Africa - L'Egitto dalle origini all'età romana
Il termine ΑἴγυπτοϚ è la traslitterazione greca dell'egiziano Hut-ka-Ptah, il toponimo antico Menfi: con il nome di questa città i Greci indicavano l'intero Paese. Per i suoi abitanti invece l'Egitto era Tauy, le "Due Terre": una definizione che ben significava l'unione di due regioni tra loro distinte ‒ la valle e il Delta del Nilo ‒ e tuttavia costituite dalla stessa "terra nera" di origine alluvionale, fertile e contrapposta alla "terra rossa" dei deserti circostanti. Così, in termini sommari, si può descrivere l'Egitto come una valle stretta tra due aridi altipiani che si apre nel Delta; a nord come a est il confine era naturalmente segnato dal mare, mentre a sud e a ovest era più incerto: in linea di massima, comunque, la frontiera meridionale era fissata alla I Cateratta, mentre quella occidentale includeva le oasi del Deserto Libico.
La distinzione di carattere geografico tra valle e Delta si tradusse sin dalla fine della preistoria nella suddivisione, di rilevanza anche politica, in Alto e Basso Egitto; dove il corso del Bahr Yusuf si distacca dal Nilo, la valle si allarga e dà luogo a una regione, il Medio Egitto, che acquistò autonomia soprattutto durante i periodi intermedi. Sotto l'aspetto amministrativo il Paese era diviso in province, che gli Egiziani chiamavano sepat o qâh e che gli studiosi, ricalcando il termine greco nomoi, definiscono "nòmi"; questi, noti già per l'epoca di Djoser ma attestati in liste geografiche solo a partire dal regno di Niuserre, erano 22 per l'Alto Egitto e 20 per il Basso Egitto.
La geologia della regione ha una storia abbastanza semplice, che risale all'Eocene; la maggior parte del territorio è costituita da un deserto tabulare con scarsi rilievi e alcune profonde depressioni, occupate da oasi e da laghi salati. Il Nilo ha dato origine alla valle, scavando il suo alveo nei depositi sedimentari, e al Delta, colmando quello che un tempo era un golfo; le variazioni di portata del fiume, determinate dai cambiamenti climatici, hanno formato un sistema di terrazze digradanti. Alla formazione geologica si deve la presenza di numerose materie prime, in Egitto e in una periferia che gli Egiziani cominciarono a sfruttare sin dal periodo predinastico e che nei momenti di potere forte fece parte del Paese a tutti gli effetti: i deserti Occidentale e Orientale, il Sinai, la Nubia. Le pietre da costruzione si trovano sotto forma di arenarie nella parte meridionale del Paese fino al Gebel es-Silsila e sotto forma di calcari sull'Altopiano Libico e lungo la valle. La quarzite gialla o violetta, di buona qualità, proviene dalla Montagna Rossa nei pressi del Cairo, mentre sulle montagne del Deserto Orientale ci sono diorite, serpentino, basalto e porfido; ma quarzite, diorite e steatite si trovano anche nella zona della I Cateratta. Gli obelischi e i colossi erano scolpiti nel granito rosa e nero di Assuan; l'alabastro di Hatnub, invece, si prestava alla manifattura di vasi e statue. Le pietre preziose e semipreziose erano ricercate invece come beni di lusso; gli Egiziani conoscevano e sfruttavano le miniere di turchese e malachite nel Sinai, di diaspro nella catena arabica, di smeraldo sulle coste meridionali del Mar Rosso e di ametista nei pressi di Assuan. L'oro era estratto soprattutto dalle montagne desertiche della Nubia e in quantità minori dal Wadi Hammamat; presso il Mar Rosso si trovavano anche piombo, stagno e galena.
L'economia egiziana si basava in modo determinante sull'agricoltura, fortemente condizionata dall'ambiente e dal clima. Il Nilo è formato, all'altezza di Khartum, dalla confluenza di due maggiori tributari: il Nilo Bianco, alimentato dalle acque dei grandi laghi equatoriali, e il Nilo Azzurro, che nasce sugli altipiani etiopici. Mentre la portata del primo è resa regolare dalle piogge della fascia tropicale, era il secondo, ricco di acque dopo il disgelo delle nevi etiopiche, il principale responsabile dell'inondazione che si verificava annualmente, fino alla costruzione delle prime dighe a partire dalla metà dell'Ottocento. Il ciclo del fiume determinava l'andamento dei lavori agricoli e la successione delle stagioni, che erano tre: quella della piena (akhet) in agosto e settembre; quella delle messi (peret) quando il livello dell'acqua scendeva; quella del raccolto (shemu) tra gennaio e aprile. L'inondazione non solo depositava sul terreno il limo, raccolto nelle terre di origine vulcanica dell'Etiopia, ma contribuiva anche a limitare la salinizzazione dovuta alla forte evaporazione e allo sfruttamento intensivo del suolo. Il Nilo evidentemente provvedeva anche alle necessità dell'irrigazione, che faceva scarso affidamento sulle precipitazioni atmosferiche (minime anche nel Nord) e che invece era regolata da opere di terrazzamento e canalizzazione. La porzione più estesa di terra coltivabile era, nell'antichità e ancora oggi, il Delta; la valle solo in alcuni punti ha un'ampiezza massima di 30 km, ma mediamente non supera la decina. L'alimentazione si basava sul pane di farro e sulla birra d'orzo, mentre la coltura del grano fece la sua comparsa solo dopo l'Epoca Tarda; frutta, verdura, legumi e foraggi erano ugualmente coltivati. Tra le fibre erano utilizzati il lino, la palma e il papiro, che forniva il supporto per i documenti scritti dell'amministrazione e che pertanto era una specie di monopolio regale. Gli alberi di alto fusto erano assenti e il legname tradizionalmente proveniva dal Levante; localmente si potevano trovare tamerici, acacie e sicomori, oltre alle canne e alle palme da dattero (di cui oltre ai frutti e alle foglie si usava anche il tronco).
La storia dell'Egitto faraonico convenzionalmente si divide in 31 dinastie, che coprono il periodo dal 3000 a.C. circa alla conquista di Alessandro Magno nel 332 a.C.; durante questi tre millenni la continuità dinastica ‒ rappresentata da Antico, Medio e Nuovo Regno ‒ fu interrotta da momenti di incertezza politica e rivolgimenti sociali, che gli studiosi definiscono "periodi intermedi". Questa formulazione, solo apparentemente lineare, risale al sacerdote egiziano di età ellenistica Manetone e rispecchia il tentativo compiuto dagli antichi Egizi di razionalizzare la loro storia e la loro cultura, di cui la regalità era uno degli aspetti fondanti. Mentre l'opera di Manetone si è conservata solo in una più tarda epitome, altre liste regali, la cui compilazione va dalla V Dinastia al regno di Ramesse II, ci sono pervenute in originale; questi documenti riportano non solo le imprese di ciascun faraone, ma anche gli avvenimenti astronomici che si verificarono durante ogni regno, consentendo così di fissare ad alcune date note le sequenze dinastiche altrimenti prive di riferimenti assoluti.
L'unificazione dell'Egitto, che Manetone attribuisce a Menes (fondatore della I Din.), avvenne in realtà in maniera graduale, con un processo durato circa tre secoli durante i quali diversi fattori ‒ di carattere tecnologico, sociale e politico ‒ portarono alla nascita di uno Stato assai precoce, già nella seconda metà del IV millennio a.C. Protagonisti di questo processo furono alcuni sovrani che si collocano tra la fine della preistoria e l'inizio della I Dinastia e che conosciamo non da liste dinastiche ma da attestazioni archeologiche ed epigrafiche: i re della cosiddetta Dinastia 0. Gli aspetti distintivi della civiltà faraonica cominciarono a formarsi allora e rimasero vitali fino all'avvento dei Tolemei, quando vennero ridotti alle sole pratiche formali. Il vero declino della cultura egiziana fu decretato però dal diffondersi del cristianesimo, e in particolar modo dalla sua consacrazione a religione di Stato; è vero che alcuni tratti si conservarono attraverso la mediazione dell'arte copta, ma la conversione del Paese all'Islam e l'abbandono del copto in favore dell'arabo rappresentarono il taglio definitivo con un passato già quasi del tutto dimenticato. *
Non è possibile dare qui una bibliografia generale sull'Egitto. Per la bibliografia specifica si rimanda a quella dei singoli contributi.
di Rodolfo Fattovich
La nascita dello Stato faraonico, e della civiltà da questo espressa, tra la fine del IV e gli inizi del III millennio a.C. è stata preceduta da un lungo processo di formazione, i cui inizi si possono far risalire almeno al Pleistocene finale. Questo processo si è accelerato con il diffondersi lungo la bassa valle del Nilo di comunità dedite alla produzione del cibo nel V millennio a.C. e con l'emergere di società gerarchiche e di protostati nel IV millennio a.C.
La fase iniziale del processo è documentata da industrie tardopaleolitiche o epipaleolitiche, che attestano l'insediamento di popolazioni semisedentarie con industrie litiche differenziate e dedite a uno sfruttamento intensivo delle risorse acquatiche e delle piante selvatiche lungo il Nilo nel Pleistocene finale e nell'Olocene inziale (ca. 20.000-5000 a.C.). Le fasi più recenti sono documentate da resti di villaggi e necropoli e da testimonianze di arte rupestre, che attestano la presenza nella valle del Nilo di popolazioni sedentarie nel V millennio a.C. (periodo neolitico) e successivamente, nel IV millennio a.C., di società protostatali. Questa ultima fase della tarda preistoria egiziana viene convenzionalmente definita "periodo predinastico".
L'identificazione e lo studio sistematico della preistoria e protostoria egiziane risalgono alla fine del XIX secolo e si devono soprattutto a due studiosi: l'inglese W.F.M. Petrie e il francese J. de Morgan. A Petrie si devono la scoperta della prima e, finora, più vasta necropoli predinastica a Naqada e la prima definizione della sequenza culturale predinastica nell'Alto Egitto, basata sull'analisi dei corredi funerari qui rinvenuti. La sintesi delle sue ricerche venne pubblicata da Petrie negli anni Venti del Novecento in due opere tuttora fondamentali: Prehistoric Egypt (London 1920) e Prehistoric Egypt Corpus (London 1921). In particolare, Petrie distinse tre successive culture predinastiche (Amraziano, Gerzeano, Semaineano), da lui attribuite a popolazioni diverse che occuparono l'Alto Egitto prima dell'avvento dei faraoni di età storica. J. de Morgan elaborò invece la prima sistemazione della documentazione preistorica egiziana nelle Recherches sur les origines de l'Égypte (Paris 1896-97), suggerendo una datazione delle necropoli di Naqada a epoca predinastica e non storica, come era stato proposto inizialmente da Petrie. J. de Morgan condusse anche la prima ricognizione dei siti predinastici dell'Alto Egitto, elaborando una carta archeologica ancora oggi utile. Le ricerche si intensificarono tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo soprattutto a opera di archeologi inglesi (W.F.M. Petrie, J.E. Quibell, D. Randall-MacIver, A.C. Mace, T.E. Peet, J. Garstang, E. Ayrton, W. Loat, R. Engelbach e B. Gunn) e americani (H. de Morgan, A.M. Lythgoe), che misero in luce numerose necropoli e resti di villaggi nell'Alto e Medio Egitto, tra cui Hierakonpolis, Hu, Abido, el-Amra, el-Mahasna, Naga ed-Der, Gerza.
Nel periodo tra le due guerre mondiali ulteriori contributi alla conoscenza della preistoria egiziana furono dati da archeologi inglesi, tedeschi, americani, francesi, italiani ed egiziani, che estesero le indagini sia ai periodi più antichi (paleolitici ed epipaleolitici) sia alle culture neolitiche e predinastiche del Medio e Basso Egitto. Gli americani K.S. Sandford e W.J. Arkell fornirono la prima sintesi delle industrie paleolitiche egiziane nel loro contesto geologico nei quattro volumi della Prehistoric Survey of Egypt and Western Asia (Chicago 1929-39) e il francese E. Vignard segnalò l'esistenza di un'industria epipaleolitica a Kom Ombo (Alto Egitto), da lui denominata Sebiliano. Negli anni Venti gli inglesi G. Caton-Thompson e G. Brunton identificarono a Badari e in altri siti della regione di Assiut la prima cultura predinastica (Badariano) e agli inizi degli anni Trenta la stessa Caton-Thompson con E. Gardner scoprì le più antiche evidenze neolitiche ai margini della depressione del Fayyum. Negli stessi anni, l'italiano E. Schiaparelli individuò un'importante necropoli predinastica a Gebelein nell'Alto Egitto, gli inglesi R. Mond e O.H. Myers quella di Armant nella stessa area e il tedesco A. Scharff quella di Abusir el-Meleq nel Medio Egitto. Sempre negli anni Venti e Trenta vennero avviate le prime indagini preistoriche nel Basso Egitto, che portarono alla scoperta di un sito neolitico a Merimde Beni Salama, nel Delta sud-occidentale del Nilo, da parte dell'archeologo austriaco H. Junker e di un vasto insediamento predinastico a Maadi, presso Il Cairo, da parte del tedesco O. Menghin e dell'egiziano M. Amer. Negli anni Trenta il tedesco H. Winkler effettuò il primo rilevamento sistematico dei documenti di arte rupestre nel Deserto Orientale egiziano. Alla fine degli anni Quaranta altre indagini vennero condotte dal francese F. Debono che mise in luce un nuovo sito predinastico a el-Omari, presso Il Cairo. Queste ricerche arricchirono in modo notevole la conoscenza della tarda preistoria egiziana e permisero la compilazione delle prime opere di sintesi, quali The Place of Egypt in Prehistory di S.A. Huzzayyin (Cairo 1941), Préhistoire et protohistoire de l'Égypte di E. Massoulard (Paris 1949), New Light on the Most Ancient East di V.G. Childe (London 1953), Manuel d'archéologie égyptienne di J. Vandier (Paris 1952) e The Prehistoric Cultures of Egypt di E.J. Baumgartel (Londra 1955, 1960). Un contributo molto importante allo studio del periodo predinastico venne dato alla fine degli anni Cinquanta dal tedesco W. Kaiser e dall'americano K. Butzer. Kaiser propose una revisione della sequenza culturale proposta da Petrie, identificando le culture amraziana, gerzeana e semaineana con tre fasi successive di sviluppo di un'unica "cultura naqadiana". A sua volta Butzer fu il primo studioso a esaminare lo sviluppo delle culture predinastiche nel loro contesto paleoambientale.
Un nuovo impulso allo studio della preistoria della bassa valle del Nilo si è avuto a partire dagli anni Settanta da parte di archeologi americani, inglesi, tedeschi, belgi, polacchi, olandesi, francesi e italiani. Le ricerche degli ultimi trent'anni si sono concentrate soprattutto sullo studio del processo di formazione dello Stato egiziano e sul popolamento tardopreistorico del Delta del Nilo, precedentemente in gran parte inesplorato. Contributi rilevanti allo studio delle origini e dei primi sviluppi dello Stato egiziano nell'Alto Egitto sono stati dati negli anni Settanta e Ottanta dalla missione archeologica anglo-americana a Hierakonpolis, sotto la direzione di M. Hoffmann e successivamente di B. Adams, da quella italiana a Naqada diretta da C. Barocas, R. Fattovich e M. Tosi, dalla missione americana a Naqada, diretta da F. Hassan, e più recentemente dalla missione tedesca ad Abido, diretta da G. Dreyer. Importanti sono stati anche i contributi delle analisi funerarie condotte su alcune necropoli predinastiche dell'Alto Egitto da J.J. Castillos, K.A. Bard, Fattovich, T. Wilkinson e B. Midant-Reynes. Questi studi hanno permesso di evidenziare l'emergere e il consolidarsi di società gerarchiche sempre più accentuate fino alla formazione di protostati nell'Alto Egitto nel corso del IV millennio. Contributi di rilievo alla ricostruzione del popolamento del Delta del Nilo in epoca tardopreistorica sono stati dati invece dalle ricerche delle missioni tedesche a Minshat Abu Omar, diretta da D. Wildung e L. Krzyżaniak, e a Tell el-Farain/Buto, diretta da Th. von der Way, da quella italiana e polacca a Tell el-Farkha, diretta da Fattovich e S. Salvatori e successivamente da M. Chlodnicky, e da quella olandese a Tell Ibrahim Awad e Tell el-Iswid, diretta da E.C.M. van den Brink.
Nel loro insieme, i risultati di tutte queste ricerche permettono oggi di affermare che la civiltà egiziana si differenziò dal sostrato culturale paleoafricano grazie ad apporti culturali e forse a migrazioni dal Vicino Oriente, a partire già dall'Olocene iniziale. Tale sostrato era costituito da cacciatori della regione sahariana, dalla Mauritania al Deserto Orientale, compresa la valle del Nilo. Fin da epoca preistorica la bassa valle del Nilo fu sempre esposta, attraverso il Delta, a contatti con il Vicino Oriente che hanno profondamente influenzato il suo sviluppo culturale. In particolare, le culture neolitiche e predinastiche del Basso Egitto e del Delta presentano, accanto a tratti culturali di origine africana, chiari elementi di tradizione orientale. Contatti con il Vicino e Medio Oriente sono anche attestati nelle culture predinastiche dell'Alto Egitto. Lo Stato faraonico emerse dalla progressiva incorporazione in un territorio soggetto a un unico potere centrale di tre aree culturali distinte: Alto Egitto, Basso Egitto (attuale regione del Cairo e Delta settentrionale) e Delta orientale. Tale processo iniziò nell'Alto Egitto, dove è possibile riconoscere una continuità culturale dal predinastico iniziale a epoca storica, e si attuò mediante una progressiva "colonizzazione" del Medio Egitto settentrionale nella fase di Naqada II e del Delta orientale nella fase di Naqada III, concludendosi con la definitiva conquista di tutta la regione agli inizi della I Dinastia (ca. 3007 a.C.).
Le testimonianze più antiche di popolazioni dedite alla produzione del cibo in Alto Egitto sono rappresentate dalla cultura badariana (datata tra il 4400 e il 4000 a.C.), le cui origini molto probabilmente vanno cercate nel Sahara orientale. L'industria litica infatti presenta numerose affinità con quella delle popolazioni neolitiche stanziate fin dal VII-VI millennio a.C. nelle oasi libiche del Deserto Occidentale egiziano. Siti badariani sono stati identificati soprattutto sulla riva orientale del Nilo nella regione di Assiut, a Badari, Mostagedda e Matmar. Tracce di questa cultura tuttavia sono state segnalate anche nel Deserto Orientale e presso Naqada e Kom el-Ahmar (Hierakonpolis), sulla riva occidentale del Nilo, e sulla costa del Mar Rosso. Gli abitati erano piccoli campi stagionali localizzati nel basso deserto, spesso delimitati da fosse usate presumibilmente come granai. Tratti distintivi di questa cultura sono le punte di freccia bifacciali a base concava di tipo sahariano; vasellame con ingubbiatura rosso-bruna e talvolta con una banda superiore nera, decorato con striature parallele fini e molto nette; vasi di pietra dura e utensili di rame; figurine antropomorfe di avorio. I corpi venivano normalmente deposti sul fianco sinistro, in posizione contratta con la testa a sud e il volto a ovest, in fosse ovali, talvolta con una nicchia, e assai raramente rettangolari con angoli tondeggianti, con le pareti spesso rivestite di stuoie ma senza traccia sicura di copertura. L'economia di sussistenza si basava sulla coltivazione di cereali e sull'allevamento di caprovini e forse di bovini, integrati dalla caccia e dalla pesca. Le produzioni di vasi di pietra e utensili di rame rappresentavano probabilmente attività artigianali specializzate. Venivano sfruttate per lo più materie prime locali, ma conchiglie marine provenivano dalla costa del Mar Rosso, numerose pietre dure dalle montagne del Deserto Orientale, turchese dal Sinai, rame dal Sinai o forse dalle montagne del Deserto Orientale. Le sepolture, in genere prive di corredo o con pochi oggetti, suggeriscono l'assenza di una netta gerarchia sociale.
Nel IV millennio a.C. apparve nell'Alto Egitto la cultura naqadiana, che si diffuse progressivamente anche nel Medio Egitto e successivamente nel Delta orientale del Nilo; i siti principali sono Abido, Naqada e Hierakonpolis. Dal Badariano al Naqadiano si riscontra in Alto Egitto una continuità di sviluppo sociale, economico e culturale che prosegue fino in epoca dinastica. La cultura materiale è caratterizzata da strumenti litici bifacciali, strumenti ottenuti da noduli di selce e strumenti su lama o scheggia; da teste di mazza e vasi di pietre dure e tavolette per cosmetici di ardesia. Il vasellame è rosso lucido, talvolta decorato con pitture bianche, o "a bocca nera" (rosso esternamente e nero internamente e lungo l'orlo esterno), nero lucido con incisioni riempite con pasta bianca, beige a pitture rosse, grossolano a impasto vegetale, grigio ad anse ondulate e rosa a impasto fine. La cultura naqadiana è stata suddivisa da Petrie e successivamente da Kaiser e Hendrickx in tre fasi: Naqada I o Amraziano (ca. 3850-3650 a.C.); Naqada II o Gerzeano (ca. 3650-3300 a.C.); Naqada III o Semaineano (ca. 3300-3100 a.C.), ciascuna a sua volta suddivisa in quattro sottofasi (Naqada Ia-d; Naqada IIa-d; Naqada IIIa-d). Queste fasi furono caratterizzate dal consolidarsi di una gerarchia sociale sempre più accentuata e dall'emergere di entità politiche centralizzate fino all'apparizione di un protostato nella fase di Naqada III.
Nella fase di Naqada I l'economia si basava sulla coltivazione di cereali, allevamento di bovini, caccia e raccolta e sullo sfruttamento delle risorse minerali del Deserto Orientale, con centri specializzati nella produzione di vasellame rosso a pitture bianche. Non vi sono evidenze sicure di commercio a lunga distanza. La presenza di tombe più ricche sembra indicare l'emergere di una gerarchia sociale. In particolare, una tomba nel cimitero U di Abido conteneva un vaso rosso con figure dipinte in bianco, rappresentanti un personaggio ornato con un'acconciatura di piume e una coda posticcia nell'atto di uccidere con una mazza alcuni prigionieri. Questo motivo iconografico, tipico in epoca storica del sovrano, potrebbe suggerire l'esistenza di capi, le cui prerogative confluiranno nella figura del faraone. Allevatori transumanti si muovevano molto probabilmente tra la pianura alluvionale del Nilo e il Deserto Orientale. Infatti le figure rupestri segnalate lungo il Wadi Hammamat, il Wadi Mineh, il Wadi Abu Wasil, il Wadi Shallul, il Wadi Umm Salam e il Wadi Barramiya presentano motivi iconografici simili a quelli dei vasi rossi a pitture bianche di Naqada I.
Nella fase di Naqada II apparvero almeno tre "principati" ad Abido, Naqada e Hierakonpolis. L'economia si basava su agricoltura, allevamento del bestiame e caccia, attività manifatturiere specializzate e commercio a lunga distanza verso il Basso Egitto, il Levante, il Medio Oriente e la Nubia. La presenza di raffigurazioni di imbarcazioni di tipo Naqada II lungo il Wadi Hammamat potrebbe attestare tentativi di spedizioni marittime lungo il Mar Rosso. Le sepolture indicano l'emergere di una netta gerarchia sociale, con tombe principesche, talvolta raggruppate in piccoli cimiteri come il cimitero T di Naqada. La presenza di cretule in alcuni siti, quali Naqada e Hu, attesta l'esistenza di un'amministrazione. A Naqada e Hierakonpolis apparvero i primi insediamenti di tipo protourbano. Le necropoli di Sedmet, Harageh, Abusir el-Meleq e Gerza, localizzate lungo il Nilo a sud del Fayyum, documentano in questo periodo la colonizzazione del Medio Egitto settentrionale. Tale penetrazione va probabilmente messa in relazione con l'intensificarsi di contatti e scambi commerciali con il Basso Egitto e il Delta del Nilo.
Nella fase di Naqada III emerse un protostato con capitale presso Abido, dove sono state messe in luce le più antiche tombe reali, attribuibili ad alcuni sovrani della Dinastia 0: Scorpione I, Scorpione II, Ka, Iry-Hor, Narmer. L'agricoltura divenne la componente predominante dell'economia di sussistenza e s'intensificò il commercio sulle lunghe distanze con il Levante, la Mesopotamia e la Nubia. La presenza di tavole cerimoniali di ardesia con figure a rilievo, tra cui la cosiddetta "tavolozza di Narmer" che celebra una vittoria del re, mostra l'affermarsi di una prima forma di arte "palatina". Una delle testimonianze più note di arte egiziana tardopredinastica, che attesta un possibile influsso mesopotamico, è il coltello di selce del Gebel Arak. Il manico, ottenuto da una zanna d'ippopotamo, è decorato su entrambe le facce: sul lato anteriore sono rappresentati alcuni animali selvatici e una scena tipica dell'arte mesopotamica, con un uomo tra due leoni; sull'altro lato sono raffigurate scene di guerrieri che si scontrano corpo a corpo e una battaglia tra imbarcazioni a scafo ricurvo, simili a quelle raffigurate su vasi predinastici e nell'arte rupestre della fase di Naqada II, e imbarcazioni a prua verticale forse di origine straniera. Numerose cretule, talvolta con impressione di sigilli, e targhette di avorio con brevi iscrizioni geroglifiche raccolte soprattutto a Naqada e Abido attestano l'uso della scrittura e un complesso sistema amministrativo. È probabile che in questa fase gli insediamenti maggiori fossero circondati da mura di mattoni crudi, tracce delle quali sono state messe in luce a Naqada. La fase di Naqada III sembra essere stata caratterizzata da un'intensa attività militare lungo la valle, celebrata su numerose tavole cerimoniali, che portò alla definitiva conquista del Basso Egitto da parte dei sovrani meridionali e alla nascita dello Stato faraonico.
Nel Basso Egitto si sviluppò nel IV millennio a.C. il complesso culturale di Maadi-Buto, contemporaneo alla cultura naqadiana e caratterizzato dall'emergere di una società complessa con insediamenti di tipo urbano. I due siti più rappresentativi sono Maadi presso Il Cairo e Tell el-Farain nel Delta settentrionale. La popolazione praticava la coltivazione di cereali, l'allevamento di bovini e caprovini e in misura minore attività di caccia e pesca. La presenza a Maadi di vasi di Naqada II/III e di vasi importati dalla Palestina e a Buto di vasellame del tipo Naqada II e della cultura di Amuq in Siria conferma l'esistenza di contatti con l'Alto Egitto e il Levante. Nel Delta orientale è stata identificata invece una cultura predinastica locale, con ceramica diversa da quella dell'Alto Egitto e del complesso di Maadi-Buto. Tale cultura è databile alla prima metà del IV millennio a.C. ed è antecedente alla penetrazione di gruppi meridionali nella regione durante la fase di Naqada III. I siti meglio noti sono Tell el-Farkha e Tell Ibrahim Awad. La ceramica è caratterizzata da vasellame grossolano marrone-rossastro decorato con motivi impressi a "denti di lupo", riferibili a tradizioni sahariane e sudanesi che suggeriscono una sua origine africana.
Nella seconda metà del IV millennio a.C. i contatti con l'Alto Egitto si intensificarono con una presenza maggiore di ceramica di Naqada IIc-d nei siti del Delta, in particolare a Buto. Successivamente sembra che tutto il Delta orientale del Nilo fino alle regioni costiere della striscia di Gaza in Palestina sia stato colonizzato da gruppi di origine altoegiziana alla fine del IV millennio a.C., come attestano numerosi siti con materiali tipici di Naqada III, il più rappresentativo dei quali è Minshat Abu Omar.
J. Vandier, Manuel d'archéologie égyptienne, I, Paris 1952, pp. 533-39; W.C. Hayes, Most Ancient Egypt, Chicago 1965; R. Fattovich, Elementi per una ricerca sulle origini della monarchia sacra egiziana, in RStOr, 45 (1970), pp. 133-49; M.A. Hoffman, Egypt before the Pharaohs, London 1980; B.G. Trigger, The Rise of Egyptian Civilization, in B.G. Trigger et al., Ancient Egypt. A Social History, Cambridge 1983, pp. 1-70; R. Fattovich, Remarks on the Dynamics of State Formation in Ancient Egypt, in W. Dostal (ed.), On Social Evolution: Contributions to Anthropological Concepts. Proceedings of the Symposium held on the Occasion of the 50th Anniversary of the Wiener Institut für Völkerkunde (Vienna, 12-16 December 1979), Wien 1984, pp. 29-78; F.A. Hassan, The Predynastic of Egypt, in JWorldPrehist, 2 (1988), pp. 135-85; R. Wenke, Egypt: Origins of Complex Societies, in AnnRAnthr, 18 (1989), pp. 129-55; Id., The Evolution of Early Egyptian Civilization: Issues and Evidence, in JWorldPrehist, 5 (1991), pp. 279-329; B. Midant-Reynes, Préhistoire de l'Égypte, Paris 1992; K.A. Bard, From Farmers to Pharaohs, Sheffield 1994; Ead., The Egyptian Predynastic: a Review of the Evidence, in JFieldA, 21, 3 (1994), pp. 265-88; B. Midant-Reynes, Aux origines de l'Égypte, Paris 2003; T. Wilkinson, Genesis of the Pharaohs, London 2003.
di Rodolfo Fattovich
La storia dell'Egitto si fa convenzionalmente iniziare alla fine del IV millennio a.C con l'unificazione di tutta la bassa valle del Nilo, dalla I Cateratta al Delta, in uno Stato territoriale con al vertice un sovrano con prerogative divine. La stessa tradizione egiziana, attestata fin dall'Antico Regno, narra che l'Egitto era originariamente diviso in due regni con capitali rispettivamente a Nekhen (Hierakonpolis) nell'Alto Egitto e Buto (Tell el-Farain) nel Basso Egitto, i cui sovrani erano contraddistinti da una corona bianca a sud e una corona rossa a nord. L'unificazione sarebbe stata compiuta da un re di origine meridionale, Menes, identificato con il re storico Narmer o con il suo successore Aha, il quale avrebbe fondato la prima capitale storica a Menfi. Sempre secondo la tradizione riportata agli inizi del periodo tolemaico da Manetone, i primi sovrani sarebbero stati originari di Thinis (This), presso Abido, e qui avrebbero mantenuto la loro residenza nel corso delle prime due dinastie.
La documentazione archeologica suggerisce che uno Stato territoriale sia emerso nella bassa valle del Nilo verso il 3000 a.C., a opera di uno o forse più sovrani di origine meridionale che risiedevano presso Abido (Dinastia 0) e che questo evento sia stato preceduto da un periodo di conflitti e conquiste celebrati su tavole cerimoniali di ardesia, datate all'ultima fase del periodo predinastico (Naqada III). Sembra inoltre che l'unificazione dell'Egitto sia stata la conclusione di una progressiva penetrazione di gruppi meridionali verso il Medio Egitto e il Delta orientale, iniziata nella fase di Naqada II e conclusa in quella di Naqada III. Il periodo di consolidamento dello Stato faraonico durato circa 300 anni, dal 3007 al 2682 a.C., viene definito "periodo arcaico" o Protodinastico e corrisponde al regno dei sovrani delle prime due dinastie di Manetone. Poiché secondo lo storico ellenistico questi primi re risiedevano a Thinis, esso assume anche la denominazione di "periodo thinita".
Benché l'esistenza di sovrani anteriori alla costruzione delle grandi piramidi fosse nota dalla lista delle dinastie di Manetone e da più antiche liste reali, quali, ad esempio, la Pietra di Palermo della V Dinastia, fino alla fine del XIX secolo non vi erano testimonianze monumentali ed epigrafiche sicuramente databili a questo periodo e la storia dell'Egitto veniva fatta iniziare con l'Antico Regno. Si deve agli scavi condotti ad Abido ‒ tra il 1894 e il 1898 da E.-C. Amélineau e dal 1899 al 1903 da W.F.M. Petrie ‒ e a quelli condotti nel 1896 da J. de Morgan a Naqada la scoperta delle più antiche tombe reali e la loro attribuzione, in base alle evidenze epigrafiche, ai sovrani delle prime due dinastie. Ad Abido, Amélineau e successivamente Petrie misero in luce la necropoli reale con tombe monumentali a maṣṭaba della I e II Dinastia nel sito di Umm el-Qaab. A Naqada de Morgan scoprì una grande tomba con sovrastruttura a maṣṭaba di mattoni crudi, inizialmente attribuita al primo re della I Dinastia, Aha, e pertanto identificata con la tomba del leggendario re Menes e in seguito attribuita alla regina Merneith, vissuta alla metà circa della I Dinastia. Petrie inoltre mise in luce a Coptos due statue colossali del dio Min, databili a questo periodo.
La conoscenza del periodo arcaico si ampliò nei primi dieci anni del XX secolo con gli scavi di G.A. Reisner a Naga ed-Der a nord di Abido (1901-1903), di H. Junker a Tura nella regione menfita (1909-10) e di Petrie a Tarkhan nel Fayyum (1911-13). Questi scavi misero in luce necropoli provinciali che fornirono informazioni importanti sull'organizzazione sociale di età arcaica. Contemporaneamente, J.E. Quibell e F. Green rinvennero a Hierakonpolis i resti di un tempio arcaico a pianta circolare. Quibell inoltre pubblicò nel 1904-1905 tutti gli oggetti raccolti da Amélineau in due volumi di catalogo del Museo del Cairo, fornendo un fondamentale apporto a una più precisa conoscenza della cultura materiale di questo periodo. Un nuovo importante contributo alla conoscenza di questo periodo venne dato tra gli anni Trenta e Cinquanta da W.B. Emery, che scoprì una serie di tombe monumentali a maṣṭaba della I Dinastia a nord della piramide a gradoni di Saqqara. Poiché le dimensioni e la ricchezza di queste tombe sembravano maggiori di quelle delle tombe reali di Abido, Emery suggerì che esse costituissero la vera necropoli reale e che le tombe di Abido fossero semplici cenotafi. Questa interpretazione tuttavia non è più accettata e le tombe di Saqqara vengono attribuite ad alti funzionari che verosimilmente amministravano le regioni settentrionali del regno per conto del sovrano. Negli stessi anni altre necropoli arcaiche vennero scoperte nella regione di Menfi da Z.Y. Saad e J.P.M. Montet. Saad scavò tra il 1942 e il 1954 una necropoli con tombe attribuibili a personaggi di alto rango a el-Maasara presso Helwan, ma i risultati di questi scavi non vennero mai pubblicati in modo completo. Alla fine degli anni Trenta, Montet mise in luce ad Abu Roash alcune tombe monumentali della I Dinastia simili a quelle rinvenute a Saqqara.
I risultati delle ricerche condotte nella prima metà del XX secolo permisero di comprendere meglio le origini dello Stato faraonico e della civiltà egiziana. Per lungo tempo, infatti, gli studiosi avevano attribuito le origini della civiltà egiziana a un'invasione di popolazioni provenienti dal Vicino Oriente, la cosiddetta "razza dinastica", che avrebbe assoggettato le popolazioni locali e imposto loro un modello culturale e politico più complesso. L'evidenza, tuttavia, di una chiara relazione genetica tra la cultura del periodo arcaico e quella predinastica della fase di Naqada III nell'Alto Egitto e tra questa e quella di Naqada II portò progressivamente al riconoscimento di un'origine autoctona dello Stato egiziano. Tale interpretazione venne proposta per la prima volta da E. Massoulard nella sua Préhistoire et protohistoire de l'Égypte, pubblicata a Parigi nel 1949, e venne ripresa e sviluppata in modo più preciso da W. Kaiser negli anni Sessanta. Sempre negli anni Sessanta contributi importanti allo studio dell'Egitto arcaico vennero dati da P. Kaplony, che in una serie di lavori pubblicati tra il 1962 e il 1966 fornì una prima analisi esauriente delle evidenze epigrafiche, in base alle quali propose una ricostruzione del sistema amministrativo di questo periodo. Contemporaneamente, B. Kemp riesaminò le evidenze funerarie da Abido e Saqqara, dimostrando che le vere sepolture reali della I Dinastia si trovavano ad Abido.
