affricate
Le affricate sono articolazioni consonantiche, sorde o sonore (➔ consonanti). Dal punto di vista fonetico, sono considerate come occlusive nelle quali il rilascio dell’occlusione sia particolarmente lento e assuma i caratteri di un’articolazione fricativa. Questa caratteristica rende spesso difficile distinguere un’affricata da una sequenza occlusiva+fricativa. Per questo motivo le affricate si individuano anche in base a considerazioni fonologiche di tipo distribuzionale.
Le affricate sono prodotte articolando un’occlusione e rilasciandola in modo da realizzare una costrizione che generi un periodo prolungato di frizione. Nell’articolazione sono quindi individuabili due fasi, una di occlusione e una di frizione (figg. 1-2).
Durante la prima, l’aria fonatoria si accumula in corrispondenza del luogo in cui è prodotta l’occlusione, causando un aumento di pressione sino al rilascio dell’occlusione stessa. Nella seconda fase, l’aria fuoriesce con turbolenza per la posizione ravvicinata degli articolatori. Coerentemente, nell’International phonetic alphabet (➔ alfabeto fonetico) questi foni sono trascritti indicando la fricativa come articolazione secondaria della consonante (per es., [ts]), oppure specificando solo le due fasi (per es., [ts⁀ି], [ʦ]).
Le affricate possono essere realizzate in qualsiasi luogo articolatorio ove possa essere prodotta un’occlusiva e possono presentare due fasi omorganiche (ossia prodotte nello stesso luogo, ad es. [ʦ] nella parola pozzo; ma si pensi alla fricativa labiodentale tedesca [pf⁀ି] in Pferd «cavallo»). Tra i luoghi articolatori più sfruttati per la realizzazione delle affricate, soprattutto sorde, c’è quello postalveolare o palatoalveolare (Maddieson 1984). Il rilascio dell’occlusione avviene centralmente e, in poche lingue, lateralmente. Si tratta di articolazioni che possono essere sonore o sorde, mentre sono rare le affricate con diverse caratteristiche di sonorità a seconda della fase articolatoria. Come le altre consonanti, sono prodotte frequentemente con flusso d’aria egressivo generato dai polmoni piuttosto che con altri meccanismi fonatori.
Soprattutto se l’occlusiva e la fricativa sono omorganiche, non è facile differenziare una fase fricativa, parte del rilascio di un’occlusione, dalla realizzazione di un fono fricativo indipendente. In inglese, ad es., è la minore durata della frizione che permette di distinguere l’affricata /ʧ/ in why choose «perché scegliere» dalla sequenza /t/+/ʃ/ in white shoes «scarpe bianche». La durata della frizione tuttavia non è sufficiente e oltretutto non tutte le lingue presentano contesti adeguati per simili confronti. Considerazioni fonologiche di tipo distribuzionale sono quindi fondamentali nel valutare la sequenza come una singola unità affricata o come una sequenza di occlusiva e fricativa.
Le affricate sono segmenti compositi anche dal punto di vista acustico (➔
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fonetica acustica, nozioni e termini di). Il sonogramma di un’affricata sorda permette di visualizzare l’assenza di segnale corrispondente alla fase di occlusione e il rumore acustico generato nella fase di frizione (le striature verticali irregolari in fig. 3). Le caratteristiche acustiche di un’affricata sonora sono simili, ma il sonogramma presenta anche la barra di sonorità e, in media, un annerimento minore rispetto a quello della corrispettiva sorda, per la minore intensità del rumore.
Il luogo di articolazione dell’affricata determina le caratteristiche della fase di frizione. Ad es., la fascia di frequenze interessata dal rumore per una labiodentale sarà molto ampia, a partire dai 2000 Hz, con picchi di intensità alle alte frequenze; per le alveolari sarà superiore ai 4000, con picchi di intensità attorno ai 7000 Hz; per le postalveolari, l’intensità maggiore sarà concentrata tra i 2000-6000 Hz.
Le affricate italiane sono: l’alveolare sorda /ts/ e la sonora /dz/ (anche indicate come ➔ dentali), la postalveolare o palatoalveolare sorda /ʧ/ e la sonora /ʤ/.
