Afghanistan
«Allah akbar!»
Il regime dei talebani
di Thomas Ruttig
10 marzo
I talebani, gli integralisti musulmani che controllano il 90% dell'Afghanistan, annunciano di aver portato a termine l'abbattimento delle due statue giganti di Buddha situate nella valle di Bamiyan e risalenti, con ogni probabilità, al 3° e al 5° secolo d.C. La furia iconoclasta dei talebani è stata scatenata da un editto del Mullah Mohammad Omar al Muhjaed, secondo il quale tutte le opere d'arte prodotte in Afghanistan prima dell'avvento dell'Islam e raffiguranti esseri umani devono essere distrutte, in quanto contrarie ai precetti del Corano. A nulla sono serviti gli appelli degli organismi internazionali e le proteste che si sono levate dal mondo intero.
La distruzione dei Buddha
«Solo Dio onnipotente è degno di essere adorato, nessun altro e nient'altro». Così recitava un editto, una fatwa, dell'Emirato islamico dell'Afghanistan, il nome ufficiale dello Stato dei talebani, emanata il 26 febbraio 2001 e firmata dal Mullah Mohammad Omar al Mujahed, la sua guida suprema, chiamato anche Amir-ul-Mumenin o 'Comandante dei fedeli'. Questa fatwa ha fornito la base per la distruzione dei due colossali Buddha di Bamiyan: il Buddha Dipankara, il 'Buddha dell'era trascorsa', e il Buddha storico Shakyamuni, che erano le più grandi raffigurazioni di creature umane del mondo. All'inizio di marzo (la data esatta non è stata comunicata) queste opere di eccezionale valore sono state tramutate in polvere e sassi dall'esplosione di svariate tonnellate di dinamite, accompagnata dal grido Allah akbar («Allah è grande!») dei guerriglieri talebani, come hanno mostrato al mondo intero, il 19 marzo, le immagini del canale televisivo privato del Qatar 'al-Jazira', l'unico cui era stato permesso di assistere all'avvenimento.
Parallelamente alla distruzione dei famosi Buddha di Bamiyan, la polizia religiosa talebana (Amr bil ma'ruf wa Nahi anil-Munkar, o Ministero per la Promozione della virtù e la prevenzione del vizio) avrebbe proceduto alla distruzione di manufatti preislamici e non islamici in tutto il paese, dal Buddha disteso di Ghazni alle preziose statue buddiste, indù e greco-battriane conservate nei musei di Kabul, Herat e Jalabad. Nessun osservatore indipendente, tuttavia, è stato in grado di confermare l'autenticità di questa notizia. Nel paese si è sparsa così la voce, circolata anche in Pakistan, che il vero scopo dell'editto fosse quello di coprire un'operazione su larga scala, riguardante la vendita di queste opere d'arte sul mercato antiquario clandestino del Pakistan, che conta numerosi acquirenti in Europa occidentale, in America, in Giappone e nei paesi del Golfo Arabico.
L'ondata di proteste suscitata in tutto il mondo dalla pubblicazione dell'editto - a cui si sono uniti anche il segretario generale dell'ONU Kofi Annan, l'ex re afghano Muhammad Zahir (che vive attualmente a Roma), il generale Pervez Musharraf, leader politico del Pakistan, numerosi governi, organizzazioni religiose e artisti di ogni parte del mondo e perfino eminenti studiosi musulmani, come lo sceicco della celebre Università del Cairo al-Azhar - non ha impedito ai talebani di porre in atto il loro proposito iconoclasta. Anche la grande maggioranza degli afghani è rimasta inorridita di fronte a questa azione distruttiva, benché non abbia potuto esprimere pubblicamente il proprio sdegno per il timore di rappresaglie. A darle voce hanno provveduto alcuni eminenti artisti afghani in esilio. Per molti degli afghani rimasti nel paese, la distruzione dei Buddha di Bamiyan ha vanificato le ultime speranze in una svolta moderata nella politica del regime dei talebani.
L'ascesa al potere dei talebani
I talebani hanno fatto il loro ingresso sulla scena della crisi afghana nell'autunno del 1994, come una forza nuova e fino ad allora del tutto sconosciuta all'estero. Il completamento della ritirata delle forze sovietiche nel febbraio del 1989, la caduta, tre anni più tardi, nel 1992, del presidente Mohammed Najibullah, che era stato appoggiato dall'Unione Sovietica, e la presa del potere da parte dei mujahidin non hanno coinciso infatti con la fine della guerra in Afghanistan. Dopo la vittoria, le diverse fazioni dei mujahidin non solo si sono mostrate incapaci di governare insieme l'Afghanistan e di iniziare un percorso di ricostruzione del paese, ma sono sprofondate in una serie di sanguinose lotte interne per la conquista del monopolio del potere, accompagnate da incontrollabili e brutali intimidazioni nei confronti della popolazione civile, che ha finito ben presto per perdere qualsiasi fiducia verso i 'liberatori' dall'occupante sovietico. I mujahidin non sono riusciti a governare in modo unitario neppure la capitale: ricordando quel periodo, gli afghani parlano di "sette governi nella sola Kabul".
La frammentazione del potere politico e la perdita di fiducia da parte della popolazione hanno favorito, a partire dal 1995, l'ascesa di una forza che aveva dichiarato di voler porre termine al caos, disarmando tutte le altre fazioni e ristabilendo un 'vero ordine islamico': i talebani. Inizialmente questi affermarono di non voler conservare il potere ma di avere intenzione di cederlo a un governo legittimo una volta concluso il disarmo di tutte le fazioni in lotta, e accennarono anche a un possibile ritorno dell'ex re Muhammad Zahir. Di fronte al caos provocato dalle divisioni dei mujahidin, gran parte della popolazione sembrava disposta a subire le pesanti restrizioni imposte dai talebani dopo la loro graduale affermazione. Misure come il bando di ogni forma di intrattenimento e di attività sportiva e perfino alcune plateali violazioni dei diritti umani e di norme condivise a livello internazionale come i diritti delle donne, inclusi il diritto all'istruzione e al lavoro, erano considerate un male minore rispetto ai danni prodotti dal malgoverno dei mujahidin.
Tra il 1995 e il 1998, con la presa di Kabul, i talebani hanno poi assunto stabilmente il dominio della maggior parte del territorio afghano, a eccezione di una piccola porzione nel Nord-Est del paese (comprendente le province di Tokhar, Badakhshan e Kapisa, e inoltre la valle di Panjsher), rimasta sotto il controllo dei loro avversari del Fronte unito islamico per la salvezza dell'Afghanistan (UIFSA).