Le ricerche sulle prime due dinastie si sono intensificate negli ultimi trent'anni grazie soprattutto agli scavi di archeologi tedeschi e americani ad Abido, Hierakonpolis ed Elefantina nell'Alto Egitto e nel Delta orientale. Ad Abido, una missione tedesca diretta inizialmente da Kaiser e successivamente da G. Dreyer ha ripreso a partire dalla fine degli anni Settanta lo scavo della necropoli di Umm el-Qaab, scoprendo tra l'altro nella tomba del re Den un'impressione di sigillo con i nomi dei primi cinque sovrani della I Dinastia, che costituisce la più antica lista reale nota. Negli anni Ottanta e Novanta, D. O'Connor riprese lo scavo delle cinte funerarie associate alle tombe dei re della I e II Dinastia nella necropoli di Umm el-Qaab, definendo meglio lo sviluppo dell'architettura funeraria tra la I e la III Dinastia, e mise in luce i resti di 12 imbarcazioni datate alla fine della II Dinastia. A Hierakonpolis una missione americana diretta da W. Fairservis avviò lo studio dell'insediamento arcaico, già segnalato da Quibell e Green agli inizi del XX secolo. A Elefantina, una missione tedesca diretta da Kaiser mise in luce i resti dell'abitato di età arcaica. Numerose evidenze di età arcaica sono state anche scoperte nel Delta orientale del Nilo da archeologi tedeschi, olandesi, americani, italiani ed egiziani. Tra le ricerche condotte negli anni Novanta, infine, vanno ricordate quelle di una missione inglese a Menfi diretta da D. Jeffreys, che ha messo in evidenza l'assetto territoriale della regione in epoca arcaica.
La data d'inizio della I Dinastia è incerta. A seconda delle diverse cronologie essa oscilla tra il 3100 e il 2900 a.C., ma vi è un sostanziale accordo nel datare questo evento verso il 3050-3000 a.C. La I Dinastia viene pertanto datata tra il 3007 e il 2828 a.C. circa e la II Dinastia tra il 2828 e il 2682 a.C. In base alla documentazione archeologica, alle liste reali di età faraonica e alla lista dei sovrani redatta da Manetone agli inizi del III sec. a.C. si conoscono i nomi di almeno sette re (Aha, Djer, Djet, Den, Anedjib, Semerkhet, Qaa) e una regina (Merneith) della I Dinastia e di sette re (Hetep-Sekhemui, Raneb, Ninetjer, Weneg, Sened, Peribsen, Kha-Sekhemui) della II Dinastia. Resta incerta l'attribuzione o meno alla I Dinastia del re Narmer: alcuni studiosi ritengono che sia stato l'ultimo sovrano della Dinastia 0, altri lo considerano il primo re della I Dinastia. Di certo Narmer era considerato il capostipite della dinastia al tempo del re Den: su un sigillo trovato nella tomba di Den ad Abido, infatti, Narmer è il primo di una serie di re che comprende Aha, Djer, Djet e Den.
Gli eventi che hanno caratterizzato il regno dei sovrani della I Dinastia sono ancora in gran parte ignoti. Le poche iscrizioni a carattere annalistico, registrate su targhette di legno o avorio trovate in tombe reali di questo periodo, e gli annali della Pietra di Palermo ricordano infatti per lo più cerimonie e attività rituali. Sembra tuttavia che alcuni di questi re abbiano svolto attività militari verso il Sinai, la Palestina e la Nubia. Particolarmente lungo e prospero sembra essere stato il regno di Den. Molto probabilmente agli inizi della II Dinastia la residenza dei sovrani venne spostata da Thinis a Menfi, poiché il re Hetep-Sekhemui fece costruire la sua tomba a Saqqara. Sembra inoltre che al termine del regno del terzo re di questa dinastia, Ninetjer, vi sia stata una frammentazione dello Stato e forse una rivolta del Nord. Tale divisione potrebbe essere anche indicata dall'identificazione del re Peribsen sia con il dio dinastico dei sovrani della I Dinastia, Horo, sia con il dio della regione di Naqada, Seth. Il regno comunque fu sicuramente riunificato dall'ultimo re della II Dinastia, Kha-Sekhemui.
L'agricoltura con coltivazione di frumento e orzo costituiva la base economica dello Stato. Essa a sua volta dipendeva dal regime naturale di piene del Nilo ed era molto probabilmente praticata all'interno di bacini nei quali veniva trattenuta l'acqua dopo le inondazioni; non vi sono infatti prove sicure di irrigazione artificiale con canali prima del Medio Regno. Non a caso a questo periodo risalgono le più antiche registrazioni delle fluttuazioni annuali di portata del Nilo, la cui conoscenza era fondamentale per una più precisa gestione dello Stato. Le attività agricole erano organizzate all'interno di proprietà terriere di diversa estensione sotto il controllo del sovrano. Tra queste vanno ricordate le cosiddette "fondazioni reali", localizzate in prevalenza nel Delta e finalizzate alla produzione di alimenti per il culto funerario del re.
Lo sfruttamento delle risorse minerarie del Deserto Orientale e del Sinai e il commercio a lunga distanza erano un'altra importante componente dell'economia egiziana antica. La documentazione archeologica indica infatti che la bassa valle del Nilo era inserita in un sistema di scambi che si estendeva alla regione siro-palestinese, all'Anatolia, alla Nubia, al Corno d'Africa e tramite queste regioni raggiungeva l'Oceano Indiano e l'Asia centrale.
La Stato egiziano in epoca arcaica presentava una gerarchia sociale molto accentuata con al vertice il faraone e i membri della famiglia reale, cui si affiancava un'élite provinciale. Molto probabilmente l'élite comprendeva anche scribi, come attestano numerose brevi iscrizioni a carattere amministrativo, annalistico e ideologico, e sacerdoti per il culto nei templi, di cui si hanno evidenze archeologiche e iconografiche. A loro volta la ricchezza e l'ottima qualità dei corredi funerari rinvenuti nelle tombe dei sovrani e degli alti funzionari indicano l'esistenza di artigiani specializzati che operavano presso il palazzo reale. La maggior parte della popolazione era costituita da contadini e artigiani che producevano a livello familiare utensili e altri oggetti di uso domestico. Per la costruzione delle grandi tombe reali, per altre opere pubbliche e per il culto funerario venivano impiegate squadre di operai, che molto probabilmente erano organizzate sulla base di famiglie estese o clan locali. Esisteva sicuramente anche un esercito, in quanto si hanno testimonianze di attività militari durante questo periodo, ma non abbiamo, finora, alcuna informazione su come fosse organizzato.
Il sovrano aveva carattere sacrale e veniva considerato una manifestazione del dio del cielo Horo. A partire infatti dalla Dinastia 0 il falco, che rappresentava simbolicamente Horo, sormonta sempre il nome del re iscritto all'interno del serekh, la facciata del palazzo reale. Soltanto alla fine della II Dinastia, durante il regno di Peribsen, il re venne associato anche al dio Seth, che nelle epoche successive venne considerato l'avversario di Horo. Non sappiamo tuttavia se il re fosse effettivamente identificato con il dio o se fosse considerato un suo agente, la cui autorità derivava dalla divinità. I Testi delle Piramidi risalenti alla fine dell'Antico Regno suggeriscono che il re dopo la morte fosse identificato con il dio, ma non forniscono alcuna informazione sul mito che stabiliva il legame tra il re e il dio Horo in epoca così antica.
L'associazione del nome del sovrano in forma di Horo con la facciata del palazzo reale indica uno stretto legame simbolico tra il dio, il re e il palazzo. Sicuramente le grandi dimensioni, la pianta a nicchie e la decorazione delle mura che delimitavano l'area dei palazzi reali dovevano avere una forte valenza simbolica, in quanto espressione ben visibile nel paesaggio della presenza e del potere del re. Ciò è confermato dai resti della cinta del palazzo dell'ultimo re della II Dinastia, Kha-Sekhemui, a Hierakonpolis. Questa cinta misura all'interno 113 × 54 m e all'esterno 122 × 65 m ed è costituita da due muri di mattoni crudi; il muro interno, spesso 5,5 m, è tuttora preservato fino a un'altezza di 11 m. L'assoluta preminenza del re nella società egiziana di età arcaica è anche dimostrata dall'enorme dispendio di energia, materiali e beni da parte dello Stato per i complessi con le tombe e le cinte funerarie dei sovrani della I Dinastia ad Abido, che costituirono i prototipi da cui si svilupparono i grandi complessi formati dalle piramidi e dai templi funerari a esse associati dell'Antico e Medio Regno. In apparenza la totale sottomissione della popolazione era indicata simbolicamente dall'uccisione dei membri della corte e della servitù, che dovevano accompagnare il re nell'aldilà. Questi individui venivano sepolti in piccole fosse rettangolari che circondavano le tombe reali ad Abido e Saqqara.
Le tombe reali ad Abido erano costruite sul basso deserto ed erano associate a cinte funerarie di mattoni crudi, dove veniva presumibilmente praticato il culto dei singoli sovrani dopo la loro morte da parte di sacerdoti e altro personale preposto a questo culto, secondo un'usanza ben attestata nelle epoche successive. Dal punto di vista architettonico le tombe reali della I Dinastia ad Abido costituiscono un'evoluzione di quelle dell'élite di Naqada II e dei sovrani della Dinastia 0. Esse avevano dimensioni di gran lunga maggiori di quelle più antiche ed erano suddivise internamente in numerose stanze, usate come magazzini per il corredo funerario. Erano inoltre sormontate da una sovrastruttura di mattoni crudi che imitava un palazzo con pianta a nicchie esterne. La tomba del quarto re della I Dinastia, Den, è senza dubbio la più elaborata tra quelle messe in luce ad Abido, con il pavimento della camera sepolcrale costruito con lastre di granito rosso e nero da Assuan, che costituisce la più antica attestazione finora nota dell'uso di questa pietra su larga scala. A sua volta la rampa d'entrata alla tomba del successore di Den, Semerkhet, era satura fino alla profondità di circa 1 m di un olio aromatico probabilmente importato dalla Palestina.
Alla fine della II Dinastia un tumulo di sabbia e ghiaia coperto con mattoni crudi, identificabile come una struttura protopiramidale, venne eretto all'interno della cinta funeraria di Kha-Sekhemui. Accanto a questa cinta erano sepolte anche 12 imbarcazioni, che costituiscono la prima testimonianza di barche associate al culto funerario del re. Sepolture di piccole barche sono state rinvenute comunque anche presso tombe di élite a Saqqara e Helwan. Ad Abido perciò si possono riconoscere le prime forme di culto funerario del sovrano e delle sue espressioni monumentali, che daranno origine al grande complesso della piramide a gradoni di Saqqara, costruita interamente di pietra, e culmineranno con le grandi piramidi di Giza.
Il consolidarsi dell'apparato statale nel corso delle prime due dinastie determinò l'emergere di un sistema amministrativo sempre più articolato, con funzionari di alto rango presso la corte e funzionari locali che costituivano una categoria sociale ben definita. In particolare in questo periodo vennero istituiti i primi distretti amministrativi provinciali. I funzionari di alto rango comprendevano un "responsabile dei segreti dei decreti" e un "compagno". I documenti della fine della II Dinastia ricordano anche un "cancelliere" con numerosi assistenti e scribi; vi erano inoltre funzionari responsabili dei "tesori", dei "granai" e di altri dipartimenti statali; al tempo di Kha-Sekhemui esisteva un "sovrintendente ai paesi stranieri". Questi funzionari erano membri della famiglia reale e nella I Dinastia appartenevano a un ristretto gruppo di parenti stretti del sovrano. Il ruolo sociale e ideologico sempre maggiore dei funzionari, come quello del sovrano, si rifletteva in modo chiaro nell'ideologia funeraria ed era espresso simbolicamente da tombe sempre più ricche ed elaborate. Tombe di funzionari sono state messe in luce a Saqqara nord, Helwan, Abu Roash e Tarkhan.
A Saqqara nord le tombe degli alti funzionari della I Dinastia avevano dimensioni simili a quelle delle tombe reali (ma senza le cinte funerarie che distinguevano le tombe dei re ad Abido) ed erano i più imponenti monumenti nel Basso Egitto. Esse pertanto rappresentavano simbolicamente il potere dello Stato centrale governato dal re e dai suoi amministratori. Sepolture di imbarcazioni erano associate a tre di queste tombe. A Helwan sono state messe in luce tombe più piccole attribuibili a funzionari e all'élite locale. Cinque imbarcazioni erano associate a tombe della I Dinastia; stele iscritte sono state invece trovate in tombe della II Dinastia: queste raffiguravano il proprietario della tomba seduto davanti a una tavola d'offerta e riportavano i suoi titoli. Tombe a maṣṭaba databili al regno di Den (I Din.) sono state scoperte ad Abu Roash. Una di esse conteneva due imbarcazioni, numerosi sigilli e manufatti tra cui un vaso di origine siro-palestinese. Tre tombe a maṣṭaba attribuibili a funzionari provinciali di alto rango della I Dinastia sono state infine messe in luce a Tarkhan. Questa evidenza indica che i rituali funerari avevano una grande importanza anche per l'élite e che elementi delle sepolture reali venivano emulati nelle tombe dei funzionari. Le stele scolpite con offerte dalle tombe della II Dinastia a Helwan attestano inoltre il consolidarsi di un culto funerario riservato all'élite alla fine dell'epoca arcaica. La documentazione archeologica, infine, mostra che le sepolture del resto della popolazione erano ancora simili a quelle della fine del Predinastico, con tombe spesso rivestite internamente con mattoni crudi.
Brevi iscrizioni databili alle prime due dinastie e la Pietra di Palermo della V Dinastia suggeriscono che un vero e proprio Pantheon si sia consolidato in epoca arcaica. Esso comprendeva Horo, Seth, Hathor, Ptah, Apis, Sokar, Neith, Min, Upuaut, Thot, Anubis, Nekhbet e Uaget e probabilmente Bastet, Soped, Sobek, Seshat, Khnum e altre divinità minori. Alcune targhe iscritte trovate in tombe reali della I Dinastia mostrano scene con templi o sacelli, che suggeriscono l'esistenza di luoghi di culto non collegati al culto funerario dei sovrani. La documentazione archeologica di questi templi è tuttavia molto scarsa.
Manufatti e depositi associabili a templi arcaici sono stati messi in luce a Coptos, Abido e Hierakonpolis. A Coptos in particolare sono state scoperte due statue colossali del dio Min decorate con figure animali e simboli, tra cui conchiglie marine del Mar Rosso. A Hierakonpolis si conosce un tempio arcaico a pianta ovale di circa 48 × 42 m, costituito da un tumulo di sabbia coperto con un rivestimento di blocchi di calcare. Un piccolo tempio cittadino databile a questo periodo è stato inoltre messo in luce a Elefantina; esso consisteva in una serie di locali con pareti di mattoni crudi, larghi meno di 8 m, all'interno di un riparo naturale formato da blocchi di granito e conteneva piccoli oggetti votivi, per lo più figurine umane e animali di faïence.
W.B. Emery, Archaic Egypt, Harmondsworth 1961; I.E.S. Edwards, Il Dinastico Antico in Egitto, in I.E.S. Edwards - C.J. Gadd - N.G.L. Hammond (edd.), Preistoria e nascita delle civiltà in Oriente, I, Milano 1974 (trad. it.), pp. 368-417; L. Krzyżaniak, Recent Archaeological Evidence on the Earliest Settlement in the Eastern Nile Delta, in L. Krzyżaniak - M. Kobusiewicz (edd.), Late Prehistory of the Nile Basin and the Sahara, Poznań 1989, pp. 267-85; J. Baines, Origins of Egyptian Kingship, in D. O'Connor - D. Silverman (edd.), Ancient Egyptian Kingship, Leiden 1995, pp. 95-156; T.A.H. Wilkinson, Early Dynastic Egypt, London 1999; K.A. Bard, The Emergence of the Egyptian State, in I. Shaw, The Oxford History of Ancient Egypt, Oxford 2000, pp. 61-88.
di Sergio Pernigotti
Con la III Dinastia (ca. 2682-2614 a.C.) per l'Egitto ha inizio quello che viene chiamato Antico Regno (ca. 2682-2191 a.C.) e che giunge fino alla VI Dinastia (ca. 2322-2191 a.C.). Il Paese raggiunge un assetto quasi definitivo nelle sue strutture politiche e amministrative, lungamente elaborate durante l'età thinita sul fondamento delle concezioni relative alla regalità, i cui incunaboli si possono identificare in quella che ora viene chiamata Dinastia 0. La testa di mazza del re-Scorpione, in cui il sovrano è raffigurato con la corona bianca del Sud in atto di compiere un rito di inaugurazione (forse l'apertura di un canale o la costruzione di una diga), e la tavolozza che sembra narrare per immagini la conquista del Nord da parte di Narmer, probabilmente successore del re-Scorpione e unificatore del Paese, dimostrano come in tale fase storica i caratteri essenziali della regalità faraonica fossero già nitidamente delineati, almeno in alcuni aspetti formali e, si potrebbe dire, protocollari: la corona bianca per la regalità del Sud, quella rossa del Nord, la loro intercambiabilità nella persona di Narmer e l'insieme degli altri ornamenti che vengono definiti come regalia, immutati non solo fino alla fine dell'età dinastica ma anche oltre, in età tolemaica e romana, nel segno di una continuità che da allora è una delle grandi linee lungo le quali si dispone la storia dell'antico Egitto. Non solo queste sono le eredità che l'Egitto dell'età arcaica e poi dell'Antico Regno riceve dal periodo predinastico: sarebbe molto facile enumerare una serie di motivi che si colgono nelle arti figurative della Dinastia 0 (e anche prima), destinati ad avere una lunga storia; a essi si può aggiungere la maestria nella lavorazione della pietra e dei metalli, che sarà messa a frutto dagli artisti egiziani proprio a partire dalla III Dinastia.
Re e regalità - Altri aspetti della cultura pre- e protodinastica sempre connessi con la regalità o con la sua rappresentazione, che sono in sostanza due facce della medesima medaglia, nello stesso arco di tempo sono stati al contrario abbandonati per il maturare di una diversa visione del mondo: tale è il sacrificio rituale dei funzionari al momento della morte del sovrano, perché fossero sepolti con lui e quindi lo seguissero nella vita ultraterrena per servirlo così come avevano fatto in questo mondo. La mancanza di documentazioni scritte che si esprimano su questi punti non ci permette di andare molto oltre il linguaggio delle arti figurative o i dati, sempre più numerosi e più espliciti grazie all'affinarsi delle tecniche che l'archeologia mette a nostra disposizione: i Testi delle Piramidi, che furono messi per iscritto solo alla fine della V Dinastia, ma all'interno dei quali vi sono sicuramente parti riferibili alla più alta antichità, vanno utilizzati con cautela per il rischio sempre presente, nella loro interpretazione, delle petizioni di principio.
La figura del sovrano si colloca al vertice di una piramide gerarchica e, nel contempo, si stacca nettamente rispetto ai funzionari di rango inferiore connotandosi sempre più come compartecipe da un lato del mondo degli uomini, che di fatto sono da lui governati, e dall'altro di quello degli dei, a cui più propriamente appartiene. Questa ambivalenza della persona del sovrano consente di vedere in lui il simbolo e la garanzia insieme dell'unità del Paese, che viene in tal modo posta sotto la tutela degli dei e perciò sottratta alle mutevoli vicende degli eventi umani. Questo appare essere il significato più profondo, religioso e politico a un tempo, dell'interpretazione della regalità secondo il mito osiriaco: cioè di un sovrano che in vita sul trono d'Egitto s'identifica con il dio Horo, ma morendo diventa un Osiris, risorgendo nell'aldilà come padre del nuovo Horo vivente. La continuità è in tal modo garantita e, a sua volta, garantisce il bene più prezioso, la salvaguardia dell'unità tra il Nord e il Sud dell'Egitto, l'unica che possa preservare dal ritorno al caos primordiale, sempre latente e "domato" solo con l'inizio dell'età dinastica. La centralità di questo motivo ideologico ne spiega la persistenza per tutta la storia dell'Egitto faraonico, quali che fossero le crisi che l'istituzione della regalità era di fatto destinata ad attraversare, e insieme costituisce la forza trainante che essa ebbe per tutto l'Antico Regno sull'intera società egiziana. Nel III millennio le testimonianze sono per lo più indirette e si fondano su una massa di dati archeologici a cui non corrispondono evidenze testuali, se non nella fase finale del periodo: anche in questo caso è ai Testi delle Piramidi che dobbiamo fare ricorso, ma la cautela sopra indicata nella loro utilizzazione cede questa volta di fronte al fatto che essi sono comunque un rituale funerario regale e quindi la figura del sovrano, con le complesse implicazioni ideologiche, è non solo quella del destinatario ma anche quella del protagonista.
Oltre a quella politica il sovrano svolge altre funzioni, altrettanto se non ancora più importanti: anzitutto quella sacerdotale, per cui solo a lui, in quanto divinità che pro tempore governa sull'Egitto, compete tenere i rapporti con il mondo degli dei. In quanto tale è il primo della gerarchia sacerdotale in tutti i templi egiziani, quali che siano il dio o gli dei a cui essi sono dedicati: il sommo sacerdote che "governa" in ciascuno di essi è in realtà solo il suo delegato quando compie i riti del culto divino, quello giornaliero e quello che si realizza nelle feste che vengono celebrate periodicamente nei templi grandi e piccoli dell'intero territorio egiziano. Non si tratta solo di un motivo ideologico più o meno espresso, ma di un vero fatto formale che si concretizza in un atto amministrativo di delega, senza il quale in realtà il sommo sacerdote non può agire. Nello svolgere le sue funzioni sacerdotali il sovrano si trasforma automaticamente nel titolare delle azioni attraverso cui si realizza la magia, non tanto o non solo quella quotidiana fatta di incantesimi contro gli animali nocivi, di filtri amatori o di maledizioni, ma innanzitutto quella "pubblica" e "istituzionale" che non può competere che a lui in quanto faraone. In primo luogo egli deve assicurare che in Egitto regni la maat, che non è solo la "giustizia" o la "verità", significati tutti che il termine comporta, ma piuttosto il principio formale che assicura che il Paese sia in consonanza con le leggi che governano l'ordine cosmico, dal quale in concreto deriva anche e più prosaicamente l'ordine pubblico che ogni sovrano ha il dovere di assicurare ai propri sudditi. Re, sacerdote, princeps dei maghi, questi sono i complessi sistemi all'interno dei quali si colloca la posizione del sovrano a partire dalla III Dinastia.
Scrittura - A tutto questo si aggiunge il ruolo che svolge la scrittura nei primi tempi della storia egiziana, dal Protodinastico fino alla sua piena maturazione nella III Dinastia. Non c'è alcun dubbio che la scrittura sia nata in Egitto con il progressivo maturare del processo di formazione dello Stato, per rispondere alle esigenze sempre crescenti dell'amministrazione, un processo probabilmente parallelo a quello analogo che si andava svolgendo nell'area mesopotamica. Il progressivo differenziarsi dei centri urbani dalle aree agricole circostanti e l'affermarsi al loro interno di ceti non direttamente produttivi di beni agricoli, che vivevano di attività diverse dal lavoro dei campi, portarono alla nascita di un'attività amministrativa che non poteva funzionare senza forme, dapprima elementari e poi via via sempre più raffinate e consapevoli, di registrazione e di rendicontazione, le quali a loro volta non potevano realizzarsi senza il ricorso alla scrittura. In tale ottica domandarsi a chi spetti la priorità dell'invenzione della scrittura, se all'Egitto o alla Mesopotamia dei Sumeri, appare un falso problema, sia perché può essersi trattato di processi del tutto indipendenti, frutto di uno sviluppo parallelo di forme di organizzazione sociale sempre più complesse, sia perché l'eventuale dipendenza dei sistemi scrittori uno dall'altro, quello mesopotamico dall'egiziano o viceversa, non può essere dimostrata per l'ovvia mancanza di documenti espliciti.
Per l'Egitto l'invenzione della scrittura geroglifica (di cui lo ieratico fin dall'inizio costituiva il corsivo) veniva posta in relazione con l'unificazione ed effettivamente fu realizzata poco prima di essa, durante i regni del re-Scorpione e di Narmer: la presenza nella tavolozza votiva a nome di questo sovrano di motivi figurativi di evidente derivazione mesopotamica rendeva inevitabile attribuire a quest'area geografica l'invenzione della scrittura, intanto limitata al nome del sovrano e ad alcuni nomi geografici e di persona (o forse di cariche amministrative). La situazione è ora mutata profondamente a causa delle scoperte archeologiche che sono state compiute nella necropoli di Umm el-Qaab ad Abido, dove in una tomba, designata come U-j e attribuibile a un sovrano del periodo predinastico, è venuto alla luce un archivio, forse relativo a tributi percepiti dalla corte, che permette di anticipare di circa 150 anni (intorno al 3350 a.C.) l'introduzione o "l'invenzione" in Egitto della scrittura (proto)geroglifica; questa si avvicina di molto o forse raggiunge il momento della sua prima utilizzazione, che corrisponde nei contenuti, al di là della discussione sul valore dei singoli segni, a quanto era stato elaborato sul piano teorico sulla funzionalità della scrittura nella sua fase iniziale: l'uso in forme ancora elementari all'interno delle strutture statali in formazione o in trasformazione (conti e registrazioni varie). Vi è stata anche, negli ultimi anni, una riconsiderazione della storia della scrittura geroglifica, inizialmente ritenuta già dotata di tutti i suoi caratteri più significativi fin dal momento della sua presunta introduzione nel tardo periodo predinastico, teoria che pareva confortata dall'idea dell'origine mesopotamica. In realtà il riesame dell'intera documentazione disponibile e ora i ritrovamenti della tomba di Umm el-Qaab hanno dimostrato che la scrittura geroglifica ha avuto una lunga preistoria fatta di progressivi arricchimenti di un gruppo di segni originari, che le hanno permesso di raggiungere una sempre maggiore capacità di esprimere contenuti via via più complessi: ci sono voluti circa 500 anni prima che il "sistema" potesse dirsi completo e la scrittura essere usata per tutti i possibili contenuti, come quelli relativi ai testi letterari o religiosi. Tale processo può dirsi definitivamente giunto a maturazione durante la III Dinastia e pertanto essere inserito nella grande "svolta" avvenuta in tale periodo.
È interessante osservare come fin dal regno di Narmer vi sia uno stretto legame tra la scrittura e la registrazione di eventi storici, che si può constatare non solo nella tavolozza di questo sovrano ma anche in quelle che si possono definire le "placchette annuali", con le quali si realizza anche una forma ancora elementare di cronologia: gli anni di regno vengono indicati non con un numero, ma piuttosto individuati grazie a quello che viene considerato come l'evento caratterizzante dell'anno. Così l'avvenimento descritto nella tavolozza di Narmer appare nuovamente narrato in una placchetta recentemente scoperta. Tali documenti assumono ben presto un valore annalistico e confluiscono con poche varianti nelle più antiche liste regali, quale, ad esempio, la cosiddetta Pietra di Palermo. Le capacità narrative della scrittura geroglifica sono ancora piuttosto modeste, sì che gli eventi narrati, non sempre così importanti come le imprese di Narmer, sono talvolta di discussa interpretazione. Si può ammettere anche che già in quest'epoca così antica la scrittura geroglifica, oltre al suo ovvio valore epigrafico e monumentale, svolgesse un ruolo importante nella magia, malgrado manchino prove dirette eccetto quelle costituite dalle iscrizioni sulle pareti delle tombe, che non hanno un valore commemorativo ma più propriamente quello di evocare una realtà già vissuta in questo mondo e destinata a riprendere la sua esistenza nell'aldilà.
Teologia menfita - Dal punto di vista della politica e dell'amministrazione dello Stato nella III Dinastia, e poi in seguito nella IV (ca. 2614-2479 a.C.), il centro del potere si trovava a Menfi, residenza regale (il concetto moderno di "capitale" non è presente nell'antico Egitto) e sede della divinità dinastica, Ptah. Nel suo tempio si svolgeva un'intensa vita culturale caratterizzata da forme di riflessione religiosa fondate su un'elevata spiritualità, come dimostra il Testo di teologia menfita anche attraverso le vicende della sua trasmissione nel mondo antico. Esso infatti ci è giunto solo in un'assai più tarda testimonianza epigrafica, inciso su una stele di pietra per ordine del sovrano "etiopico" Shabaka, intorno al 700 a.C.: il faraone, recatosi in visita nel tempio di Ptah, aveva letto tale testo in un papiro "roso dai vermi" e avendolo trovato del più grande interesse ne aveva ordinato il trasferimento su una stele, in modo da preservarlo per l'eternità. Si tratta di un testo di alta antichità, anche se la datazione alla III Dinastia sostenuta dal suo primo editore appare eccessiva: non c'è dubbio però che esso rifletta una temperie spirituale che certamente può farsi risalire all'inizio dell'Antico Regno, nel clima di speculazione religiosa che altri elementi permettono di vedere nel tempio locale di Ptah.
Il Testo di teologia menfita nella sua prima parte tenta una sintesi tra il sistema teologico eliopolitano e quello menfita, il che ne dimostra una composizione relativamente tarda nel III millennio a.C., mentre nella seconda parte espone la cosmogonia quale è stata elaborata, sicuramente in un'epoca molto antica, in ambiente menfita e della quale è ovviamente protagonista il dio locale Ptah. Secondo questo mito il mondo è stato creato dal dio per mezzo del "cuore" (sede del pensiero secondo gli Egiziani) e della lingua (cioè della parola): il dio pensa le cose ‒ tutte le cose (gli altri dei, gli uomini, i templi, gli oggetti del vivere quotidiano) ‒ che vengono in esistenza nel momento in cui egli ne pronuncia il nome. L'evidente carattere di alta spiritualità che caratterizza tale visione e che non trova riscontro in nessun'altra delle numerose concezioni cosmogoniche dell'Antico Egitto, tutte improntate a uno stretto "materialismo", è sempre stato puntualmente sottolineato dagli studiosi e visto come frutto delle speculazioni di carattere religioso elaborate presso il tempio menfita; tuttavia esso rivela anche un legame con altri aspetti molto importanti della civiltà del III millennio, come, ad esempio, quello con l'attività degli artisti (specialmente gli scultori che come il dio plasmano con le mani le loro creazioni) che sono visti come coloro che continuamente ripetono l'attività creatrice del dio, non a caso il loro patrono. Il Testo di teologia menfita è l'unico scritto religioso non funerario dell'Antico Regno che contenga in maniera così esplicita l'affermazione del ruolo di una divinità nella creazione del mondo, in tutte le sue componenti e nei conseguenti riflessi nella ideologia del ceto dominante, di cui il sovrano stesso era in definitiva l'espressione.
Il formarsi di una visione del mondo fondata su tali idee e su tali principi trova conferma nell'archeologia. Di fronte alla rarità di documenti scritti del tipo sopra menzionato sta, al contrario, la straordinaria abbondanza della documentazione archeologica, che consiste essenzialmente nei grandi monumenti delle necropoli regali e private e nell'eccezionale quantità di oggetti d'arte che sono stati trovati al loro interno, frutto di un'inesausta creatività; pur con qualche caduta di valore essa caratterizza l'intero millennio fino all'inizio del Primo Periodo Intermedio (ca. 2191-2119 a.C.) e non può essere valutata che come una conseguenza delle concezioni espresse nel Testo di teologia menfita: il rifare continuamente, sulle orme del dio, edifici quali le piramidi, le tombe dei privati, i templi funerari, o gli oggetti quali le statue, le stele e ogni altro componente del corredo funerario, vuol dire assicurare a essi una vita imperitura, inserirli nel processo della creazione destinato per sua stessa natura a non avere fine.
Ideologia delle piramidi - I molti documenti che si sono conservati, frutto di un'intensa monumentalizzazione che durò centinaia d'anni, provano come l'intero Paese, sotto la guida di un ristretto gruppo dirigente, fosse mobilitato nell'esaltazione della persona del faraone e dei più alti funzionari dello Stato, mobilitazione duratura se possiamo seguirne le vicende fino al crollo dell'Antico Regno nel XXII sec. a.C. circa. È con il re Djoser (ca. 2665-2645 a.C.) della III Dinastia che questo processo ha inizio: sotto la guida dell'architetto Imhotep viene costruito a Saqqara il complesso funerario del sovrano, la prima costruzione di grandi dimensioni in cui venga impiegata interamente la pietra; la tradizione vuole Imhotep anche archiatra del sovrano ‒ e come tale autore delle più antiche opere di medicina, come confermerebbe la sua tarda divinizzazione come dio della medicina in quanto figlio del dio menfita Ptah, prontamente assimilato dai Greci con il loro Asclepio ‒ e probabile autore del più antico degli Insegnamenti morali, un genere letterario che avrà in seguito una grande fortuna, rimanendo in uso fino al II sec. d.C. Il centro ideale di tale complesso è costituito dalla sepoltura del sovrano sormontata dalla prima piramide costruita in Egitto, chiamata "a gradoni" per la sua forma particolare che suggerisce quella di una scala che s'innalza verso il cielo.
Il complesso di Djoser è tutto un susseguirsi di motivi ideologici puntualmente consegnati alla pietra e alla stessa disposizione degli edifici: dall'uso dei materiali (con la generalizzazione della pietra, tendenzialmente imperitura, che si contrappone ai mattoni crudi con cui venivano costruite le dimore degli uomini, per propria natura destinate a vita breve); al muro di cinta, ispirato alla facciata del palazzo reale (la dimora d'eternità che si contrappone a quella in cui il re trascorre la vita mortale); alla planimetria della parte interna del complesso, in cui una serie di edifici, colmi all'interno e dunque dotati di una valenza puramente simbolica, è destinata ai riti che il sovrano compirà nella sua vita ultraterrena e che trovano il loro punto di riferimento ideale nella piramide che esalta, con le sue stesse dimensioni, la sepoltura del re-dio. Questo straordinario complesso dà vita a una tradizione che si sviluppa lentamente durante la stessa III Dinastia fino a sfociare nella piramide a spigoli vivi, che a sua volta nella IV Dinastia diventa il centro ideale di un sistema che si perpetua, se si esclude la parentesi del Primo Periodo Intermedio, per quasi 1000 anni, in cui l'aspetto puramente funerario dei complessi piramidali viene accentuato rispetto a quello di Djoser in cui prevaleva quello rituale.
La "città" della piramide ha il suo ingresso nell'"imbarcadero" a cui attracca la barca che trasporta il corpo del sovrano e comprende un tempio "a valle", in cui avvengono le prime cerimonie di accoglienza, collegato da un lungo corridoio monumentale al tempio "alto" che si appoggia al lato orientale della piramide, destinato alle offerte e al culto del sovrano defunto. L'appartamento funerario si trova all'interno della piramide o nel suo sottosuolo ed è collegato a un corridoio che esce sulla facciata nord della piramide: si tratta di un secondo orientamento, verso nord, che si rifà alla concezione astrale della vita ultraterrena del re. Secondo le idee religiose del III millennio a.C., infatti, il sovrano dopo la morte sale in cielo dirigendosi verso le stelle "imperiture", quelle cioè che fanno da corona alla stella polare: per questo le piramidi presentano tale orientamento, destinato a facilitare l'ascesa dello "spirito" del sovrano verso la sua celeste destinazione dove lo attendono le altre divinità, ovvero i sovrani che lo hanno preceduto sul trono dell'Egitto. Il complesso, delimitato da un muro di cinta, è completato dai magazzini e dalle case dei sacerdoti e costituisce, per seguire la terminologia degli stessi Egiziani, una "città" vera e propria. Tutt'intorno sono disposte le tombe, a forma di maṣṭaba (termine arabo che significa "panca" e si riferisce appunto alle panche che si trovano addossate alle case nei villaggi moderni e presentano una sezione trapezoidale), nelle quali venivano sepolti i funzionari più importanti del sovrano deposto nella piramide, destinati a seguirlo nella sua sorte ultraterrena per costituirne la corte celeste.
Non vi era una vera contrapposizione tra la piramide a gradoni e la piramide "perfetta", in primo luogo perché questa è in realtà un semplice sviluppo di quella, poi perché in entrambi i casi si tratta semplicemente (malgrado l'enorme complessità di tali costruzioni) della sovrastruttura della tomba destinata a contenere il corpo del sovrano, secondo una concezione modulare che rimane costante per tutta la storia dell'architettura funeraria dell'antico Egitto, puntualmente realizzata con modeste e poco significative varianti nel corso della lunga storia del Paese. La tomba viene infatti pensata e progettata secondo tre moduli: la sovrastruttura che la rende visibile all'esterno e costituisce eventualmente il luogo in cui venivano deposte le offerte; la camera funeraria, destinata a contenere il sarcofago con il suo corredo funerario; un elemento di raccordo tra i due, generalmente un pozzo. La piramide non è altro che la parte visibile sul terreno, la sovrastruttura appunto, delle tombe regali: questa sua particolare funzionalità tiene insieme tali costruzioni a prescindere dall'epoca in cui sono state progettate e costruite; le differenze, che pure sono numerose e anche notevoli, non appaiono altro che come varianti interne al modulo in cui esse si sviluppano. Ciò rappresenta indubbiamente un elemento di continuità per l'intero millennio in cui sono state in uso; ma nel contempo esse sono state sapientemente sfruttate dagli architetti egiziani per tradurre in forme visibili l'ideologia della sovranità di diritto divino.