La prova di commutazione con zero, che contrappone un fono con l’assenza del fono stesso, mostra che /ʤ/ e /ʣ/ non possono essere analizzate come sequenze di due fonemi (per es., /d/ e /ʒ/): commutando [d] con zero rimane [ʒ], che in italiano compare da solo in pochi prestiti (per es., garage), e il fono [ʣ], a differenza di [z], compare in posizione iniziale (per es., zaino). Le sequenze sonore sono quindi affricate e, per simmetria, anche le corrispettive sorde sono considerate tali. Inoltre, la commutazione delle due affricate postalveolari tra loro mostra che esistono molte coppie minime (➔ coppia minima) che ne giustificano lo status fonologico (per es., /ˈʧita/ ~ /ˈʤita/, /ˈfaʧʧo/ ~ /ˈfaʤʤo/), contrariamente a quanto accade nel caso delle due affricate alveolari (per es., /ˈraʦʦa/ «gruppo di individui della stessa specie» ~ /ˈraʣʣa/ «tipo di pesce»). Tuttavia l’esistenza di due fonemi alveolari è sostenuta dalla loro distribuzione non prevedibile (per es., /ˈpɛʦʦo/, ma /ˈmɛʣʣo/; /ˈanʦi/, ma /ˈmanʣi/) che, se fossero allofoni, dovrebbe poter essere descritta tramite regola fonologica.
Le affricate postalveolari possono essere sia scempie che geminate (per es., /ˈkaʧo/ ~ /ˈkaʧʧo/), mentre le alveolari non subiscono geminazione e sono sempre lunghe intervocalicamente.
In alcune varietà d’italiano si osservano specifiche realizzazioni delle affricate. Nell’Italia del nord, ad es. in Friuli, Trentino o Emilia-Romagna, si individua una realizzazione dentale, o anche interdentale, dell’affricata alveolare sorda (per es., /ˈpret̪⊓s⊓ ̪o/ o /ˈprɛtθo/); in alcune varietà settentrionali, l’alveolare sorda può anche essere realizzata come fricativa alveolare apicale [s⊓̺] (ad es., /paˈ[s⊓̺]ien[s⊓̺]a/ «pazienza») e l’articolazione delle affricate postalveolari può essere avanzata sino a confondersi con quella delle alveolari (per es., /ˈʦena/ «cena»). Inoltre, nell’Italia del nord si osserva una generale tendenza allo ➔ scempiamento delle geminate e delle consonanti lunghe per posizione, quindi anche delle affricate; al Centro-sud, invece, oltre alle geminate è prodotta come lunga anche /ʤ/ intervocalica (per es., /ˈadːʒile/).
Nei nessi bi-consonantici più frequenti, le affricate compaiono dopo nasale (per es., anzi, mangia), dopo le liquide (per es., forgia, stralcio) o, assumendo un’analisi bifonematica, come geminate (per es., caccio, faggio; ➔ doppie, lettere). In alcune varietà, le affricate all’interno di nessi sono soggette a particolari fenomeni fonotattici. Ad es., i parlanti dell’Italia del sud sonorizzano le affricate dopo laterale (per es., /alˈ[ʣ]are/ ~ /alˈ[ʦ]are/; anche intervocalicamente: ad es., /poliˈ[ʣ]ia/).
In Toscana, le affricate postalveolari intervocaliche sono realizzate come fricative (per es., /ˈaʒile/ «agile», /ˈdiʃe/ «dice»), all’interno e al confine di parola. La lenizione (➔ indebolimento) dell’affricata sorda è attestata anche a Roma e a Napoli e si sta diffondendo nel Centro-sud. Talvolta si assiste anche a fenomeni di affricazione: in alcune varietà toscane e centro-meridionali, ad es., in quella romana e campana, la fricativa alveolare sorda è realizzata come affricata dopo nasale o liquida (per es. /ˈpɛnʦo/). In alcune varietà meridionali, ad es., in Puglia e Basilicata, l’affricata è anche sonorizzata (ad es., /ˈpɛnʣo/). Nel caso delle affricate alveolari, molte differenze sono osservabili a inizio parola, con la realizzazione della sonora soprattutto da parte dei parlanti del Nord (ad es., /ˈ[ʣ]ucchero/ ~ /ˈ[ʦ]ucchero/), e dopo laterale, dove i parlanti del Sud producono l’affricata sonora (v. infra).