Leader politico dello UIFSA è Burhanuddin Rabbani, presidente dello Stato islamico di Afghanistan e capo del partito Jamiat-e islami, mentre leader militare è, dopo la morte dello storico comandante Ahmad Shah Massoud, rimasto vittima di un attentato il 9 settembre 2001, il generale Muhammad Fahim. A partire dal 2000 l'UIFSA ha attraversato un processo di ristrutturazione interna volto ad allargarne la base di appoggio, mentre nel 2001 alcuni vecchi e potenti avversari dei talebani, sconfitti e costretti all'esilio da questi ultimi, sono tornati sulla scena militare: il generale Abdurrashid Dostum, appartenente all'etnia uzbeca, nel Nord del paese; Ismail Khan a Herat, nel Nord-Ovest; Hajii Abdul Qadeer, un pashtun, nella zona orientale. Il risultato di questo processo è stato un aumento degli scontri intorno ad alcune enclave situate lungo una linea che attraversa da oriente a occidente tutto l'Afghanistan centrale, condotti da forze appartenenti o associate allo UIFSA.
La struttura del Movimento islamico dei talebani
Il Movimento islamico dei talebani (in lingua pashto: De talebano islami ghurdzang o De talebano islami tehrik) è così chiamato a causa della provenienza di tutti i suoi più importanti dirigenti e di gran parte dei suoi militanti di base dalle madrasa, le scuole religiose del Pakistan e delle aree periferiche dell'Afghanistan. Taleban è la forma plurale persiana della parola araba taleb ("studente"), che deriva a sua volta dal verbo arabo talaba ("sforzarsi", in questo caso per raggiungere la conoscenza), da cui l'espressione 'studenti del Corano', spesso utilizzata nelle fonti occidentali per designare i seguaci di questo movimento.
La struttura del movimento dei talebani corrisponde a un modello concentrico, il cui centro è rappresentato dall'amir ("guida"), Mullah Mohammad Omar. Intorno a quest'ultimo ruota il cerchio più interno, formato da un gruppo di ex comandanti dei mujahidin i quali, come fece lo stesso Mullah Omar, considerarono conclusa la loro missione con il ritiro delle truppe sovietiche, facendo ritorno nelle loro madrasa. Solo la necessità di porre fine al regime dei mujahidin, da essi considerato e definito pubblicamente 'non islamico', indusse in un secondo momento questi comandanti a riprendere le armi.
La cosiddetta shura interna ('consiglio interno') del movimento dei talebani è formata attualmente da un gruppo di dirigenti fortemente impegnati e motivati sul piano ideologico, provenienti per la maggior parte da Kandahar e da alcune province vicine come Helmand, Oruzgan e Zabul. Peraltro, dopo la morte in guerra o la rimozione di alcuni tra i membri fondatori, la composizione attuale del consiglio non è ben nota.
Accanto a questo organismo, esistono altre due shura - con poteri forse in parte sovrapposti - in grado di influenzare il processo decisionale del regime: una shura militare e una shura (o un gruppo informale) di studiosi islamici (ulema). Questi organismi sono caratterizzati da una totale assenza di trasparenza e agiscono nella massima segretezza, sicché la reale struttura interna del potere e il processo decisionale del regime dei talebani rimangono ancora in gran parte sconosciuti.
Intorno ai padri fondatori del movimento dei talebani, nel secondo cerchio concentrico, sono raccolti i combattenti che li hanno seguiti sin dall'inizio o che si sono uniti più tardi al movimento, provenienti dalle madrasa pakistane o afghane, i cosiddetti 'veri talebani'. Molti di loro sono figli di rifugiati afghani oppure orfani che non avevano altro accesso all'istruzione se non quello offerto dalle madrasa, che forniscono gratuitamente ai loro studenti vitto, alloggio e insegnamento.
Il cerchio più esterno è formato infine da quei mujahidin che, di fronte al furioso attacco condotto contro di loro dai talebani tra il 1994 e il 1997, preferirono unirsi ai loro avversari piuttosto che combatterli. Da allora, si registra nel movimento una forte presenza di elementi provenienti dai vecchi 'partiti' mujahidin come Harakat-e inqilab-e islami, di Maulawi Muhammad Nabi Muhammadi, e Hezb-e islami, di Gulbuddin Hekmatyar, sulla cui lealtà al regime permangono tuttavia molti dubbi. Lo stesso può essere detto per la componente formata dagli ex 'comunisti' (per la maggior parte provenienti dalla fazione Khalq), che fornisce al regime dei talebani piloti, guidatori di carri armati e altri specialisti in campo militare e perfino personale per il suo servizio segreto, tutte attività che richiedono competenze non molto diffuse tra i graduati delle madrasa.
Parallelamente alla crescente difficoltà di reperire reclute nelle aree pashtun dell'Afghanistan meridionale e orientale, base del potere dei talebani, è aumentata all'interno del movimento l'importanza militare degli elementi stranieri, come gli arabi di Osama Bin Laden o i militanti provenienti dai paesi dell'Asia centrale, come i membri del Movimento islamico dell'Uzbekistan diretto da Juma Boi Namangani e Taher Yuldushev.
Alcune fonti descrivono il movimento dei talebani come una rete afghana indigena integrata in seguito con altre reti transnazionali, organizzata, sostenuta e manipolata dai militari pakistani per i loro fini di sicurezza nazionale e regionale. Il governo pakistano, tuttavia, smentisce con fermezza ogni ipotesi di aiuti militari al regime dei talebani, come è stato ribadito dal ministro degli Esteri pakistano Abdus Sattar nel giugno 2001, nel corso di una visita a Washington.
È certo invece che il regime dei talebani può contare su una fitta rete di interessi economici, basati sul controllo dei trasporti e dei commerci tra la costa meridionale del Golfo Arabico, l'Iran e il porto pakistano di Karachi, esercitato dai pashtun della diaspora che, a loro volta, mantengono stretti legami con le amministrazioni delle province pakistane del NWFP (North West Frontier Peshawar) e del Belucistan. Questo cosiddetto commercio di frontiera - buona parte del quale è in effetti contrabbando - rappresenta per il regime dei talebani la fonte di reddito più importante. Secondo una stima istantanea della Banca Mondiale, le sole 'esportazioni non ufficiali' dall'Afghanistan in Pakistan sono ammontate nel 2000 a 941 milioni di dollari americani, mentre le 'importazioni non ufficiali' hanno raggiunto all'incirca i 100 milioni di dollari.