Il passaggio dalla piramide a gradoni a quella perfetta ha anche un grande valore per la storia dell'arte egiziana. La piramide progettata e costruita da Imhotep nasce anzitutto da una diretta esperienza di cantiere e non è stata pensata secondo un canone astratto. Le ricerche sulle fasi della sua costruzione hanno dimostrato che Imhotep era partito da una sovrastruttura a maṣṭaba, proprio come era accaduto per le sepolture dei sovrani delle prime due dinastie, e ha successivamente modificato per sei volte il progetto iniziale per giungere infine al risultato che tutti conosciamo. La piramide di Djoser è dunque il frutto di un pensiero che va progressivamente maturando sul terreno: l'esperienza del cantiere ha fatto sì che Imhotep, nel suo genio immenso, abbia "visto" nascere la sovrastruttura della tomba del suo re all'interno del paesaggio che la circondava, inserendosi progressivamente in esso con un irresistibile moto ascensionale verso il cielo, la meta a cui era diretto il re defunto. Alla base della piramide a gradoni sta probabilmente un'idea semplice, quella della scala verso il cielo stellato, come del resto i Testi delle Piramidi sembrano confermare in uno dei percorsi che ipotizzano sul destino del sovrano dopo la morte; vi è in essa comunque una risposta che si può definire "sentimentale" al grande mistero della morte del dio che aveva governato l'Egitto.
Ben diverso è il discorso delle piramidi perfette che si impongono subito dopo e che diventano la forma definitiva destinata a durare fino alla XII Dinastia, all'inizio del II millennio a.C. Non c'è dubbio che nel passaggio dalla III alla IV Dinastia giunga a compimento una profonda trasformazione: la piramide a spigoli vivi, a differenza di quella progettata da Imhotep, respinge lo spazio circostante; è una forma chiusa perfettamente razionale e come tale s'impone sul caos rappresentato dal deserto su cui sorge. Da un punto di vista ideologico essa coincide con l'affermarsi definitivo della regalità di diritto divino e forse anche con il progressivo imporsi di una concezione solare della figura del sovrano, se è vero come molti ritengono che essa in realtà traduce in dimensioni gigantesche il pyramidion con cui terminano gli obelischi che, come noto, sono simboli solari, residui di un antichissimo culto delle pietre. Sulla cima della piramide va visto il Sole al suo culminare: e questo è il segno a tutti visibile della regalità. Non si può negare che questo sia il significato più profondo e immediatamente comprensibile delle gigantesche costruzioni, un modo per trasmettere a tutti gli Egiziani, anche e soprattutto a quelli che stavano al di fuori del ristrettissimo ceto dominante, l'ideologia del potere. Mentre in quest'epoca la scrittura è un privilegio esclusivo che non raggiunge, secondo calcoli recenti, se non l'1% della popolazione egiziana ‒ stimata per il III millennio a.C. a non più di 1.500.000 di persone ‒, i grandi edifici quali le piramidi sono a tutti visibili e come tali sono in grado di trasmettere un messaggio che rimarrebbe altrimenti confinato a un gruppo assai circoscritto.
Tale ricchezza di significati religiosi, ideologici e quindi politici, che si racchiudeva nelle piramidi, spiega anche in parte il ruolo di straordinaria importanza che hanno assunto nella società egiziana gli architetti che hanno progettato e di fatto realizzato tali edifici. Di Imhotep si è già detto: la pluralità dei suoi interessi ne ha fatto per l'antico Egitto la figura del ktistes, dell'iniziatore per eccellenza; ma i suoi successori, anche nei millenni successivi quando le piramidi non venivano più costruite, hanno avuto un destino non diverso. Nel III millennio gli architetti erano personaggi al vertice della società, spesso imparentati con i sovrani regnanti e comunque dotati di un potere molto grande, sia per l'enorme quantità di risorse economiche di cui potevano disporre sia per il ruolo delicatissimo che svolgevano nella trasmissione dell'ideologia del potere. Per avere un'idea precisa della loro importanza, che per certi aspetti è paragonabile a quella di un moderno ministro dei lavori pubblici, basterà ricordare che la costruzione dei complessi funerari dei sovrani, di cui le piramidi costituivano comunque il centro ideale, richiedeva la mobilitazione permanente di almeno un terzo dell'intera forza-lavoro del Paese. Il dato che ci è stato tramandato da Erodoto, di 100.000 operai (non certo schiavi, malgrado le parole dello storico greco) impiegati per trent'anni nella costruzione della piramide di Cheope (ca. 2579-2556 a.C.), corrisponde probabilmente molto da vicino a quella che deve essere stata la realtà dei fatti. Se si moltiplica tale indicazione per tutte le piramidi che sono state costruite tra la III e la XII Dinastia, con il solo intervallo costituito dal Primo Periodo Intermedio, ci si rende facilmente conto dell'enorme impiego di risorse che ha richiesto per quasi un millennio la costruzione delle sepolture dei sovrani; a esse andranno aggiunte quelle dei componenti della famiglia reale e dei grandi funzionari, per i quali il dono della tomba significava la garanzia di seguire il destino del re nell'aldilà ed era quindi un ambito privilegio sociale.
È quindi evidente che si trattava di una scelta ben precisa compiuta dal ceto dirigente, anzi di uno degli assi portanti non solo dell'economia ma di tutta la struttura sociale dell'Antico Regno: gli stessi Egiziani dei secoli e dei millenni seguenti ne avevano una precisa coscienza quando collocavano in tale periodo storico la loro "età dell'oro" e la loro "classicità", perpetuando con puntigliosa dedizione il culto dei sovrani che ne erano stati i protagonisti. La stessa ripresa delle piramidi nella XII Dinastia (1976-1794/3 a.C.) deve essere considerata come la manifestazione della volontà di ricollegarsi a un passato, relativamente recente, di cui si sentiva ancora tutto il prestigio e le cui concezioni relative alla regalità meritavano di essere riprese e poste al centro della ricostruzione dello Stato. Sarà soltanto dopo la fine del Secondo Periodo Intermedio (1794/3-1550 a.C.), all'inizio del Nuovo Regno (1550-1070/69 a.C.), che una concezione della regalità profondamente mutata porterà a un nuovo rituale del seppellimento del sovrano e quindi a strutture architettoniche completamente diverse da quelle del III millennio a.C.
Concezione dell'arte - Se gli architetti svolsero un ruolo da protagonisti in tale processo storico non altrettanto si può dire per gli artisti che si esprimevano nelle arti figurative, il cui peso sociale appare molto diverso e incomparabilmente più modesto. È stato più volte osservato che le due caratteristiche più rilevanti dell'arte egiziana, non solo nell'Antico Regno ma in tutta la sua lunga storia, sono state l'anonimia e il suo presentarsi come lavoro collettivo, ciò che, parlando in termini generali, la rende profondamente diversa dalla nostra concezione sul ruolo degli artisti e sul significato più profondo del loro lavoro, che derivano manifestamente dalla storia dell'arte greca. Il primo elemento, l'anonimia, non sta solo nel fatto superficiale e tutto sommato secondario che le opere d'arte che ci sono giunte dall'antico Egitto, sculture e pitture, non sono firmate: la cosa più importante è che comunque esse non erano viste come frutto della personalità di un determinato artista, di un "maestro" al cui mondo interiore, alla cui visione della vita potessero farsi risalire. Tra colui che aveva scolpito o dipinto un'opera d'arte e il risultato del suo lavoro non vi era alcun legame se non quello costituito dalla sua perizia tecnica; e infatti i pochi testi espliciti sull'argomento insistono soprattutto su questo, cioè sull'abilità manuale e artigianale. Questo spiega molto bene la modesta, spesso modestissima, posizione sociale di scultori e pittori, di cui conosciamo nomi e genealogie ma sempre totalmente disancorati dalle loro opere, a cui possiamo ricollegarli solo per casi accidentali, quali il fatto che i loro nomi sono scritti sulle stele o sulle pareti di tombe (che è ragionevole ritenere siano state da loro stessi scolpite o decorate). Tutto ciò non vuol dire affatto che pittori e scultori non venissero ricercati dai sovrani e adeguatamente ricompensati rispetto al resto della mano d'opera: abbiamo anzi prova del contrario. Ma questo non faceva uscire gli artisti dalla modestia del loro stato sociale, non li faceva ricchi, forse, e sicuramente non li faceva entrare nel ceto dirigente del Paese: erano e restavano artigiani.
Tale situazione porta alla seconda delle caratteristiche sopra indicate, quella secondo cui ogni opera d'arte in Egitto è pur sempre frutto di un lavoro collettivo. Ciò va inteso in primo luogo in senso tecnico, perché le sculture e le pitture sono frutto di un lavoro di squadra, sì che in realtà neppure da un punto di vista materiale noi sapremmo attribuirle a un maestro in quanto vi sono intervenute molte mani diverse. Vi sono, nelle scene scolpite o dipinte sulle pareti delle tombe, raffigurazioni dell'interno di ateliers di artisti che mostrano, ad esempio, l'attività di scultori in cui si vede molto bene come a una medesima statua lavorassero più persone, in un numero variabile a seconda delle dimensioni che essa raggiungeva. L'opera era di tutti e di nessuno: e non vi è alcuna prova che in certi periodi della storia egiziana, nemmeno nei più innovativi, le cose siano andate in maniera diversa. Ma soprattutto collettiva è l'idea, se si preferisce l'ideologia, che è dietro alle singole opere e che non appartiene agli artisti, ma è frutto delle concezioni e della visione del mondo del ceto dirigente e in ultima analisi della corte: non si può nemmeno concepire, in tutta la lunga storia dell'antico Egitto, che vi siano state sculture, pitture, opere delle "arti minori" che non siano state preventivamente approvate dalla corte e più specificamente, nei casi più importanti, dallo stesso sovrano. È questi, in definitiva, non solo l'unico committente dell'arte egiziana ma anche l'ispiratore di essa: e siccome il sovrano è a sua volta espressione del gruppo dirigente del Paese, è evidente che l'arte egiziana riflette una visione del mondo collettiva e quindi sostanzialmente unitaria, sia che venga considerata per grandi epoche che nel suo sviluppo ultramillenario.
Questa è anche la ragione per cui l'arte egiziana dà l'impressione di una sostanziale continuità nel tempo, con mutamenti che rimangono per lo più scarsamente avvertibili: ciò è il riflesso di una uguale continuità di strutture economiche, politiche e sociali. In tale processo lineare vi sono naturalmente fratture anche piuttosto evidenti e riprese dopo ogni frattura: ma il prestigio del passato e la saldezza delle strutture statuali hanno sempre permesso il riassorbimento delle tendenze centrifughe, anche nel caso della crisi più grave di tutte, quella di Amarna, durante la quale alla "rivoluzione" condotta da Akhenaten (1351-1334 a.C.) corrispose l'affermarsi di un altrettanto rivoluzionario linguaggio figurativo, prontamente ricondotto alla norma nel corso di poche generazioni già durante il regno di Ramesse II (1279-1213 a.C.).
L'Antico Regno dimostra come tutto ciò non fosse in contraddizione con la possibilità degli artisti di creare, all'interno di tali concezioni che a noi sembrano la negazione dall'arte, opere di grande valore: la IV Dinastia soprattutto è stata un'epoca di inesausta creatività, per la capacità degli artisti di farsi interpreti delle concezioni che venivano dalla corte e a cui aderivano con sincero entusiasmo, al punto da farsene interpreti in quello stato di perenne mobilitazione a cui si è fatto cenno più sopra. Naturalmente non è stato sempre così e con il passare del tempo lo scemare della tensione ha portato a risultati di minore valore: già nella V Dinastia (ca. 2479-2322 a.C.), in un momento di temporanea crisi politica, la creatività sembra spegnersi con l'affermarsi di quella che potremmo chiamare una forma di manierismo, improntato ai capolavori della IV Dinastia ma tuttavia privo dello slancio creativo che li aveva ispirati; e tale rimarrà l'arte egiziana fino alla caduta dell'Antico Regno.
Architettura e arte funeraria - È l'architettura funeraria che comunque dà la maggiore visibilità a quest'epoca: le piramidi si dispongono in una fila continua lunga decine di chilometri che da Abu Roash giunge fino a Meidum, passando attraverso Giza, Saqqara e Dahshur: si tratta in realtà di un'unica immensa necropoli in cui l'unità archeologica è solo il riflesso di una forte unità ideologica, che giustifica per un altro aspetto il forte conservatorismo delle strutture architettoniche. Le eccezioni sono poche: nel complesso archeologico di Giza si segnala soprattutto la cosiddetta Sfinge, un'enorme statua intagliata in una collina di calcare, residuo di lavorazione di una cava a cielo aperto, che raffigura un leone accovacciato con il volto del faraone Chefren (ca. 2547-2521 a.C.), qui certo con la specifica funzione di divinità protettrice della necropoli regale e in seguito reinterpretato come Harmakhis, "Horo dell'orizzonte"; monumento che, almeno in questa forma e in tali gigantesche dimensioni, è privo di paralleli in Egitto e testimonia di un'età di fervida creatività, pronta a sfruttare ogni occasione per proporre ardite interpretazioni della figura del sovrano.
Notevole è anche la cosiddetta Mastabet el-Faraun (che in arabo significa "la maṣṭaba del faraone") che si trova a Saqqara sud e che sperimenta un'inedita struttura per la tomba del sovrano Shepseskaf (ca. 2486-2479 a.C.) della IV Dinastia: un enorme sarcofago di pietra a cui si accede tramite un piano inclinato, ben presto abbandonato per la ormai tradizionale piramide. La Mastabet el-Faraun testimonia comunque il fatto importante che durante la piena IV Dinastia gli architetti non avevano rinunciato alla possibilità di progettare altre soluzioni, che prendessero il posto della piramide, e che quindi questa non era ancora del tutto una forma canonica: ignoriamo però le ragioni per cui tale esperimento sia stato realizzato e subito abbandonato per ritornare nel solco della tradizione. A partire dal regno di Micerino (ca. 2514-2486 a.C.), faraone della IV Dinastia, le dimensioni e anche la qualità dei materiali impiegati nelle tombe regali risultano sensibilmente inferiori, un fatto che può essere variamente interpretato ma che è comunque segno di una mutata situazione economica e forse anche di una minore tensione ideologica verso la persona del sovrano. Tra i templi dei complessi piramidali l'unico ben conservato è quello della piramide di Chefren, costruito con possenti blocchi di granito grigio e rosa.
Con la V Dinastia si assiste allo spostamento dell'asse politico del Paese da Menfi a Heliopolis. I primi tre sovrani della V Dinastia sono infatti i sommi sacerdoti del tempio del dio Ra a Heliopolis; il fatto è confermato da una esplicita testimonianza in un più tardo testo letterario, i Racconti conservati dal Papiro Westcar: ad Abu Sir, tra Giza e Saqqara, sorgono le piramidi dei sovrani di quest'epoca nel pieno rispetto della tradizione menfita, ma ivi si trovano anche i loro templi solari, che riflettono invece una diversa concezione religiosa nel tempio a cielo aperto al cui centro è posto un obelisco, simbolo solare, di fronte al quale si trova un altare per le offerte. Per quanto riguarda le sepolture dei privati si assiste al consolidarsi della tradizione già fortemente sviluppata in età thinita della tomba a maṣṭaba. Si definisce ora con grande chiarezza, anche in rapporto alle tombe private, lo schema modulare della tomba egiziana che è stato descritto più sopra. Le maṣṭaba vengono disposte in necropoli ben ordinate, molto simili a città dalla pianta regolare, che si sviluppano intorno alle piramidi del sovrano presso cui i funzionari che vi erano sepolti avevano prestato servizio, residuo simbolico del rito della messa a morte dei funzionari e affermazione a un tempo del fatto che essi comunque avrebbero seguito il re nel suo destino ultraterreno: all'interno delle tombe, che presentano talvolta una planimetria molto complessa e dimensioni assai considerevoli, si sviluppa una decorazione con scene incise e dipinte sulle pareti della sovrastruttura. I temi che vengono illustrati in tale decorazione sono quelli relativi alla vita quotidiana del defunto e dei suoi famigliari, che in realtà ne sono i veri protagonisti, raffigurati in contesti e in situazioni diverse, spesso accompagnati dai loro dipendenti: artigiani, manovali, servitori addetti alle più varie mansioni, ma anche scribi e amministratori.
I testi che accompagnano tali scene, spesso tra le più vive dell'arte dell'Antico Regno ‒ animate come sono da una straordinaria capacità di cogliere la natura nell'infinita varietà dei suoi aspetti, con l'occhio attento del contadino che la conosce e che l'ama ‒, si limitano per lo più a brevi didascalie contenenti i nomi dei personaggi raffigurati, i loro titoli e poco altro: vi sono importanti eccezioni nel senso che dal semplice elenco dei titoli, relativi alle cariche ricoperte in vita dai funzionari, in alcuni casi si passa ad autobiografie elementari che permettono di farsi un'idea molto chiara e ricca di particolari sulle strutture amministrative dello Stato durante il III millennio a.C., fino a giungere a racconti molto estesi; tali sono quelli contenuti nelle tombe di funzionari di alto rango come Uni e Herkhuf della VI Dinastia (ca. 2322-2191 a.C.), che contengono un'ampia narrazione di fatti storici di cui essi sono stati protagonisti durante la loro vita "pubblica" e che possono vantare anche un notevole valore dal punto di vista letterario, sì che a buon diritto possono entrare in ogni storia della letteratura egiziana. In ogni caso la decorazione delle tombe e gli stessi testi che esse racchiudono non hanno alcun valore commemorativo, ma rientrano interamente nell'ambito dell'ideologia funeraria.
Secondo le concezioni del III millennio la decorazione della tomba ha soprattutto la funzione di ricreare nell'aldilà le stesse condizioni di cui il titolare e la sua famiglia potevano usufruire in questo mondo: le scene scolpite e dipinte sulle pareti e le iscrizioni che le circondano si sarebbero animate per forza di magia e avrebbero con ciò restituito al defunto quanto egli nel passaggio da questo mondo all'aldilà aveva perduto. I suoi svaghi, in primo luogo la caccia e la pesca, le sue incombenze di alto funzionario circondato da uno stuolo di collaboratori e di impiegati, i suoi servitori e infine la sua famiglia avrebbero ripreso la loro esistenza uscendo dalle sculture che li raffiguravano bloccati in un istante della loro vita terrena. All'interno della tomba erano custodite anche le statue dei defunti che vi erano sepolti. La loro tipologia si ispirava sì alla statuaria regale coeva, ma se ne differenziava in taluni particolari e anche mediante la creazione di tipologie nuove, come, ad esempio, quella della statua-scriba, destinata ad avere una grande fortuna e che certamente non poteva applicarsi alla persona del sovrano. Questo periodo è sicuramente il più fecondo dell'arte egiziana: gli artisti appaiono animati da un'inesausta creatività che dà segni di cedimento solo verso la fine della V e un po' per tutta la VI Dinastia, quando scadrà spesso in quel manierismo a cui si è accennato sopra. Va tuttavia osservato che tutta la statuaria privata è di carattere funerario: nasce per la tomba ed è destinata a "vivere" all'interno di essa.
Tale idea va intesa in senso letterale: per le concezioni egiziane del III millennio la statua non si limita a raffigurare una o più persone (come accade nel caso delle coppie di coniugi) ma coincide con essa o con esse, è colui o coloro che rappresenta, in un processo di totale identificazione che troverà la sua completa realizzazione solo nell'ambito del corredo funerario, quando la scultura cesserà di essere una mera potenzialità come accade finché il personaggio è in vita e si animerà magicamente nell'aldilà. Tale funzionalità della statuaria, di essere e non di raffigurare le persone (ma discorso non diverso potrebbe farsi per le effigi dei sovrani e anche delle divinità, specialmente per le statue del culto), rimane un dato costante nella storia della civiltà egiziana e costituisce anzi la chiave interpretativa senza la quale non è possibile giungere a una vera comprensione delle arti figurative. Essa si collega con la concezione, già enunciata sopra, dell'attività dell'artista come sostanzialmente identica a quella della creazione divina: ciò varrà anche quando a partire dal Medio Regno si affermerà una nuova tipologia nella scultura a tutto tondo, quella delle statue templari deposte come ex voto nei cortili dei templi dedicati alle divinità, che raffigurano personaggi ancora in vita e sono quindi assolutamente prive di valore funerario. Anche in questa nuova tipologia, che avrà una grande fortuna e durerà fino alla tarda età romana (come dimostrano le statue ritrovate nel tempio di Soknopaiou Nesos e che a tale epoca risalgono) la funzione della statua non cambia: essa non raffigura affatto il personaggio che offre l'ex voto ma coincide con lui, sì che è la persona stessa, non una sua effigie, che si trova di fronte al dio che "abita" nel tempio.
L'arte e l'architettura dell'Antico Regno si presentano come un tipico frutto della cultura elaborata dalla corte e per la corte: fuori dell'ambiente menfita si trova ben poco e in ogni caso si tratta di lontani riflessi della produzione "curiale". È questo il caso delle piccole piramidi a gradoni, forse databili alla III Dinastia, diffuse un po' ovunque nel Paese, dal Fayyum (Seila) al Medio Egitto (Zawiyet el-Mayetin) fino al più lontano Sud (Elefantina), e che avevano probabilmente lo scopo di riaffermare la presenza del sovrano fuori dell'ambiente menfita con un monumento che ne richiamasse immediatamente la figura. Vi è poi una serie di necropoli variamente distribuite e destinate a servire da sepoltura dei funzionari provinciali, tra le quali va ricordata quella di Abido, dove venne sepolto il "viceré" Uni della VI Dinastia, o quella di Qubbet el-Hawa, presso Assuan, dove si trova la tomba del "capo carovaniere" Herkhuf, l'uno e l'altro testimoniati in due importanti autobiografie ideali.
Storia e storiografia: la Pietra di Palermo - La nostra conoscenza della civiltà egiziana come è stata elaborata durante il III millennio a.C., e in particolare tra la III e la VI Dinastia, si fonda essenzialmente sugli innumerevoli documenti che trovano posto più in una storia dell'arte che nella storia politica, economica e sociale. Scrivere una storia evenemenziale per il III millennio è un'impresa pressoché disperata per la mancanza quasi totale di documenti: e anche le strutture economiche e sociali del Paese si possono ricavare più da indizi che non da prove e documenti espliciti. Ciò malgrado possediamo l'intelaiatura generale dei 500 e più anni di storia dell'Antico Regno: i nomi dei sovrani, le durate dei regni, il loro disporsi nella griglia delle dinastie di ascendenza manetoniana costituiscono punti fermi di notevole solidità anche se, giova ricordarlo, in termini di cronologia assoluta il margine di errore è ancora molto ampio. E tuttavia la grande quantità di documenti contemporanei con nomi di sovrani ci permette da un lato di verificare ed eventualmente correggere i dati che possiamo ricavare da Manetone e dall'altro di colmare le lacune che derivano dallo stato in cui i nomi ci sono giunti, attraverso le trascrizioni in greco e i fraintendimenti degli epitomatori bizantini che spesso li hanno resi irriconoscibili.
Nella fase finale dell'Antico Regno, e più precisamente nella V Dinastia (ca. 2479-2322 a.C.), fa la sua comparsa la più antica lista regale che ci sia giunta dall'antico Egitto, la cosiddetta Pietra di Palermo, che pure nello stato disperato in cui la conosciamo (si tratta di un piccolo frammento di un documento epigrafico di dimensioni molto maggiori) è per noi preziosissima: non tanto per i dati che ci ha conservato, che sono davvero pochi, ma per quanto ci suggerisce sulla nascita, se non della storiografia in senso proprio, almeno di un'annalistica egiziana antica. Sulla Pietra, della quale non conosciamo la provenienza né i percorsi e il momento dell'arrivo in Italia (dati che permetterebbero forse di individuarne il luogo di ritrovamento che secondo i più va ricercato nell'ambiente eliopolitano), sono ordinatamente disposti i nomi dei sovrani dal periodo predinastico (il che corrisponderebbe all'elenco degli "dei e semidei" di Manetone) fino almeno al terzo sovrano della V Dinastia. Al di sotto del nome e del matronimico, in caselle delimitate dal geroglifico per "anno", sono elencati gli avvenimenti più importanti che si erano verificati in tale periodo di tempo quali le feste religiose, la fondazione di templi, ecc. ‒ eventi tutti di assai modesto interesse per noi ‒ e, immancabile, il livello della piena del Nilo, il dato evidentemente più importante per le sue ovvie ripercussioni sul raccolto e quindi sull'economia del Paese. Non sappiamo se di questo importantissimo testo esistessero redazioni precedenti alla V Dinastia e se quindi quella di cui possediamo solo un frammento ‒ altri se ne sono aggiunti in seguito, di discussa autenticità ‒ sia solo una di una serie più o meno lunga. Possiamo però riconoscere nella Pietra di Palermo l'utilizzazione delle placchette annuali, le più antiche delle quali risalgono almeno al regno di Narmer. Inoltre sappiamo altrettanto bene, grazie a una impronta di sigillo che risale alla I Dinastia, come fin da allora esistessero elenchi aggiornati dei sovrani che avevano regnato sul Paese, sicuramente fin dal momento della sua unificazione. Dobbiamo perciò pensare che esistessero negli archivi egiziani elenchi parziali e continuamente aggiornati di sovrani, i quali venivano compilati utilizzando le placchette annuali che avevano un carattere altamente ufficiale come sistema di datazione e che proprio per questo venivano accuratamente e ordinatamente conservate. In un momento imprecisabile, forse nella III Dinastia all'inizio della quale, come si è visto, vi è stata una grande svolta "culturale" nella storia del Paese, tali tipi di documenti sono stati riversati in registrazioni di cui la Pietra di Palermo è l'erede, in cui i dati annalistici si collocano in un contesto che ormai si può definire storiografico.
Pochi anni or sono è stata scoperta, in una lastra di pietra usata come reimpiego per un sarcofago regale femminile, una seconda lista destinata a contenere, secondo le medesime modalità della precedente, l'elenco dei sovrani della VI Dinastia con gli avvenimenti a loro rapportabili, anch'essi ordinatamente elencati in caselle delimitate dal segno per "anno", proprio come nella precedente a tutti nota. Tale importante rinvenimento ci ha confermato che la Pietra di Palermo ha avuto prosecuzioni sotto forma di aggiornamenti, per così dire, e che potevano esistere forse anche in periodi precedenti liste di portata più ridotta, limitata, ad esempio, a una sola dinastia. Ma gli eventi che possiamo attribuire ai sovrani dell'Antico Regno restano comunque pochissimi. Il più importante di tutti, lo spostamento dell'asse politico da Menfi a Heliopolis che si fa risalire alla V Dinastia, può essere descritto solo per l'improvviso apparire dei templi solari all'inizio di tale periodo storico e trova conferma in un racconto mitologico di epoca assai posteriore in cui si afferma che i primi tre sovrani della V Dinastia erano fratelli ed erano nati dall'unione del dio Ra, il principale dio di Heliopolis, con una donna mortale; i loro nomi, di limpida coloratura solare, ne confermano del resto il legame con l'ambiente eliopolitano.
Per il resto la fonte storica più importante e più esplicita è costituita dall'autobiografia di Uni ‒ che durante la VI Dinastia ricoprì la carica di "viceré del Sud", carica che lo collocava nella gerarchia politico-amministrativa dello Stato al secondo posto dopo il sovrano ‒ che a noi appare come un sintomo della crisi che ormai serpeggiava nel Paese e si rendeva visibile nell'impossibilità per la corte di tenere sotto controllo l'intero territorio egiziano. Nella sua ampia autobiografia Uni parla essenzialmente di se stesso, ma nel descrivere la sua irresistibile ascesa verso i vertici dello Stato, che si è venuta realizzando passo passo sotto tre diversi sovrani, da un lato non può fare a meno di descriverci in un suggestivo spaccato l'intera struttura amministrativa dello Stato (partendo dal primo gradino, che per lui fu quello di capo-magazziniere, per giungere fino al vertice) e dall'altro di narrare alcuni eventi di cui è stato egli stesso il protagonista. Tra di essi merita di essere ricordato il processo segreto a cui partecipò in qualità di "giudice unico" contro la grande sposa regale, cioè la regina in carica; dopo questo evento, rimasto memorabile per la sua carriera, Uni narra con abbondanza di particolari le sue imprese militari: come comandante dell'esercito, carica che comprendeva anche l'arruolamento e l'apprestamento di quest'ultimo, egli guidò infatti una serie di campagne probabilmente nel Sinai, giungendo forse fino al Carmelo, per battere, come egli dice, "coloro che stanno sulla sabbia" e cioè i beduini seminomadi che periodicamente minavano la sicurezza dei confini orientali del Paese. Meno importante a questo proposito appare l'autobiografia di Herkhuf, per quanto essa ci consenta di gettare uno sguardo sui traffici internazionali dell'Egitto, diretti a procurare al ceto dirigente del Paese una serie di prodotti di lusso. Va sottolineato infine come tanto Uni quanto Herkhuf non siano stati sepolti accanto alla piramide dei loro signori, ma lontano dalla corte, rispettivamente ad Abido e ad Assuan: chiara dimostrazione questa dell'allentarsi dei legami con la corte menfita anche di coloro che erano del resto fedelissimi collaboratori del re.
Crisi e rivolgimenti sociali - L'insieme di valori sui quali si fondava l'Antico Regno comincia a dare segni di cedimento già verso la metà della VI Dinastia, per entrare definitivamente in crisi nel periodo immediatamente successivo (la VII Din. è fittizia e perciò non se ne deve tenere conto nella ricostruzione degli eventi). La struttura monolitica dello Stato e della società egiziana viene sconvolta, se non proprio travolta, per ragioni che non sono state fino a oggi ben chiarite: si è pensato soprattutto a un mutamento del clima che avrebbe profondamente cambiato la produttività dell'agricoltura e avrebbe costretto a riscrivere, se così si può dire, le regole di un'economia che, fondata com'era sulla ridistribuzione delle risorse incamerate dallo Stato, risentiva delle crisi legate alle mancate piene del Nilo, fattore "principe" di carestia, a tutti i livelli della scala sociale. Tale spiegazione ‒ che pecca forse di determinismo ma che sembra trovare conferma negli studi paleoclimatici ‒ renderebbe conto del distacco del Sud, tradizionalmente più povero del Nord, con la ricerca di un nuovo equilibrio all'interno delle Due Terre, con gli ovvi contraccolpi sulla struttura sociale che resta sempre ancorata alle grandi proprietà terriere, nelle quali però i ceti subalterni sono assai più vicini ai loro signori e sono quindi destinati a contare di più rispetto al rigido accentramento menfita. In tal modo l'unità del Paese viene spezzata e l'assetto sociale dell'Antico Regno viene messo in discussione. Va tuttavia detto che di queste vicende riusciamo solo a scorgere gli esiti finali: da un lato alla centralità della monarchia menfita si sostituisce ora una pluralità di centri di potere "provinciali", dall'altro pare evidente che alla classe dominante dell'Antico Regno subentri una "borghesia" non ben definibile nei particolari, che fa propri molti dei privilegi fino ad allora riservati alla vecchia aristocrazia, anche dal punto di vista religioso e funerario; questo avviene con la cosiddetta "democratizzazione dell'aldilà", con cui la sopravvivenza dopo la morte non è più il privilegio di un ristretto numero di funzionari ma viene "estesa" a ogni essere umano.
Ciò si verifica non senza traumi, se dobbiamo credere a un testo letterario come le Lamentazioni di Ipu-ur, che ci mostra un Egitto devastato da una rivoluzione di carattere sociale: ma le ricerche più recenti hanno dimostrato che esso è probabilmente da datare a un altro momento di crisi interna del Paese, da ricercarsi durante il Secondo Periodo Intermedio (1794/3-1550 a.C.), alcune centinaia d'anni dopo. Resta tuttavia il fatto che questo testo ‒ che nella finzione letteraria riproduce le lamentazioni di un esponente dell'ancien régime, che non sa o non vuole adattarsi ai mutamenti spesso drammatici che si sono verificati in un Paese che non riconosce più ‒ può riferirsi molto bene anche a quello che deve essere accaduto in Egitto alla fine della VI Dinastia. Non sappiamo se vi sia stato il "bagno di sangue" che taluni studiosi ipotizzano, o se il processo di transizione sia avvenuto in forme meno traumatiche: ma la rottura, anche drastica, con il passato, vi è stata certamente.
È questo il Primo Periodo Intermedio (ca. 2191-2119 a.C.), in cui in sostanza il Paese ritorna alle condizioni politiche anteriori al raggiungimento dell'unità. Si è trattato di un fenomeno di lunga durata, circa 200 anni contando anche la parte finale della VI Dinastia quando la crisi era già in atto, che ha esaltato forze fino ad allora latenti nella società egiziana: da un lato la "provincia" rispetto alla capitale e alla corte, dall'altro una diversa sensibilità di fronte a grandi problemi di carattere religioso, con la nascita della coscienza individuale e di una ricca gerarchia di valori morali e culturali.
Nella storiografia moderna tale periodo storico è stato indicato a lungo, e in parte ancora viene designato, come "età feudale". A parte l'ovvio anacronismo che si può anche accettare in mancanza di meglio, soprattutto per mettere in evidenza il prevalere dei centri provinciali rispetto al centralismo dell'età menfita, tale terminologia è gravemente fuorviante perché sembra dimenticare che lo Stato feudale in Europa è una forma di organizzazione che si contrappone a quello che si era venuto definendo secondo il diritto pubblico romano: lo Stato feudale è concepito in termini privatistici, non un "non Stato", uno Stato che si è dissolto. Durante il Primo Periodo Intermedio quello che accade è invece un evento completamente diverso e anzi per certi aspetti opposto: lo Stato come si era venuto organizzando in Egitto a partire dall'unificazione, fondato su un rigido accentramento delle strutture amministrative che doveva corrispondere all'accentramento economico e alla disponibilità delle risorse (che almeno in teoria erano proprietà privata del sovrano), viene meno e non dà luogo a una forma statale a esso alternativa, tanto meno a una di tipo feudale.
Un altro punto in cui la storiografia moderna non può essere seguita è il considerare il Primo Periodo Intermedio come una specie di parentesi nella storia dell'Egitto antico, che si colloca tra l'Antico e il Medio Regno: parentesi di crisi anche grave e in certi suoi esiti, come quelli religiosi, duratura nelle conseguenze, ma comunque una parentesi destinata a chiudersi, sì che la vita del Paese dopo di essa sia tornata a fluire secondo i ritmi ben collaudati dell'Antico Regno; o, se si preferisce adottare una terminologia più aggiornata, un momento di discontinuità in un processo storico di lunghissima durata, caratterizzato da una sostanziale continuità. La "teoria della parentesi", se così si può chiamare, pecca essenzialmente nel fatto che il Primo Periodo Intermedio ha coperto un lasso di tempo molto lungo ed è ben difficile considerare duecento anni una parentesi, anche per un Paese come l'Egitto che vanta almeno 3500 anni di storia documentata: in realtà dopo la crisi violenta che ha posto fine all'Antico Regno la rottura dell'unità dello Stato ha significato l'affermarsi di concezioni completamente diverse. Il ceto dirigente, forse soprattutto del Sud, ha sperimentato un tipo di organizzazione alternativa all'accentramento del III millennio a.C., considerando chiusa l'esperienza unitaria e sostituendola con due stati regionali, proprio come era accaduto nel tardo periodo predinastico. Non si è trattato di una esperienza breve e prontamente riassorbita dalla concezione unitaria dello Stato se è durata così a lungo, ma un modo alternativo di risolvere i problemi del Paese che le strutture precedenti non permettevano più di affrontare in modo adeguato. Vero è che il Primo Periodo Intermedio non ha lasciato praticamente traccia nelle fonti egiziane, che lo ignorano semplicemente: ma questo si spiega molto bene se si pensa che la storiografia egiziana ufficiale non parla mai in modo esplicito della propria storia interna, limitandosi per lo più a esprimersi attraverso le liste regali, nelle quali vengono selezionati accuratamente i re considerati "legittimi", e che inoltre essa riflette comunque, in quest'ottica, la visione ufficiale dei fatti di periodi storici in cui l'unità dello Stato era un dato di fatto che nessuno metteva in discussione. Tutto ciò deve indurre a considerare il Primo Periodo Intermedio non solo dal punto di vista negativo del passaggio indubbiamente critico da uno Stato fortemente e sapientemente organizzato verso un nuovo equilibrio che era tutto da progettare, ma nel positivo di ciò che nel corso dei suoi 200 anni è stato elaborato.
