Vedi AFFRESCO dell'anno: 1958 - 1994
AFFRESCO (ν. vol. Ι, p. 100)
I progressi nelle conoscenze tecnologiche dei materiali antichi, un rilevante incremento degli scavi e alcune eccezionali scoperte hanno ampliato negli ultimi anni il panorama della pittura antica e, in particolare, di quella a fresco.
In un'accezione più vasta del termine, e con particolare riguardo alla reazione chimica provocata dalla calce spenta a contatto con l'anidride carbonica, qualcuno ha definito come tale anche la pittura della grotta preistorica di Lascaux, usando però il termine di Naturfresko per indicarlo come un fenomeno fisiologico e spontaneo dovuto alla migrazione del carbonato di calcio attraverso la roccia e alla sua cristallizzazione in superficie, così da fissare i colori come avviene nell'affresco voluto (Kunstfresko).
È solo però intorno alla seconda metà del terzo millennio che nella pittura murale compare un intonaco di calce. Ciò avviene in Mesopotamia e nell'Egeo. Una serie di analisi condotte su campioni provenienti da Cnosso, Micene, Santorino, Pilo, ed eseguite con i metodi della spettroscopia di emissione e della fluorescenza a raggi X, ha appurato in modo inequivocabile che si tratta di affresco. Manca un legante organico, e l'intonaco, che in epoca prepalaziale era di puro fango, come nelle pitture di Çatal Hüyük (c.a 6000 a.C.), è ora formato da calcite, cioè carbonato di calcio (Cnosso), con aggiunta talvolta di quarzo e impurità di gesso (Pilo, Micene). Altre volte questa preparazione viene data in più strati e la superficie finale è probabilmente lisciata. In alcuni campioni (Cnosso, Thera), secondo una prassi consueta nelle più antiche pitture del Vicino Oriente, è stata riscontrata la presenza di paglia per ritardare l'essiccazione. Allo stesso scopo contribuiva la deliberata esclusione del gesso e della polvere di marmo. L'impressione della cordicella per segnare le partizioni della pittura, la linea del disegno incisa con uno stilo, con uno strumento di ossidiana o con una penna di uccello, le depressioni sulla superficie, le tracce delle pennellate, sono tutti indizî della plasticità dell'intonaco.
Il puro intonaco di calce viene usato contemporaneamente sulle pareti e sui pavimenti a partire dal Medio Minoico IB/IIA. A Thera il sottile strato di calce, applicato sulla parete trattata con calce e paglia, è stato lucidato con ciottoli marini.
I pigmenti sono generalmente ricavati da minerali locali. Il blu a Micene è sempre la c.d. fritta egiziana, usata in Egitto fino dalla IV Dinastia, talvolta addizionata con quarzo. A Creta, specialmente nel tardo palaziale (Medio Minoico III), e a Thera compare anche il glaucofane, tratto da un minerale indigeno; l'uso, però, diminuisce con la distruzione di Santorino, dopo la metà del II millennio a.C. Il nero è carbone animale. A Cnosso si trova anche un blu ricavato da un minerale di ferro, la riebeckite. Il verde è malachite e si ottiene dalla somma del blu col giallo (limonite = idrossido di ferro); anche il grigio è un colore composto dal nero unito alla calce o dall'ematite (sesquiossido di ferro) con la glauconite (silicato idrossido di ferro e potassio). Sempre a Cnosso la calce proviene da due cave locali. A Pilo il bruno è ottenuto anche da manganese e il rosso è ematite. La varietà e la ricchezza della tavolozza e le gradazioni di colore sono raggiunte appunto con queste mescolanze e con le sovrapitture.
Oltre all'impiego dell'a., in un panorama così complesso non è certo da escludere anche l'uso della tempera.
Il quadro della pittura di età arcaica e classica appare ora anch'esso molto meno spoglio che nei decenni scorsi. Nelle due tombe scoperte presso Elmalı in Anatolia nel 1969 e nel 1970 si riscontrano due tecniche differenti. In quella di Kızılbel (525 a.C.) la pittura è stesa direttamente sul muro di pietra, come avviene nella pittura rupestre più arcaica; il contorno preliminare del disegno è in rosso, quello definitivo in nero. A Karaburun (475 a.C.), invece, sono visibili due strati di preparazione, un'arricciatura grigiastra e una sottile intonacatura di calce su cui sono tracciati, prima in rosso e poi in nero, i contorni; la preparazione, però, non si trova dovunque, così che anche sotto questo aspetto tecnico, oltre che per quello stilistico, le analogie con le pitture delle coeve tombe etrusche sono strettissime. Sia su queste pitture che sui frammenti provenienti da Gordion non sono state ancora eseguite analisi di laboratorio che consentano di affermare che si tratta di a., anche se ciò è presumibile.