Al di là delle sue strutture interne, il regime dei talebani ha stabilito un sistema di governo rigidamente centralizzato, al cui vertice si trova il Consiglio dei ministri (in pashto De wazirano shura) dell'Emirato, con sede a Kabul e formato da un presidente, 21 ministri e alcuni coordinatori dei Direttorati generali alle dipendenze di ogni ministro. In realtà, l'autorità di questa shura appare fortemente condizionata e nessuna decisione importante può essere presa senza consultare la shura interna di Kandahar. Questa struttura centralizzata si estende fino ai livelli provinciali e di distretto, dove un'alta percentuale dei funzionari pubblici è sottoposta a una rotazione piuttosto rapida (circa ogni sei mesi), per evitare lo sviluppo di poteri locali. D'altro canto, il controllo dei talebani sui gradini più bassi del sistema di governo rimane spesso di fatto superficiale e simbolico, specialmente nelle aree delle tribù pashtun. che godono ancora de facto di un certo margine di autonomia, e nel Hazarajat, nell'Afghanistan centrale, dove il potere reale è lasciato nelle mani di dirigenti locali alleati, a condizione che non entrino pubblicamente in contrasto con il movimento. Il controllo su queste strutture è mantenuto dai 'ministri' per la Promozione della virtù e la prevenzione del vizio, i quali non rispondono al Consiglio dei ministri ma direttamente al Mullah Omar.
La progressiva radicalizzazione ideologica
Secondo studiosi come l'afghano Maryam Abu Zahhab, attualmente residente in Francia e autore di una delle prime analisi sul retroterra sociale del movimento dei talebani, quest'ultimo incarnerebbe lo spirito di rivalsa dei contadini poveri di etnia pashtun contro il sistema di potere tribale che, attraverso il controllo della monarchia, ha dominato il paese per la maggior parte degli ultimi 250 anni.
Ma anche per altri aspetti il movimento appare tutt'altro che omogeneo o monolitico. Accanto al già descritto ordinamento 'storico' concentrico convivono fazioni interne di matrice più regionale che ideologica, in contrasto con la consueta distinzione tra 'estremisti' e 'moderati'. In ciò, la struttura del movimento ricorda quella dell'opposizione tagika, le cui divisioni ricalcano le linee di separazione dei diversi clan regionali come i Garmi, i Kulyabi ecc.
Al momento attuale, la fazione di Kandahar svolge un ruolo predominante all'interno dei diversi gruppi regionali. Il carattere chiuso e conservatore di questa fazione è dimostrato dal suo rifiuto di accettare nuovi membri, sia pure quelli provenienti da altri gruppi regionali pashtun (come i Nangrahari, le tribù orientali di Paktia e Paktika o i Logari, per non parlare delle minoranze pashtun residenti nei territori settentrionali e occidentali). Tanto più, le popolazioni di etnia non pasthun come i tagiki, gli uzbeki o gli hazara, sono rappresentate nella struttura decisionale talebana solamente da figure 'simboliche'.
I conflitti tra estremisti e moderati, se davvero esistono, appaiono più potenziali che reali. Come dimostra il caso della distruzione dei Buddha, finora gli estremisti sono stati in grado di costringere i moderati a seguire la linea del partito. Ciò prova, d'altro canto, che, per quanto possano trovarsi in disaccordo con gli estremisti, i moderati non giungeranno mai a rischiare un'aperta rottura nel movimento, dato che la sua unità sta loro a cuore più delle differenze ideologiche o d'altro genere.
Molti osservatori occidentali descrivono i talebani e il loro Emirato come un esperimento politico fallito. Questo può essere vero se si considera la loro incapacità (o il loro rifiuto, come hanno suggerito molti osservatori) di assolvere alle funzioni essenziali di un governo, come gestire un sistema sanitario, attrarre investimenti, costruire ex novo o restaurare le infrastrutture. D'altro canto, in alcuni settori lo Stato dei talebani si è mostrato molto efficiente, molto più di tutti quelli che lo avevano preceduto: nel campo militare, nell'istituzione di un efficace sistema repressivo, nella riscossione di tasse e tariffe.
Questa rigida selezione delle funzioni statali che l'Emirato si è mostrato intenzionato a svolgere riflette una tendenza iniziata nel 1998, quando il movimento dei talebani, probabilmente a causa dell'influenza dei movimenti islamici del vicino Pakistan e di altri paesi del Medio Oriente, come quello guidato dal dissidente saudita Osama Bin Laden, ha mutato il proprio atteggiamento politico, trasformandosi da 'movimento apolitico' in un'organizzazione finalizzata alla costruzione di uno Stato islamico modello. Questo cambiamento di rotta è stato marcato dalla fondazione dell'Emirato islamico dell'Afghanistan, dotato dei suoi simboli, come la bandiera bianca del movimento, dall'elezione del leader Mullah Omar a capo di Stato con il titolo di Amur-ul-Mumenin, e dalla nomina di veri ministri al posto dei precedenti funzionari provvisori. Tutto ciò dimostrava la chiara volontà dei talebani di conservare il potere in modo permanente.
Tale processo è stato accompagnato da una radicalizzazione ideologica del movimento stesso e da una nuova spinta a un'islamizzazione profonda della società afghana, secondo i principi della dottrina islamica radicale di Wahhabi-Deobandi, che forma la base ideologica del movimento, contrapposti a quelli liberali moderati sostenuti dalla scuola islamica di Hanafi e fino ad allora prevalenti. I recenti cambiamenti nel sistema scolastico- come l'introduzione di programmi islamici o l'importanza attribuita all'insegnamento della lingua araba - e in quello giudiziario, a cui si aggiunge la messa al bando dei moderni mezzi di comunicazione come televisione, cinema, Internet, libri e riviste, che potrebbero diffondere idee sgradite al regime (e che sono accessibili solo a una ristretta 'nomenklatura' di talebani), fanno parte di un'operazione di ingegneria sociale su vasta scala che mira a liberare l'Afghanistan da ogni influenza straniera, sia essa 'comunista' o 'liberale occidentale'.
I talebani e la comunità internazionale
L'irrigidimento della posizione dei talebani nei confronti del personale delle associazioni umanitarie occidentali - sia le agenzie legate all'ONU sia le altre organizzazioni indipendenti -, manifestatosi nel corso del 2001, è solo un ulteriore elemento in questo processo. Le relazioni tra i talebani e la comunità internazionale hanno cominciato a deteriorarsi nel 1998, quando gli Stati Uniti reagirono ai due attentati alle loro ambasciate in Kenya e Tanzania bombardando con missili Cruise le basi afghane del loro presunto mandante, Osama Bin Laden.
Tuttavia, fino alla metà del 2000 i talebani hanno tentato in tutti i modi di ottenere dalla comunità internazionale il riconoscimento del proprio regime, rivendicando il controllo del 90% del territorio e il successo conseguito nel ristabilire 'l'ordine e la sicurezza' nel paese e al contempo contestando la legittimità del governo dello Stato islamico di Afghanistan guidato da Rabbani, che era ancora riconosciuto diplomaticamente da tutti gli Stati dell'ONU, eccetto tre (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Pakistan). Come espressione di una volontà conciliatoria può essere visto anche il decreto emanato dal Mullah Omar nell'estate del 2000, che proibiva la coltivazione del papavero da oppio, in conformità con il Programma di controllo sulle droghe delle Nazioni Unite (UNDCP). All'inizio del novembre 2000, inoltre, i talebani si dichiaravano disponibili a dare inizio a un processo di dialogo con i loro avversari dello Stato islamico dell'Afghanistan sotto gli auspici dell'ONU, allo scopo di giungere a una soluzione pacifica del conflitto.