Novità nell'arte - Questo processo è ben testimoniato dal punto di vista archeologico, con l'apparire di nuovi programmi decorativi in alcune necropoli provinciali, come quelle di Beni Hasan e di Assiut in Medio Egitto e quella di Gebelein in Alto Egitto, nelle quali vengono sepolti principi locali o loro funzionari di alto rango. Qui, accanto a temi tradizionali legati alle offerte funerarie, appaiono ora motivi nuovi, come quelli relativi a combattimenti o a scene di lotta "sportiva": accanto a questi, frequenti sono il tema del pellegrinaggio fluviale verso la città santa di Abido o le scene in cui vengono raffigurati stranieri che portano le loro merci in Egitto e che vengono colti nelle particolarità delle loro acconciature: segno questo, tra gli altri, di aperture verso aree geografiche prima del tutto assenti dai temi figurativi dell'arte menfita. Le novità maggiori stanno però piuttosto nel linguaggio artistico che ora viene impiegato, ben lontano dall'arte "aulica" del periodo precedente, più libero e frutto di una diversa sensibilità.
Anche dal punto di vista architettonico vi sono novità piuttosto considerevoli, perché le sovrastrutture delle tombe presentano talvolta novità importanti come succede a Beni Hasan, dove le tombe sono scavate nella catena di basse colline calcaree che si trovano sulla riva destra del Nilo e quindi presentano un ingresso verso occidente invece che verso est, come voleva il rituale tradizionale; ciò costrinse gli architetti a inserire a destra dell'ingresso una stele funeraria rivolta verso oriente per ripristinare, per forza di magia, l'orientamento canonico. Ma la loro sovrastruttura presenta novità ancora più importanti, con la presenza in facciata di colonne definite "protodoriche" per la superficiale somiglianza con l'ordine dorico dell'architettura greca, che conferiscono all'insieme i caratteri di un autonomo linguaggio, pur all'interno di un sostanziale rispetto delle strutture funerarie del Paese. Anche qui si può verificare l'affermarsi di un'arte non di corte, espressione della volontà di emergere dei centri del potere politico provinciale.
Letteratura - Accanto alle testimonianze archeologiche si pongono quelle letterarie, che concorrono a completare un quadro complessivamente coerente, per quanto variegato da molte esperienze diverse. Va detto in primo luogo che in realtà la letteratura egiziana, nei limiti assai ristretti invero in cui noi la conosciamo, se non nasce nel Primo Periodo Intermedio è tuttavia in quest'epoca che sembra affermarsi definitivamente come autonomo ambito della cultura, grazie soprattutto a opere con contenuti profani e non solo religiosi: relativamente numerose e molto importanti per la nuova temperie spirituale che sembrano esprimere, esse si rapportano a temi e anche a generi letterari che, a parte gli Insegnamenti che già erano noti nell'Antico Regno, riflettono una nuova visione del mondo. Va però detto che la maggior parte dei testi che ci sono giunti è ora oggetto di revisione da parte di diversi studiosi che ne hanno abbassato la datazione, essendo opere di molto posteriori al periodo al quale fino a oggi venivano datate.
Quale che sia il giudizio da dare su tale tendenza "revisionista", vi sono però opere che ben difficilmente possono essere state concepite in epoche più recenti del Primo Periodo Intermedio. Tra di esse va segnalato l'Insegnamento per Merikara, opera del re Khety II, nel quale trova la sua prima affermazione una nuova concezione della regalità, non più espressione della natura divina del sovrano ma vista come "mestiere", la "benefica funzione" per esprimersi come gli Egiziani, e che come tale si può insegnare da parte di un padre al proprio figlio, come accade in questo caso; questo tema verrà ripreso e sviluppato più compiutamente nel Medio Regno e troverà modo di esprimersi anche nelle arti figurative. Un altro testo che parrebbe trovare una sua coerente collocazione nel Primo Periodo Intermedio è l'Oasita eloquente, un'opera che appare nella sua più intima sostanza fortemente critica verso una regalità modellata su quella dell'Antico Regno e che non può pensarsi altro che in un clima di revisione della funzione regale. Altri testi sono meno impegnati sul piano della politica o, se si vuole, dell'ideologia e, anzi, si presentano come riflessioni di carattere intimistico da parte degli ignoti autori ed esprimono una visione sconsolata della vita che ben si attaglia a un periodo di transizione privo di certezze per il destino futuro, personale e del proprio Paese. Tali sono il Canto dell'arpista della tomba del re Antef e il Dialogo di un uomo stanco della vita con la propria anima; nel primo è il tema del carpe diem che viene affrontato, mentre nel secondo quello, del tutto inedito per quanto sappiamo, del suicidio liberatore dal male di vivere, diremmo noi.
Frammentazione politica - Più ancora di quanto succeda per l'Antico Regno, la storia politica del Primo Periodo Intermedio è difficile da scrivere: la contemporaneità di diversi centri di potere, l'incertezza circa l'effettiva consistenza del potere regale e, sul piano della politica estera, la presenza di notevoli infiltrazioni di Asiatici nel Delta ‒ tipica della debolezza del potere regale in ogni periodo storico dell'Egitto ‒ sono tra i pochi dati sicuramente affermabili, assieme ai contrasti interni che hanno avuto certamente gravi conseguenze anche dal punto di vista militare. Tutto ciò sembra in sostanza confermare il quadro di un ritorno dell'Egitto alle condizioni del periodo predinastico: difficile appare la conquista di un nuovo equilibrio, una volta che le monolitiche strutture dell'Antico Regno e il centralismo della corte menfita sono stati distrutti, forse prima che dalle lotte interne da fattori esterni quali, ad esempio, le pressioni sulla frontiera orientale ben testimoniate del resto, anche se in un contesto trionfalistico che per allora può essere stato veritiero, dall'autobiografia di Uni.
Nell'impossibilità di dar conto anche solo parzialmente della bibliografia relativa all'antico Egitto, si vedano le seguenti opere con ampi riferimenti bibliografici: PM, I-VII (dal 1960 la seconda edizione); J. Janssen et al., Bibliographie égyptologique annuelle, Leiden 1948 ss.; Preliminary Egyptological Bibliography, Berlin - Leiden 1983-92.
In generale:
E. Drioton - J. Vandier, L'Egypte, Paris 1962; LÄ, I-VII, 1975-92; K.R. Weeks (ed.), Egyptology and the Social Sciences, Cairo 1979; S. Donadoni, L'Egitto, Torino 1981; B.G. Trigger et al., Ancient Egypt. A Social History, Cambridge 1983; N. Grimal, Histoire de l'Egypte Ancienne, Paris 1988 (trad. it. Roma - Bari 1990); B.J. Kemp, Ancient Egypt. Anatomy of a Civilization, London - New York 1989 (trad. it. Milano 2000); J. Vercoutter, L'Egypte et la vallée du Nil, I. Des origines à la fin de l'Ancien empire 12000-2000 av. J.-C., Paris 1992; B.J. Trigger, Early Civilizations. Ancient Egypt in Context, Cairo 1993; P. Davoli, Città e villaggi dell'Antico Egitto, Imola 1994; C. Vandersleyen, L'Egypte et la vallée du Nil, II. De la fin de l'Ancien empire à la fin du Nouvel empire, Paris 1995; S. Pernigotti (ed.), L'Egitto Antico, Imola 1996; J. von Beckerath, Chronologie des Pharaonischen Ägypten, Mainz a.Rh. 1997; G. Robins, The Art of Ancient Egypt, London 1997; J. von Beckerath, Handbuch der ägyptischen Königsnamen, Mainz a.Rh. 1999; E. Bresciani, Letteratura e poesia dell'Antico Egitto, Torino 19992; Ead., Sulle rive del Nilo. L'Egitto al tempo dei faraoni, Roma - Bari 2000; I. Shaw (ed.), The Oxford History of Ancient Egypt, Oxford 2000; E. Bresciani, Testi religiosi dell'Antico Egitto, Milano 2001.
Tecnologie e scienza:
P.T. Nicholson - I. Shaw, Ancient Egyptian Materials and Technology, Cambridge 2000.
Religione:
Ch. Leitz, Lexikon der Ägyptischen Götter und Götterbezeichnungen, I-IX, Leuven - Paris - Dudley 2002. Topografia: J. Baines - J. Málek, Atlante dell'Antico Egitto, Novara 1985 (trad. it.); S. Aufrère - J.-C. Golvin - J.-C. Goyon, L'Egypte restituée, I-III, Paris 1991-97.
di Sergio Pernigotti
Nella situazione di incertezza del Primo Periodo Intermedio, per lo meno alla fine di esso, l'unità tra il Nord e il Sud si presenta nuovamente per il ceto dirigente del Paese come la sola soluzione possibile; essa infatti si ricompone durante l'XI Dinastia, per opera di una stirpe di principi tebani: come già era accaduto alla fine del periodo predinastico, ancora una volta è al Sud che spetta l'iniziativa diretta a restaurare l'unità delle Due Terre, ciò dovendo evidentemente corrispondere a caratteri strutturali dell'economia e della società egiziana: è il Sud, più povero e la cui esistenza appare profondamente condizionata dal problema del controllo e della distribuzione delle acque, che prende l'iniziativa, ed è sempre al Sud che tocca il compito di riacquistare il pieno controllo delle rotte commerciali con la fascia siro-palestinese, la cui sicurezza era stata gravemente compromessa dal controllo che avevano realizzato sul Delta orientale le popolazioni seminomadi provenienti dall'Est, quelle che le fonti egiziane coeve chiamano genericamente Asiatici.
Questi dinasti regionali, tra i quali prevale il nome di Montuhotep ("il dio Montu è soddisfatto") che rimanda a una divinità guerriera, allora la principale nel Pantheon locale, hanno lasciato vivide testimonianze archeologiche non solo nella statuaria regale, che ancora risente dello stile "provinciale" dell'età immediatamente precedente, ma anche nel complesso funerario di Montuhotep I a Deir el-Bahari; di discussa ricostruzione nell'alzato, che per alcuni assumeva la forma di una piccola piramide mentre per altri aveva la forma di un cubo, sembra in ogni caso rappresentare un tentativo di conciliare elementi architettonici di origine locale, quale era l'andamento terrazzato dell'edificio, con altri di chiara concezione menfita, quali appunto il cubo (che poteva rimandare alla maṣṭaba) o la piramide.
È importante notare come nel momento stesso in cui si verifica la riunificazione del Paese non si abbia un semplice ritorno al passato, ma l'asse politico si sposti verso sud. Tebe, un villaggio meridionale che aveva avuto fino ad allora un ruolo praticamente irrilevante nella storia del Paese, fa la sua apparizione sulla scena politica e le divinità che in esso venivano adorate, Montu in primo luogo ma anche Amon e altre ancora, assumono un rilievo per allora sconosciuto nell'onomastica regale, ma anche inevitabilmente nell'equilibrio complessivo della religione egiziana, all'interno della quale accadeva che le divinità dinastiche alterassero sempre a loro favore il peso specifico che avevano nel culto: fatto questo ricorrente in tutta la storia egiziana, che per la prima volta si verifica in maniera visibile e che è ricco di conseguenze in un sistema religioso che non conosce praticamente gerarchie. Non è ovviamente un caso che i sovrani della dinastia seguente, la XII, anch'essa di origine tebana, presentino nomi composti con quello del dio Amon (Amenemhat, "il dio Amon è di fronte a me", cioè "a mia protezione") o della dea, anch'essa tebana, Useret (Senuseret, "l'uomo della dea Useret").
Il passaggio tra l'XI e la XII Dinastia avvenne in maniera praticamente indolore, a differenza di quanto si credeva un tempo, perché Amenemhat I, fondatore della XII Dinastia, era stato visir sotto l'ultimo sovrano della dinastia precedente: e il passaggio dall'una all'altra è stato certamente facilitato dalla comune origine tebana dei due monarchi. Ciò è stato reso possibile anche per l'affermarsi della nuova concezione della regalità, già presente nell'Insegnamento per Merikara, per cui sul trono poteva salire anche chi non era di sangue divino: il tema della regalità di diritto divino rimaneva un dogma ufficialmente proclamato, ma il ruolo politico e quindi umano del sovrano sembra ormai essersi definitivamente affermato.
Il processo di ricostituzione delle strutture amministrative dello Stato, gravemente compromesse dalla crisi del Primo Periodo Intermedio, è stato certamente il compito prioritario dei sovrani della XII Dinastia (1976-1794/3 a.C.) con la quale il Medio Regno (2119-1794/3 a.C.) raggiunge il suo apogeo, ma durante la quale, specialmente nella sua parte finale, fanno la loro comparsa sintomi di una nuova crisi politica e istituzionale. L'instabilità politica sembra costituire un problema non ancora del tutto risolto durante il regno del fondatore della dinastia Amenemhat I (1976-1947 a.C.). Vi è nella politica interna di quest'ultimo una chiara volontà di riannodare le fila interrotte con l'Antico Regno, che si coglie molto bene nel fatto che il rituale funerario regale ritorna a essere quello del III millennio a.C.: nuovamente le sovrastrutture delle tombe dei sovrani tornano a essere le piramidi, certo non più così ricche come erano state allora e più piccole rispetto alla mole possente di alcune piramidi menfite; ma qui è il significato ideologico che intanto va rilevato. Anche le arti figurative risentono di tale atteggiamento diretto a riaffermare la continuità della concezione della regalità: la statuaria regale si ispira manifestamente ai modelli della V e della VI Dinastia: il trattamento del volto del sovrano in modo particolare riprende il manierismo che caratterizza la fase finale di tale periodo storico; con la sua immutabile giovinezza e la mancanza di precisi riscontri fisionomici viene "saltato" a ritroso il linguaggio figurativo un po' pesante e certamente "provinciale" che ancora sopravviveva nella XI Dinastia come eredità del Primo Periodo Intermedio.
Vicende politiche nei testi letterari - In concreto il motivo propagandistico che caratterizza il regno di Amenemhat I è la restaurazione della maat, che si realizza secondo due direttive fondamentali: la liberazione del territorio del Delta dalle presenze straniere e il raggiungimento, verosimilmente attraverso una serie di operazioni di polizia, della sicurezza interna. Ma il concetto di maat, che ha molti significati in egiziano ("giustizia", "ordine", "verità", ecc., e serve a designare anche una divinità femminile che tali concetti impersona, soprattutto l'ultimo) va come di consueto visto in un'accezione più vasta: il termine si riferisce non solo e non tanto all'ordine come espressione della politica interna, ma coinvolge la posizione dell'Egitto nel rapporto con le leggi che regolano la struttura dell'universo. Il sovrano, nel suo duplice ruolo di sacerdote e di grande mago, deve assicurare la consonanza tra il microcosmo, costituito dall'Egitto, il Paese su cui regna pro tempore, con il macrocosmo, cioè l'universo nel suo insieme: il resto rappresenta solo il pratico attuarsi di un tale principio.
Amenemhat I, nei trent'anni del suo regno, non sembra aver risolto tutti i problemi che aveva ereditato dai suoi predecessori, che pure almeno un risultato importante avevano ottenuto realizzando la riunificazione. Il carattere di sostanziale debolezza del suo regno si coglie anzitutto nell'uso, fino ad allora senza precedenti significativi, della letteratura come mezzo di propaganda politica: nella Profezia di Neferti il sovrano fa profetizzare, ovviamente post eventum, la sua salita al trono come l'avvento di un messia venuto dal Sud per riscattare l'Egitto dai suoi mali e restaurare la maat. Ma tale situazione trova conferma nel fatto che nel 20° anno di regno, secondo l'opinione prevalente, Amenemhat I associò al trono il proprio figlio, il futuro Sesostris I (1956-1911/10 a.C.); segno questo che egli aveva forti dubbi sul fatto che la sua successione potesse avvenire senza problemi: dubbi che del resto dieci anni dopo trovarono piena conferma nel suo assassinio in una congiura di palazzo, diretta evidentemente a sovvertire il normale ordine di successione a vantaggio del figlio di una regina secondaria. Malgrado il successo della congiura, culminata appunto con l'eliminazione del sovrano, Sesostris I ebbe la meglio sui suoi avversari e poté rimanere sul trono su cui da tempo il padre lo aveva posto.
L'intreccio tra letteratura e politica continua e anzi si rafforza con questo sovrano: due testi, quali gli Insegnamenti di Amenemhat I al figlio Sesostris I, evidentemente scritti su suggerimento di quest'ultimo, e il Romanzo di Sinuhe, ci narrano i drammatici avvenimenti sopra descritti, esaltando da un lato la grandezza di Amenemhat I come restauratore della maat e dall'altro quella di Sesostris I, ormai saldamente sul trono e disposto quindi a perdonare coloro, come Sinuhe, che in passato avevano dubitato della sua vittoria sui nemici interni e lo avevano tradito fuggendo all'estero. La letteratura diventa anche un mezzo per trasmettere ai sudditi la lealtà verso la dinastia regnante, un motivo questo che rimarrà costante anche in seguito e di cui la scuola sarà un potente tramite, specialmente in età ramesside; un tramite diretto a suscitare il consenso attorno alla figura dei sovrani regnanti in un'inedita, per l'Egitto, concezione del ruolo del faraone, visto ora in primo luogo come il "buon pastore" al quale è affidato il destino degli Egiziani.
Opere nel Fayyum - Con il definitivo consolidarsi sul trono di Sesostris I si apre un lungo periodo di pace interna e di grande sviluppo economico che culmina con la bonifica, iniziata con Sesostris II, della grande semioasi del Fayyum nel Deserto Libico, circa 80 km a sud-ovest del Cairo; questa viene trasformata, soprattutto a opera di Amenemhat III e IV, da zona paludosa riservata prevalentemente alla caccia e alla pesca (quale era nel III millennio) in una ricca zona agricola destinata alla produzione di ortaggi, frutta e soprattutto cereali, tale da poter essere davvero considerata per il resto della storia egiziana come il granaio e il frutteto di tutto l'Egitto, insieme con il Delta del Nilo, naturalmente.
La bonifica comportò mutamenti profondi nella regione con la fondazione di una serie di villaggi per la deduzione dei coloni, di cui conosciamo solo Medinet Madi per la circostanza fortunata che esso ha restituito il tempio costruito da Amenemhat III e da Amenemhat IV, uno dei pochissimi templi del Medio Regno che si siano conservati in Egitto: il che non esclude affatto che vi fossero altri villaggi, solo che non ne è rimasta alcuna traccia archeologica. Il legame tra Amenemhat III e il Fayyum è rimasto un dato costante per tutta la storia egiziana, tanto che in età tolemaica e romana il faraone, il cui nome si è mantenuto nella forma grecizzata di Lamarres, era fatto oggetto di un culto specifico nella regione, anche sotto forma di culto familiare. In realtà, la bonifica della XII Dinastia non trova un riscontro specifico nelle fonti egiziane ma è confermata da una serie di indizi che ne assicurano la realtà storica: è impossibile dire quali siano stati i motivi di tale interesse per la regione, ma è ragionevole ipotizzare che un lungo periodo di pace interna, dopo l'inizio del Medio Regno, abbia costretto i sovrani a mettere a coltura nuove terre per far fronte all'aumento della popolazione.
Con l'avvento al potere della XII Dinastia l'asse politico del Paese si sposta ora dalla zona menfita per scendere più a sud: la residenza del sovrano viene posta nella città di Ity-Tauy, ai bordi della valle del Nilo all'altezza del Fayyum, a riprova della centralità di quest'area nella politica dei sovrani della XII Dinastia: Ity-Tauy "(la città) del signore delle Due Terre" è una città di nuova fondazione, destinata a ospitare la residenza dei sovrani, come del resto il suo nome dichiara. Qui vengono anche costruite le necropoli regali: i sovrani di quest'epoca riprendono, come sopra si è visto, la tradizione menfita di farsi seppellire all'interno di piramidi che si collocano al centro di complessi funerari particolarmente ricchi e articolati, circondati dalle tombe a maṣṭaba di familiari e di alti funzionari; basti pensare che qui si trovava il "labirinto", l'immenso edificio così chiamato da Erodoto ‒ che ebbe occasione di visitarlo durante il suo viaggio in Egitto e del quale ora restano scarsi ruderi ‒, ma in realtà il tempio funerario che precedeva la piramide di Amenemhat III a Hawara. Le piramidi del Medio Regno rivelano chiaramente la volontà di riprendere una tradizione che si era interrotta con il Primo Periodo Intermedio e di sottolineare la continuità con la monarchia dell'Antico Regno, anche se ora esse si presentano assai inferiori come dimensioni, materiali e tecniche costruttive.
Nei pressi della piramide di Sesostris II a el-Lahun si trovano i resti del villaggio (chiamato Kahun sulla scia del primo scavatore, W.M.F. Petrie), parzialmente riportato alla luce, destinato a ospitare gli operai impiegati nella costruzione della necropoli regale: è uno dei rari esempi di insediamento urbano, risalente ai periodi più antichi della storia d'Egitto. Il suo carattere temporaneo lo rende scarsamente significativo per lo studio dell'urbanistica egiziana, ma va osservato che esso, a differenza di molti altri di tali agglomerati che venivano spianati dopo avere esaurito la loro funzionalità, è stato utilizzato anche in seguito. Nel Fayyum sono rimaste tracce importanti dell'attività dei sovrani della XII Dinastia: nel Nord della regione, oltre il lago, si trova il tempio di Qasr el-Sagha, un tempo datato all'Antico Regno ma che studi recenti rendono sicuramente attribuibile alla XII Dinastia, e dal lato opposto, nell'estremo lembo sud-occidentale, vi è il piccolo tempio di Medinet Madi, di cui si è già detto, dedicato alla dea delle messi Renenutet e costruito dai faraoni Amenemhat III e Amenemhat IV. Nel centro della regione, pure molto degradato dal punto di vista archeologico, vi sono resti consistenti del monumento di Biahmu, anch'esso visto da Erodoto, eretto in onore di Amenemhat III. Alcune testimonianze archeologiche rapportabili a questo sovrano si sono conservate anche nella capitale della regione, Shedet (l'odierna Medinet el-Fayyum), dove si trovava un importante tempio dedicato al dio principale della regione, Sobek, del quale oggi vi sono solo resti molto degradati per l'espansione urbanistica della città moderna. Anche un obelisco (in realtà una stele incisa alla sommità di un monumento a forma di obelisco) a nome di Sesostris I è stato ritrovato ad Abgig e una necropoli con una grande tomba principesca sempre databile a quest'epoca è stata individuata, scavata e restaurata a Khelua: fatto quest'ultimo della più grande importanza perché a tutt'oggi è l'unica necropoli del Medio Regno che sia stata trovata nella regione, anche se rimane ancora ignota la città a cui essa faceva riferimento. Testimonianze del Medio Regno si trovano anche altrove, al di fuori dell'area che gli è stata propria: nel Sud esse sono consistenti soprattutto a Medamud e a Karnak, dove è stata individuata e ricostruita la cosiddetta "cappella bianca" di Sesostris I, uno dei monumenti di più elevato valore artistico che ci siano giunti dall'Egitto antico.
Cambiamenti nell'arte - Verso la metà della XII Dinastia si assiste anche a un profondo mutamento nel linguaggio delle arti figurative. Alla ripresa del canone dell'Antico Regno nella trattazione del volto dei sovrani subentra una nuova concezione, strettamente legata all'idea della regalità quale si era venuta affermando dall'inizio del Primo Periodo Intermedio: quella del sovrano come "pastore del popolo" e come colui che, messo in crisi il dogma della divinità della sua persona, ascolta i suoi sudditi e provvede a essi; è questo il "mestiere di re", come si era andato delineando già nell'Insegnamento per Merikara. Ai volti eternamente giovani e perennemente uguali a se stessi dei primi sovrani della XII Dinastia subentrano ora, a partire dal regno di Amenemhat III, volti scavati profondamente dalle rughe, dall'aria severa, se non affranta, evidentemente per le cure e le preoccupazioni delle loro funzioni; ben difficilmente si potrà parlare in tali casi di ritratto, perlomeno non nel senso in cui tale termine è usato nell'arte classica, come ritratto interiore del personaggio raffigurato. In questo caso si tratta di un linguaggio figurativo che si sostituisce a un altro, ugualmente con il beneplacito della corte, e che ora affronta un aspetto dell'ideologia della regalità che prima non era mai stato preso in considerazione: gli stessi tratti fisionomici sono poco accentuati, sì che quando le teste regali non recano iscrizione è difficile identificare il sovrano a cui appartengono, cosa piuttosto inconsueta nell'arte ufficiale egiziana sempre attenta a tali particolari. Inoltre il motivo del "sovrano che ascolta" i propri sudditi viene chiaramente espresso dalle grandi orecchie che escono dai copricapi.
Concezioni sull'aldilà - Infine, anche la religione funeraria esce profondamente trasformata dalla crisi del Primo Periodo Intermedio. Una delle più importanti conquiste di tale periodo storico fu infatti quella che non a torto è stata chiamata la "democratizzazione dell'aldilà". Dietro la formula un po' semplicistica si nasconde una realtà di straordinario rilievo nella visione del mondo e nelle concezioni circa il destino nell'aldilà. Nel III millennio la vita nell'oltretomba era una prerogativa del sovrano (e dei componenti della sua famiglia) che discendeva dalla sua natura divina: il resto del genere umano non condivideva il destino di colui che stava sul trono d'Egitto. Soltanto un gruppo ristretto di persone, alti funzionari o esponenti del sacerdozio, che si erano particolarmente segnalate agli occhi del sovrano lo potevano seguire nell'aldilà per sua personale concessione; così come gli erano stati accanto in questo mondo, venivano scelti per formare la sua corte celeste e quindi essergli ancora utili nel suo destino ultraterreno. Per gli altri non esisteva una vita oltre la morte: una visione "materialistica", come non a torto è stata sinteticamente definita. La concezione dell'aldilà che si afferma nel Medio Regno è radicalmente diversa. Anzitutto l'esistenza di una vita dopo la morte non è l'aristocratica prerogativa di un ristretto gruppo di persone che si sono segnalate presso il sovrano, ma un destino che attende tutti gli uomini; essi sanno che l'accesso all'agreste paradiso degli Egiziani può avvenire solo dopo aver superato un giudizio davanti a un tribunale costituito da 42 giudici (uno per ogni provincia del Paese) presieduto dal dio Osiris, di fronte al quale il defunto confesserà i propri peccati (in realtà si tratta di una confessione negativa: "io non ho ucciso", "io non ho rubato", ecc.). Soltanto se la confessione sarà riconosciuta veritiera il defunto sarà assolto (più propriamente sarà dichiarato "giusto di voce", per usare l'espressione dei testi egiziani) e potrà entrare nell'aldilà; in caso contrario verrà annientato da un mostro composito, la "grande divoratrice". È evidente il valore rivoluzionario di una tale concezione, che può effettivamente corrispondere all'ascesa di un nuovo gruppo sociale che ha preso il posto della vecchia aristocrazia dell'Antico Regno. Il destino ultraterreno degli uomini non dipende più dal volere del sovrano ma dall'avere osservato su questa terra una serie di norme morali che valgono per tutti, di cui si deve rispondere in un giudizio che si svolgerà nell'aldilà di fronte al dio Osiris e nel quale tutti, compreso il sovrano, si dovranno ritrovare.
Tale concezione portò alla nascita di quello che si potrebbe chiamare il "senso del peccato" ma che J. Breasted, sottolineando un aspetto diverso della stessa concezione, definì l'"alba della coscienza"; temi, l'uno e l'altro, del tutto assenti nella visione del mondo del III millennio a.C. L'insieme di queste credenze, che nel loro carattere profondamente innovativo resteranno un'acquisizione definitiva del pensiero egiziano antico, trova la sua consacrazione nei cosiddetti Testi dei Sarcofagi, così chiamati perché scritti all'interno dei sarcofagi a partire dalla fine del Primo Periodo Intermedio e poi per tutto il Medio Regno. A differenza dei Testi delle Piramidi, da cui comunque dipendono ampiamente, non costituiscono un corpus unitario e neppure coerente, formati come sono da una serie di formule che non appaiono mai in forma completa nei sarcofagi nei quali sono scritte. Ciascuno di essi ne contiene una scelta, ma riuniti assieme negli studi moderni costituiscono un complesso molto imponente, visto che nell'unica edizione critica finora disponibile occupano ben sette volumi di testi geroglifici. La loro funzione è del tutto analoga a quella dei Testi delle Piramidi, nel senso che il loro scopo è quello di proteggere il defunto e di assicurargli un agevole passaggio nell'aldilà: ciò avviene attraverso il contatto assai stretto tra il testo scritto e il corpo della persona che è deposta nel sarcofago e naturalmente per opera della magia che nei testi funerari è onnipresente. Se la dipendenza dai Testi delle Piramidi appare evidente nel passaggio di molte formule dai primi ai secondi, resta però il fatto che tra essi vi è una profonda differenza costituita dal carattere rigidamente regale, e quindi assolutamente elitario, dei primi e dal carattere "democratico" dei secondi.
Lingua - Non c'è dubbio che il Medio Regno e in particolare il suo periodo più fulgido, la XII Dinastia, rappresentino uno dei momenti più importanti della storia dell'Antico Egitto: la sua brevità non ha impedito che gli Egiziani stessi lo considerassero l'epoca in cui pienamente si affermò la loro classicità, per lo meno per quanto concerne la storia della letteratura e la lingua in cui essa si espresse. Il medioegiziano infatti, come viene chiamata la lingua letteraria impiegata in tale epoca, restò per sempre nella storia dell'antico Egitto un modello a cui ispirarsi, soprattutto per il magistero degli autori che di esso si erano serviti nella composizione delle loro opere: noi sappiamo che almeno fino all'età di Amarna continuò a essere studiato nelle scuole e utilizzato per la composizione delle opere letterarie, per i testi religiosi e per la manualistica, anche quando la lingua parlata si era ormai certamente assai allontanata da esso. Un uso, per quanto più circoscritto, si può riscontrare fino a epoche molto più recenti della storia egiziana: ancora in età tolemaica vi sono testi che, pur scritti in geroglifici assai più complicati di quelli del Medio Regno, sono redatti nella stessa lingua che veniva impiegata in testi classici della cultura egiziana della XII Dinastia.
L'unità dello Stato entra nuovamente in crisi a metà della XIII Dinastia. Per ragioni che ci sfuggono completamente il Paese appare diviso tra il Nord e il Sud, con il potere della monarchia che sembra polverizzato dalla rapida successione di una miriade di sovrani effimeri. Ancora una volta il dualismo insito nella storia egiziana di lungo e di lunghissimo periodo tra il Nord e il Sud sembra prevalere sulle forze che spingono verso l'unità. Il dato più significativo e che può in parte spiegare l'insorgere della crisi è costituito dal progressivo infiltrarsi di gruppi umani provenienti dalla fascia siro-palestinese, parlanti una lingua semitica, nella zona dell'Egitto più esposta a fenomeni di questo genere nei momenti di maggiore debolezza del potere centrale: il Delta. Anche questa non era una novità perché più volte, a partire dall'Antico Regno e poi nel Primo Periodo Intermedio, questo era già accaduto: è possibile che queste infiltrazioni si siano fatte sempre più frequenti e più numerose, fino a culminare con un'invasione vera e propria da parte di un'aristocrazia guerriera, gli Hyksos, che si installarono stabilmente nel Paese fondando un principato indipendente con capitale ad Avaris. È così che ha origine il Secondo Periodo Intermedio (1794/3-1550 a.C.), in cui l'Egitto ci appare diviso tra gli Hyksos, che controllano il Nord e buona parte della valle nel Nilo, e un principato egiziano che riesce a mantenere la propria autonomia a sud, malgrado ben presto si attui un collegamento, se non proprio un'alleanza formale, tra gli Hyksos e i principi nubiani.
Il Paese vive un'esperienza che fino ad allora non aveva conosciuto, ossia quella di una vera dominazione straniera: lo spostamento dell'asse politico nel Nord e la presenza di una classe dirigente estranea alla tradizione culturale egiziana fanno in modo tale che le testimonianze archeologiche di quest'epoca siano singolarmente scarse, certo anche per la volontà degli Egiziani, una volta recuperata l'indipendenza nazionale, di cancellare quanto più possibile le tracce della presenza straniera. Gli Hyksos sono attestati essenzialmente grazie a un tipo particolare di scarabei, che portano incisa sulla parte piatta una caratteristica decorazione spiraliforme, all'interno della quale appare talvolta una breve iscrizione geroglifica: è grazie a essi che un certo numero di nomi di principi Hyksos si è conservato. A questi si aggiunge qualche altro oggetto, tra cui notevole un vaso di alabastro con iscrizioni che è stato trovato nella necropoli di Almuñecar, in Spagna. È recente infine l'identificazione da parte di una missione austriaca a Tell ed-Daba, nel Delta orientale, del sito nel quale sorgeva l'antica Avaris, la loro capitale: il suo scavo sistematico sta portando alla luce una situazione archeologica molto complessa, nella quale però si possono riconoscere le linee dell'insediamento di età Hyksos.
Per quanto riguarda il resto dell'Egitto, in quella parte del Paese in cui un principato egiziano mantenne una sua sia pur ridotta sovranità, le testimonianze archeologiche sono scarse e nel complesso poco significative; non molti sono infatti i documenti, per lo più di corredo funerario e sempre d'incerta datazione, che è possibile attribuire con sicurezza a quest'epoca, che fu evidentemente caratterizzata, anche nelle zone più lontane dal dominio Hyksos, da ridotte possibilità economiche anche negli esponenti del ceto dirigente: caratteristici rimangono i sarcofagi di legno dipinto, la cui decorazione continua in forme stilisticamente più mature quella già presente nei centri provinciali del Primo Periodo Intermedio e della parte iniziale del Medio Regno.
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di Sergio Pernigotti
L'unità dello Stato si ricompone in seguito a una guerra lunga e sanguinosa, guidata da una stirpe di principi tebani, che porta alla completa liberazione del territorio nazionale dalla presenza degli Hyksos e al loro inseguimento fino alle loro sedi di partenza nella fascia siro-palestinese: è così che ha origine il Nuovo Regno (1550-1070/69 a.C.), un lungo periodo storico che comprende le dinastie dalla XVIII alla XX.
Mentre le fonti egiziane mancano quasi completamente durante l'epoca Hyksos, esse sono relativamente abbondanti per quanto riguarda la guerra di liberazione, di cui conosciamo abbastanza bene le tappe fondamentali grazie ad alcuni documenti di evidente ufficialità, quali il testo conservato nella tavoletta Carnarvon (un testo scolastico derivante da uno ufficiale) e la stele di Karnak, di ritrovamento relativamente recente, tra di loro sicuramente connessi anche se con modalità che ancora ci sfuggono. A essi va aggiunta l'autobiografia di un certo Ahmosi ‒ un personaggio la cui tomba si trova a el-Kab in Medio Egitto ‒ nella quale vengono raccontate le imprese di cui egli fu protagonista nella guerra di liberazione, come comandante di una nave da combattimento. La guerra contro gli Hyksos si sviluppò naturalmente in direzione sud-nord e, a quanto ci è dato sapere, comportò una vera e propria riconquista del territorio egiziano, costellata da numerose e cruente battaglie condotte sia a terra che per mezzo di navi fluviali. Un impressionante e del tutto inconsueto documento di tale stato di cose è rappresentato dal corpo frettolosamente mummificato di Seqenra, uno dei dinasti tebani da cui partì l'iniziativa della guerra, certamente caduto in combattimento, come dimostrano le devastanti ferite che sono state riscontrate sul suo cranio. È forse dalle vicende della morte di questo loro antenato che i faraoni della XVIII Dinastia (1550-1292 a.C.) hanno poi sviluppato il motivo del faraone condottiero, che rimarrà un dato costante per tutto il Nuovo Regno anche nel caso di sovrani che in effetti non hanno mai combattuto. Secondo quanto è dato ricavare dall'autobiografia di Ahmosi, la guerra si concluse con la conquista e la distruzione di Avaris e l'inseguimento degli Hyksos nelle loro sedi storiche nella fascia siro-palestinese, trovando infine il suo coronamento in una campagna contro i loro alleati nubiani nel Sud del Paese.
