cosiddetto alternato e, soprattutto, il congiunto), alla ricerca di un equilibrato coinvolgimento di entrambi i genitori. Tali modelli sono stati ripresi dal legislatore che, appunto nel 1987, ha riconosciuto al giudice la possibilità di applicarli in alternativa all’affidamento esclusivo. La legge del 2006 ha allora invertito l’ordine dei criteri ai quali può ispirarsi il giudice: ora gli s’impone di valutare prioritariamente se disporre l’a. c., a meno che non ricorrano ragioni eccezionali che suggeriscano quello esclusivo. È rimasto fermo il principio secondo il quale la potestà deve essere esercitata da entrambi i genitori: salva la possibilità di un diverso accordo, ciascuno di essi provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito. Alla base di tutte le valutazioni, anche di quella su tempi e modalità della presenza presso ciascun genitore (il cosiddetto collocamento), è stato posto esclusivamente l’interesse morale e materiale del minore: infatti le decisioni di maggior rilievo relative all’istruzione, all’educazione e alla salute sono assunte di comune accordo dal padre e dalla madre tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli; nel caso l’accordo non maturi, la decisione è rimessa al giudice. Nella stessa direzione il legislatore, con disposizione meritoria, ha riconosciuto ai minori il diritto di conservare un rapporto significativo con ascendenti e parenti di entrambi i rami genitoriali: garantendo così continuità al ruolo, spesso fondamentale, di nonni, zii e cugini.