Nonostante questi segnali positivi, i problemi di fondo tra la comunità internazionale e il regime dei talebani sono rimasti sostanzialmente immutati. I talebani, non ottemperando alla risoluzione votata dal Consiglio di sicurezza dell'ONU il 15 ottobre 1999 che ne intimava la consegna, hanno continuato a offrire ospitalità a Osama Bin Laden, e hanno fornito protezione e persino strutture di addestramento anche ai militanti politici e ai rifugiati delle repubbliche dell'Asia centrale. Per di più, il riconoscimento diplomatico del governo secessionista ceceno ha profondamente irritato la Russia. Nell'estate del 2000, i talebani hanno ignorato i moniti del Rappresentante personale del Segretario delle Nazioni Unite per l'Afghanistan, Francesc Vendrell, che li invitava ad astenersi da una nuova massiccia offensiva militare e dal prendere a bersaglio la popolazione civile durante i combattimenti, se volevano evitare nuove sanzioni. Per tutta risposta, è stata lanciata nell'autunno del 2000 una campagna per la conquista della capitale dello Stato islamico dell'Afghanistan, Taloqan (nel gennaio 2001 un nuovo massiccio massacro di civili è stato compiuto nella città di Yakaolang, nell'Afghanistan centrale). In seguito a ciò, nel dicembre 2000 il Consiglio di sicurezza dell'ONU ha deciso una nuova serie di sanzioni militari e diplomatiche unilaterali contro i talebani, entrate in vigore nel gennaio 2001. Le sanzioni comprendono il blocco di ogni fornitura militare, incluse le strutture logistiche, e dell'ingresso di consiglieri militari, e il divieto di viaggiare all'estero per i membri delle gerarchie più elevate del governo.
I talebani hanno percepito il varo di queste sanzioni come la fine di ogni speranza di normalizzazione dei loro rapporti con il mondo esterno. Di conseguenza, la guida del movimento è stata assunta dai seguaci della linea dura, che hanno stabilito l'inutilità di continuare a preoccuparsi degli interessi e delle sensibilità della comunità internazionale, dando inizio a un corso sempre più marcatamente isolazionista. Questi elementi estremisti hanno dichiarato di non considerare più le Nazioni Unite come un'organizzazione neutrale e si sono ritirati dal dialogo di pace appena iniziato. A ciò ha fatto seguito l'accusa lanciata alla comunità internazionale di non prestare sufficienti soccorsi alle popolazioni afghane colpite da una gravissima siccità. Una conseguenza spettacolare del nuovo corso del regime è stata la fatwa che ha condannato alla distruzione tutte le statue non islamiche, tra cui i Buddha di Bamiyan, azione che ha peraltro rafforzato l'appoggio dato ai talebani dalle forze islamiche radicali nelle altre nazioni musulmane.
La situazione si è ulteriormente e drammaticamente inasprita dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 negli Stati Uniti, di cui è stato indicato il mandante in Osama Bin Laden. Nonostante le pressioni internazionali, i talebani non hanno voluto consegnare lo sceicco, limitandosi a invitarlo, con un editto, a lasciare il paese. Gli Stati Uniti non hanno ritenuto il provvedimento sufficiente e il 7 ottobre hanno dato inizio a un'operazione punitiva nei confronti del regime di Kabul.
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I giganti abbattuti
Le due colossali statue di Buddha della valle di Bamiyan, che sono state distrutte dai talebani nel marzo 2001, rappresentavano il monumento più importante dell'arte del Gandhara, nata dall'incontro fra l'ellenismo e la cultura del subcontinente indiano. Erano note agli abitanti del luogo come 'il marito' e 'la moglie', o anche con i nomi di Solsol, "anno dopo anno", quella più grande, e Shahmama, "re madre", quella più piccola.
Situati al centro di un complesso di circa 750 conventi buddisti, scavati nella parete calcarea e un tempo ricchissimi di opere d'arte, i Buddha di Bamiyan risalivano ai primi secoli dopo Cristo, probabilmente al 3° e 5° secolo; la valle era allora frequentatissima, costituendo un passaggio obbligato per le carovane che trasportavano merci preziose dall'India e dalla Cina verso l'Occidente e, seguendo il percorso inverso, da Roma, la Siria e l'Egitto verso l'Oriente.
Le statue, realizzate scavando la roccia e lasciando la parte posteriore delle figure attaccata alla pietra, erano incastonate in due nicchie, intonacate a stucco e interamente affrescate con rappresentazioni della vita di Buddha. Stucchi dipinti coprivano anche i Buddha, le cui vesti erano blu e rosse, il volto e le mani dorati. Non è difficile immaginare quale impressione i due colossi potessero suscitare agli occhi dei viaggiatori, quando entravano nella valle provenendo dagli aridi paesaggi circostanti.
Risparmiate dalle successive ondate di conquistatori, le statue furono oggetto dell'iconoclastia degli arabi fin dai primi tempi della loro conquista del paese: ai Buddha fu allora segata la parte anteriore del volto. Mani e volti furono cancellati anche dagli affreschi delle nicchie. Ma, nel complesso, fino alla distruzione operata dai talebani le statue avevano resistito agli assalti del tempo e dell'ostilità religiosa, anche se dalla metà degli anni Novanta le deturpazioni erano diventate più vistose. Già prima del marzo 2001, i Buddha presentavano, infatti, gravi scheggiature e altre 'ferite' inferte da colpi di mortaio e da esplosioni. Inoltre, un vano situato dietro ai piedi del Buddha grande era stato trasformato dai talebani in deposito di armi e munizioni.
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La storia dell'Afghanistan
L'attuale Afghanistan confina con il Turkmenistan, l'Uzbekistan e il Tagikistan a nord, con la Cina per un breve tratto a nord-est (l'appendice che s'incunea fra il Pamir e l'Hindu Kush), con il Pakistan a est e a sud, con l'Iran a ovest. Il territorio, prevalentemente montuoso e posto al punto di incontro di tre grandi regioni fisiche e culturali (l'altopiano iranico, le steppe turaniche e il subcontinente indiano), manca di una ben precisa unità geografica ed etnica, condizione che ha contribuito a far sì che uno Stato nazionale afghano sia una creazione relativamente recente, risalente al 18° secolo. Moventi della sua formazione furono allo stesso tempo aspirazioni interne e ingerenze straniere, finalizzate, queste ultime, a creare, soprattutto nell'Ottocento, una zona cuscinetto posta fra l'espansionismo russo da un lato e quello inglese dall'altro.