I risultati delle indagini predisposte in occasione di un recente restauro scioglieranno certamente le residue perplessità sulla tecnica della Tomba del Tuffatore di Paestum, ove è presente un doppio strato di intonaco di spessore incostante, ma sempre molto sottile (mediamente 10-20 mm), su cui è inciso il disegno. Analoghi accertamenti si attendono da esami sulle altre numerose pitture tombali rinvenute a Paestum, nel resto della Campania, in Lucania e in Puglia.
La testimonianza autografa della grande pittura greca del IV sec. si coglie per la prima volta nelle pitture delle due mirabili tombe scoperte nel 1977 presso Verghina (Macedonia), quella denominata di Persefone a causa del soggetto del fregio, e l'altra detta di Filippo. Analisi eseguite su campioni prelevati dal fregio con scena di caccia della Tomba di Filippo hanno individuato un intonaco formato da solo carbonato di calcio con totale assenza di quarzo. I pigmenti, impiegati con straordinari effetti di velature e mescolanze, sono il bianco (calcite e caolino), il rosso (cinabro ed ematite), il blu (fritta egiziana), il verde (fritta e caolino), il nero (carbone). Andronicos, che di queste tombe è stato lo scopritore, definisce le loro pitture a. - lo provano i contorni incisi con frequentissimi «pentimenti» soprattutto nella Tomba di Persefone - ma suppone che vi siano delle aggiunte «a secco». L'uso di rifiniture con colori «a calce» sull'intonaco già asciutto è certamente plausibile soprattutto nel caso di pitture così complesse con ombreggiature e velature sovrapposte.
Analoga tecnica sembra sia stata impiegata nelle altre tombe macedoni, come quella scoperta a Naussa (250 a.C.) nel 1971 in prossimità della ben nota tomba di Lefkadia, e in quelle tracie di Kazanlăk, Magliš e Sveštari.
V. J. Bruno suppone che i Greci non conoscessero la reazione chimica della calce a cui si deve la pittura a fresco; il fenomeno si sarebbe verificato casualmente quando si dipingeva su un intonaco ancora fresco. Egli ne deduce che fosse impiegato lo stesso medium delle tempere. Tale illazione non è suffragata però da concrete risultanze scientifiche, salvo l'osservazione, peraltro non probante, che le cadute di colore sulle pitture di Kazanlăk (prima metà del III sec. a.C.) potrebbero essere l'indizio di una pittura condotta su un intonaco umido, ma con un legante. Vi sono stati notati tre strati di preparazione: il primo di calce e sabbia, il secondo con polvere rossa e il terzo che ingloba i pigmenti, tutti di origine minerale, con polvere di marmo e il 12% di cera. Più che un encausto, la presenza della cera farebbe supporre una lucidatura finale della superficie. A Magliš (inizio del II sec. a.C.) su un muro in mattoni è stata applicata una miscela di fango, sabbia e calce spessa fino a 3-5 cm. Sopra questo strato ve ne sono altri due, il primo di sabbia, polvere di marmo e calce da 2 a 0,8 cm e l'ultimo con polvere di marmo e calce da 2 a 0,2-0,3 cm. Una lucidatura superficiale accentua l'imitazione delle crustae marmoree.
La reticenza nel considerare a fresco pitture con una esigua preparazione può essere giustificata dal fatto che esse si discostano vistosamente dalla tipologia della pittura murale romana e dai suoi antecedenti. Non è però già questo il caso della tomba di Magliš che, come si è detto, presenta tre strati di preparazione di notevole spessore.
Il primo precoce esempio di c.d. primo stile, ribattezzato dal Bruno in ambiente greco col nome di masonry style, proviene dall'agorà di Atene e risale alla fine del V- inizî del IV sec. a.C.
A Olinto (V-IV sec.), secondo una tecnica più primitiva, uno strato di calce e marmo è applicato direttamente sul muro in argilla; a volte, invece, è presente una preparazione di argilla e calce. Per giustificare le sovrapposizioni di colore «a corpo» è stato supposto l'uso di una tecnica mista, ma l'argomento, ricorrente in molta letteratura specifica, che la maggiore penetrazione del colore indicherebbe una pittura a fresco, è un equivoco.
Altri esempi di questo stile si trovano a Morgantina (Casa di Ganimede, 250 a.C.), a Cosa (casa della fine del II sec. a.C.), ecc. In luogo delle consuete ocre, a Cosa è presente un rosso vermiglio costituito da cinabro (solfuro di mercurio), un colore più pregiato che diventerà comune in tutta la pittura romana.
Nelle decorazioni delle case di Delo (fine del II sec. a.C.) si trovano da due a cinque strati di preparazione. Il loro spessore diminuisce via via che si procede verso l'esterno; il primo strato (da 1 a 1,5 cm) contiene oltre a calce e sabbia anche polvere, frammenti di mattone e scaglie di pietre; sulla sua superficie sono state praticate striature per offrire una maggiore adesione allo strato successivo. La stessa tecnica compare a Priene, ove sono stati riconosciuti tre strati. Presso la stoà di Calidone (III-II sec. a.C.) E. Dyggve ha rinvenuto un frammento con tre strati di preparazione simile al coementum marmoreum illustrato da Vitruvio (VII, 6).