A seguito di tali avvenimenti salì sul trono di un Egitto nuovamente unificato Ahmosi (1550-1525 a.C.), fondatore della XVIII Dinastia, la prima delle tre che costituiscono il Nuovo Regno. Si tratta di un periodo storico assai lungo, circa cinquecento anni, durante il quale il Paese passa attraverso una serie di esperienze molto varie e difficili da ricondurre a un denominatore comune, a meno che non lo si voglia individuare nel fatto che esso per tutta la sua durata assume il rango di una grande potenza, che di fatto diventa un punto di riferimento ineliminabile per tutti gli altri stati del Vicino Oriente, sia dal punto di vista militare sia dal punto di vista economico e anche culturale, per quanto ci è dato di capire. Ciò costituisce indubbiamente un dato nuovo nella storia dell'Egitto: se infatti non è più accettabile l'idea della civiltà egiziana come "civiltà d'oasi", sostanzialmente chiusa in se stessa con scarsi e poco significativi rapporti con i vicini ‒ soprattutto dell'Est ‒ è però vero anche che a partire dalla XVIII Dinastia, e poi fino alla fine del periodo dinastico, l'Egitto assume nello scenario internazionale una posizione talvolta dominante ma sempre comunque rilevante, anche in negativo: cosa che nei periodi precedenti non si era mai verificata. Vero è che già prima l'Egitto manteneva relazioni e interveniva anche militarmente contro i suoi vicini, ma mantenendosi come al margine della fascia siro-palestinese e del Vicino Oriente per poi ritirarsi nei propri confini: ora al contrario si cala dentro a tale più ampio contesto territoriale con le ovvie conseguenze anche sul piano militare e politico. Per limitarsi alla XVIII Dinastia, si possono cogliere agevolmente nel lungo periodo tre momenti diversi: a una prima fase di forte espansione militare verso est, che porta gli eserciti egiziani di Thutmosis III fino in Mesopotamia ‒ espansione di rilievo tale da indurre alcuni studiosi moderni a parlare di "età dell'impero" ‒, segue un lungo periodo di pace che sfocia nella crisi di Amarna e nella successiva restaurazione a opera dei successori di Akhenaten.
Politica estera - Non c'è dubbio che l'Egitto si apra ora assai più di quanto non avesse fatto per il passato alle relazioni con i paesi confinanti, in primo luogo con quelli della fascia siro-palestinese ma anche con gli stati dell'Anatolia e della Mesopotamia, accogliendo esso stesso, in un clima di cultura sempre più cosmopolita ma insieme gelosa dei propri legami con il passato, uomini ed esperienze di provenienza esterna che si inseriscono senza sforzo apparente nel suo tessuto politico e culturale. La prima fase del Nuovo Regno è caratterizzata da una serie di conflitti con i paesi confinanti del Vicino Oriente: per la prima volta nella sua lunga storia eserciti egiziani varcano i confini del Paese, guidati da sovrani combattenti, e conquistano vasti territori con una lunga serie di vittoriose campagne militari; essi di fatto assumono il controllo diretto o indiretto di alcuni potentati, che permettono la creazione di stati-cuscinetto da frapporre fra sé e potenziali nemici che possano ripercorrere la strada degli Hyksos, allontanando dalla zona cruciale dell'Istmo di Suez i futuri possibili campi di battaglia.
In realtà parlare di "impero" e di "imperialismo" è in tale contesto del tutto fuorviante, perché si tratta ora di fenomeni ben diversi rispetto a quelli che abitualmente si designano con tale nome. Appare infatti evidente che lo scopo dei sovrani egiziani non era affatto quello di attuare stabili conquiste territoriali, che sarebbero rimaste confinate a ben poca cosa, né di realizzare una politica di sfruttamento economico dei paesi sconfitti in battaglia, benché i tributi ci siano stati e i bottini conquistati in guerra abbiano avuto un peso considerevole nella politica interna del Paese. Ciò che accade realmente è la messa a frutto della lezione che i sovrani egiziani del primo Nuovo Regno avevano ricavato dall'esperienza maturata dall'invasione degli Hyksos e dal loro lungo dominio su una parte rilevante dell'Egitto. Per tutto il III millennio a.C. la linea difensiva del Paese contro eventuali invasioni straniere era stata individuata nel limite costituito dalla terra coltivata del Delta, sia a occidente dove si trovavano le tribù libiche che a oriente, dove i beduini seminomadi costituivano certamente una minaccia molto più seria. Ma le azioni sull'uno e sull'altro fronte assumevano il peso di semplici operazioni di polizia, di sicura efficacia difensiva nei momenti in cui in Egitto vi era un forte potere centrale; nei casi più gravi venivano organizzate spedizioni punitive, come ci dimostra ampiamente l'autobiografia di Uni: la conseguenza di una tale situazione era che in Egitto per tutto il III millennio non vi è mai stato un esercito permanente. Il sistema difensivo in atto nell'Antico Regno rispondeva bene alle esigenze di un Paese che riponeva la sua sicurezza nella presenza di due grandi deserti a est e a ovest, e soprattutto nel fatto che sullo scenario internazionale non vi fosse nessuna grande potenza in grado di superare le difese naturali egiziane. Nel Medio Regno la situazione era sostanzialmente la stessa: dopo che Amenemhat I ebbe liberato il Delta orientale dagli stranieri che vi si erano stanziati, la linea difensiva del Paese a est venne spostata sull'Istmo di Suez, dove il sovrano fece costruire le "mura del principe" (il "principe" è lo stesso Amenemhat I), una serie di fortificazioni che andavano probabilmente dal Mediterraneo fino al Mar Rosso e che, come ci informano i testi coevi, avevano proprio lo scopo di tenere lontani dall'Egitto "coloro che stanno sulla sabbia". Il sistema difensivo così organizzato deve avere avuto un'indubbia efficacia per tutta la XII Dinastia, durante la quale non si segnalano sconfinamenti da est, mentre della situazione militare a occidente conosciamo bene dal Romanzo di Sinuhe una campagna di Sesostris I, condotta a termine proprio mentre il padre, a corte, veniva assassinato: ma tale spedizione deve avere avuto un altro significato, riconducibile com'è forse alla lotta politica interna allora in atto in Egitto. Ciò che accomunava il nuovo sistema difensivo a quello attuato nell'Antico Regno era il fatto che i potenziali nemici erano deboli e numericamente trascurabili.
La situazione cambia profondamente durante la crisi della XIII Dinastia e del periodo Hyksos: le "mura del principe", dapprima di fronte all'indebolirsi e poi al crollo del potere centrale, non hanno potuto impedire infiltrazioni sempre più numerose dei beduini seminomadi di lingua semitica da est, e in seguito non hanno potuto opporre nessuna difesa all'invasione degli Hyksos, un'aristocrazia guerriera potentemente armata con carri da combattimento trainati da cavalli e armi forgiate in una lega di bronzo molto più resistente di quella in uso in Egitto, assai più vicina al rame. I condottieri egiziani della guerra di liberazione e poi i primi faraoni della XVIII Dinastia hanno prontamente fatto tesoro di tale esperienza, che aveva completamente stravolto le concezioni su cui si fondava la difesa dell'Egitto; evidentemente non era più possibile porre la linea difensiva principale del Paese sull'Istmo di Suez: il crollo delle difese in questo punto significava spalancare le porte del Delta agli eventuali invasori provenienti da est. Inoltre l'esperienza maturata con l'invasione degli Hyksos aveva dimostrato che il periodo di deboli infiltrazioni di beduini, spinti dalla carestia e dalla mancanza d'acqua verso i ricchi pascoli del Nord, era ormai tramontato: i nemici si sarebbero presentati ai confini orientali con eserciti numerosi, ben organizzati e potentemente armati.
È per tali ragioni che la politica dei primi sovrani della XVIII Dinastia, fino al regno di Thutmosis III, si caratterizza per una forte espansione verso est, che non dà tregua ai re e ai regoli della fascia siro-palestinese fino a quando non viene realizzato un nuovo sistema difensivo, che si trova ora ben lontano dall'Istmo di Suez (dove comunque si sarebbe sempre potuta costituire una linea di riserva quando la prima avesse ceduto); esso è costituito da una sapiente e capillare organizzazione fatta da guarnigioni egiziane e da alleati, nessuno dei quali è in grado di infastidire l'Egitto, che formano l'avanguardia contro future invasioni in attesa dell'arrivo dell'esercito egiziano regolare, per così dire, che ora diventa permanente ed è guidato da ufficiali di carriera. Quando tale sistema è costituito, la politica di espansione dell'Egitto verso est cessa completamente e, a partire dal regno di Amenhotep II, si apre un lungo periodo di pace, caratterizzato dal mantenimento delle posizioni raggiunte in Asia. La validità di una tale visione strategica è dimostrata dal fatto che quando verrà seriamente messa alla prova, molto tempo dopo, con la guerra tra l'Egitto e gli Hittiti durante il regno di Ramesse II, essa supererà brillantemente l'esame e anche in seguito terrà lontano dal suolo egiziano gli eserciti di potenziali invasori.
Clero di Amon - Le ragioni di crisi, risolte per lungo tempo sul piano della politica internazionale con il definitivo riconoscimento del ruolo di grande potenza dell'Egitto, si spostano all'interno del Paese, proprio nel momento in cui i grandi successi, conseguiti grazie alle campagne militari sempre vittoriose, parevano avere assicurato al Paese un lungo periodo di pace e di prosperità. Una delle conseguenze dell'attiva politica di conquiste militari era stata l'acquisizione di ingenti bottini di guerra, che erano stati divisi tra il tesoro dello Stato, cioè della dinastia regnante, e il sacerdozio tebano del dio dinastico Amon (o Amon-Ra per un sincretismo dettato dalla volontà, più politica che religiosa, di creare una divinità tendenzialmente panegiziana). Un rapporto particolarmente stretto tra il sacerdozio di Amon e la dinastia si era venuto delineando durante il regno di Thutmosis III. Quando dopo i vent'anni di governo della regina Hatshepsut ‒ che inizialmente aveva ricoperto la carica di presidente del consiglio di reggenza durante l'infanzia di Thutmosis III, ma sempre più si era arrogata poteri regali fino ad assumerne tutta la simbologia ‒ il sovrano assunse la pienezza del comando, egli ritenne di creare un rapporto di stretta alleanza con il sacerdozio di Amon, allora importante e prestigioso nella zona tebana proprio grazie al suo rapporto con la dinastia, ma certo non ancora ai livelli che avrebbe raggiunto in seguito. Ciò si era manifestato con la conferma della legittimità di Thutmosis attribuita a un oracolo del dio, il che equivaleva in sostanza a conferire alla divinità, e quindi al suo sacerdozio, il potere di investire i sovrani del diritto di regnare sull'Egitto. Non conosciamo le ragioni per cui Thutmosis III fece un passo di una tale gravità, ma si può ragionevolmente ritenere che, nel momento critico del recupero della pienezza delle sue funzioni e in previsione delle campagne militari che a lungo lo avrebbero tenuto lontano dal Paese, abbia sentito la necessità di coprirsi le spalle facendo concessioni a un sacerdozio che era stato molto legato a Hatshepsut. Le concessioni più importanti furono però quelle di carattere economico, con la divisione del bottino di guerra: ciò trasformò il tempio di Amon a Karnak in un centro di potere economico e quindi politico, in grado di condizionare pesantemente la politica interna della dinastia e di tentare un progressivo trasferimento a proprio vantaggio dei poteri dello Stato.
Non conosciamo le tappe attraverso cui la crisi è andata progressivamente aggravandosi, ma certo alcuni sintomi si avvertono già durante il regno, lungo e pacifico sul piano internazionale, di Amenhotep III. Il trasferimento compiuto da questo sovrano della corte da Tebe orientale alla riva sinistra del Nilo, la zona tradizionalmente destinata alle necropoli, nel palazzo-città di Malqata, è forse un segno della crisi giunta al punto di rottura con due centri di potere ormai molto visibili: quello che faceva capo al sommo sacerdote del tempio di Amon a Karnak sulla riva destra e quello che ancora riconosceva nel sovrano il suo punto di riferimento sulla riva sinistra del fiume. A questo punto le prerogative della dinastia erano in serio pericolo ed è probabile che si stesse preparando, in modo più o meno visibile, la strada all'avvento al trono del primo sacerdote di Amon. E questo in effetti accadrà, al termine di un conflitto destinato a durare fino all'inizio della XXI Dinastia: il cerchio si chiuderà definitivamente quando Herihor, primo profeta di Amon, diventerà faraone.
Il conflitto si manifestò in tutta la sua virulenza con il figlio di Amenhotep III, che salì sul trono con il nome di Amenhotep IV, che egli ben presto cambiò in quello di Akhenaten. Il suo regno è stato molto breve, solo diciassette anni, durante i quali si è verificata una serie di eventi di grande portata per la storia d'Egitto, di un'importanza e anche di una gravità quali mai si erano viste prima. Va detto che la scoperta di Akhenaten è frutto esclusivo della ricerca archeologica: la damnatio memoriae con cui gli Egiziani colpirono la sua persona e la sua opera è stata così radicale da cancellarne ogni traccia nelle fonti. Soltanto quando cominciò a essere portata alla luce una serie di sculture di una fattura totalmente al di fuori del canone tradizionale dell'arte egiziana, ci si rese conto che l'intera esperienza storica riconducibile a questo sovrano si presentava con caratteri altrettanto inconsueti. Nei primi quattro anni di regno Amenhotep IV/Akhenaten non ha compiuto nessun atto, in apparenza, che si collocasse al di fuori della tradizione della politica di suo padre: con l'anno 5°, il giovane sovrano compì due azioni di fondamentale importanza per interpretare l'insieme del suo regno. In primo luogo abbandonò Tebe, centro del potere del clero di Amon, contro cui scatenò una vera persecuzione, che si attuava intanto con lo scalpellamento del suo nome da tutti i monumenti di pietra e molto più concretamente con l'abolizione di una serie di privilegi di cui i suoi templi godevano; questo per fondare una nuova capitale (meglio sarebbe dire una nuova residenza) in Medio Egitto, nel sito che oggi prende il nome di Tell el-Amarna, donde il nome di "età di Amarna" con cui viene designato questo periodo storico presso gli studiosi moderni.
La nuova città, a cui fu dato il nome di Akhetaten, "orizzonte dell'Aten", venne fondata sulla riva destra del Nilo su un terreno vergine, preventivamente delimitato da una serie di stele che lo designavano come luogo riservato alla divinità che ora veniva posta al centro del sistema religioso del sovrano, l'Aten: in egiziano significa propriamente "disco solare", una forma di Ra, il dio solare per eccellenza che aveva da tempi antichissimi il suo centro di culto più importante a Heliopolis. L'Aten non era affatto un dio ignoto nel Pantheon egiziano: anzi si trattava di una divinità che aveva alle spalle una lunga storia come ipostasi di Ra e stava a indicare il dio quando giungeva al culmine nel suo percorso quotidiano in cielo. Ora però assumeva una posizione ben diversa nel sistema religioso egiziano, diventando figura centrale soprattutto nel rapporto con il sovrano e la sua famiglia, assumendo la forma visibile del disco solare, appunto, da cui si dipartivano i raggi che terminavano in piccole mani con il segno ankh ("vita"), indirizzato verso il sovrano e gli altri componenti della dinastia: la regina Nefertiti e le principesse, le sei figlie della coppia regale. Quello che Akhenaten tende costantemente a sottolineare è il rapporto personale con il suo dio ‒ che non assume mai l'aspetto antropomorfo tipico della maggior parte delle divinità egiziane ‒, del quale si proclama figlio, riportando quindi in primo piano un dogma molto antico in Egitto ma che da lungo tempo ormai era passato in secondo piano, quale era quello della natura divina del faraone che si riverberava anche sugli altri componenti della famiglia regale.
La teologia dell'Aten ci è nota non solo dalle sue raffigurazioni ma anche da un lungo inno al dio la cui composizione viene concordemente attribuita al sovrano stesso. Tale testo, che si trova nelle tombe della necropoli di Amarna, è importante anche per la storia della letteratura egiziana perché in esso per la prima volta viene usato il "neoegiziano", la lingua sicuramente in uso da tempo come volgare e che probabilmente coincideva con il dialetto tebano, ma che non aveva ancora raggiunto la lingua scritta che rimaneva pur sempre quella prestigiosa del Medio Regno. L'inno al contrario non ha grande importanza dal punto di vista religioso anche perché utilizza materiali già presenti nell'innografia relativa ad altre divinità e perfino ad Amon; tuttavia, contiene affermazioni significative come quella che riguarda l'identificazione dell'Aten con Ra ("tu sei Ra") e soprattutto quella che ne sottolinea il carattere universale di un dio che provvede non solo agli Egiziani, a cui ha concesso il Nilo, ma a tutto il genere umano, per il quale ha creato un "Nilo celeste", cioè la pioggia: ciò rappresenta indubbiamente una novità molto rilevante nelle concezioni religiose del Paese. Il carattere di divinità solare dell'Aten comporta conseguenze anche nell'architettura religiosa perché esso viene adorato in templi a cielo aperto, proprio come accadeva durante la V Dinastia, quando il culto di Ra assunse un ruolo di grande importanza nella religione egiziana.
Rivoluzione religiosa e artistica - Il carattere centrale del culto dell'Aten durante il periodo di Amarna ha fatto sorgere fin dai primi tempi della scoperta un problema molto delicato che ha creato accese discussioni tra gli studiosi, discussioni che non si sono ancora placate.
Il problema fondamentale e che per certi aspetti rende sempre così attuale il dibattito su Amarna è se nel culto dell'Aten si debba vedere la prima religione monoteistica della storia a noi nota: qui il dissenso è netto perché per molti ciò costituisce un fatto sicuro, mentre molti altri lo negano con altrettanta decisione. Il pericolo che gli uni e gli altri corrono è quello di trasferire al passato idee e aspirazioni del presente: in realtà un esame obbiettivo dei documenti a nostra disposizione non permette di giungere alla formulazione di un giudizio sicuro, nell'una come nell'altra direzione. Non c'è dubbio che l'Aten sia stato al centro delle idee religiose di Akhenaten, ma ciò non porta come automatica conseguenza il fatto che egli sia stato il fondatore di una religione monoteista e neppure di quella forma attenuata di essa che è l'enoteismo: altrimenti quasi la stessa cosa potrebbe ripetersi per tutte le divinità dinastiche in ogni epoca della storia egiziana, quando esse finiscono inevitabilmente per assumere una posizione centrale a causa del legame con il sovrano regnante. È evidente però che in questo caso la presenza dell'Aten è molto più spiccata e quasi ossessiva, come evidente è anche il fatto che non vi è praticamente alcun rapporto tra il faraone e le altre divinità del Pantheon egiziano, cosa che per gli altri sovrani non era mai accaduta. Ciò non vuol dire che il culto degli altri dei fosse stato abolito: la persecuzione ha sempre e solo riguardato Amon e, significativamente, il suo sacerdozio. In sostanza, se c'è stato, il monoteismo può essere considerato un fatto "personale" di Akhenaten e non un'imposizione a tutto l'Egitto; manca il carattere più peculiare delle religioni monoteiste, l'esclusivismo: non si può negare che esistesse una "dottrina" professata dal faraone e da lui predicata ai suoi seguaci più stretti (questo è un dato che si ricava dalle fonti). Infine, non è neppure del tutto corretto parlare di "eresia" amarniana, perché tale termine si può usare solo dove esista un'ortodossia, cosa che è evidentemente impossibile in una religione come quella egiziana che appare caratterizzata da un politeismo praticamente senza limiti e dall'essere un sistema aperto, in modo particolarmente evidente nel Nuovo Regno in cui diverse sono le divinità importate dal Vicino Oriente. Il termine "eretico", che talvolta il faraone riceve dagli studiosi, può però accettarsi come formula sintetica per sottolineare la sua non convenzionalità rispetto alla tradizione antico-egiziana e il carattere rivoluzionario del suo pensiero e della sua politica.
Tale carattere riceve la sua consacrazione proprio nel cambiamento del nome, che è praticamente coevo alla fondazione della nuova capitale. Per comprendere la portata realmente rivoluzionaria di un tale atto bisogna tener conto del valore che il nome aveva nelle credenze magico-religiose del Paese: il nome si identificava totalmente con la persona che lo portava, al punto di costituire una specie di entità unitaria per cui l'uno non poteva stare senza l'altro; la perdita del nome significava l'annientamento della persona considerata nella sua stessa fisicità, in questo mondo come nell'aldilà. Il cambiamento del nome da Amenhotep (IV) ad Akhenaten ha significato non solo l'"epurazione" dell'odiato nome di Amon e l'assunzione del nome dell'Aten, ma la morte spirituale del faraone nell'antica dottrina e la rinascita in quella nuova da lui stesso predicata. Una palingenesi che ha assunto il senso di una vera rivoluzione con una totale rottura con il passato che non coinvolge solo la religione ma, almeno nelle intenzioni, tutti gli aspetti della vita dell'Egitto: la letteratura, come sopra si è visto, ma soprattutto le arti figurative (scultura e pittura) nelle quali il canone tradizionale viene completamente stravolto in nome di uno sfrenato sperimentalismo a opera di due artisti, Bek e Thutmosis. Di essi conosciamo i nomi ma anche, cosa del tutto eccezionale in Egitto, un certo numero di opere che si possono sicuramente attribuire a loro: ed è soltanto con Thutmosis, autore del celebre busto di Nefertiti ora al Museo di Berlino, che lo sfrenato sperimentalismo del periodo iniziale dell'età di Amarna trova una più posata soluzione.
Di fronte a una personalità così complessa come quella di Akhenaten le valutazioni degli studiosi, che sono comunque tutti d'accordo nel riconoscerne il carattere rivoluzionario, divergono profondamente nel dare un'interpretazione che spieghi i molti e spesso contraddittori aspetti della sua azione come sovrano, la sola del resto che noi conosciamo sulla base dei documenti. Restando impregiudicati problemi di grande importanza, come quello della coreggenza con il padre Amenhotep III, le tendenze più recenti vedono nella sua rivoluzione un tentativo ‒ condotto in un modo largamente estraneo alla tradizione egiziana e perciò inaccettabile per la mentalità dei suoi sudditi ‒ di ripristinare le prerogative del faraone e della dinastia stessa dopo l'attacco del clero di Amon. Questo spiega perché la lotta politica abbia assunto i caratteri di un conflitto religioso, di un dio contro un altro dio; la rottura totale rispetto al passato recente dell'Egitto mirava a ripristinare la concezione della regalità divina del III millennio: il faraone è figlio di un dio e dio lui stesso, ciò che comporta automaticamente l'esclusione del sacerdozio nei rapporti con la divinità, che ritornano a essere unica e visibile prerogativa del sovrano e degli altri componenti della sua famiglia (la "grande sposa regale" Nefertiti e le principesse nate dal loro matrimonio). Ciò trova conferma nel fatto che nessun altro componente della corte, neppure le regine secondarie, è coinvolto in tale concezione.
La parte finale del regno di Akhenaten è particolarmente complicata da ricostruire perché i documenti che possediamo, relativamente abbondanti, sono molto difficili da interpretare e da collocare in un ordine coerente. Akhenaten è morto sicuramente nell'anno 17° del suo regno, ma fino all'avvento al trono di Tutankhamon vi è un periodo particolarmente oscuro. Sembra ora accertato che il successore di Akhenaten fosse una regina ma sulla sua identità le opinioni divergono, per alcuni essendo la stessa Nefertiti, che secondo altri sarebbe invece morta nell'anno 12°, per altri Merytaten, una delle figlie dello stesso faraone; per altri ancora il vero successore sarebbe l'effimero e per certi aspetti misterioso personaggio che fu Smenkara, che effettivamente è documentato come coreggente di Akhenaten e può aver regnato per circa tre anni.
In realtà nulla sappiamo di preciso del periodo immediatamente seguente alla morte del faraone, né, a dire il vero, delle modalità che portarono alla fine della sua rivoluzione. Su tale oscuro periodo sono state avanzate molte ipotesi non documentabili: non sappiamo, ad esempio, se vi sia stata una vera controrivoluzione, eventualmente cruenta. Tra le cose certe vi è il ritorno della dinastia a Tebe e la salita al trono di Tutankhamon (1333-1323 a.C.), personaggio la cui posizione nell'albero genealogico della dinastia rimane incerta: secondo un'ipotesi recente, che si fonda su buoni argomenti, Tutankhamon sarebbe figlio, unico figlio maschio dopo sei femmine, della coppia regale; un definitivo chiarimento verrà probabilmente dallo studio della tomba di Maya, la sua nutrice, recentemente scoperta a Saqqara. Molto precocemente Tutankhamon sposò Ankhesenpaaton, una delle figlie di Akhenaten e quindi probabilmente sua sorella.
Il ritorno a Tebe portò come conseguenza una specie di percorso a ritroso rispetto a quello che nell'anno 5° del suo regno aveva percorso Akhenaten. In realtà il nuovo sovrano si chiamava in origine Tutankhaten: il mutamento del nome in Tutankhamon assumeva perciò un chiaro valore di ritorno nell'alveo della religione tradizionale e di abbandono dell'Aten come divinità dinastica e in ciò venne seguito prontamente dalla regina che a sua volta assunse il nome "amonizzato" di Ankhesenamon, "ella vive di Amon". Il trasferimento a Tebe della residenza regale e l'emanazione di un decreto che sembra ristabilire i privilegi del clero del dio tebano sono i soli eventi che meritano di essere ricordati del regno di un sovrano di assai modesta importanza, destinato a morire appena diciottenne dopo solo una decina di anni di governo; Tutankhamon è entrato nella storia degli studi soprattutto per la scoperta nel 1922 della sua tomba nella Valle dei Re contenente un magnifico corredo funerario, che rappresenta la più alta realizzazione artistica dell'età di Amarna e nel quale sono confluiti, come ormai hanno definitivamente stabilito studi recenti, oggetti e materiali di corredi funerari di altri componenti della famiglia regale.
Ignoto rimane il destino del corpo di Akhenaten: è certo che il sovrano non è stato sepolto nella tomba che per lui era stata preparata nella necropoli di Akhetaten e che del resto non era stata terminata: l'ipotesi più probabile, che però presuppone uno scenario di cortigiani fedeli che ne abbiano di nascosto trasportato il corpo a Tebe ‒ cosa che per quanto plausibile non può essere dimostrata ‒ è che lo scheletro (o meglio la mummia ormai ischeletrita) che è stato trovato nella tomba tebana KV 55 sia effettivamente quanto resta del corpo di Akhenaten. I numerosi esami a cui i resti sono stati sottoposti hanno raggiunto infine la conclusione che si tratta di uno scheletro maschile di 25 anni al massimo. È possibile che si tratti di Akhenaten, come la maggior parte degli studiosi ormai sembra credere, ma la difficoltà maggiore per una tale identificazione è che noi non sappiamo quale fosse l'età del sovrano al momento della morte, né vi è alcun elemento sicuro per poter avanzare ipotesi a tale riguardo. Perciò in realtà altre ipotesi restano in piedi: in primo luogo, cosa che alcuni sostengono, che in realtà si tratti del corpo di Smenkara. Va però detto anche che l'esame del corredo funerario della tomba KV 55 dimostra che coloro che vi hanno deposto quel corpo credevano che si trattasse effettivamente del corpo di Akhenaten, cosa che però non prova affatto che lo fosse realmente.
In conclusione, il tentativo di esautorare il potente sacerdozio di Amon fallì e alla completa cancellazione dell'esperienza religiosa amarniana seguì in realtà la restaurazione politica. È importante notare come, almeno in un primo tempo, ciò non abbia provocato alcuna forma di persecuzione della famiglia di Akhenaten; anzi appare evidente che Tutankhamon e la regina, che ‒ non va dimenticato ‒ era figlia del sovrano defunto, non sono stati toccati, quasi che vi sia stato un accordo con il sacerdozio tebano di Amon: il rispetto della dinastia come contropartita per il ritorno a Tebe e la formalizzazione della restaurazione. Resta però il fatto che di nessuno di tali personaggi, con la sola esclusione di Tutankhamon, sono stati ritrovati la sepoltura e il corpo: non è chiaro se si tratti di tombe che devono essere ancora scoperte, come molti ritengono nel caso di Nefertiti, oppure se la damnatio memoriae abbia comportato anche la devastazione delle sepolture e la distruzione delle mummie regali.
La restaurazione si rafforza nella parte finale della XVIII Dinastia quando, dopo l'effimero regno di Ay (1323-1319 a.C.), qualificato con l'assai ambiguo titolo di "padre del dio" e forse legato alla dinastia tramite la regina Nefertiti, sale al trono il generale Horemheb (1319-1292 a.C.), a sua volta legato alla famiglia regale grazie al matrimonio con Mutnedjemet, sorella di Nefertiti, anche se qualcuno oggi dubita di tale parentela. Non c'è dubbio che con Horemheb la politica interna egiziana abbia subito una svolta di grande importanza. Va osservato che questo personaggio, con il nome di Atenemheb, era stato generale dell'esercito durante il regno di Akhenaten e successivamente aveva seguito Tutankhamon a Tebe mutando il suo nome in quello di Horemheb, secondo le regole della restaurazione: sotto il successore del faraone eretico era diventato comandante in capo dell'esercito e per l'espletamento di tale altissima carica aveva fissato la sua residenza a Menfi, dove si trovava l'arsenale militare più importante dell'Egitto, e si era fatto costruire, dopo quella abbandonata di el-Amarna, una nuova splendida tomba nella necropoli menfita. La sua scalata al potere terminava poco dopo con l'ascesa al trono dell'Egitto, al quale gli dava diritto il matrimonio con una principessa di sangue regale, ciò che ha comportato la costruzione di una terza tomba a lui destinata in quanto faraone nella Valle dei Re. Horemheb ribadì con un importante decreto la restaurazione del potere del clero di Amon, con ciò proseguendo la politica già intrapresa da Tutankhamon e sicuramente continuata dal suo predecessore Ay: ma l'aspetto più importante della sua ascesa al trono consiste certamente nella sua posizione di militare di carriera e di comandante in capo di tutte le forze armate, che gli conferiva automaticamente un potere molto rilevante nella società egiziana. Con tutta la cautela che impone il trasferire nell'antichità le logiche della lotta politica del mondo moderno, non si può escludere che la presenza di Horemheb sul trono possa significare una scelta del ceto dirigente egiziano per una soluzione militare della lunga crisi iniziata a opera di Akhenaten. Certo, per la prima volta nella storia egiziana l'esercito assume un ruolo di primo piano nella conduzione politica dello Stato, ruolo che durerà a lungo perché i primi due sovrani della XIX Dinastia, immediati successori di Horemheb, sono a loro volta militari di carriera.
La restaurazione appare completamente realizzata all'inizio della XIX Dinastia (1292-1186/5 a.C.): la monarchia appare nuovamente padrona delle sue prerogative e anzi rafforzata nel suo ruolo di guida del Paese, segno che la crisi di Amarna, malgrado la sua conclusione che pareva avere segnato la capitolazione della dinastia regnante, in realtà aveva raggiunto almeno alcuni degli obbiettivi che Akhenaten si era proposto. La figura dominante di tale periodo storico è costituita indubbiamente da Ramesse II, che nel suo lungo regno (1279-1213 a.C.) ha voluto affermare in modo molto visibile, anche grazie alla intensa monumentalizzazione del Paese, il carattere divino della sua persona: non a torto vi sono studiosi che hanno voluto vedere nella sua politica la vera continuazione del programma di Akhenaten, condotta questa volta in forme meno drammatiche e più accettabili per la mentalità egiziana ma non per questo meno risolute. Ramesse II non ha messo in discussione il ruolo di Amon nel Pantheon egiziano e anzi ripetutamente se ne è proclamato figlio, con ciò stesso affermando la natura divina della sua persona e della funzione regale; per il resto però ha creato una specie di culto della personalità, comprendente anche i molti membri della sua famiglia ‒ le sue spose e i numerosissimi figli ‒, che ha raggiunto il suo punto più alto e più esplicito nel tempio rupestre di Abu Simbel: in esso il sovrano è raffigurato come quarta divinità in aggiunta alla triade locale e in atto di fare offerte, lui faraone vivente, a se stesso come dio tra gli altri dei. Nella stessa linea di pensiero il suo matrimonio con una o due principesse hittite (non è del tutto chiaro) viene presentato come una teogamia, in cui una donna mortale giunge in Egitto per unirsi in matrimonio con il dio che regna sul Paese. Dal punto di vista politico ciò si traduce in un evidente svuotamento del potere, non solo dei gradi più alti dell'amministrazione ma anche di quelli intermedi, compresi i militari, da cui pure la dinastia proveniva e le cui funzioni vengono progressivamente fatte proprie dal faraone; lo dimostra, ad esempio, il fatto che egli rendesse giustizia ai suoi sudditi apparendo sulla porta dei templi, atto che è ben lungi dall'essere una manifestazione di atteggiamenti "democratici". Al contrario si tratta di un'evidente proiezione del carattere divino della sua persona, l'apparire di un dio alla gente su cui egli esercita la "benefica funzione".
Nel cosiddetto Poema della battaglia di Qadesh, la cui versione in caratteri geroglifici è stata incisa sulle pareti dei principali templi egiziani, mentre una versione in ieratico circolava su papiro ‒ ciò che assicura della volontà del sovrano di dare a tale opera la più ampia diffusione, malgrado essa narri, almeno nella prima parte, di una sconfitta dell'esercito egiziano guidato dal faraone da parte degli Hittiti ‒, Ramesse II compie in prima persona un duro attacco contro i suoi funzionari e il suo stesso esercito, accusando gli uni e l'altro di averlo abbandonato nel momento del bisogno e di averlo lasciato solo contro i nemici: dal pericolo incombente che avrebbe potuto portarlo alla cattura o alla morte lo ha salvato solo suo "padre" Amon. Può apparire sorprendente che un sovrano egiziano ammetta di avere subito una sconfitta, anche se temporanea e seguita da una trionfale vittoria, essendo ciò in contrasto con le convenzioni della propaganda regale: ma ciò dipende proprio dalla volontà del faraone di usare un tale testo ai fini della lotta politica interna; questa circostanza è confermata dal fatto che il testo del Poema è accompagnato da numerose e assai esplicite illustrazioni, che si rivolgevano a coloro che non erano in grado di leggere la scrittura geroglifica, in questo modo, assicurando loro la massima comprensione.
Storiografia e liste regali - Forse rientra nella politica di "revisione" dell'idea stessa della regalità l'improvviso moltiplicarsi in questo periodo storico delle liste regali, databili tra il regno del padre di Ramesse II, Sethi I, (1290-1279/8 a.C.) e quello del figlio e successore Merenptah (1213-1203 a.C.). Se ciò non è dovuto al caso archeologico, cosa che appare poco probabile, agli inizi della XIX Dinastia vi è stato un ripensamento della storia del Paese e le liste regali devono avere avuto lo scopo di fissare alcuni capisaldi dal punto di vista storiografico; un'opera questa particolarmente importante dopo la chiusura dell'età di Amarna, quando la legittimità dei sovrani che avevano regnato sul Paese era un problema non da poco. Alcune delle liste regali sono incise sulle mura dei templi (ma una si trova sulle pareti di una tomba privata a Saqqara) e rivelano un chiaro intento politico, rilevabile dalle presenze e dalle esclusioni di certi nomi su cui si abbatte una damnatio memoriae condotta sul piano della più alta ufficialità. Il documento più importante è però il Canone dei Re, come viene chiamato un papiro, purtroppo molto frammentario, datato al regno di Ramesse II e attualmente conservato nel Museo Egizio di Torino. Tale papiro contiene un elenco dei sovrani d'Egitto, a partire dal periodo anteriore all'unificazione fino al momento in cui venne redatto. L'aspetto più interessante di questo documento, che presenta ancora più degli altri un carattere di grande ufficialità, sta nel fatto che i nomi dei sovrani sono accompagnati dagli anni di regno, spesso intervallati da totali corrispondenti al cambiamento delle dinastie: il che dimostra che il lavoro compiuto da Manetone circa mille anni dopo, da cui dipendiamo nella nostra strutturazione della storia egiziana, risaliva a fonti molto attendibili, organizzate come il Canone dei Re.
Conflitti della XIX Dinastia - Il regno di Ramesse II è caratterizzato dall'urgere dei problemi di politica estera. Questa volta la minaccia era costituita dal formarsi di nuove potenze sullo scacchiere internazionale e, a differenza di quanto si era verificato all'inizio del Nuovo Regno, l'Egitto veniva a trovarsi in una posizione difensiva: non si trattava ora di affrontare re e regoli della fascia siro-palestinese, ma veri Stati con potenti eserciti e in fase di grande espansione. La nuova grande potenza era il regno di Khatti, che ben presto si rivelò in grado di affrontare l'Egitto anche perché la sua monarchia, la cui sede storica era nell'Anatolia settentrionale, una volta assicurati i fianchi mirava a espandersi verso occidente; i rapporti tra gli Hittiti e l'Egitto risalivano all'età di Amarna, quando si era verificato un oscuro episodio, i cui protagonisti non sono ancora stati identificati con sicurezza: una regina egiziana vedova (Merytaten o Ankhesenamon) si era rivolta al re hittita Shuppiluliuma perché le mandasse uno dei suoi figli affinché la prendesse in moglie; tale proposta era senza precedenti e dal valore dirompente, sia perché testimonia la gravità della crisi interna dell'Egitto, sia perché qualora il progetto fosse giunto in porto avrebbe significato che un principe straniero sarebbe salito sul trono dell'Egitto. La vicenda si concluse sicuramente con la morte del principe straniero: ma ora la situazione era profondamente diversa e lo scontro tra le due grandi potenze pareva inevitabile perché la posta in gioco, e cioè il controllo della fascia siro-palestinese con le sue importantissime vie di comunicazione, aveva per l'Egitto un valore vitale.