Prima di allora la storia dell'Afghanistan s'intreccia strettamente con quella delle regioni vicine. La sua posizione geografica ha fatto della regione, in ogni epoca, un luogo di passaggio, non soltanto per le migrazioni e le invasioni, ma anche per i mercanti, le carovane, i pellegrini. La barriera dell'Hindu-Kush deve essere aggirata o attraversata da chi voglia recarsi dall'Iran o dall'alta Asia verso l'India: è la vecchia 'strada dell'India'. In territorio afghano essa è tagliata da una seconda direttrice, la cosiddetta 'via della seta', che attraverso il Pamir mette in comunicazione l'Occidente con il Turkestan cinese. Questa fu una tra le vie commerciali più importanti nel Medioevo, percorsa anche da Marco Polo nei suoi viaggi per raggiungere il Catai. Per questa strada avvennero i contatti fra la civiltà dell'estremo Oriente e quella persiana. Il buddismo, invece, risalendo a ritroso la via degli invasori, è penetrato nell'Afghanistan dall'India e qui si è incontrato con l'arte e con il pensiero della Grecia.
L'Afghanistan prima dell'Afghanistan
Nei primi tempi storici l'attuale territorio dell'Afghanistan, conquistato da Ciro, cadde sotto il controllo persiano: l'iscrizione di Dario a Bisutun ricorda, tra le satrapie orientali dell'impero achemenide, la Battriana e il Gandhara. Nel 329 a.C. Alessandro, sulle tracce di Dario, riconquistò le province afghane che avevano, frattanto, recuperato l'indipendenza. Alla sua morte, e con la divisione del suo impero, questi territori rientrarono nel dominio dei Seleucidi. Verso il 175 a.C. si costituì uno Stato indipendente, presto diviso in due regni, il greco-battriano e il greco-indiano. Ma la sovranità greca sulla regione non durò a lungo. Il primo dei due regni soccombette all'attacco dei gruppi di nomadi erranti in tribù tra il lago d'Aral, il mar Caspio e i monti del Pamir; il secondo fu in grado di resistere più a lungo, grazie alla difesa dei valichi sulla barriera dell'Hindu Kush, ma subì poi l'invasione dei parti.
Nel 90 d.C. tutto l'Afghanistan fu conquistato dai kusana, popolazione proveniente dal Turkestan cinese. Noti nelle fonti cinesi con il nome di Yue-che, i kusana erano stati sospinti dai movimenti migratori verso occidente: si erano stabiliti in Battriana e in seguito erano penetrati nella valle del Kabul e nel Gandhara. Il loro dominio, interrotto a metà del 5° secolo dall'invasione degli unni eftaliti, o unni bianchi, doveva durare fino all'arrivo degli arabi nell'8° secolo. Il più famoso dei sovrani kusana fu Kaniska, la cui ascesa al trono è da porsi tra la fine del 1° e l'inizio del 2° secolo d.C. Il suo impero, reso prospero dalla stabilità politica e dall'intensità dei traffici commerciali con il Mediterraneo romano e la Cina, abbracciava un'area assai vasta che si estendeva dall'Asia centrale all'India settentrionale. Convertito al buddismo, Kaniska fu il principale tramite per l'affermazione nella zona della religione, di cui fu ardente neofita. È soprattutto durante il suo regno che nelle regioni del Nord-Ovest dell'India e nelle contigue province afghane si verificò l'incontro tra religione buddista ed ellenismo, dal quale dovevano nascere una nuova iconografia e un nuovo stile. Al re kusana si attribuisce generalmente la costruzione delle prime fondazioni buddiste, all'inizio della nostra era.
Il buddismo fiorì in Afghanistan fino all'arrivo dei musulmani e furono probabilmente kusana i primi religiosi buddisti che penetrarono in Cina. Il luogo di culto più importante si trovava nella vallata di Bamiyan, a 2500 m di altezza ai piedi dell'Hindu-Kush, dove santuari e monasteri furono scavati nella roccia intorno a due grandi statue raffiguranti il Buddha stante, riprodotte in innumerevoli statuette che i pellegrini portavano con sé nei paesi d'origine, influenzando l'arte buddista nell'Asia centrale e in Cina.
La condizione in cui a quei tempi si trovavano le province attraversate dalla vecchia strada dell'India ci è nota grazie alla relazione di viaggio del celebre pellegrino cinese Hsiuan-chang, in visita nel 7° secolo ai luoghi sacri del buddismo. Egli enumera i conventi di cui la regione era un tempo ricca e parla di parecchie migliaia di religiosi residenti ancora a Bamiyan, ma, a differenza dei viaggiatori che nei secoli precedenti avevano descritto come fiorenti le costruzioni promosse da Kaniska, non può far a meno di rilevare lo stato di rovina e di spopolamento del territorio e la fatiscenza di buona parte delle fondazioni buddiste.
La lunga decadenza del regno dei kusana si situa tra il 7° e il 10° secolo e fu opera congiunta degli attacchi dei musulmani e delle ribellioni dei sudditi indiani. Nel controllo dell'Afghanistan si succedettero dinastie musulmane e capi locali indipendenti, musulmani, zoroastriani, buddisti e pagani. Alla fine del 10° secolo uno schiavo turco, Subuktaghin, sovrano di Ghazni, località a sud-ovest di Kabul, dette origine alla più illustre tra le dinastie musulmane che regnarono nella regione, quella dei Ghaznavidi, che di qui irradiò la sua penetrazione in India ed ebbe, sotto il sultano Mahmud, un periodo di grande potenza e floridezza culturale. La corte di Mahmud è rimasta famosa per aver ospitato poeti, fra cui il persiano Firdusi, e scienziati, tra i quali l'arabo al-Biruni. Alla morte del potente sovrano (1030) l'impero ghaznavide comprendeva il Khorasan, parte dell'Iraq, il Tabaristan, il Turkestan a sud dell'Oxus, tutto il Panjab e, al centro, l'Afghanistan; è proprio durante le campagne di conquista intraprese dagli eserciti multietnici di Mahmud che fecero per la prima volta la loro comparsa gli afghani. Sotto i successori di Mahmud l'impero ghaznavide perdette parti sempre più vaste dei suoi territori, fino a quando, indebolito dalle continue lotte con i Selgiuchidi, fu rovesciato definitivamente per opera di suoi vassalli.