L'analisi spettroscopica di campioni prelevati da un dipinto murale di una casa di c.d. I stile a Pella (III-II sec. a.C.) mostra ancora un intonaco in tre strati; i primi due, rispettivamente da 0,2 a 2-5 cm e da 1,5 a 4 mm sono composti da carbonato di calcio e quarzo, mentre il terzo, spesso da 1 a 6 mm, è puro carbonato di calcio ed è suddiviso da uno a tre sottostrati. Ai pigmenti noti si aggiunge qui per la prima volta un verde formato da silicati ferrosi (celadonite e glauconite), comunemente noti come terra verde. Il rosa è un pigmento non identificato con aggiunta di caolino; questo colore è applicato certamente a fresco, mentre gli altri sembrano dati a pennello e in strati sottili (a secco?).
A questa fase di evoluzione della tecnica dell'a. in ambiente greco corrisponde in Etruria la pittura di alcune tombe tarde. L'esigua scialbatura di calce dell'epoca arcaica e di quella classica è sostituita ora da una preparazione più consistente e complessa. Se tale mutamento sia dovuto al prepotente influsso del mondo romano o alla penetrazione di correnti artistiche ellenistiche e magno-greche è ipotesi da verificare. All'esempio della Tomba del Cardinale a Tarquinia, vanno aggiunti, fra gli altri, quelli della Tomba dell'Orco, con un arriccio grigio di sabbia e calce e un intonaco bianco di calce e cristalli di marmo (2 cm), delle Tombe Golini di Orvieto, con tre strati di preparazione: il primo di pozzolana (2,5-6 mm), il secondo di sabbia e calce nella proporzione di 2:1, il terzo di calce carbonatata con inclusioni di colore e sabbia. Nelle pitture della Tomba François si ha un intonaco leggermente rosato con inclusioni di cocciopesto - materiale suggerito da Vitruvio (VII, 4) come isolante contro l'eccessiva umidità del supporto - in tre strati (c.a 3 cm). Anche in questo caso si tratta di un vero e proprio intonaco di tipo vitruviano con arriccio e tectorium.
La tavolozza cromatica si arricchisce e, accanto alle ocre, per il rosso viene usato il cinabro (Tombe Golini).
Le informazioni sull'a. romano, grazie alla ricchezza dei documenti, alle notizie delle fonti antiche e a una vastissima bibliografia, hanno raggiunto da tempo un livello soddisfacente di conoscenza. Negli ultimi due decenni, tuttavia, studi specifici e analisi di laboratorio hanno consentito ulteriori approfondimenti anche grazie ai dati provenienti dall'esame di numerose pitture provinciali già trascurate e dall'applicazione di raffinati mezzi di indagine quali, fra gli altri, la datazione con il metodo del carbonio 14, l'emissione e la diffrazione a raggi X, la microsonda elettronica. Una silloge delle tecniche di preparazione della pittura parietale romana è stata raccolta da Alix Barbet e da Claudine Allag in un pregevole studio. Numerosi esempi attestano che l'armatura delle vòlte e dei soffitti era effettuata con un ordito di canne fissate con corde e cavicchi di legno, mentre rimane per ora isolato il caso di un soffitto piano nel palazzo costantiniano di Treviri preparato per la pittura con un'impalcatura di strisce di legno. Ulteriori testimonianze confermano l'uso di scanalature e scaglie di mattoni o ceramica sul primo strato di arriccio per favorire l'adesione dell'intonaco, quello delle tegulae mammatae per isolare la parete dall'umidità e per delimitare gli spazi vuoti da riempire poi con inserti di pittura e, infine, il picchettaggio per applicare su pareti già dipinte una nuova decorazione.
Le tracce preparatorie sul muro con punta secca, cordicelle, colore (ocra) - accorgimenti tutti per agevolare la rapida, successiva opera del pittore sull'intonaco umido - vengono riesaminate anche alla luce di numerose nuove testimonianze.
L'attenta rilettura del testo di Vitruvio e una lunga consuetudine con la pittura a fresco hanno consentito a P. e L. Mora una puntuale ridefinizione delle tecniche a partire dalla preparazione del muro e dalle «pontate» che iniziano generalmente dall'alto, passando poi alle fasi operative fino alla lucidatura delle superfici finali di alcuni colori mediante l'uso di particolari terre argillose (politiones).
Le novità più rilevanti sono però da registrare nel campo della conservazione. L'affinamento delle tecniche di indagine, l'impiego di nuovi prodotti, il ricorso a studi preliminari mirati alla conoscenza delle cause del degrado, alla loro prevenzione e alla bonifica dell'ambiente, permettono oggi, nella maggior parte dei casi, il restauro in situ. Qualora, poi, irreversibili processi di deterioramento rendano inevitabile il distacco o lo strappo, si ricorre all'uso di nuovi supporti che rispondano ai requisiti richiesti di inerzia, leggerezza, elevato grado di isolamento termico, resistenza agli agenti biologici e atmosferici, reversibilità.
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