La battaglia decisiva avvenne nel primi anni del regno di Ramesse II, davanti alle mura della città di Qadesh sull'Oronte; con alterne vicende, fu dapprima vittoriosa per gli Hittiti e infine per gli Egiziani, che rimasero padroni del campo. Le gravi perdite riportate dai due eserciti impedirono a entrambi i contendenti di continuare la guerra, ritirandosi gli Hittiti verso est e gli Egiziani verso ovest. Il conflitto trovò la sua soluzione vent'anni dopo, quando Ramesse II stipulò finalmente il trattato di pace con Khattushili III. Mentre molti sono i documenti di tal genere che conosciamo e che sono stati stipulati dagli Hittiti con altri paesi, questo è l'unico trattato sottoscritto dall'Egitto con un paese straniero che per un fortunato caso archeologico ci è giunto tanto nella versione egiziana in caratteri geroglifici quanto in quella hittita: con esso non solo viene posto fine allo stato di guerra ma vengono anche regolati i rapporti futuri tra i due Stati, confermati con il matrimonio tra una principessa hittita (o forse due) e Ramesse II. Il lungo regno di questo faraone ha escluso dalla successione buona parte dei suoi numerosissimi figli, molti dei quali hanno trovato sepoltura in una singolare tomba che è stata recentemente trovata, o meglio ritrovata ‒ perché era già stata individuata ai primi del Novecento senza che ne venisse compresa l'effettiva importanza ‒, nella Valle dei Re. Si tratta di una sepoltura collettiva che raccoglie i corpi di 30 su 32 figli del faraone: la singolarità di tale tomba sta nel fatto che essa si presenta come un mausoleo famigliare, un tipo di architettura funeraria finora sconosciuto nell'Egitto antico e che ben rientra nella concezione della regalità divina, allargata all'intera sua famiglia, che caratterizza il regno di Ramesse II.
Merenptah, suo figlio e successore, ebbe a sua volta a confrontarsi con ardui problemi di politica internazionale, che lo portarono a scontrarsi con le tribù libiche sul fronte occidentale e con un primo tentativo di invasione dei Popoli del Mare su quello orientale. L'esito vittorioso di tali campagne da un lato testimoniava della saldezza dell'apparato difensivo a suo tempo costruito dai primi sovrani del Nuovo Regno e dall'altro del profondo cambiamento degli scenari internazionali che costringevano l'Egitto, ormai in posizione chiaramente difensiva, ad affrontare sempre nuovi problemi, legati alla sicurezza dello stesso suolo nazionale oggetto di ripetuti attacchi. Va ricordato che in una delle stele "storiche" di questo sovrano, oggi conservata al Museo del Cairo, per la prima volta nelle fonti egiziane si menziona Israele tra i popoli da lui sconfitti e già presente nelle sue sedi storiche, ciò che induce a riconoscere Ramesse II come il faraone durante il cui regno è avvenuto l'esodo.
Le vittorie di Merenptah non hanno avuto valore decisivo se il pericolo costituito dai Popoli del Mare si è nuovamente presentato, e in forma ancor più pericolosa, durante il regno di Ramesse III (1183/2-1152/1 a.C.). Malgrado noi possediamo l'elenco dei popoli che facevano parte di questa assai composita coalizione, scritto in caratteri geroglifici sul pilone del tempio funerario di tale faraone a Medinet Habu, la loro identificazione rimane dubbia: di certo si sa solo che provenivano da aree geografiche che si trovavano nell'Asia anteriore, nella fascia siro-palestinese e in alcune isole dell'Egeo; di qui avevano iniziato il trasferimento verso occidente alla ricerca di nuove sedi in cui stabilirsi. A differenza di quanto era accaduto al tempo degli Hyksos, si trattava dello spostamento di interi popoli, non già dei componenti di un'aristocrazia guerriera: di qui la loro evidente pericolosità, anche se l'Egitto poteva opporre a essi una solidissima struttura difensiva. La battaglia si svolse nel Delta del Nilo, anche questo un fatto senza precedenti nella storia egiziana, e si risolse con una completa disfatta degli invasori. La guerra contro gli Hittiti, le campagne contro i Libici e la battaglia contro il tentativo di invasione dei Popoli del Mare concentrano nuovamente l'attenzione delle fonti sulla figura del sovrano "combattente".
Centri e necropoli del Nuovo Regno - Con il Nuovo Regno l'asse politico e culturale del Paese si sposta verso sud in modo ancor più radicale di quanto fosse avvenuto durante il Medio Regno, non ultima conseguenza del fatto che da tale ambito geografico provenivano coloro che l'unità avevano nuovamente realizzato: Tebe, residenza regale e centro principale del culto del dio dinastico Amon, assunse una posizione di indubbia preminenza su tutto il resto del Paese. Tuttavia le esigenze di una politica estera tesa verso Oriente rendevano non meno importante la posizione di Menfi, assai più vicina di Tebe al teatro di eventuali azioni militari e sede quindi del comando supremo delle forze armate e dell'arsenale militare. In realtà in questo periodo storico, caratterizzato da una grande mobilità degli Egiziani all'interno del loro Paese e da questo verso l'estero, le testimonianze archeologiche si affollano lungo tutta la valle del Nilo e anche nel Delta ‒ dove tuttavia appaiono assai meno conservate a causa dell'ininterrotta presenza umana, dell'umidità e dell'instabilità del suolo ‒ e perfino nelle aree esterne, come la fascia siro-palestinese e soprattutto la Nubia, per lungo tempo oggetto di dominio diretto da parte dell'Egitto. Nel periodo iniziale del Nuovo Regno è Tebe che ha una posizione preminente. Qui si trova anzitutto la necropoli regale: secondo il nuovo rituale le tombe dei sovrani sono scavate profondamente nella roccia, in una valle laterale della catena di basse colline che, sulla riva sinistra del Nilo, si affacciano sul terreno coltivato. La tradizionale sepoltura di origine menfita, che comportava le piramidi come sovrastruttura a tutti visibile, viene ora abbandonata, forse per ragioni di sicurezza dato che l'inviolabilità delle piramidi si era dimostrata un'illusione, e soprattutto viene rotto il legame diretto esistente tra le sepolture e i templi dedicati al culto dei sovrani defunti, che vengono costruiti in una lunga fila disposta nella fascia di deserto che precede immediatamente il terreno coltivato.
Dal lato opposto alla Valle dei Re, verso sud, si trova una seconda necropoli destinata alle spose regali e ai principi del sangue (la Valle delle Regine), mentre la parte centrale è occupata da una serie di necropoli costituite da tombe ipogee ma anche da più tarde sepolture, le cui sovrastrutture assumono la forma di edifici templari spesso di dimensioni imponenti. Non lontano dalla necropoli delle regine, in una valle grosso modo parallela al corso del fiume, vi sono i resti del villaggio di Deir el-Medina, in eccellente stato di conservazione, dove erano alloggiati gli "operai": in realtà anche e soprattutto gli artisti, i pittori e gli scultori che lavoravano alle necropoli regali. Tale insediamento, che rientrava nella tradizione dei villaggi temporanei destinati ad alloggiare gli addetti alla costruzione di edifici imponenti e che venivano poi abbandonati e distrutti, è stato in uso per circa cinquecento anni e si differenzia dagli altri conosciuti per il fatto che godeva di una grande autonomia: infatti possedeva strutture amministrative proprie con una specie di autogoverno, che comportava anche proprie scuole, un proprio tempio e una propria necropoli; inoltre dalle sue discariche proviene un'enorme quantità di documenti, preziose testimonianze della vita di questa singolare comunità, costituita dal fior fiore degli artisti egiziani, che ha attraversato la storia del Nuovo Regno.
Sulla riva destra del Nilo si trovavano i grandi templi destinati al culto degli dei: nell'immensa zona archeologica che si estende da Karnak fino al villaggio moderno di Luxor si distingue il grande tempio di Amon-Ra, collegato da un viale di sfingi criocefale ‒ solo parzialmente scavato ‒ con quello di Luxor, 2 km più a sud, e da un secondo viale con quello della dea Mut, l'elemento femminile nella triade tebana (il figlio della coppia divina è Khonsu). All'interno del recinto del tempio di Amon-Ra o nelle sue immediate adiacenze sono situati i templi destinati a molte altre divinità, tebane come il dio guerriero Montu e non tebane come il menfita Ptah, che trovavano qui al centro dell'"impero" un naturale luogo di incontro, più che vere forme di culto sincretistico. Il tempio di Luxor non ha una propria autonomia nel panorama cultuale della Tebe del Nuovo Regno, perché esso è in realtà solo una dépendance di quello di Karnak, ovvero una cappella, per quanto dilatata a dimensioni gigantesche, in cui avvenivano le celebrazioni del "nuovo anno". Assai meno nota è la struttura urbana di quella che pure è stata a lungo la capitale dell'Egitto, scavata solo per piccoli saggi in zone marginali del villaggio moderno.
Anche i palazzi regali sono poco noti, a causa della loro quasi totale distruzione: solo l'esplorazione di quello di Amenhotep III a Malqata, sulla riva sinistra, ha dato buoni risultati, mentre assai meglio conosciuto è quello di Ramesse III annesso al suo imponente tempio funerario a Medinet Habu. Nel confronto con la grande concentrazione di testimonianze archeologiche della zona tebana, altre aree appaiono incomparabilmente meno ricche: nella necropoli di Saqqara il Nuovo Regno è rappresentato da un numero limitato di sepolture di grandi dignitari attivi nella zona menfita; tra essi vanno menzionati per l'età amarniana quel visir Aper-El, il cui nome rivela una chiara origine straniera, e primo tra tutti quel Horemheb, allora generale, destinato a diventare l'ultimo sovrano della XVIII Dinastia. Procedendo verso sud particolarmente importante appare la zona di Tell el-Amarna, dove Amenhotep IV/Akhenaten pose la sua residenza dopo la sua rottura con il clero di Amon, fondando una nuova città, Akhetaten, su un terreno fino ad allora non contaminato da alcuna presenza umana. Qui gli scavi hanno portato alla luce il tessuto urbano della città allora frettolosamente costruita e ancor più frettolosamente abbandonata dopo la morte di Akhenaten: un esempio unico in Egitto di città di nuova e pianificata fondazione, che mostra un'attenta valutazione dei rapporti tra la zona residenziale, il palazzo regale e i templi destinati al culto della nuova divinità, l'Aten. La città era delimitata da una serie di stele confinarie che ne proclamavano l'appartenenza al dio dinastico; è interessante notare che tale insediamento si trovava in un contesto che non poteva assolutamente garantire il sostentamento dei suoi abitanti, per la scarsità del terreno disponibile per le coltivazioni, presentandosi così anche con il carattere di una città artificiale, almeno nel senso che essa doveva comportare un vasto sistema di approvvigionamenti, non solo per la sua costruzione ma anche per il suo funzionamento.
La necropoli destinata a ospitare il sovrano e i dignitari di grado più elevato, mai terminata e mai utilizzata per il precipitare degli eventi che posero fine allo "scisma" amarniano, era posta sulle colline a oriente della città in modo tale che l'entrata delle sepolture guardasse verso il Sole al tramonto. Anche qui vi era un villaggio degli operai nel quale durante il regno di Akhenaten si devono essere trasferiti molti degli abitanti di Deir el-Medina, dove sono poi tornati dopo la morte del sovrano. Tra i ritrovamenti archeologici più importanti di Amarna va menzionato quello, non documentato e del tutto occasionale, delle "tavolette di Amarna": 382 tavolette di terracotta contenenti la corrispondenza, in scrittura cuneiforme e in babilonese ‒ che allora svolgeva la funzione di lingua della diplomazia ‒, tra i sovrani degli staterelli dell'area siro-palestinese e il faraone; era quindi una sezione dell'archivio del ministero degli esteri egiziano, che aveva seguito Akhenaten nel suo trasferimento nella nuova residenza. Tra gli annessi del palazzo regale è stato ritrovato anche l'atelier dello scultore Thutmosis, al quale dobbiamo molti dei capolavori dell'età di Amarna. Quello che ancora resta poco comprensibile è il rapporto tra la struttura urbanistica di Akhetaten e la "dottrina" del sovrano: non sembra infatti possibile che un periodo storico così fortemente "ideologizzato" non trovi riscontro anche nell'impianto della nuova residenza del sovrano e della sua famiglia.
Ancora più a sud, a non grande distanza dalla zona tebana, si trova un'altra grande necropoli, quella di Abido, in uso già nel periodo predinastico e nell'età thinita, quando in essa venivano sepolti i sovrani delle due prime dinastie, la cui residenza si trovava probabilmente nella città di Thinis, non ancora ritrovata sulla riva destra del Nilo. In questa necropoli, particolarmente sacra agli Egiziani per la convinzione che in essa fosse sepolto il corpo del dio Osiris, meta di pellegrinaggi per tutta la storia dell'Egitto e oggetto di offerte votive destinate a perpetuare il nome dei fedeli di fronte alla divinità funeraria per eccellenza, si trovano alcuni tra i più importanti monumenti del Nuovo Regno; tra essi vanno segnalati soprattutto il tempio di Sethi I, fondatore della XIX Dinastia e padre di Ramesse II, e un secondo tempio proprio a nome di quest'ultimo: entrambi sono in realtà dei cenotafi costruiti accanto alla tomba di Osiris. Importanti monumenti del Nuovo Regno furono costruiti anche in Nubia: a Soleb vi è un tempio fatto erigere da Amenhotep III e ad Abu Simbel si trova, oggi salvato dalle acque del grande lago artificiale formatosi a seguito della costruzione della seconda diga di Assuan, il grande complesso costituito da due templi ipogei, uno più imponente a nome di Ramesse II con statue colossali in facciata, e un secondo, di dimensioni minori, dedicato dal sovrano alla "grande sposa regale" Nefertari.
Arti figurative - In una visione complessiva di questo importante periodo storico va rilevato che alle grandiose realizzazioni e all'intensa monumentalizzazione di molte aree del Paese (sotto questo punto di vista il Delta è interamente perduto, ma certo non aveva nulla da invidiare al Sud almeno nei suoi centri più importanti) non corrispondono altrettante realizzazioni dal punto di vista delle arti figurative e neppure della letteratura, benché sia proprio a questo periodo storico che dobbiamo il salvataggio della maggior parte delle opere letterarie delle epoche precedenti, grazie soprattutto allo studio che ne veniva fatto nelle scuole. Per quanto riguarda la storia dell'arte, nella parte iniziale del Nuovo Regno la corte riprende saldamente il controllo sulle scarse ma significative tendenze verso un linguaggio figurativo più libero dalle convenzioni che si erano manifestate proprio all'inizio della XVIII Dinastia: vi è il chiaro programma da parte del ceto dirigente di ricollegarsi con la tradizione degli inizi della XII Dinastia e attraverso questa al periodo manieristico dell'Antico Regno, per sottolineare il carattere di continuità con tali momenti storici. Gli scultori egiziani trovano spazio solo nell'esaltazione un po' calligrafica delle forme del corpo umano, attentamente studiato e riprodotto con grande perizia tecnica, che dimostra come l'antico dominio nel trattamento della pietra non sia andato perduto nel periodo della dominazione straniera.
Un capitolo nuovo è invece quello relativo alla pittura, per la quale possediamo numerose testimonianze nei programmi decorativi, sia nelle tombe regali che in quelle dei grandi funzionari nella necropoli tebana: si tratta in questo caso di un uso completamente diverso della pittura rispetto alla prassi nelle tombe dell'Antico Regno, quando essa serviva solo da completamento della scultura su superficie piana. Ora invece la pittura viene stesa sulle pareti su una base di stucco o gesso e ha il valore di un linguaggio figurativo autonomo, in cui i pittori riescono al di là della ufficialità dei temi svolti ‒ sempre quelli delle scene della quotidianità, che per forza di magia riprenderanno vita nell'aldilà ‒ a ritagliarsi spazi per interventi personali spesso di grande originalità. Il momento più alto e più originale, però, di questo lungo periodo storico è costituito indubbiamente dall'esperienza di Amarna, in cui ‒ nel brevissimo lasso di tempo corrispondente all'incirca al regno di Akhenaten e a quello di Tutankhamon ‒ scultori e pittori sono stati lasciati liberi dalla corte di percorrere strade nuove rispetto al canone classico, affiancando così sul piano delle arti figurative la rivoluzionaria esperienza del loro sovrano.
Le prime manifestazioni di questa inedita esperienza artistica sono state caratterizzate da uno spericolato sperimentalismo, visibile particolarmente nelle sculture attribuite alla scuola dello scultore Bek, in cui la ricerca di un nuovo linguaggio si traduce in una scomposizione della figura umana nelle sue parti costitutive e in una sua ricomposizione non naturalistica: tale esasperata ricerca del nuovo si attenua ma non si cancella del tutto nelle opere dell'atelier del Thutmosis sopra menzionato, nella cui produzione tuttavia finiscono per affermarsi toni e forme più pacati rispetto a quelli del suo grande predecessore. Va osservato tuttavia che dal punto di vista delle arti figurative l'esperienza di Amarna sopravvive abbastanza a lungo alla scomparsa dei suoi protagonisti, passando attraverso il regno di Horemheb (i rilievi della tomba di Saqqara sono in puro stile amarniano) e giungendo fino a quello di Ramesse II, quando gli ultimi epigoni sono in grado di produrre un capolavoro come la statua di questo sovrano conservata al Museo di Torino, definita da J.-F. Champollion "l'Apollo del Belvedere dell'arte egiziana": in essa i motivi amarniani sono ancora perfettamente visibili, pur in un apparente ritorno al canone classico. Nella parte finale del Nuovo Regno, proprio a partire dal regno di Ramesse II e poi ancora più da quello di Merenptah, si scade in un nuovo e più grigio manierismo privo di grandi slanci creativi, dopo che era stato sperimentato un periodo di gigantismo nella statuaria regale, che a dire il vero aveva avuto origine con Amenhotep III e che corrispondeva bene ai nuovi temi della propaganda.
Letteratura - Sul piano della storia letteraria il conformismo così tipico del Nuovo Regno si può cogliere in modo ancora più evidente: il tema prevalente di una letteratura priva di originalità è la fedeltà al sovrano; la scuola è il luogo privilegiato della trasmissione dell'ideologia. Poche sono le eccezioni: tra di esse va ricordato soprattutto il Poema della battaglia di Qadesh, già menzionato, che può considerarsi come un primo esempio di letteratura epica nell'antico Egitto, per lo straordinario rilievo che viene dato alla figura del faraone combattente. La grande novità, ancora una volta attribuita ad Akhenaten, è costituita dall'introduzione del neoegiziano come lingua letteraria, ciò che costituirà un'acquisizione definitiva per il resto della storia egiziana e i cui esempi migliori sono costituiti dalla novellistica che si impone nel periodo postamarniano. La letteratura religiosa ha la sua opera più importante nel Libro dei Morti, il grande testo funerario che prende il posto dei Testi delle Piramidi e dei Testi dei Sarcofagi: esso ci è giunto in innumerevoli edizioni, spesso molto parziali, in scrittura geroglifica e più ancora in ieratico, sui più diversi supporti scrittori (le pareti delle tombe, i coperchi dei sarcofagi, i papiri, perfino le bende di mummia) ed è stato in uso fino all'età romana (I-II sec. d.C.). In realtà nessun papiro ci ha conservato il testo completo del Libro ma soltanto alcune raccolte che talvolta sono molto estese, come avviene per un papiro di Torino che comprende 162 capitoli su un totale di 200. A differenza dei grandi testi funerari che lo hanno preceduto conosciamo il suo titolo in egiziano: peret em heru "(libro dell') uscire di giorno", il che dimostra che comunque era stato concepito come un'opera unitaria. La sua funzionalità è la medesima degli altri testi che l'avevano preceduto, perché le formule ivi raccolte hanno anch'esse efficacia per mezzo della magia, che tanto più opera a favore del defunto quanto più stretto è il rapporto tra il supporto scrittorio del libro e il suo corpo. Le formule stesse che lo compongono derivano in parte da quelle dei Testi dei Sarcofagi e persino da quelle dei Testi delle Piramidi: in realtà tra tutti vi è un'evidente continuità di contenuti, che si può cogliere pur attraverso il loro adattamento a trasformazioni ‒ anche profonde ‒ del pensiero religioso relativo all'aldilà.
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di Sergio Pernigotti
Con la XXI Dinastia (1070/69-946/5 a.C.) si apre un periodo assai lungo e complesso, che negli studi moderni viene fatto terminare solo circa mille anni dopo, con la conquista dell'Egitto da parte di Alessandro Magno (332 a.C.), periodo che prende il nome di Epoca Tarda. In realtà, sotto questa designazione generica e molto impropria, perché sottintende un inaccettabile giudizio storiografico negativo, quasi di un'epoca "argentea" che segua a una "aurea" nella storia della civiltà egiziana, si comprendono avvenimenti e situazioni assai differenziati. Il filo conduttore, che si svolge in maniera talvolta poco coerente, è rappresentato da una serie di gravi crisi interne e da una netta diminuzione della presenza del Paese nel contesto internazionale, cui ancora partecipa ma non più come protagonista, almeno nella maggior parte dei casi.
Già nella XXI Dinastia si colgono i segni di un profondo cambiamento rispetto alla situazione del Nuovo Regno: vi è una nuova divisione tra una monarchia al Nord e una al Sud, ormai completamente nelle mani del potente clero di Amon, cui si aggiunge una grave crisi economica ben testimoniata anche in un testo letterario assai esplicito a questo riguardo, qual è il Racconto di Unamon. Quest'opera si inserisce nella tradizione del "romanzo storico" risalente alla XII Dinastia e in quanto tale può aver avuto un reale fondamento storico o addirittura essere la versione romanzata del rapporto ufficiale del protagonista, un sacerdote di Amon di nome Unamon che si reca nel Vicino Oriente per acquistare il legno necessario alla costruzione della barca sacra del dio: il racconto, di cui manca la parte finale, ci narra delle umiliazioni che egli deve subire dai discendenti di coloro che un tempo erano solo vassalli del faraone, consegnandoci l'immagine di un Egitto diviso e impoverito all'interno, debole e privo di prestigio sul piano internazionale. Le cause di una tale situazione non sono chiaramente definibili: è possibile che il Paese scontasse il peso dell'impegno militare delle campagne contro i Libici e i Popoli del Mare e soprattutto, come molti ritengono, dell'esaurimento delle miniere d'oro con cui tradizionalmente l'Egitto aveva pagato le sue importazioni (in primo luogo proprio quelle del legno per cui il Paese dipendeva in toto dall'area siro-palestinese, come testimoniano appunto le avventure di Unamon); all'impoverimento che lo costringeva a ritirarsi da un'attiva politica estera si aggiungeva la rottura dell'unità interna, per il prevalere ancora una volta delle tendenze centrifughe sempre latenti nella società egiziana.
A questo periodo di grave crisi interna segue l'avvento sul trono di generali di origine libica, già presenti in Egitto e ormai inseriti nella cultura egiziana: si tratta delle dinastie "libiche", XXII e XXIII (946/5-712 a.C.), durante le quali, sotto la guida spesso energica di militari di professione, si assiste a momenti di forte ripresa anche sul piano internazionale, come dimostra la spedizione nell'area palestinese compiuta da Sheshonq I ‒ ricordata anche nella Bibbia ‒ che procurò all'Egitto un ingente bottino di guerra. Di esso faceva parte una grande quantità di oro, che permise di riempire le esauste casse del tesoro egiziano, come testimoniano le sepolture regali di Tanis in cui appaiono nuovamente oggetti di corredo aurei. Si tratta tuttavia di parentesi non durature, perché l'indebolimento dell'Egitto sul piano economico interno provoca sempre più evidenti contraccolpi sul suo ruolo internazionale, che diventa sempre più marginale. Dopo una brevissima dinastia "indigena", la XXIV (ca. 740-712 a.C.), che si identifica col nome di un unico sovrano, Boccoris, considerato da fonti posteriori come uno dei grandi legislatori del Paese insieme ad Amasis e a Dario I, l'Egitto con la XXV Dinastia (?-655/3 a.C.) cade sotto il dominio di una casa regnante nubiana ma profondamente egizianizzata e diventa il campo di battaglia in cui si decidono le sorti del grande scontro tra l'Assiria e l'impero kushita, che culmina con due successive invasioni della valle del Nilo da parte degli Assiri, sotto la guida di Esarhaddon prima (nel 671 a.C.) e di Assurbanipal poi (nel 663 a.C.).
Sfruttando abilmente questo scontro a cui l'Egitto non poteva che assistere impotente, un principe del Delta, Psammetico, riesce a realizzare la liberazione del Paese dalle presenze straniere e la riunificazione sotto il suo scettro: è la XXVI Dinastia (664-525 a.C.), non a torto considerata come una sorta di "rinascenza" nel percorso di una civiltà che sembrava ormai destinata a un lento declino ma che in realtà aveva conservato la capacità di grandiose riprese, sul piano politico, economico e militare. La prima parte del regno di Psammetico I (664-610 a.C.) fu dedicata alla soluzione dei numerosi problemi di politica interna, che la guerra tra Assiri ed Etiopi aveva lasciato aperti: in primo luogo il consolidamento della riconquistata unità del Paese. Il problema maggiore era quello dei rapporti tra il governo centrale e alcuni potentati locali, che si erano venuti consolidando durante la fase finale della XXV Dinastia: uno di essi era costituito dai "signori delle navi", che avevano la loro sede a Herakleopolis in Medio Egitto e che da lì esercitavano un totale controllo sul traffico fluviale tra il Nord e il Sud, ciò che dava loro un enorme potere economico. Più a sud, a Tebe, vi era un secondo e ancora più pericoloso centro di potere alternativo alla monarchia, che aveva come punto di riferimento un personaggio di nome Montuemhat che, tra i molti, si fregiava dei titoli di "principe della città e quarto profeta (sacerdote) di Amon". Al momento dell'avvento al trono di Psammetico I, Montuemhat si comportava in tutto e per tutto come se la Tebaide fosse autonoma dal potere centrale, pur non avanzando formali pretese d'indipendenza. La scelta del sovrano fu quella di risolvere per via diplomatica i due difficili problemi, giungendo a un accordo sia con il "signore delle navi" che con Montuemhat, secondo cui le loro prerogative non sarebbero state toccate finché essi fossero stati in vita: alla loro morte esse sarebbero passate al sovrano mentre i loro successori avrebbero mantenuto le cariche sacerdotali che già ricoprivano, con le ricche prebende a esse spettanti. Con ciò Psammetico I ottenne di realizzare in pochi anni (Montuemhat morì nel 14° anno) l'unità del Paese senza dover ricorrere alla forza, pur potendo disporre di un esercito molto rafforzato dalla presenza di Greci della Ionia e di Cari che deve aver costituito un notevole deterrente per i suoi potenziali avversari: la sanzione ufficiale di tale politica si ebbe nel 9° anno, quando la principessa Nitocris, figlia di Psammetico I, si recò a Tebe con un ricco seguito di funzionari del Nord per essere "adottata" dalla "divina adoratrice di Amon", massima carica del sacerdozio femminile tebano che aveva soppiantato da tempo come importanza politica e religiosa quello maschile (il potentissimo Montuemhat era solo quarto profeta di Amon!).
Introduzione del demotico - Il resto del regno di Psammetico I fu dedicato alla ricostruzione delle strutture interne dello Stato che erano state gravemente compromesse, per non dire distrutte, dalla rovinosa guerra di cui l'Egitto era stato il campo di battaglia. Due dei punti più importanti di tale ricostruzione sono l'apertura delle frontiere verso i Greci e i Carii, che divennero una presenza stabile nel Paese, e l'introduzione di un nuovo tipo di scrittura: quello che le fonti classiche chiamano "demotico" o "encoriale". In realtà il demotico sembra essere stato lo sviluppo, documentato solo nella sua fase finale, dell'evoluzione interna dello ieratico in uso nelle scuole scribali del Delta, che si contrapponeva a un altro ieratico, chiamato dagli studiosi moderni "anormale": quello del Sud del Paese, che conosciamo abbastanza bene a partire dalla XXI Dinastia e che si andò via via esaurendo fino a scomparire del tutto durante la XXVI Dinastia. Va sottolineato che anche in questo caso Psammetico I preferì seguire una linea "morbida"; il demotico infatti si andò progressivamente estendendo verso sud senza forzature: soltanto verso la fine della XXVI Dinastia era diventato di uso corrente in tutto l'Egitto, Tebe compresa. La nuova scrittura non prendeva il posto delle precedenti ma semplicemente si affiancava a esse; la novità più importante sta nel fatto che ora le tre scritture in uso in Egitto ricevevano una più chiara specializzazione: mentre il geroglifico rimaneva la scrittura epigrafica e monumentale per eccellenza e quindi di uso circoscritto, lo ieratico vedeva di molto diminuita la sua importanza perché ora veniva impiegato soltanto per i libri a contenuto religioso, donde il nome appunto di "(scrittura) sacra" a esso attribuito, non senza ragione, dagli scrittori greci. Di fronte a esso il demotico diventava la scrittura corrente, cui corrispondeva in realtà una diversa fase linguistica derivante dal neoegiziano, impiegata per gli atti dell'amministrazione, per i documenti di diritto privato, per tutti gli altri usi privati della scrittura e anche per i testi letterari e perfino per quelli a carattere religioso, in ciò "usurpando" in parte lo ieratico. I supporti scrittori del demotico sono principalmente i papiri e gli ostraka, ma esiste anche un'epigrafia demotica che solo di recente sta entrando a pieno titolo negli studi: per comprenderne l'importanza basti pensare che le scritture della Pietra di Rosetta sono la geroglifica, la demotica e la greca, quest'ultima rispettivamente lingua e scrittura dei nuovi dominatori del Paese.
Il demotico è rimasto in uso per più di mille anni, essendo l'ultima iscrizione del V secolo della nostra era; in realtà questo tipo di scrittura, che a noi moderni pare molto più difficile degli altri due, è la chiave di accesso per comprendere gli aspetti più importanti di un lungo periodo della storia della civiltà egiziana: quello delle ultime dinastie indigene, della dominazione greca e romana e poi dei primi tempi della dominazione bizantina. La documentazione che ci è giunta è molto ampia, ma giace ancora in gran parte inedita nei musei e nelle collezioni, in cui si è andata accumulando da quando è iniziata l'esplorazione archeologica dell'Egitto, e riceve continui incrementi dalle ricerche attualmente in corso. Va tuttavia osservato che per il periodo di tempo che giunge fino alla XXX Dinastia e alla seconda dominazione persiana, in demotico non possediamo altro che testi documentari: solo in seguito cominciano ad apparire i testi letterari e di altro genere, ad esempio quelli magici.
Politica estera - La parte finale del regno di Psammetico I è caratterizzata da una ripresa dei rapporti con la fascia siro-palestinese e con la Nubia, dove probabilmente il sovrano condusse una prima spedizione militare. Ma le vicende militari della XXVI Dinastia si colgono molto meglio nel regno del suo successore Nekao II (610-595 a.C.), durante il quale l'Egitto subisce una grave sconfitta a Karkemish, evento che lo costringe nuovamente ad assumere una posizione difensiva. Il regno di questo sovrano è tuttavia importante perché a lui vengono attribuiti dagli scrittori classici tre avvenimenti, che indicano un cambiamento di rotta nella politica estera egiziana e la cui reale portata si potrà cogliere soltanto in seguito: essi sono il tentativo, fallito, di aprire un canale che mettesse in comunicazione il Mediterraneo con il Mar Rosso, la costruzione di triremi da dislocare nel Mar Rosso e infine la circumnavigazione dell'Africa, affidata a marinai fenici.
L'insieme di queste imprese ‒ la cui storicità non sembra discutibile anche se rimane qualche dubbio sul significato del termine "trireme" ‒ indica un radicale mutamento nella politica di Nekao, con uno spostamento degli interessi egiziani dal Vicino Oriente al Mar Rosso e all'Africa: orientamento che troverà conferma nella politica del suo successore Psammetico II (595-589 a.C.), al quale si devono un'importante spedizione contro la Nubia, che chiude definitivamente il capitolo aperto nella XXV Dinastia con la dominazione etiopica dell'Egitto, e una spedizione del tutto pacifica ‒ che assume anzi l'aspetto di una processione rituale con l'offerta di ghirlande di fiori agli dei ‒ in Palestina, che sembra sanzionare per il momento la rinuncia dell'Egitto a inserirsi in tale area geografica.
La spedizione nubiana di Psammetico II appare della più grande importanza storica, anche per la ricca documentazione di cui disponiamo su di essa e che comprende fonti in egiziano, in caratteri geroglifici, in greco (con le iscrizioni di Abu Simbel, le più antiche in alfabeto ionico che ci siano giunte), in cario e in fenicio (in questi due casi si tratta soltanto di nomi propri di soldati che militavano nell'esercito egiziano). Tale insieme di documenti ci permette di studiare, come non accade per nessun altro periodo storico, la struttura dell'esercito egiziano, che comprendeva una vera e propria legione straniera da quando i Greci si erano installati in Egitto, durante il regno di Psammetico I. Sarà proprio tale presenza, che andò sempre aumentando con il passare del tempo, che si rivelerà a lungo andare un fattore di crisi sotto il successore di Psammetico II, Apries (589-570 a.C.), deposto da un'insurrezione dell'esercito guidata dal generale Amasis, che gli successe sul trono (570-526 a.C.). Secondo Erodoto, Amasis, salito al trono grazie a un'insurrezione antigreca, divenne in seguito il re "filelleno" per eccellenza e collocò i Greci e i Carii, i successori dei primi che erano giunti in Egitto circa cento anni prima e che a buon diritto ormai si potevano considerare "Greci d'Egitto", in due quartieri di Menfi loro riservati e ne fece anzi le proprie guardie del corpo: e sarà proprio in tali quartieri che ancora Alessandro troverà i loro discendenti al momento della sua conquista del Paese. Amasis, per certi aspetti, costituisce una figura di sovrano complessa e anche singolare: di sicura illegittimità, come dimostrano le vicende sopra esposte, capace di repentini mutamenti di politica, come avvenne nel caso dei Greci d'Egitto, nella tradizione storiografica egiziana fu considerato uno dei grandi legislatori del Paese, insieme con Boccoris e Dario I, e nello stesso tempo venne descritto come un re amante del vino e della buona tavola nella Cronaca demotica, cosa del tutto insolita per un sovrano egiziano, la cui vita scandita da un ossessivo ritualismo e da un'assoluta purezza di costumi ci è stata tramandata da una famosa e completamente attendibile pagina di Diodoro Siculo (tale tradizione era stata puntualmente raccolta da Erodoto). La sua fama di gran legislatore si fonda forse solo su un riordinamento delle leggi preesistenti, ma durante il suo regno sono comunque avvenute importanti riforme amministrative. La dinastia termina tragicamente con l'invasione persiana guidata da Cambise che travolge, dopo solo un anno e mezzo di regno, Psammetico III (526/5 a.C.), figlio e successore di Amasis.
La XXVI Dinastia rappresenta quindi una breve, per quanto importante, parentesi: la conquista del Paese da parte di Cambise fece entrare l'Egitto nell'ambito di quell'immensa e insieme grandiosa costruzione che fu l'impero persiano, nel quale svolgeva il ruolo di una semplice satrapia; tale conquista rientrava sicuramente nel progetto, se vogliamo nel sogno, della costruzione della monarchia universale da parte dei sovrani persiani. La presenza di Cambise in Egitto fu molto breve, ma ciò malgrado essa ha segnato profondamente la scena politica interna e internazionale e la stessa storiografia antica. Con la conquista persiana l'Egitto sperimenta realmente una dominazione straniera che dura abbastanza a lungo, circa centoventi anni; inoltre il suo ingresso in un organismo politico molto avanzato ne limita parecchio le possibilità di reazione nei confronti dei nuovi signori del Paese. Nella politica internazionale l'Egitto si trova ora coinvolto in un gioco cui prima era del tutto estraneo, vivendo le sue esperienze in un ambito puramente vicino-orientale; l'orizzonte si amplia a tutto il Mediterraneo orientale perché, come parte dell'impero persiano, partecipa al gigantesco scontro con la Grecia, naturalmente dalla parte persiana: ed è proprio questa la ragione per cui Erodoto intorno al 450 a.C. visitò l'Egitto, per raccogliere il materiale necessario alla stesura delle sue Storie che, come è noto, hanno per oggetto proprio le guerre persiane.