All'inizio del 13° secolo l'Afghanistan cadeva nelle mani dei mongoli, che ne fecero la base per la loro conquista dell'India. Tra i centri principali della regione, Herat divenne la capitale dei successori di Tamerlano, Kabul fu a lungo città semi-indipendente sotto vari sovrani della famiglia di Tamerlano, mentre a Kandahar regnò la dinastia mongola degli Arghun. Tre secoli dopo Kabul fu conquistata da Baber, il fondatore della dinastia dei Moghul, ed elevata a rango di capitale, per finire poi a far parte dell'impero di Delhi dopo la conquista dell'India da parte dei Moghul; Herat passò sotto il dominio della Persia e Kandahar, contesa fra i due Stati, cambiò più volte padrone.
Nel 1273, la via che mette in comunicazione il Turkestan afghano con il Kashgar e quindi con la Cina fu percorsa per la prima volta da un europeo, Marco Polo. Nel Milione egli ha lasciato una vivida rappresentazione della provincia afghana del Badakshan, la regione montuosa compresa tra l'alto corso dell'Amu Darya e la catena dell'Hindu Kush, famosa nei secoli, oltre che per l'allevamento dei cavalli, per le sue miniere di lapislazzuli e di una particolare varietà di rubini, di colore roseo-violaceo, chiamati balakhsh: «Balasciam è una provincia che la gente adorano Malcometo, e ànno lingua per loro. Egli è grande reame e discende lo re per reditate; e scese del legnaggio d'Allesandro e de la figlia di Dario, lo grande signore di Persia. E tutti quegli re si chiamano Zulcarnei, in saracino il bicorne [dall'effigie di Alessandro, raffigurato sulle monete alessandrine con due corna simboleggianti le due parti del mondo, l'Oriente e l'Occidente], ciò a dire Alesandro, per amore del grande Allexandro. E quivi nasce le priete preziose che si chiamano balasci, che sono molto care, e cavansi ne le montagne come l'altre vene. E è pena la testa chi cavasse di quelle pietre fuori del reame, perciò che ve n'à tante che diventerebbero vile. E quivi, in un'altra montagna, ove si cava l'azurro [i lapislazzuli], e è 'l migliore e 'l più fine del mondo; e le pietre onde si fa l'azurro, è vena di terra. E àvi montagne ove si cava l'argento. E la provincia è molto fredda. E quivi nasce cavagli assai e buoni coritori, e non portano ferri, sempre andando per le montagne. E nascevi falconi molto volanti e li falconi lanieri: cacciare e uccellare v'è lo migliore del mondo. Olio non ànno, ma fannone di noci. Lo luogo è molto forte da guerra; e' sono buoni arcieri e vestonsi di pelle di bestie, perciò ch'ànno caro [scarsità] di panni. E le grandi donne e le gentili portano brache, che v'è ben 100 braccia di panno bambagino, e tal 40 e tal 80; e questo fanno per parere ch'abbiano grosse le natiche, perché li loro uomini si dilettano in femine grosse» (Marco Polo, Il Milione, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1991, cap. 46, pp. 53-54).
Con il 16° secolo ebbe inizio l'espansione degli afghani, che incominciarono a scendere dalle loro sedi montuose per occupare le pianure. Rimasti relativamente immuni dalle invasioni, essi si sostituirono alle dinastie indigene che avevano sostenuto l'urto dei mongoli e seppero tenere testa ai governatori di Kabul. Nel secolo successivo la tribù afghana degli abdali s'impadroniva della provincia di Herat, conservandone il dominio fino ai tempi di Nadir Shah, nuovo sovrano della Persia che nei primi decenni del Settecento riconquistò Kandahar e tolse Kabul ai Moghul. Alla morte di Nadir Shah (1747), il capo degli abdali, Ahmed Khan, si proclamò re a Kandahar e s'impadronì di tutta la parte orientale della regione fino all'Indo, cui aggiunse poi Herat e parte del Khorasan. Ahmed Shah assunse l'epiteto di Durr-i Durran ("perla delle perle"), e la tribù degli abdali cambiò il suo nome in quello di durrani.
Ahmed Shah fu il fondatore dello Stato nazionale afghano. Il regime era feudale: le grandi tribù rimasero indipendenti sotto i loro capi, che ricevevano dal sovrano appannaggi corrispondenti alle milizie fornite. Le cariche erano riservate ai durrani, ed erano generalmente ereditarie; un consiglio di nove capi tribù assisteva il sovrano nel governo. Ahmed Shah conquistò il Kashmir e la gran parte del Panjab e invase più volte l'India. Alla sua morte nel 1773 gli succedette il figlio Timur Shah, che portò la capitale da Kandahar a Kabul e amministrò saggiamente lo Stato, senza però consolidare o estendere le conquiste paterne.
La difficile modernizzazione
Per la sua posizione strategica, come porta d'ingresso dell'India, il nuovo Stato afghano interessò grandemente la Gran Bretagna, cui importava impedire che vi si installasse una potenza rivale. Nel 1809 fu stipulato il primo trattato anglo-afghano, mirante a impedire un'eventuale invasione francese o persiana dell'India. Il successivo estendersi dell'influenza della Russia, cui i governanti afghani si appoggiavano per controbilanciare l'influenza britannica, provocò oscillazioni dell'atteggiamento della Gran Bretagna, che si trovò costretta due volte (1839-42 e 1878-79) a interventi diretti; si ebbero così la Prima e la Seconda guerra afghana, che si conclusero entrambe non con un'occupazione militare, ma con una conferma dell'influenza inglese.
Il più notevole sovrano afghano del 19° secolo fu Abd ar-Rahman Khan (1844-1901). Fu lui a spezzare la potenza feudale dei capi tribù e ad avviare il paese sulla via della modernizzazione. Abd ar-Rahman e il suo successore, l'emiro Habib Ullah, si mantennero fedeli al trattato con il quale nel 1880 si era conclusa la Seconda guerra afghana, in base al quale l'Afghanistan godeva piena indipendenza interna e riceveva sussidi dal governo dell'India ma era vincolato alla Gran Bretagna nella politica estera.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale, il governo britannico invitò Habib Ullah, di tendenze europeizzanti ma scarsamente attratto dalle cure dello Stato, a mantenersi neutrale; egli assunse tale impegno a condizione che la sicurezza e l'indipendenza dell'Afghanistan fossero rispettate. Tale politica era però destinata a destare scontento presso la popolazione afghana, specie fra i gruppi giovanili penetrati dal fanatismo musulmano e dall'influenza turca. La sconfitta della Turchia, che a giudizio di molti si sarebbe potuta evitare se Habib Ullah avesse attaccato l'India, volse contro di lui gran parte dell'opinione pubblica. Scampato a un attentato nel 1918, l'anno successivo fu assassinato durante una partita di caccia.