Le affricate postalveolari sono più frequenti delle alveolari, le sorde lo sono più delle sonore e le scempie più delle geminate. Dati sulla varietà romana di italiano evidenziano inoltre che le affricate alveolari (lunghe se intervocaliche) sono più frequenti delle postalveolari geminate.
Considerando i nessi più frequenti, le affricate alveolari compaiono spesso dopo nasale alveolare (/nʦ/, /nʣ/) e, anche se molto meno, dopo vibrante. Le affricate postalveolari compaiono con minore frequenza, principalmente nei nessi geminati (/ʤʤ/ e, meno, /ʧʧ/); più raramente, si riscontrano dopo nasale alveolare o vibrante, dove il nesso con la sorda (/nʧ/, /rʧ/) è più frequente di quello con la sonora (/nʤ/, /rʤ/).
Le affricate alveolari corrispondono al grafema ‹z›, le postalveolari sorde e sonore corrispondono rispettivamente ai grafemi ‹c, g›, talvolta seguiti da ‹i›.
A parte alcune grafie esotiche in cui compare ‹ts› (per es., mosca tse-tse), le affricate alveolari si rendono con ‹z›. Il grafema è spesso raddoppiato in posizione intervocalica, dove l’affricata è realizzata come lunga (per es., razzo), benché si riscontri il grafema singolo in alcuni casi (per es., democrazia, giustizia) (Serianni 1995).
La resa delle affricate alveolari con ‹z› rispetta una convenzione stabilizzata a partire dalla terza edizione del Vocabolario della Crusca (1691, cit. in Maraschio 1993), che confermava la precedente proposta di Salviati di rendere ti e c+ti con ‹zi› (ad es., vizio). A partire dal latino di età imperiale, fino alla soluzione del Vocabolario, si sono osservate grafie diverse (per es., ‹z›, ‹tz›, ‹cz›, ‹zi›, ‹ç›, ‹ti›) talvolta corrispondenti anche a foni diversi dalle affricate.
Le affricate postalveolari corrispondono ai grafemi ‹c, g›, benché essi si realizzino con affricate davanti a i ed e, ma con occlusive velari (/k/ e /g/) davanti alle vocali a, o, u. La pronuncia affricata davanti ad a, o, u, si ha solo se è presente il grafema ‹i› (per es., cialda ~ calda), mentre quella velare davanti a i ed e si ha se è presente il grafema ‹h› (per es., chela ~ cela). La scarsa omogeneità nel sistema ortografico è dovuta al fatto che in latino le lettere C e G corrispondevano sempre a occlusive velari (per es., Cicero /ˈkikero/) e quando le affricate palatoalveolari penetrarono nel volgare italiano fu necessario modificare anche la grafia. Dopo molte oscillazioni, il grafema ‹h› si affermò come diacritico con valore velare di fronte a e ed i, a discapito di altre grafie, come ‹k› (Maraschio 1993).
Gili Fivela, Barbara et al. (2008), Domain initial strengthening in sentences and paragraphs: preliminary findings on the production of voiced bilabial plosives in two varieties of Italian, in Proceedings of the 8th international seminar on speech production (Strasbourg, 8-12 December), edited by R. Sock, S. Fuchs & Y. Laprie, Strasbourg, Inria, 2008, pp. 205-208.
Maddieson, Ian (1984), Patterns of sounds, Cambridge, Cambridge University Press.
Maraschio, Nicoletta (1993), Grafia e ortografia, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni & P. Trifone, Torino, Einaudi, 3 voll., vol. 1º (I luoghi della codificazione), pp. 139-227.
Serianni, Luca (1995), Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria: suoni, forme, costrutti, Torino, UTET.