Cambise, malgrado la violenta reazione contro di lui sia da parte egiziana che da parte persiana, pose i presupposti di una situazione realmente innovativa per la storia dell'Egitto, tale da provocare nei secoli seguenti, fino all'arrivo di Alessandro, solo modeste reazioni interne e poco significative. Il conquistatore persiano dell'Egitto si presentò inizialmente come legittimo successore di Apries, affermando di essere figlio di una sua figlia e negando (giustamente) la legittimità di Amasis, di cui fece bruciare la mummia: la sua cattiva fama derivava in realtà dal fatto di aver toccato i privilegi fiscali dei templi egiziani, con esclusione di tre dei più importanti e, dal lato persiano, dal tentativo di spostare a occidente l'asse dell'impero; le fonti egiziane coeve smentiscono le accuse di empietà, soprattutto quella di aver provocato la morte di una divinità veneranda come il torello Apis, e svelano i veri motivi della propaganda a lui contraria. Va tuttavia rilevato che la storiografia egiziana ha considerato legittima la XXVII Dinastia, che comprende nella sua interezza la prima dominazione persiana, e che il re Dario I (522/1-486/5 a.C.) ha goduto di buona fama nel Paese: in sostanza la dominazione persiana non è stata vista dagli Egiziani, a parte la fase iniziale, come una frattura con il passato; questo nonostante il Paese fosse governato da un satrapo e quindi formalmente privo d'indipendenza, come risulta anche dal fatto che per la prima volta nella sua lunga storia la lingua ufficiale dell'amministrazione era l'aramaico, come nel resto dell'impero persiano.
Di breve durata sono stati i sussulti di un ritrovato orgoglio nazionale, che porteranno l'Egitto a conquistarsi brevi periodi d'indipendenza nelle dinastie XXVIII-XXX (405/1-342 a.C.), dopo i quali il Paese verrà nuovamente conquistato dai Persiani nel 342 a.C.: e sarà un Egitto satrapia dell'impero persiano quello che Alessandro conquisterà nel 332 a.C.; di lì a poco, con la fondazione di una dinastia greco-macedone, avrà fine la plurimillenaria vicenda dell'Egitto faraonico. Un'altra se ne aprirà in cui sotto una dinastia straniera, con una classe dirigente greco-macedone che imporrà la sua lingua, il greco, come lingua ufficiale dell'amministrazione, l'Egitto manterrà però intatti ancora a lungo i caratteri essenziali della sua civiltà. Anzi, per certi aspetti, alcune sue manifestazioni come le arti figurative, l'architettura e perfino la letteratura riceveranno nuovo impulso dallo stretto contatto tra due culture così diverse, come quella greca e quella egiziana. La fine della civiltà egiziana avverrà molto più tardi e non a causa della dominazione greca prima e di quella romana poi, ma del progressivo affermarsi del cristianesimo nella valle del Nilo: e tuttavia ancora saranno vivi e vitali numerosi fattori di continuità con il passato, che verranno meno solo con la conquista araba del Paese nel 638-641 della nostra era, quando in breve tempo si affermeranno una nuova lingua e una nuova religione. Solo allora i legami con il passato saranno definitivamente recisi.
Considerata nel suo complesso l'Epoca Tarda si caratterizza, per la prima volta nella storia della civiltà egiziana, per un sostanziale spostamento verso nord dell'asse geografico lungo il quale si svolgono gli avvenimenti più importanti, circostanza questa che trova un immediato e puntuale riscontro anche sul piano archeologico. A lungo, fino dalle età più antiche, il centro propulsore era stato a sud: dal Sud era venuta l'unificazione che aveva dato origine al periodo dinastico, dal Sud erano partiti i principi che avevano realizzato l'unità del Paese dopo il Primo Periodo Intermedio e dopo l'invasione Hyksos, sì che erano parsi un naturale evolversi degli eventi il culminare di questo processo con la scelta di Tebe come residenza dei sovrani del Nuovo Regno e la prevalenza del clero di Amon-Ra, divenuto divinità "imperiale", sul clero di ogni altro dio. Ma proprio nel momento in cui sembra realizzarsi la sua vittoria ‒ quando all'inizio della XXI Dinastia un suo rappresentante, Herihor, sale sul trono d'Egitto ‒ il ruolo di Tebe viene sostanzialmente indebolito con un progressivo spostarsi dell'asse politico verso il Delta. Sarà proprio nel Delta orientale, a Tanis, che i sovrani della XXI Dinastia, originari di questa città, e poi quelli della XXII e della XXIII, attivamente impegnati nel Vicino Oriente, porranno la loro residenza, come testimonia la necropoli regale che ivi è stata ritrovata: una scoperta considerata tra le più importanti di tutta la storia dell'archeologia egiziana, che tuttavia ha avuto una risonanza molto inferiore al suo peso specifico a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale.
Il prevalere del Nord nei confronti del Sud è nell'insieme poco documentabile, perché lo stato della conservazione dei siti del Delta è incomparabilmente meno buono rispetto a quello della valle del Nilo, e anche l'esplorazione archeologica di tali siti non è paragonabile a quella che per più di un secolo e mezzo si è sviluppata nel Meridione. Luoghi importanti come Bubastis, Tanis, Sais, Heliopolis e la stessa Menfi, per citare solo i più importanti, sono poco noti e vi sono ben poche possibilità che le nostre conoscenze possano aumentare in futuro. Delle innumerevoli città e villaggi del Delta ben poco è rimasto: non solo il tessuto urbano, ma la maggior parte degli edifici è andata distrutta; così è accaduto per i templi, che erano grandi e importanti non meno di quelli che si trovano ancora in buone condizioni nel Sud, e che hanno costituito delle vere cave di pietra per gli abitanti del Delta per tutto il Medioevo e buona parte dell'età moderna (cosa del resto comprensibile in un'area che è stata sempre molto antropizzata). Neanche la situazione delle necropoli può dirsi migliore, anche perché in una zona molto umida e instabile tutti i materiali deperibili ‒ e in primo luogo i preziosissimi papiri ‒ sono andati distrutti, facendo sì che venisse meno una fonte talora insostituibile di dati fondamentali. Perciò lo spostarsi del centro del potere politico nel Nord non ha portato in realtà a una maggiore conoscenza di questa zona dell'Egitto e la nostra dipendenza dalla documentazione proveniente dal Sud è ancora molto grande.
Se all'inizio è il Delta orientale ad apparire in primo piano, con la XXVI Dinastia il centro del potere si sposta nel Delta occidentale: Psammetico I è infatti originario della città di Sais, dove pone la sua residenza. Si assiste ora a un irradiarsi del Nord verso un Sud sempre meno dotato di una carica propulsiva, ben testimoniato dal diffondersi per il Paese di una miriade di funzionari provenienti dal Delta che danno un'impronta nettamente "settentrionale" alla civiltà egiziana della XXVI Dinastia. Questa impronta si manifesta sia nelle arti figurative, sia con l'introduzione del nuovo tipo di scrittura originario del Delta, il demotico, sia infine con la netta prevalenza che assume ora nel Pantheon egiziano la divinità dinastica Neith, una dea guerriera adorata fin da tempi antichissimi nel Delta occidentale e dai Greci prontamente identificata con Atena. È a partire dai primi tempi della XXVI Dinastia che si verifica in Egitto un evento destinato ad avere in seguito grandiose conseguenze e che, anch'esso, ha inizio nel Delta, dove, secondo ogni verosimiglianza, rimarrà a lungo confinato. Si tratta dell'arrivo dei Greci della Ionia che, secondo la testimonianza di Erodoto, giungono in Egitto come pirati, accompagnati da gruppi di Carii, e vengono ingaggiati da Psammetico I come mercenari da utilizzare nella sua opera di liberazione e di unificazione del Paese. È una presenza che ha scarsi e assai dubbi riscontri sul piano archeologico, dapprima limitata al puro ambito militare, ma che ben presto si trasforma in una ricca attività commerciale se la città di Naukratis, una fondazione milesia datata forse a un'epoca anteriore al 620 a.C., non lontano da Sais, diventerà presto un centro riservato al commercio greco, una delle "porte" ‒ per usare l'espressione egiziana ‒ da cui entreranno i prodotti provenienti dal mondo greco o ellenizzato in Egitto. Coinvolti nelle lotte interne dell'inizio del VI secolo, i Greci vengono confinati dal faraone Amasis in un quartiere di Menfi: e lì, ancora gelosamente attaccati ai loro caratteri nazionali, li troverà Alessandro al momento della conquista, come sopra si è detto.
Molto rilevanti sono in quest'epoca le testimonianze relative alla storia dell'arte, che consistono soprattutto in una quantità veramente grande di statue templari recuperate un po' dovunque in Egitto, anche nel Delta, ma con una netta prevalenza nella zona meridionale, ancora una volta; basterà ricordare a questo proposito che nella cosiddetta cachette di Karnak, in realtà un deposito scavato nel terreno presso uno dei piloni del tempio, sono state trovate 1000 tra statue di pietra e di bronzo databili all'Epoca Tarda: ancora in gran parte inedite, sono importanti non solo per la storia dell'arte, ma anche per le iscrizioni che conservano, fondamentali per l'identificazione dei maggiori dignitari vissuti in Egitto durante l'Epoca Tarda, che non hanno mancato di deporre i loro ex voto in quello che malgrado tutto rimaneva uno dei più prestigiosi templi d'Egitto. A questo eccezionale rinvenimento, che si colloca nei primi anni del Novecento, altri se ne possono affiancare, come quello recentissimo di una seconda cachette, molto più piccola della precedente, questa volta all'interno del tempio di Luxor, nella quale però le statue di Epoca Tarda sono solo una piccola parte. Ignote sono le ragioni per cui sono stati costruiti tali nascondigli o depositi sotterranei: tra le ipotesi che sono state avanzate quella, tuttavia poco verosimile, della volontà di salvare le sculture da stranieri invasori, quali gli Assiri e i Persiani. L'ipotesi più probabile è che in realtà si sia trattato di una delle periodiche pulizie che venivano fatte nei cortili dei templi egiziani, per liberarli dalla quantità di statue che nel corso dei secoli si andavano accumulando. Considerata nel suo insieme possiamo però dire che la statuaria di Epoca Tarda è documentata da una quantità eccezionalmente alta di opere, che appaiono, inoltre, distribuite in modo abbastanza equilibrato per un periodo di tempo che comunque si estende per circa mille anni.
I caratteri generali di una tale produzione artistica sono ormai chiaramente delineabili, da quando almeno all'arte di Epoca Tarda è stata riconosciuta una sua autonomia, per cui non viene più considerata soltanto come il frutto di una civiltà in declino. La prima e più essenziale caratteristica è stata da tempo individuata nel suo linguaggio "arcaizzante": è un'arte che si ispira al passato al punto da rendere qualche volta difficile formulare una proposta di datazione, soprattutto nei rilievi su superficie piana, non a torto definiti "neomenfiti" per la stretta adesione a modelli dell'Antico Regno. Il dissenso tra gli studiosi riguardava la cronologia di un tale fenomeno, le fonti d'ispirazione e infine il significato e il valore di una tale produzione artistica.
Va detto anzitutto che gli artisti egiziani di Epoca Tarda, gli scultori soprattutto perché sulla pittura siamo pochissimo informati, dimostrano un immutato dominio della pietra, ereditato da un passato lontanissimo ma sempre mantenuto vivo, anche attraverso i periodi di più grave crisi del Paese; si potrebbe anzi affermare che tale dominio è ancora maggiore perché deve confrontarsi con il "rifacimento" di stili e linguaggi figurativi profondamente diversi. Per quanto concerne la cronologia, è stata ormai abbandonata l'idea che si tratti di una caratteristica propria della XXVI Dinastia e dell'epoca persiana. Sembra definitivamente accertato che essa sia molto più antica e che abbia inizio con la XXII Dinastia per poi continuare fino alla XXX, in cui anzi evolve verso forme "arcaistiche" nelle quali i modelli sono da ricercarsi nella XXVI Dinastia, interni quindi alla stessa Epoca Tarda.
Non si tratta perciò di un fenomeno unitario dal punto di vista cronologico, perché ha una sua evoluzione coerente con l'idea del "vivere nel passato", come è stata opportunamente definita. I modelli a cui gli artisti di Epoca Tarda si ispirano sono molto diversi ed è incerto se tra di essi si possano fare distinzioni dal punto di vista territoriale o cronologico. È sicuro che essi vanno ricercati nell'Antico Regno, ma alcuni (come le teste con il volto scavato), un tempo attribuiti all'arte "brutale" della dinastia etiopica, risalgono sicuramente a modelli del Medio Regno, come nel Nuovo Regno vanno ricercati quelli di altri tipi statuari. Si tratta dunque di un'assai variegata ricerca di fonti d'ispirazione, il cui denominatore comune altro non è che il ricostituire un rapporto con il passato, di cui si sente il prestigio e di cui si vuole ricreare il linguaggio. Tuttavia tale atteggiamento non è diretto a riprodurre meccanicamente quanto in passato gli artisti hanno fatto. In primo luogo vi sono delle significative omissioni: l'intera esperienza di Amarna, che a noi appare così importante per la creatività dei suoi artisti, è interamente esclusa, sicuramente per la mancanza di rispetto verso il passato. Poi, se si fosse trattato di una semplice riproduzione di modelli antichi, noi non potremmo parlare di grande "arte dell'età saitica", un'arte che non ha mancato tra l'altro di influenzare l'arte greca di età arcaica, nella quale le figure dei kouroi si ispirano strettamente a modelli della XXVI Dinastia. Del resto il rifarsi al passato non è certo una novità nell'arte egiziana: si può dire anzi che è un fatto ricorrente dopo ogni periodo di crisi attraversato dal Paese. Il senso della continuità della storia egiziana si è realizzato in primo luogo proprio attraverso tale ripresa di temi e di linguaggi del passato: che ciò avvenga di nuovo in un periodo di crisi così grave, soprattutto per la lunghezza dal punto di vista cronologico e per le ripetute invasioni straniere (Assiri, Persiani), fino alla perdita definitiva dell'indipendenza, non può certo sorprendere. Quello che anima tale produzione artistica è la sincera ammirazione per il passato del Paese; si tratta, come è ovvio, di una posizione in primo luogo ideologica, nel senso che, come sempre, essa proviene dalla corte: ma è tutto il ceto dirigente che vi si riconosce e gli artisti se ne fanno puntualmente interpreti. È un rapporto con il passato che, con le debite distinzioni, si può avvicinare a quello degli artisti del Rinascimento italiano con il mondo classico e non a torto certi periodi dell'Epoca Tarda sono stati qualificati da alcuni studiosi come il "rinascimento saitico".
La cultura artistica dell'Epoca Tarda si identifica in gran parte con la scultura di pietra, alla quale va accostata anche la produzione di sarcofagi antropoidi ricavati dal medesimo materiale, che spesso nel trattamento del volto ‒ o meglio della maschera funeraria ‒ del defunto raggiungono momenti di grande valore artistico. La statuaria di bronzo è molto meno conservata di quella di pietra, ma ci ha consegnato oltre a un certo numero di opere di buon artigianato due grandi capolavori, entrambi databili alla dinastia etiopica, quali le statue femminili della principessa Karomama e della dama Takushit, a dimostrazione che la dominazione etiopica in Egitto non è stata affatto un'epoca di decadenza, almeno dal punto di vista delle arti figurative.
Edilizia funeraria e pubblica - Le tombe, innovando profondamente rispetto alla tradizione di origine tebana, sono collocate in un angolo del recinto del tempio del dio Amon, che anche a Tanis aveva un importante centro di culto. Si tratta del primo manifestarsi di un nuovo rituale funerario regale, che si basa su due principi che sembrano, e di fatto sono, la negazione di quanto era fino ad allora avvenuto in tutta la storia dell'Egitto: non solo infatti le necropoli ‒ tutte le necropoli, regali o private che fossero ‒ erano sempre state collocate fuori dai contesti urbani, ma mai esse avevano trovato luogo all'interno dei recinti templari, in cui si praticava il culto degli dei. I templi funerari dei sovrani del Nuovo Regno erano altra cosa perché erano riservati al culto del faraone defunto, la cui tomba si trovava altrove, nella Valle dei Re, ed era inaccessibile per chiunque. È difficile comprendere le ragioni di un tale mutamento, non potendosi pensare in questo caso a ragioni di sicurezza, come è stato ipotizzato nel caso della necropoli tebana: è infatti evidente che le sepolture collocate nel temenos dei grandi templi cittadini erano note a tutti e assai facilmente accessibili. È possibile che la ragione di tale innovazione consistesse nella volontà di rendere più stretto il rapporto con la divinità dinastica: ciò risulterebbe confermato dal fatto che i sovrani della XXVI Dinastia, le cui tombe sono andate distrutte, erano sepolti secondo la testimonianza di Erodoto a Sais, all'interno del recinto della dea Neith, loro divinità dinastica: ciò vuol dire anche che non vi era più un luogo unico destinato a ospitare le necropoli regali, come in tutte le epoche precedenti della storia egiziana, ma che esse seguivano la residenza dei sovrani.
Per quanto riguarda le testimonianze relative all'architettura funeraria, tutto si limita a un certo numero di sepolture di funzionari databili a questo periodo e particolarmente alle dinastie XXVI-XXX, che si trovano nelle necropoli di Saqqara e di Tebe, che malgrado tutto è rimasta un importante centro di potere, per quanto quasi esclusivamente limitato all'ambito religioso. A Saqqara vi sono tombe dei discendenti dei "signori delle navi" e di personaggi collegabili con la corte, come la splendida tomba ipogea del visir di Psammetico I, Bakenrenef, e quella di Padipep, che rivestiva la carica di "precettore" di Psammetico II e dei suoi fratelli. I grandi funzionari della XXVI Dinastia venivano sepolti, oltre che nelle necropoli delle varie località del Delta quasi interamente perdute ‒ sì che ci sono giunti per lo più solo elementi secondari del corredo funerario ‒, proprio a Saqqara, non secondo un piano coerente ma sfruttando in apparenza lo scarso spazio ancora disponibile in una necropoli che era in uso da quasi tre millenni: tale area era certamente considerata di grande prestigio per i funzionari della XXVI e della XXVII Dinastia, proprio perché per tutto l'Antico Regno era stata la sede delle sepolture regali.
La situazione di Tebe è un po' diversa perché qui, accanto alle tombe dei grandi personaggi locali (quali il già citato Montuemhat e Petamenophis), vi è una serie di sepolture in cui venivano deposti i funzionari provenienti dal Nord, insinuate ‒ per così dire ‒ tra quelle dei dignitari locali, perfettamente identificabili soprattutto per la loro onomastica chiaramente riferibile al Delta del Nilo. La necropoli tebana di Epoca Tarda presenta frequentemente tombe di grandi dimensioni, con sovrastrutture che assumono talvolta la forma di un tempio vero e proprio e che sono riccamente decorate con rilievi parietali spesso molto estesi. Si tratta, come è evidente, qui e a Saqqara, di sepolture assolutamente elitarie riservate a un gruppo ristretto di funzionari e di sacerdoti (Petamenophis era il mago di un faraone non meglio identificato).
Anche l'attività edilizia dei sovrani non può valutarsi nei suoi giusti termini, a causa della situazione archeologica del Delta: numerosi sono gli interventi che vengono compiuti, a partire dalla XXI Dinastia, nel grande complesso templare di Karnak, ma si tratta tutto sommato di lavori piuttosto modesti, assolutamente non paragonabili a quelli dei loro predecessori del Nuovo Regno. I sovrani di Epoca Tarda sembrano privilegiare altre aree, non solo del Delta ‒ come sappiamo da numerose testimonianze, per lo più indirette ‒ ma anche in zone geografiche periferiche, come dimostra il tempio costruito da Dario I nell'oasi di Kharga. Va tuttavia sottolineato che il Delta non è stato fatto oggetto fino a ora di una esplorazione archeologica del tutto soddisfacente, rispetto alle altre grandi aree del centro e del Sud, e che solo di recente è cominciata una sua indagine su larga scala: è dunque probabile che le nostre conoscenze possano avere in un futuro anche prossimo un sostanziale arricchimento, come in effetti è accaduto per il tempio di Isis a Behbeit el-Hagarah, noto da tempo ma solo da poco effettivamente studiato. Va anche osservato che vi è una sostanziale continuità con l'architettura di età tolemaica e romana, periodo storico in cui al contrario vi sono ricchissime testimonianze dell'attività edilizia dei sovrani greco-macedoni, che un po' dovunque nel Paese continuano la tradizione di età faraonica. Tuttavia, rispetto all'architettura religiosa ereditata dal passato, in Epoca Tarda non vi sono novità rilevanti: la struttura del tempio rimane sostanzialmente la stessa e anche i programmi decorativi ripetono i modelli del passato; soltanto nel IV sec. a.C., durante la XXX Dinastia (380-342 a.C.), prendono corpo alcune novità, quali, ad esempio, gli intercolumni di pietra, che diventeranno un dato costante in età tolemaica e romana, e soprattutto un nuovo tipo di edificio templare di ridotte dimensioni. È quello che J.-F. Champollion chiamò, con un termine da lui forgiato sul copto, mammisi, ovvero "luogo della nascita", perché in effetti esso era destinato a commemorare la nascita del dio locale: tale edificio ha avuto anch'esso un notevole sviluppo in età tolemaica, diventando un elemento costante all'interno del temenos dei templi più importanti come, ad esempio, quelli di Dendera e di Edfu, entrambi in Alto Egitto.
Letteratura - Anche la produzione letteraria in Epoca Tarda non regge il confronto con quella del passato, ma in questo caso più che in altri è indispensabile la cautela nei nostri giudizi, perché il rinvenimento dei testi letterari è condizionato non solo dal caso archeologico ma soprattutto dalla conservazione del supporto scrittorio, il fragilissimo papiro. I testi letterari databili a quest'epoca sono realmente molto pochi, ma questo non deve far pensare a un declino o a una cessazione della produzione letteraria. Il Papiro Vandier, noto da tempo ma solo recentemente pubblicato, ci conserva in neoegiziano un romanzo relativo a storie di maghi con continue interferenze tra il mondo dei vivi e quello dei morti, secondo un gusto che in Egitto vanta una lunga storia; anche un altro genere letterario molto popolare quale è quello degli insegnamenti continua a essere praticato. I testi più significativi sono però forse quelli che ci sono giunti per via epigrafica e cioè le autobiografie di personaggi importanti, che sono particolarmente preziose per i dati che conservano sull'affermarsi di una visione della vita nuova rispetto ai periodi più antichi della storia egiziana. Il demotico non ha ancora assunto in questo periodo l'importanza che avrà in seguito, durante l'epoca tolemaica e romana; tuttavia la cosiddetta Petizione di Petesi, forse un testo documentario che assume forme letterarie, ha toni da romanzo e perfino poetici, contenendo tre inni indirizzati ad Amon, e può perciò considerarsi a buon diritto il primo testo letterario in demotico. Per quanto concerne la letteratura funeraria, il punto di riferimento è costituito sempre dal Libro dei Morti, di cui ci sono giunte innumerevoli copie più o meno parziali. Degno d'interesse è il fatto che circa a metà della XXVI Dinastia, in pieno clima di recupero del passato, facciano nuovamente la loro comparsa, in tombe private a Saqqara, i Testi delle Piramidi: il fatto è molto interessante, in primo luogo perché significa che tali testi erano stati comunque conservati in versioni su papiro, per lo meno nella biblioteca del tempio di Ptah a Menfi, e poi perché non sono stati usati nel loro valore iniziale di testi regali ma sono stati degradati, se così si può dire, a un uso privato.
In definitiva l'Epoca Tarda consegna ai nuovi signori, i Greci giunti al seguito di Alessandro, un Egitto che si presenta ancora vivo e vitale in tutti gli aspetti fondamentali della sua civiltà, in crisi solo per quanto riguarda la capacità del ceto dirigente di mantenere il controllo politico del Paese e di promuoverne il riscatto sul piano internazionale: è proprio questa sua interna debolezza che ne compromette definitivamente l'indipendenza e ne fa una facile preda di Alessandro. Tuttavia il rapido accordo tra il sacerdozio egiziano e la dinastia ellenistica, che si installa sulle rive del Nilo, permette di salvare i caratteri originali ereditati dal passato e di affrontare un periodo di tempo ancora straordinariamente lungo prima di iniziare a percorrere la strada del tramonto definitivo, peraltro ricco di risultati importanti anche nel confronto con la cultura della classe dirigente greca, con la quale si crea un rapporto assai fruttuoso che si manifesta soprattutto in un sempre più accentuato bilinguismo greco/egiziano.
E. Drioton - J. Vandier, L'Egypte, Paris 1962; K.R. Weeks (ed.), Egyptology and the Social Sciences, Cairo 1979; S. Donadoni, L'Egitto, Torino 1981; B.G. Trigger et al., Ancient Egypt. A Social History, Cambridge 1983; N. Grimal, Histoire de l'Egypte Ancienne, Paris 1988 (trad. it. Roma - Bari 1990); B.J. Kemp, Ancient Egypt. Anatomy of a Civilization, London - New York 1989 (trad. it. Milano 2000); B.J. Trigger, Early Civilizations. Ancient Egypt in Context, Cairo 1993; P. Davoli, Città e villaggi dell'Antico Egitto, Imola 1994; S. Pernigotti (ed.), L'Egitto Antico, Imola 1996; J. von Beckerath, Chronologie des Pharaonischen Ägypten, Mainz a.Rh. 1997; G. Robins, The Art of Ancient Egypt, London 1997; J. von Beckerath, Handbuch der ägyptischen Königsnamen, Mainz a.Rh. 1999; E. Bresciani, Letteratura e poesia dell'Antico Egitto, Torino 19992; S. Donadoni, Tebe, Milano 1999; E. Bresciani, Sulle rive del Nilo. L'Egitto al tempo dei faraoni, Roma - Bari 2000; F. Hoffmann, Ägypten und Lebenswelt in griechischen-römischer Zeit. Eine Darstellung nach den demotischen Quellen, Berlin 2000; I. Shaw (ed.), The Oxford History of Ancient Egypt, Oxford 2000; E. Bresciani, Testi religiosi dell'Antico Egitto, Milano 2001.
di Paola Davoli
L'età tolemaica ebbe inizio in Egitto con la conquista di Alessandro Magno (332 a.C.) e terminò con la sconfitta dell'ultima regina macedone Cleopatra VII Filopatore da parte di Ottaviano (30 a.C.), che annesse l'Egitto all'Impero romano. La dinastia dei Tolemei iniziò a governare il Paese dal 323 a.C., cioè dal momento in cui, dopo la morte di Alessandro, il governo dell'Egitto venne affidato da Perdicca al generale Tolemeo figlio di Lago, in qualità di satrapo. Tolemeo, che ben comprese l'importanza politica ed economica dell'Egitto, cercò fin da subito di rendersi indipendente dall'impero macedone, nominalmente governato dal re Filippo Arrideo ma di fatto gestito da Perdicca. In seguito alla morte di Perdicca (avvenuta nel 321 a.C.) e poi dei discendenti di Alessandro Magno, Tolemeo si proclamò re d'Egitto (304 a.C.) e diede così inizio alla dinastia lagide.
Durante il regno dei primi tre sovrani tolemaici, l'Egitto fu il centro di un impero che comprendeva la Palestina, la Fenicia, Cipro, la Panfilia, la Licia, alcune città dell'Asia Minore e la Cirenaica. In questo periodo il Paese fu riorganizzato dal punto di vista amministrativo, militare e commerciale. Pur mantenendo intatta la continuità culturale plurimillenaria egiziana, i Tolemei introdussero numerosi elementi nuovi che costituivano di fatto una rottura con le tradizioni locali. La capitale amministrativa fu spostata da Menfi ad Alessandria, città di nuova fondazione, la cui posizione sulla costa nord-occidentale dell'Egitto meglio si adattava a un impero affacciato sul Mediterraneo. La dinastia regnante, che governava da Alessandria, era di origini straniere e impose la propria lingua, il greco, come idioma ufficiale dell'amministrazione pubblica. Si introdusse inoltre l'uso sistematico della moneta coniata (la dracma), in un sistema di valori che rimase "chiuso" fino alla fine dell'epoca romana.
Completamente nuovo era inoltre l'esercito, costituito da mercenari stranieri (Macedoni, Greci, Egei, Traci, Libici, Cretesi, ecc.), che si stanziarono in Egitto portando con loro elementi culturali e religiosi diversi. L'organizzazione dell'esercito e le tecniche di battaglia erano le stesse impiegate da Alessandro, in cui ampio spazio era riservato alla fanteria e alla cavalleria pesanti, con armi e armature diverse da quelle in uso in Egitto. Dapprima gli Egiziani furono utilizzati nell'esercito come forze ausiliarie, ma dopo la battaglia di Rafia del 217 a.C. assunsero anche ruoli di combattimento (machimoi). Nella politica espansionistica lagide, rivolta soprattutto verso il Mediterraneo, divenne di primaria importanza l'istituzione di un'imponente flotta navale stanziata ad Alessandria.
Il mantenimento di un tale esercito di mercenari anche in tempi di pace fu fin dall'inizio un pesante problema economico, che fu in parte risolto con l'assegnazione di lotti di terreno agricolo ai militari (cleruchi). Per non espropriare le terre degli Egiziani ed evitare quindi diffusi e pericolosi malcontenti, furono intraprese opere di bonifica tese a guadagnare terreno coltivabile dal deserto. La più imponente di queste opere fu la bonifica del Fayyum, una regione situata nel deserto circa 70 km a sud-ovest di Menfi e collegata alla valle del Nilo per mezzo di un canale naturale, oggi denominato Bahr Yusuf, unica fonte di acqua dolce. La regione era già stata oggetto di una prima opera di bonifica durante la XII Dinastia, ma in epoca tolemaica le terre coltivabili vennero estese al massimo delle possibilità dei mezzi idraulici disponibili e raggiunsero un'estensione complessiva stimabile in circa 1600 km2. La bonifica, con opere di canalizzazione e di fondazione di nuovi insediamenti e la loro organizzazione amministrativa, fu probabilmente iniziata da Tolemeo I e fu portata a termine da suo figlio e successore Tolemeo II. La nostra conoscenza di tale opera, ancora perfettamente funzionante fino alla fine dell'epoca romana, si basa sia sui numerosi resti archeologici di insediamenti (Karanis, Bakchias, Soknopaiou Nesos, Medinet el-Fayyum, Tebtynis, Narmouthis, Theadelphia, ecc.) sia su un grande numero di papiri documentari in greco e in demotico che sono stati ritrovati in questi stessi centri abitati. Su queste nuove terre i Tolemei esercitarono un controllo diretto, concedendole in uso ai mercenari in cambio del loro servizio militare e donandole agli alti ufficiali dello Stato. La regione fu suddivisa in tre distretti amministrativi a partire dal regno di Tolemeo III: Herakleides a nord-est, Polemon a sud e Themistos a nord-ovest.
Nuove colture, tecniche di produzione e di trasformazione furono introdotte in ambito agricolo: il grano Triticum durum (gr. σῖτοϚ) si affiancò a quello locale noto come olyra e in breve lo soppiantò quasi completamente; anche l'olivo venne introdotto dai Greci, che incentivarono inoltre la produzione di altri tipi di olio (di lino, di sesamo, di ricino, di cartamo, ecc.), la cui distribuzione era monopolio regale. Fu estesa la coltivazione della vite e nuovi alberi da frutto furono importati da diversi paesi del Mediterraneo orientale che facevano parte dell'impero di Alessandro, così come anche varietà di verdure. La produzione di vino crebbe notevolmente rispetto ai periodi precedenti, anche in ragione di un'aumentata richiesta da parte degli immigrati. Fu incrementato inoltre l'allevamento del bestiame e furono introdotte nuove razze ovine (grazie alle quali fu migliorata la produzione della lana) e di pollame; anche il cammello (o meglio il dromedario) cominciò a essere diffuso.
Il controllo esercitato da parte dello Stato sulle terre e sulla produzione agricola era capillare ed efficiente e mirava sia allo sfruttamento ottimale dei terreni agricoli, sia alla raccolta delle tasse calcolata sul prodotto annuale. Anche altre attività economiche, come il commercio, l'artigianato, lo sfruttamento delle miniere e delle cave, erano strettamente controllate dallo Stato. Gli scambi commerciali con paesi del Mediterraneo, dell'Africa centrale e del Mar Rosso vennero particolarmente incentivati: furono costruiti nuovi porti (Alessandria, Pelusio, Arsinoe/Kleopatris, Berenice, Philotheris, Myos Hormos) e il faro di Alessandria; furono migliorati i collegamenti tra la valle del Nilo e il Mar Rosso sia per via fluviale, con il ripristino del canale che passava attraverso il Wadi Tumilat (Tell el-Maskuta) e i Laghi Amari, sia per via di terra con il potenziamento delle piste che attraversavano il Deserto Orientale, passando per Mons Claudianus, Mons Porphirites, Wadi Gawasis, Wadi Hammamat.
Alessandria, con i suoi tre porti, era un centro privilegiato per gli scambi commerciali e anche un importante cantiere navale. Attraverso il lago Mareotide e una serie di canali che lo collegavano al braccio canopico del Nilo, la città era in diretto contatto fluviale anche con la valle del Nilo, dalla quale giungevano i prodotti agricoli ma che costituiva soprattutto una via "veloce" di collegamento verso l'Africa e il Mar Rosso e da qui verso l'India. Alessandria era dunque il centro di smistamento dei prodotti d'importazione che giungevano dal Mediterraneo e lungo il Nilo, ma era anche un importante centro di produzione. Vi si trovavano laboratori per la produzione del vetro, del papiro, del vasellame e di statuette di terracotta (coroplastica), di oggetti di metallo, di profumi, di tessuti, di mosaici e di statuaria. Lo scriptorium annesso alla famosa Biblioteca produceva anche copie di libri per la vendita al pubblico. Lungo le rive del lago Mareotide e sulla costa del Mediterraneo sono stati recentemente individuati numerosi laboratori per la produzione di anfore vinarie, attivi dall'epoca tolemaica fino alla conquista araba (Tell el-Haraby, Margham, ateliers 8, 9, 10, 11): si tratta di centri per la produzione del vino, che attestano anche in questa zona del Paese la presenza di vasti vigneti.
Durante il periodo tolemaico la toponomastica del Paese si adeguò alla nuova lingua ufficiale, il greco, e ai toponimi egiziani si affiancarono quelli greci. Le circa 40 regioni amministrative in cui l'Egitto era suddiviso vennero definite "nòmi" e assunsero un nome greco. Il capoluogo della regione era la metropolis, centro principale della vita amministrativa, economica e cultuale, che tuttavia non era giuridicamente considerata come una polis. Ogni nòmo era inoltre suddiviso in unità territoriali minori chiamate "toparchie". Al di fuori di questa organizzazione amministrativa erano le poleis: Alessandria, Naukratis e Ptolemais Hermiou.
Gli insediamenti di nuova fondazione erano dunque numerosi, in particolare in quei luoghi in cui si diede nuovo impulso ai commerci, all'artigianato e all'agricoltura. Tuttavia, nonostante ciò, l'attuale conoscenza dell'urbanistica egiziana di epoca tolemaica è assai scarsa e incerta a causa della continuità abitativa degli insediamenti, che ha dato vita a continui cambiamenti, e anche della scarsa attenzione prestata fino ad anni recenti dagli archeologi alla sua indagine. L'introduzione in Egitto in epoca tolemaica dello schema urbanistico ippodameo e la sua applicazione nella fondazione anche di centri abitati a carattere prevalentemente rurale sono state spesso sopravvalutate dagli studiosi. Lo schema fu certamente applicato ad Alessandria, dove ben noti sono i principi aristotelici che ne ispirarono la progettazione, ma è assai dubbio che lo sia stato anche altrove. Non va infatti confuso l'impianto ippodameo con una planimetria pianificata del tipo a scacchiera, schema ben noto e utilizzato in Egitto in tutto il periodo dinastico.
Le planimetrie dei siti fondati nel corso della realizzazione della bonifica del Fayyum sono solo parzialmente note e in particolare la fase ellenistica è la meno conosciuta. Tali insediamenti sono planimetricamente molto diversi gli uni dagli altri e ciò probabilmente fin dal momento della loro fondazione. Questa circostanza induce a ritenere, contrariamente a quanto ci si potesse aspettare, che non era stato previsto un progetto unico, standardizzato, che consentisse una rapida costruzione dei numerosi nuovi centri della regione. Ogni sito presenta caratteristiche diverse nella suddivisione degli spazi e nella strutturazione della rete viaria, che risulta tuttavia ovunque di tipo ortogonale, ma raramente a scacchiera. Se da un lato quindi è evidente una certa libertà nella scelta delle soluzioni urbanistiche adottate, compatibilmente anche con le esigenze più strettamente locali, dall'altro è altrettanto evidente il rispetto di alcune norme urbanistiche, se non addirittura di una pianificazione locale di massima. L'ortogonalità delle strade, anche se non sempre viene rispettata in modo rigoroso (si pensi ad alcune zone di Tebtynis e di Karanis), è una delle caratteristiche salienti e costanti dei centri del Fayyum, a partire dall'epoca tolemaica fino a quella tardoromana e forse anche bizantina.