Ne prese il posto, dopo una contrastata successione, Aman Ullah, che proclamò la guerra santa contro la Gran Bretagna nel maggio 1919. La Terza guerra afghana si concluse nell'agosto successivo con il trattato di Rawalpindi con il quale la Gran Bretagna, per quanto vittoriosa, riconosceva ancora una volta l'indipendenza dell'Afghanistan. In politica interna Aman Ullah iniziò un'affrettata opera di occidentalizzazione. Le sue riforme, specie nel campo dell'istruzione, urtarono gli ambienti conservatori, i quali incoraggiarono una rivolta di tribù che a partire dal 1928 causò un lungo periodo di terrore e continui rivolgimenti politici. La situazione si ristabilì solo nel 1933 con la salita al trono di Muhammad Zahir. Sotto di lui l'Afghanistan conobbe un ulteriore, cauto tentativo di modernizzazione e poté tutelare la propria indipendenza durante la Seconda guerra mondiale, entrando poi a far parte delle Nazioni Unite.
Dopo la Seconda guerra mondiale, l'Afghanistan si trovò a dover fronteggiare due problemi principali: quello economico, legato all'estrema povertà del paese, e quello della determinazione delle frontiere. Per quanto riguarda il primo punto, ottenne prestiti e aiuti economici dall'URSS, dagli Stati Uniti, dalle Nazioni Unite, mentre un accordo di cooperazione tecnica ed economica con Pechino segnava l'inizio, nel 1965, di un programma di assistenza tecnica e finanziaria da parte dei cinesi. Più complesso il problema della determinazione delle frontiere, specie quella meridionale con il Pakistan, faticosamente risolto con una serie di accordi successivi, inseriti in una visione generale di politica estera ispirata a una prudente equidistanza fra i due blocchi.
Sul piano della politica interna, la Costituzione del 1° ottobre 1964 avrebbe dovuto istituire la democrazia parlamentare, ma i contrasti tra le forze tradizionali ne impedirono l'applicazione. Il cambio di regime che si ebbe a partire dal colpo di Stato del generale Muhammad Daud (17 luglio 1973), ispirato a esigenze di riforma delle strutture del paese, non portò risultati apprezzabili, nonostante gli aiuti economici sovietici, cinesi e degli Stati islamici. Neanche la Costituzione istitutiva della Repubblica (febbraio 1977), che conferiva ampi poteri al presidente, riuscì ad arginare i contrasti di carattere interno, tanto più gravi a motivo dei delicati equilibri internazionali.
Un nuovo colpo di Stato (27 aprile 1978) portò al potere il segretario del Partito democratico popolare, Nur Muhammad Taraki, di ispirazione comunista, che proclamò la Repubblica democratica, mentre un consiglio rivoluzionario assumeva il potere legislativo. L'introduzione di una riforma agraria incontrò l'ostilità dei ceti islamici tradizionalisti, peraltro contrari alla penetrazione culturale del marxismo, al punto di alimentare una diffusa guerriglia di massa e costringere il governo ad appoggiarsi maggiormente all'URSS.
Le tensioni interne al regime portarono nel 1979 a due ulteriori colpi di Stato, con il secondo dei quali assumeva il potere Babrak Karmal, leader filosovietico del Partito democratico popolare. L'estendersi della guerriglia, ormai sfociata in una vera e propria guerra civile, determinò la decisione sovietica di entrare direttamente nel conflitto in appoggio al governo di Kabul mediante l'invio (dicembre 1979) di circa 100.000 uomini dell'Armata Rossa.
L'intervento esterno dell'Unione Sovietica rinsaldò l'unità delle opposizioni. La lunga fase di combattimenti vide le molte organizzazioni della guerriglia (i mujahidin, inquadrati su base etnica e territoriale e sostenuti dal Pakistan) impegnare i soldati sovietici e i regolari in un conflitto che andò progressivamente radicalizzandosi sia sul piano militare sia su quello ideologico, finché l'ascesa di Michail Gorbaciov al vertice politico di Mosca (1985), il crescente isolamento internazionale dell'URSS, nonché gli alti costi in termini di spesa e di vite umane favorirono un mutamento di indirizzo e la decisione di abbandonare il territorio afghano. Al disimpegno sovietico si giunse gradualmente: il rimpatrio delle truppe si concluse solo nel febbraio 1989, a circa dieci anni di distanza dall'intervento armato. Tra le conseguenze della lunga guerra vanno considerati, oltre alle distruzioni, un bilancio di centinaia di migliaia di morti, tra cui 14.000 uomini dell'Armata Rossa (fonti sovietiche), e un esodo in direzione del Pakistan e dell'Iran calcolabile intorno ai quattro milioni di profughi, con conseguenze notevoli sul complesso equilibrio etnico dell'Afghanistan.
Dalla fondazione dello Stato islamico alla vittoria dei talebani
Uno dei primi effetti del mutato atteggiamento da parte dell'Unione Sovietica era stata la sostituzione al vertice del governo afghano di Karmal con Mohammed Najibullah (maggio 1986), il quale tentò di avviare una politica di riconciliazione nazionale e di allargare il sostegno popolare al governo. Una nuova Costituzione, promulgata alla fine del 1987, conteneva diverse novità: riconosceva l'Islam come religione ufficiale, garantiva la formazione di un sistema politico multipartitico, mutava il nome del paese in Repubblica dell'Afghanistan. Molti gruppi di opposizione rifiutarono però ogni accordo, anche sul cessate il fuoco, e boicottarono le elezioni per la nuova Assemblea nazionale, tenutesi nell'aprile 1988. Ulteriori aperture, tra cui una maggiore libertà di stampa e lo sviluppo del settore privato nell'economia, non scalfirono la fermezza delle opposizioni, e neanche la trasformazione del Partito democratico popolare in Partito della patria, o l'eliminazione dalla Costituzione del riferimento al suo ruolo dirigente, riuscirono ad assicurare al governo maggiori consensi.
Mentre l'Armata Rossa completava il ritiro dal paese, e gli Stati Uniti, che avevano fino allora sostenuto attivamente i gruppi di opposizione in funzione antisovietica, assumevano un atteggiamento più pragmatico, senza cessare comunque di assicurare le forniture militari, la guerriglia, pur divisa al suo interno in diverse formazioni tra loro ostili (le più importanti legate all'etnia tagika, a quella uzbeka e a quella pashtun), guadagnò progressivamente posizioni fino a conquistare Kabul nell'aprile 1992. In una situazione di estrema incertezza e di aperto scontro tra le diverse fazioni venne proclamato il 28 aprile 1992 lo Stato islamico dell'Afghanistan, di cui fu nominato presidente Burhanuddin Rabbani.
In un contesto politico caratterizzato dall'assenza di un potere centrale e dal frazionamento del territorio afghano in potentati solo nominalmente dipendenti dal governo, emerse verso la fine del 1994 un nuovo gruppo armato, che aveva la sua base nella parte meridionale del paese. Presto conosciuto con il nome di talebani, era formato in maggioranza da giovani afghani di etnia pashtun, provenienti dalle scuole islamiche del Pakistan e da mujahidin delusi dalle lotte intestine dei loro comandanti. Inizialmente considerati alla stregua degli altri gruppi combattenti, e quindi sostanzialmente non in grado di alterare i pur instabili equilibri politico-militari, i talebani dimostrarono viceversa una forza espansiva considerevole. Grazie anche alla disponibilità di vaste risorse economiche, che consentirono loro di dotarsi di armamenti sofisticati e di arruolare militari provenienti dal dissolto esercito afghano, essi guadagnarono il controllo di vaste zone del paese. L'avanzata fu agevolata dall'atteggiamento non ostile delle popolazioni locali (e dei pashtun in particolare), che consentì loro di procedere senza eccessivi spargimenti di sangue fino ai primi mesi del 1995, quando si scontrarono con le truppe del presidente Rabbani.
Dopo iniziali rovesci, i talebani riuscirono a espugnare la città di Herat e quindi, nell'ottobre 1995, lanciarono un massiccio attacco contro Kabul. La capitale venne difesa dalle forze governative, ma cadde il 25 settembre, dopo mesi di bombardamenti che ne avevano decimato la popolazione civile. Fra i primi provvedimenti, il nuovo governo deliberò l'esecuzione sommaria dell'ex presidente filosovietico Najibullah. Tentativi di riprendere Kabul furono compiuti dalle forze congiunte delle altre fazioni afghane, ma i talebani respinsero con successo gli attacchi e, nel maggio 1997, sferrarono una vittoriosa offensiva nel Nord del paese, estendendo il loro controllo su quasi il 90% del territorio nazionale. Dopo pochi giorni, la coalizione che riuniva le opposizioni riusciva a respingere i talebani 200 km a sud di Mazar-i-Sherif, importante nodo stradale nella parte settentrionale del paese, lasciandoli comunque padroni di buona parte dell'Afghanistan.
repertorio
La violazione dei diritti umani
Nonostante la limitazione degli ingressi abbia spesso reso difficile la raccolta di informazioni soprattutto per quanto riguarda alcune parti del paese, le notizie sulle violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime talebano per rafforzare la sua particolare visione della sharia, la legge islamica, sono fonte di continuo allarme e di reiterate denunce in tutta la comunità internazionale. In particolare, i rapporti annuali di Amnesty International segnalano dal 1997 i crimini disumani commessi a carico delle donne, delle minoranze etniche, degli oppositori politici, rispetto ai quali non sembra aver avuto alcuna efficacia l'operato di un'apposita unità istituita nel novembre 1998 dal Consiglio di sicurezza dell'ONU, all'interno della Missione speciale delle Nazioni Unite in Afghanistan.
Gli editti dei talebani, e in particolare quelli emanati dal Ministero per la Promozione della virtù e la prevenzione del vizio, vietano alle donne la ricerca di un impiego, l'accesso all'istruzione, di lasciare le proprie case se non accompagnate da un uomo della loro stessa famiglia, e impongono l'obbligo di indossare il burqa, un indumento che copre il corpo dalla testa ai piedi con una piccola apertura per gli occhi coperta di pizzo. Le donne inoltre non possono uscire in strada in determinati periodi durante il mese del Ramadan. Altre misure restrittive comprendono la chiusura degli hammam, i bagni pubblici femminili. I rapporti di Amnesty International denunciano decine e decine di casi di arresti, di percosse e di violenze in genere, con cui sono state punite quelle donne che hanno trasgredito, anche in maniera minima, a questi divieti. Viene anche segnalato che, soprattutto nelle zone interessate dai combattimenti, moltissime giovani donne sono oggetto di violenza sessuale da parte dei soldati, che rimangono regolarmente impuniti. In altri casi le giovani sono sequestrate e costrette contro la loro volontà a diventare 'mogli' dei comandanti talebani.
Migliaia di membri di minoranze etniche sono trattenuti in carcere per periodi prolungati senza accuse e senza alcuna documentazione legale della loro detenzione, solo perché sospettati dalla Istakhbarat, i servizi segreti talebani, di attività contro il regime. Nelle prigioni e nei centri di detenzione è diffuso l'utilizzo di torture e di maltrattamenti. I reclusi, compresi anziani e minori, vengono percossi, a volte fino alla morte, con fili d'acciaio, bastoni e calci dei fucili, in altri casi vengono cosparsi di benzina e arsi vivi. Le persone sopravvissute alle torture vengono spesso lasciate con arti fratturati, ustioni o lesioni del cranio.
Le pene inflitte dai tribunali talebani, che dichiarano di seguire la sharia, prevedono esecuzioni pubbliche, lapidazioni, amputazioni, flagellazioni. Oggetto di condanne sono tutti i cittadini giudicati colpevoli di comportamento anti-islamico o di aver contravvenuto alle regole relative alla discriminazione femminile. Così, per es., sono stati segnalati casi di condanne e percosse in pubblico inferte a commercianti che avevano venduto merce alle donne o a tassisti che avevano accettato di trasportarle, a insegnanti che avevano impartito lezioni di inglese, a uomini rei di essersi tagliati o lavati la barba oppure di non aver presenziato alla preghiera del venerdì in moschea, addirittura a bambini che avevano fatto volare aquiloni o giocato in strada.
La discriminazione nei confronti delle minoranze etniche e religiose si è progressivamente accentuata. Nel maggio 2001 una fatwa del capo della polizia religiosa del regime talebano ha stabilito che tutti i non islamici che risiedono in Afghanistan dovranno indicare con segni distintivi la loro religione ed etnia. In particolare gli indù dovranno indossare indumenti gialli e contrassegnare le loro abitazioni con un drappo giallo, il colore tradizionalmente usato per segnalare un'area appestata.
Un altro motivo di allarme per la comunità internazionale è rappresentato dalla situazione dei profughi. Nel 2000 la pressione delle guardie talebane, i combattimenti nelle regioni settentrionali del paese e le condizioni di sicurezza sempre più precarie anche in quelle centrali, unite alla grave siccità che ha colpito le zone rurali, hanno costretto decine di migliaia di persone ad abbandonare le loro case. Questa enorme popolazione di sfollati è esposta ad alti rischi sanitari e a un livello preoccupante di malnutrizione. La situazione è tanto più critica in quanto l'Iran, il Pakistan e il Tagikistan hanno chiuso le frontiere ai rifugiati afghani e in alcuni casi hanno proceduto al rimpatrio forzato di quelli presenti all'interno dei loro territori.