Il caso di Philadelphia, con reticolo stradale a scacchiera e isolati fra loro uguali, sembra essere unico nel Fayyum. Va tuttavia tenuto presente che la città è nota solo sommariamente e per lo più nella sua fase di epoca romana. A causa della sua completa scomparsa dovuta all'attività di spoglio dei sebbakhin (che utilizzavano i terreni archeologici come fertilizzanti), non è più possibile verificare le sue varie fasi edilizie. Fino a ora l'unico insediamento del Fayyum di cui è possibile studiare in modo dettagliato, anche se pur sempre parziale, l'evoluzione dal II sec. a.C. al V sec. d.C. è Karanis, il solo a essere stato scavato in modo piuttosto esteso e su tutti i livelli abitativi (cinque quelli individuati) e per il quale si dispone di esaurienti rapporti di scavo. La sua planimetria è fortemente irregolare ma ha una rete viaria sostanzialmente ortogonale, il cui orientamento generale non è mutato nel tempo. Già nel livello più antico si nota la presenza di insulae abitative di forme irregolari, separate da vie ortogonali e da ampi spazi apparentemente vuoti. La densità delle abitazioni negli insediamenti del Fayyum sembra aumentare in epoca romana: il livello di III sec. a.C., raggiunto dalla Missione della Michigan University nel settore di scavo a ovest del dromos a Soknopaiou Nesos, testimonia la presenza di abitazioni singole non raggruppate in blocchi abitativi. Lo stesso sembra accadere nel cosiddetto "quartiere ovest" di Bakchias, un'area in cui nel secolo scorso è stato portato alla luce dai sebbakhin il livello abitativo di II sec. a.C., in cui gli edifici sono costruiti a distanza gli uni dagli altri.
Allo stato delle nostre conoscenze è difficile anche la valutazione della disposizione del tempio o dei templi nell'ambito delle fasi urbane ellenistiche dei vari centri abitati. Nei siti del Fayyum i templi non si inseriscono nel tessuto urbano in modo uniforme e le soluzioni urbanistiche sono assai diverse. In questi casi il santuario, che è sempre di tradizione egiziana, si colloca al termine di un dromos (così a Soknopaiou Nesos, Tebtynis, Narmouthis, Dionysias), oppure si trova all'interno di un'insula (Philadelphia) o costituisce esso stesso con il suo temenos un'insula (Karanis sud, Theadelphia). Vi erano inoltre templi extraurbani, come a Theadelphia e a Euhemeria, il cui collegamento viario con l'insediamento e la datazione non sono chiari e attualmente non sono più verificabili essendo andati distrutti. La via processionale che attraversa la città o parte di essa e conduce al tempio è una tradizione urbanistica di epoca dinastica, che si è mantenuta fino all'età romana passando attraverso il periodo ellenistico. Anche in questo caso non vi sono sempre dati cronologici certi sulla fondazione di tali vie processionali, il cui esito finale, quello a noi noto, risale all'epoca romana. A Soknopaiou Nesos il dromos sembra essere stato impiantato già in età ellenistica e, oltre a costituire una via per le processioni sacre, era di fatto anche l'asse viario primario dell'insediamento. Funzione analoga sembrano aver avuto i dromoi di Tebtynis e quello di Narmouthis, entrambi dotati di chioschi. A Tebtynis è stato recentemente accertato che le costruzioni del tempio, del temenos e del dromos sono contestuali e databili al regno di Tolemeo I.
Durante il periodo tolemaico non solo vennero fondati nuove città e insediamenti di vario tipo e dimensione, ma le attività di costruzione di edifici pubblici monumentali furono continue ad Alessandria e in tutto il Paese. Gli stili architettonici adottati erano due: quello egiziano tradizionale, con cui vennero costruiti i templi per il culto di divinità egiziane, e quello ellenistico, impiegato per i templi dedicati alle divinità straniere e al culto dinastico e per i palazzi pubblici (Alessandria). Uno stile architettonico nuovo, ulteriormente sviluppatosi in epoca romana, consisteva nell'introduzione di motivi iconografici e architettonici egiziani nello stile classico. Le tecniche costruttive dei due stili seguivano tradizioni diverse: quella egiziana, derivata dalla tradizione di Epoca Tarda, e quella greca classica.
Anche nell'ambito dell'architettura domestica privata si riscontra lo stesso fenomeno: case di tipo egiziano, chiuse, con poche e piccole finestre, talora a più piani, circondate da cortili e costruite di mattoni crudi si ritrovano in tutto l'Egitto. Talora esse sono state definite come "casa torre" poiché si sviluppavano su più piani ed erano quindi più alte che larghe. La scala che dava accesso ai piani era ricavata all'interno ed era spesso del tipo a pilastro centrale. Caratteristica è anche la presenza di ambienti interrati aventi funzione di magazzini per le derrate alimentari; questi erano generalmente di piccole dimensioni, coperti con un soffitto a volta e accessibili dall'alto tramite una piccola botola. Case di tipo "greco", con corte interna a peristilio e triclinium e costruite in pietra, sono presenti ad Alessandria, nelle metropoli o nella chora, là dove vi erano possedimenti di alti funzionari greci (si veda il caso della Casa di Diotimo a Philadelphia, testimoniata solo da fonti scritte). Nelle case più lussuose di Alessandria si ritrovano ricche decorazioni come, ad esempio, mosaici (già a partire dal III sec. a.C. composti secondo una tecnica importata dalla Macedonia), dipinti parietali ed elementi architettonici in stile classico.
Nuove tipologie di edifici furono introdotte nell'urbanistica dell'epoca, come il ginnasio, la banca, i bagni pubblici, l'agorà, la cui presenza è assai spesso testimoniata dalle fonti scritte anche nei centri rurali. Numerosi bagni pubblici sono stati rinvenuti negli scavi (ad es., Theadelphia, Euhemeria, Karanis, Medinet el-Fayyum, Sakha, Tell Sirsina, Kom el-Neghilah, Canopo, Taposiris), ma sono stati genericamente datati all'epoca greco-romana; uno risalente al III sec. a.C. è stato recentemente portato alla luce a Tebtynis.
Per iniziativa regale furono completati molti santuari rimasti incompiuti dalla fine della XXX Dinastia e numerosi altri furono costruiti. I templi dedicati a divinità egiziane furono edificati secondo le tecniche e lo stile della XXX Dinastia, in continuità con la tradizione. Quelli meglio conservati furono costruiti in pietra e sono spesso opere di notevole monumentalità (Edfu, Kom Ombo, File, Esna, Dendera), che impegnarono economicamente i sovrani per diverse decine di anni. Numerosi erano anche i templi "minori" edificati in pietra e mattoni crudi. Questi ultimi sono spesso andati distrutti, parzialmente o interamente, e sono quindi i meno conosciuti, ma verosimilmente essi costituivano la maggioranza dei santuari (due si trovano a Bakchias, uno a Narmouthis, uno a Theadelphia). I templi di grandi e medie dimensioni conservati e costruiti in questo periodo sono circa una cinquantina; a essi vanno aggiunti, oltre ai santuari minori, i portali (Tanis, Karnak, Menfi), i piloni (Medinet Habu) e altre strutture monumentali annesse che spesso costituivano estensioni di templi più antichi (Narmouthis, mammisi di Dendera, Qasr el-Ghuweita e Ibis nell'oasi di Kharga). La maggior parte dei templi tolemaici monumentali si trova in Alto Egitto e ciò è stato interpretato come una risposta regale all'esigenza di soddisfare la popolazione altoegiziana, maggiormente incline alla rivolta contro il governo di Alessandria.
La struttura di tali templi è del tipo "a cannocchiale", con pavimenti e soffitti che gradualmente si avvicinano via via che ci si inoltra nel santuario, nel progressivo diminuire anche della luce, fino ad arrivare al naòs, ambiente quasi completamente buio. Nei templi di grandi dimensioni (l'esempio meglio conservato è il tempio di Edfu) il naòs è circondato su tre lati da un corridoio su cui si aprono numerose cappelle in cui risiedevano le divinità ospiti, connesse con il culto della divinità principale. Il tempio vero e proprio (l'abitazione della divinità, la parte più sacra dell'edificio) era per ragioni cultuali chiuso e isolato dal mondo esterno. Oltre alle celle vi erano altri spazi, situati di fronte al naòs principale, tra cui la sala ipostila che, al contrario di quelle dei templi del Nuovo Regno, era un ambiente buio. Davanti a questa struttura chiusa vi erano ambienti luminosi, come cortili circondati da portici colonnati e un pronaos ipostilo parzialmente illuminato. L'intero complesso era racchiuso da un muro di cinta, il cui ingresso principale, in asse con il santuario, era costituito da un pilone. Altri templi minori, laghi sacri e strutture connesse con il culto (recinti di animali, laboratori, magazzini e case dei sacerdoti) potevano trovarsi nei pressi del tempio maggiore.
Uno degli edifici che assume grande rilievo nell'area templare in epoca tolemaica e romana è il cosiddetto mammisi, o "tempio della nascita", solitamente periptero e situato in posizione ortogonale rispetto al tempio principale (Dendera, Edfu, Armant, Deir el-Medina). L'intero complesso templare era inoltre isolato dal resto della città per mezzo di una cinta muraria generalmente di mattoni crudi. Nell'ambito dell'architettura in stile egiziano di epoca tolemaica si distinguono tre fasi: la prima coincide con i regni di Tolemeo I-V (304-180 a.C.), in cui si riprendono gli schemi architettonici e decorativi della XXX Dinastia; la seconda include i regni di Tolemeo VI-IX (180-80 a.C.) e presenta proprie caratteristiche più spiccate che tendono a ripetersi come schemi fissi e piuttosto monotoni. In questa seconda fase la decorazione parietale si distingue per i giochi chiaroscurali ottenuti con incisioni profonde dei contorni delle figure e una realizzazione piuttosto plastica dei corpi, che risultano tuttavia abbastanza statici e pesanti. La terza fase è compresa tra i regni di Tolemeo X e Cleopatra VII, ma di fatto include anche il periodo Augusteo (110/7 a.C. - 14 d.C.). È caratterizzata da una maggiore creatività soprattutto nell'impiego di colonne con capitelli elaborati inserite in colonnati e chioschi.
La decorazione delle pareti con bassorilievi e iscrizioni in geroglifici dipinti che si sviluppano su registri sovrapposti segue la tradizione faraonica. Caratteristico è l'uso di capitelli diversi nell'ambito di uno stesso colonnato e una stessa sala ipostila, ma molto spesso la loro disposizione non è casuale e segue schemi di simmetria. Anche i templi tolemaici erano completamente dipinti a colori vivaci tra cui predominavano il nero, il rosso, il blu, il verde, il rosa e l'oro.
La costruzione dei templi in stile egiziano seguiva tecniche e rituali antico-egiziani. Il rituale di fondazione in particolare ci è giunto grazie a testi e raffigurazioni di questo periodo, scolpiti sulle pareti dei templi (i meglio conservati sono nel tempio di Edfu). Anche l'unità di misura, il cubito, fu mantenuta fino all'epoca romana. Caratteristico dei templi tolemaici è l'uso di blocchi isodomi disposti su corsi orizzontali. Essi erano legati fra loro con malta di gesso a grana grossolana stesa sul piano d'attesa che, almeno nel caso di blocchi di grandi dimensioni, presentava un incavo largo e poco profondo scolpito longitudinalmente su tutto il corso di blocchi, destinato a trattenere la malta. Incavi analoghi (anathyroseis) si trovavano anche sui giunti verticali dei blocchi e venivano riempiti, per mezzo di canalette verticali, con malta più fine e liquida fatta colare dall'alto. I blocchi venivano sbozzati sul cantiere di costruzione e ne venivano levigati solo i lati che dovevano essere a contatto con altri blocchi. Le facce dei blocchi dei paramenti venivano lasciate grezze, per poi essere successivamente levigate e decorate. La decorazione delle varie parti dell'edificio non avveniva contemporaneamente, ma a seconda delle esigenze del cantiere. Le cripte del tempio di Dendera, ad esempio, vennero rifinite e decorate prima del posizionamento dei blocchi del soffitto.
Durante il periodo tolemaico continuò la tradizione egiziana della mummificazione, ma altre credenze e riti funerari si affiancarono a essa: l'incinerazione e l'inumazione. Le necropoli ellenistiche di Alessandria sono vasti ipogei con sale e loculi, spesso riccamente decorati in stile classico e misto (Shatbi, Mustafa Pasha, Anfushi, Gabbari). Nella vasta necropoli di Gabbari, ad esempio, si trovano fianco a fianco, nell'ambito dello stesso complesso funerario, loculi per inumazione e nicchie per le urne cinerarie (idrie di Hadra), seppure queste ultime siano una piccola percentuale. Si tratta di una necropoli rimasta in funzione dal III sec. a.C. fino al VII sec. d.C., in cui è possibile osservare i differenti tipi e rituali di sepoltura dei primi abitanti di Alessandria. Le tombe sono scavate nel sottosuolo roccioso, sono di varie dimensioni e costituite da un numero variabile di ambienti, talora con peristilio. La parte aerea della necropoli è quasi completamente andata distrutta e ciò che resta è un solo grande triclinio scavato nella roccia. La necropoli si caratterizza per la presenza di centinaia di loculi a parete, di cortili e di scale che li rendevano accessibili per il culto funerario. I loculi inoltre potevano essere utilizzati per sepolture multiple. La decorazione, le iscrizioni in greco e gli oggetti rinvenuti nelle sepolture ellenistiche di Gabbari testimoniano che si tratta di una necropoli greca. Le credenze funerarie greche sono testimoniate dalla presenza di un obolo in bocca ai defunti, da raffigurazioni di divinità greche dell'oltretomba e più in generale di temi tratti dalla mitologia greca; anche l'onomastica è greca. Molto rari sono qui i richiami alla religione egiziana, anche se il rinvenimento di alcune mummie attesta che anche tra i Greci di Alessandria si diffusero gli usi funerari locali.
Altre necropoli greche, ovvero caratterizzate da architettura funeraria e rituale non egiziani, si trovano a Taposiris Magna, a Plinthine e a Marina el-Alamein, dove si sono preservate anche le strutture costruite al di sopra delle tombe. A Marina el-Alamein le tombe, di epoca ellenistica e romana, erano semplici fosse scavate nella roccia, coperte da lastre di calcare e talora sormontate da un elemento monumentale costruito con blocchi di calcare. Si tratta di inumazioni semplici non sempre accompagnate da corredo funerario, costituito principalmente da vasellame. Alcune soprastrutture erano costituite da un basamento in forma di piccola piramide a gradoni alta circa 2 m, su cui doveva essere collocato originariamente il monumento funerario, che in alcuni casi sembra essere stato una statua. Altre avevano l'aspetto di colonne con capitello, anch'esse collocate su basamenti. Sebbene lo stile di tali monumenti sia di tipo classico, non mancano tavole per offerte e sculture di tipo egiziano.
Uno dei monumenti più insoliti nell'architettura funeraria ellenistica è una torre, alta una trentina di metri, eretta su una necropoli sotterranea a Taposiris Magna, che viene considerata una replica del II sec. a.C. del faro di Alessandria. A Plinthine le tombe di epoca ellenistica sono separate in superficie da muri di pietra ancora ben conservati. L'accesso alla sepoltura vera e propria avveniva per mezzo di una scala tagliata nella roccia. Serie di stanze ipogee contenevano diversi loculi che venivano chiusi con lastre decorate con stucco e dipinte o con stele. Le decorazioni riproducono elementi tratti dall'architettura domestica in stile greco, come rappresentazioni di porte e finestre, o scene tratte dalla tradizione funeraria greca. Non mancano, inoltre, motivi architettonici e religiosi egiziani, come i fregi di urei, architravi, portali e divinità funerarie. Il rituale funerario più diffuso resta comunque quello egiziano con sepoltura di corpi mummificati in tombe ipogee, a fossa e a pozzo, talvolta di riutilizzo. Raramente si sono conservate le strutture aeree delle tombe; un esempio unico e risalente all'inizio dell'epoca tolemaica (300 a.C. ca.) è la tomba di Petosiris, sacerdote di Thot a Hermopolis Magna (necropoli di Tuna el-Gebel). La tomba a pozzo era sormontata da una cappella funeraria di pietra in forma di piccolo tempio egiziano, con quattro colonne a capitelli compositi sulla facciata, raccordate da muri di intercolumnio. Anche la decorazione dell'interno segue gli schemi tradizionali egiziani, ma in alcune scene i personaggi sono raffigurati in abiti greci. Nella stessa necropoli sono presenti altre tombe con cappella funeraria in forma di piccolo tempio, databili tra il II e il I sec. a.C. Quella di Ptolemaios, di pietra, è in stile egiziano ma con inserti di false finestre a grata.
Il procedimento di mummificazione fu molto semplificato e si caratterizza per l'uso abbondante di resine; al contrario sempre più elaborata divenne la tecnica del bendaggio. Le mummie erano generalmente decorate e protette da elementi in cartonnage come le maschere a elmo, che coprivano la testa e le spalle del defunto, i collari, i pettorali, i grembiuli e i "sandali". Questi elementi erano stuccati e poi dipinti o laminati d'oro; oltre al volto potevano essere realizzati a rilievo anche i gioielli e talora le iscrizioni in geroglifico. Nella maggior parte dei casi il cartonnage era realizzato con stoffa e gesso, ma a partire dal II sec. a.C. si utilizzarono anche vecchi fogli di papiro, documenti non più in uso ovvero la carta straccia dell'epoca. All'inizio del periodo continua l'uso di sarcofagi antropoidi di legno, del tipo diffuso durante l'Epoca Tarda, talora riccamente elaborati con inserti di paste vitree policrome (come quello di Petosiris da Tuna el-Gebel) o con dorature. Con l'andar del tempo tale tipologia di sarcofagi si semplifica sempre di più fino a scomparire in epoca romana. In alternativa erano anche impiegati sarcofagi a cassa di calcare, con uno dei lati corti centinato (in corrispondenza della testa), a volte con un alveo antropomorfo.
Nelle necropoli di epoca greco-romana si trovano anche ipogei riservati alle sepolture di animali mummificati. Il culto degli animali ebbe larga diffusione in Egitto durante l'Epoca Tarda e il periodo greco-romano. Esso prevedeva, oltre al culto dell'animale vivente sacro al dio all'interno dei templi, anche la sua mummificazione e la sua sepoltura in apposite necropoli (il Serapeum per i tori Apis, il Sukeion per i coccodrilli sacri a Sobek, ecc.). Un altro aspetto collegato a tale pratica era il dono votivo di mummie di animali, da parte di fedeli e pellegrini, a templi situati in aree di necropoli (il Bubasteion e l'Anubeion a Saqqara, il Bucheum ad Armant, ecc.). Tali mummie erano preparate probabilmente nell'ambito degli stessi centri di culto, dove gli animali erano allevati per tale scopo, e dopo essere state acquistate dai fedeli venivano da essi donate alla divinità e deposte in catacombe. Famose per la loro ampiezza sono le necropoli di Tuna el-Gebel sacre a Thot (con mummie di ibis e babbuini) e quelle di Saqqara (con mummie di gatti, ibis, sciacalli e falchi). Per questo scopo furono imbalsamati animali di ogni tipo, tra cui anche pesci, rettili e insetti.
Come per l'architettura, la statuaria regale e privata segue tre filoni stilistici principali: quello classico, quello egiziano e quello risultante dalla commistione di caratteri propri dei due stili precedenti. I Tolemei e le loro consorti si fecero raffigurare sia come faraoni, con le tradizionali insegne e gli abiti della regalità egiziana, inserendosi senza soluzione di continuità nello stile della XXX Dinastia, sia come sovrani elleni sulla scia dell'iconografia regale macedone (si vedano in particolare i ritratti sulle monete e sui sigilli). Le statue in stile classico furono in Egitto certamente realizzate da scultori greci.
A partire da questo periodo si sviluppò e si diffuse, anche nella statuaria privata, l'uso del ritratto realistico. Questo trova larga applicazione in statue maschili private in cui il resto del corpo è assai spesso sommariamente realizzato. Nelle opere di migliore qualità i volti hanno una forte carica espressiva e i caratteri somatici rappresentati (struttura ossea del cranio, rughe, ecc.) sono spesso di grande realismo (si pensi in particolare alla cosiddetta "testa verde" di Berlino). Queste sculture sono generalmente realizzate in uno stile che combina quello egiziano con quello ellenistico: il corpo segue i canoni della rappresentazione egiziana nella posizione, nelle proporzioni, nel suo essere "bloccato" e frontale, ma l'abbigliamento, il volto e l'acconciatura (a riccioli corti per gli uomini e a boccoli per le donne) sono ellenistici. La tipologia più frequente è quella che raffigura singoli personaggi stanti, con gamba sinistra leggermente in avanti e pilastro dorsale. Allo stesso tempo continua a essere impiegato anche il tipo della statua-cubo. Caratteristica abbastanza diffusa nella statuaria regale e privata è l'uso di occhi polimaterici. Nella statuaria femminile le forme sinuose e tondeggianti vengono poste in rilievo, anche grazie agli abiti molto attillati, tanto da poter parlare di "stile sensuale ed erotico" che rimanda, seppure alla lontana, alla sensualità della produzione artistica di epoca amarniana.
Anche la produzione artistica e artigianale rivela un'evoluzione nello stile durante l'epoca tolemaica e, come è stato recentemente dimostrato, in essa si possono riscontrare influenze non solo greco-macedoni ed egiziane, ma anche achemenidi. Queste ultime in particolare sono evidenti nella produzione di vasellame d'argento (tesoro di Tukh el-Qaramus, gruppo Fayyum-Canosa), di vetro dorato (gruppo Fayyum-Canosa) e nella gioielleria. La produzione di beni d'argento, tra cui anche le monete, diminuì drasticamente dopo il III sec. a.C. per i costi e le difficoltà di approvvigionamento della materia prima. Al contrario aumentò la produzione di bronzo grazie al controllo di Cipro e delle sue miniere di rame. Statuette di bronzo di foggia "esotica" e di alta qualità furono prodotte in grande quantità per l'esportazione, come testimoniano anche le navi affondate con il loro carico a Mahdia e ad Anticitera.
Nella gioielleria si riscontrano le stesse tendenze. I gioielli diventano veri e propri ornamenti e perdono la valenza di amuleti intrinseca alla tradizione ornamentale egiziana. Le forme di anelli, orecchini, bracciali, collane, medaglioni e diademi sono quelle diffuse in tutto il Mediterraneo dell'epoca e si connotano per una grande varietà di motivi e abbinamenti, almeno nella produzione di maggiore pregio. Si diffonde l'uso di catenelle, come elementi di raccordo o pendenti; di pietre preziose e semipreziose, come lo smeraldo, il granato, le perle; la decorazione a piccoli granuli d'oro. Tra i gioielli in stile classico molto diffuso diventa il motivo ornamentale del serpente (bracciali, anelli), delle anforette, di protomi animali. Considerate la diffusione mediterranea dell'oreficeria ellenistica e la sostanziale unità di stile, è spesso difficile poter determinare i luoghi di produzione. Forti analogie sono state riscontrate tra la produzione orafa tarantina e quella alessandrina.
Nuove tipologie di vasellame di pregio da mensa vengono introdotte tra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C., come le ceramiche fini nere e quelle rosse, che riproducono lo stesso repertorio di forme, per la maggior parte aperte. Anche se lo studio della ceramica ellenistica non ha ancora raggiunto una classificazione definitiva, tuttavia sembra ormai evidente che fin dall'inizio del periodo la produzione abbia risentito dell'influenza greca nelle forme e nelle tecniche. Questo fenomeno investe contemporaneamente la manifattura di prodotti raffinati e quella di vasellame di uso comune e da cucina.
È molto verosimile che nei dintorni di Alessandria vi fossero laboratori per la produzione di diversi tipi di beni, pochi dei quali sono stati effettivamente individuati e per lo più di epoca romana. La fabbricazione locale di vasellame di terracotta in epoca ellenistica è fortemente probabile. Ai laboratori alessandrini sono attribuite produzioni di imitazione, come la ceramica attica a vernice nera, quella di Gnathia e le idrie cretesi dette di Hadra. Queste ultime, del tipo laurier sans branches, sono state prodotte con argille calcaree locali nella seconda metà del III sec. a.C. su modelli cretesi (idrie del gruppo L). Anche la produzione delle anfore si ispira a tipi dell'area del Mediterraneo orientale e in particolare le anfore rodie sono assunte a modello.
Altri centri di produzione ceramica erano sparsi in tutto il territorio egiziano, ma solo in pochi casi sono stati rinvenuti; i più noti sono quelli di Tell el-Farain (Buto), Kom Dahab (Naukratis), Tell Athrib, Tell el-Haraby, Assuan. A Tell Athrib vi era anche un laboratorio per la manifattura di statuette in terracotta, l'unico fino a ora rinvenuto e studiato, attivo durante tutto il periodo. Vi sono stati trovati prototipi, statuette non ancora cotte, mal riuscite e non finite. Altri centri di produzione erano situati probabilmente ad Alessandria, dove numerosi sono i rinvenimenti in ambito funerario, e a Menfi. Molteplici sono i rinvenimenti nei siti del Fayyum, ove erano verosimilmente uno o più laboratori locali. La produzione alessandrina spicca per l'alta qualità dei prodotti e sembra rispondere alle richieste degli abitanti di cultura greca. I tipi più diffusi sono quelli delle cosiddette Tanagrine, figure femminili in varie posizioni, con acconciature e abbigliamento classici, e di personaggi raffigurati in modo realistico o grottesco. Non mancano raffigurazioni di divinità greche ed egiziane. I modelli e le tipologie ellenistiche continuarono a essere rappresentati anche in epoca romana, quando la produzione diventò di massa. Tali oggetti sono stati per lo più rinvenuti in contesti funerari e domestici, tanto che si ritiene avessero una funzione decorativa piuttosto che votiva.
Durante il periodo greco-romano continua e si espande la produzione di oggetti e di vasellame, anche di grandi dimensioni, di faïence. In epoca tolemaica il vasellame venne prodotto per mezzo di stampi e alcune decorazioni in forte rilievo o a tutto tondo erano realizzate a parte con matrici mono- o bivalvi e poi applicate. Lo stile dei vasi e i motivi iconografici sono sia classici (ad es., oinochoe delle regine) sia egiziani. Le forme possono essere aperte e chiuse, decorate all'interno e all'esterno con applicazioni, incisioni e colori; le forme più complesse erano realizzate assemblando pezzi diversi. Grazie all'invetriatura finale della superficie i punti di attacco delle varie parti risultavano invisibili. Lo sviluppo di questo tipo di artigianato, che fa largo impiego di stampi di tutti i tipi, va di pari passo con quello della coroplastica. La produzione di vasi di faïence sembra anche collegata ai laboratori di vasellame a stampo di ceramica, che ad Athribis si trovavano nella stessa area artigianale. Notevoli sono anche le analogie tra la produzione di faïence e quella di metallo di ispirazione achemenide (Tukh el-Qaramus), tanto che si suppone in certi casi l'impiego degli stessi stampi. È certo dunque che si tratta di una produzione artigianale di tradizione egiziana, che si è fortemente rinnovata nella tecnica produttiva e nell'iconografia già a partire dall'inizio dell'epoca ellenistica. Laboratori non sono stati trovati, ma il rinvenimento di oggetti e materiali legati al ciclo produttivo induce a supporne la presenza a Menfi (Kom el-Qalama, Kom Helul), ad Alessandria e ad Athribis (regno di Tolemeo IV).
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di Paola Davoli
L'epoca romana in Egitto inizia con l'ingresso di Ottaviano ad Alessandria nel 30 a.C., dopo la sconfitta subita ad Azio dalla flotta di Cleopatra VII e di Marco Antonio nel settembre del 31 a.C. L'Egitto divenne una provincia romana, ma mantenne le sue peculiarità culturali e non fu mai completamente romanizzato. Alessandria divenne sede del prefetto e continuò dunque a mantenere il ruolo di capitale del Paese. Il prefetto, che era nominato dall'imperatore, rimaneva in carica per tre e poi per due anni e aveva pieni poteri civili, giurisdizionali e militari. Le tre legioni di stanza in Egitto erano agli ordini del prefetto. La lingua ufficiale continuò a essere il greco, mentre il latino nel complesso ebbe scarsa diffusione e fu utilizzato soprattutto negli ambienti militari. Anche il sistema monetario rimase quello greco, chiuso nei confini del Paese, all'interno del quale si continuò a utilizzare la dracma anziché il denario e il sesterzio come nel resto dell'Impero. Sull'economia, sull'amministrazione e sul diritto di questo periodo siamo abbastanza bene informati grazie soprattutto al grande numero di papiri documentari, per lo più scritti in greco e in demotico, rinvenuti nei siti del Fayyum, delle oasi del Deserto Occidentale, a Ossirinco e più in generale negli insediamenti che furono abbandonati in tarda epoca romana, le cui rovine sopravvissero fino al XIX secolo.
La suddivisione amministrativa del territorio in nòmi fu all'inizio mantenuta (con una riduzione a ca. 30 regioni). Essi erano raggruppati in epistrategie (Delta, Eptanomide e Arsinoite, Tebaide) ed erano governati dallo strategos con sede nelle metropoleis. Dal 200 d.C. Settimio Severo concesse alle metropoleis una boulè. Le poleis greche (Alessandria, Naukratis e Ptolemais Hermiou) vennero mantenute e a esse si aggiunse nel 130 d.C. Antinoopolis, città fondata da Adriano nel Medio Egitto nel luogo in cui annegò il suo favorito Antinoo.
L'esercito romano (suddiviso in legioni, coorti e unità di cavalleria) risiedeva in parte ad Alessandria e in parte in altri siti strategici della chora. La sua funzione era ovviamente quella di difendere una provincia dell'Impero, ma anche di proteggere aree periferiche, esposte a eventuali attacchi e scorribande di tribù beduine o di banditi, e di rendere sicuri i commerci. Per questo l'esercito aveva assunto anche un ruolo di polizia locale e aveva stazioni e torri di avvistamento per il controllo delle piste che attraversavano i deserti. La presenza di militari con compiti di sorveglianza e di sicurezza è anche attestata nei centri estrattivi, come le miniere e le cave del Deserto Orientale (ad es., Mons Claudianus). Il forte di Alessandria si trovava a Nikopolis, ma è ora quasi completamente scomparso; alcune parti del forte di Babylon, che ospitava una legione, si trovano oggi presso il Museo Copto del Cairo. Altre unità stazionavano a Tebe (dal IV sec. d.C. il forte inglobò il tempio di Luxor), ad Assuan, a Shellal, a Pelusio, a Qantara, a Qasr Gheit, a Tell el-Maskuta, a Dionysias, a Kysis (nell'oasi di Kharga, dal IV sec. d.C.), a Qasr Ibrim (in Nubia), ecc. Numerosi sono i piccoli forti di varie forme e dimensioni situati lungo le cinque vie principali di comunicazione tra la valle del Nilo e la costa del Mar Rosso: una collegava Edfu a Berenice, due si dipartivano da Coptos, una utilizzava il Wadi Hammamat, una passava nei pressi delle cave di Mons Porphirites e Mons Claudianus e la quinta, chiamata via Hadriana, collegava Antinoopolis al mare.
Il commercio è uno dei principali aspetti dell'economia del Paese in epoca romana. Alessandria era un centro di produzione e di smistamento dei prodotti e delle materie prime che giungevano per via di terra e soprattutto per via fluviale, grazie ai canali che collegavano il lago Mareotide con il braccio canopico del Nilo, dall'Africa e dall'Oriente. I commerci con l'India, la Malesia e la Cina passavano attraverso l'Egitto e il Mar Rosso. L'Egitto assunse quindi per Roma un ruolo fondamentale per la circolazione dei beni di lusso, per l'estrazione di risorse minerarie (oro) e di pietre pregiate (porfido, granito, smeraldi) dal Deserto Orientale e per la raccolta di derrate alimentari (grano soprattutto), che regolarmente rifornivano la capitale dell'Impero. I porti principali per il commercio con l'India erano Berenice e Myos Hormos (Qusair el-Qadim), da cui salpavano navi cariche di vino, vasellame pregiato di ceramica e vetro, tessuti, grano e metalli, che vi rientravano con spezie, incenso, perle, mirra e oggetti "esotici".
Il controllo dello Stato sull'amministrazione dei beni prodotti e delle terre divenne ancora più serrato che nel periodo precedente. Le terre che appartenevano ai templi, ad esempio, vennero confiscate e l'amministrazione dei templi stessi diventò statale e sottoposta al controllo di un magistrato romano (archiereus).
Antinoopolis è l'unica città di una certa importanza a essere stata fondata in questo periodo. Il suo piano urbano è di tipo ortogonale con due strade principali, il cardo e il decumanus maximus; la tipologia e lo stile degli edifici rientrano nell'ambito classico e rispondono a esigenze di abitanti stranieri (teatro, ippodromo, bagni pubblici, arco di trionfo, ginnasio, templi dedicati a Dioniso, Antinoo e un Caesareum, questi ultimi testimoniati solo dai papiri). L'ingresso monumentale alla città era rappresentato da un portale a tre fornici che immetteva sulla via colonnata.
Nelle metropoleis e anche negli insediamenti minori e di carattere rurale si assiste a una monumentalizzazione delle aree templari, già a partire dal regno di Augusto, e a un generale aumento della popolazione (attestato soprattutto nel II sec. d.C.) che ebbe come conseguenza l'ampliamento e la riorganizzazione degli spazi urbani. Nei centri del Fayyum, ad esempio, si nota un aumento delle abitazioni sia nel tessuto urbano preesistente, dove si raggruppano a costituire insulae per lo più di forme non regolari e di dimensioni diverse, sia nella sua immediata periferia (Karanis, livello C; Soknopaiou Nesos, livello II). Continuò a essere centrale nel sistema viario il dromos (Tebtynis, Narmouthis, Soknopaiou Nesos, Dionysias), che venne talora ripavimentato (Tebtynis e Narmouthis). Lungo il dromos e altre vie di primaria importanza furono eretti edifici monumentali, come chioschi (Tebtynis, Narmouthis), archi di trionfo (Hermopolis Magna, Antinoopolis, File), portali monumentali (Alessandria, Hermopolis Magna) o singoli monumenti celebrativi come colonne onorarie (Alessandria, Ossirinco) e tetrastyla (Hermopolis Magna, Antinoopolis, Luxor). In alcuni casi la o le strade di maggiore importanza vennero ampliate e fiancheggiate da colonne (Alessandria, Tell Athrib, Antinoopolis, Ossirinco, Hermopolis Magna), come accadeva anche in altre città dell'Impero.
Nuovi edifici pubblici furono introdotti nell'urbanistica del periodo: teatri, ippodromi, basiliche, komasteria, ginnasi, palestre, bagni, terme, granai. Pochi di questi edifici si sono conservati fino a oggi, ma la loro presenza negli insediamenti di maggiore importanza è testimoniata dalle fonti scritte. I teatri di cui abbiamo attestazioni erano situati ad Antinoopolis, a Pelusio e a Ossirinco; gli ippodromi noti sono ad Alessandria e ad Antinoopolis, mentre i resti di un komasterion (edificio in cui si formavano le processioni religiose) sono a Hermopolis Magna. Numerosi sono invece i bagni pubblici e le terme rinvenuti nei siti archeologici (ad es., a Theadelphia, Euhemeria, Karanis, Medinet el-Fayyum, Sakha, Tell Sirsina, Kom el-Neghilah, Canopo, Taposiris Magna, Tell Athrib), ma sono stati genericamente datati all'epoca greco-romana ed è dunque difficile distinguere le tipologie o le evoluzioni di questi stabilimenti nel periodo romano. I bagni pubblici erano organizzati in due sale di pianta circolare per uomini e donne, coperte a tholos. Una serie di vasche con sedile era disposta lungo la circonferenza delle due sale; all'esterno vi erano una caldaia per il riscaldamento dell'acqua e gli spogliatoi (Theadelphia, Euhemeria, Dionysias, Medinet el-Fayyum, Marina el-Alamein nel I sec. d.C.). Un piccolo impianto termale (15,6 × 9,3 m) è stato portato alla luce a Karanis. Esso fu attivo dal I al IV sec. d.C. ed era composto da otto ambienti, dei quali tre erano di servizio, e da un cortile con pozzo di raccolta delle acque di scolo. Da un primo vano di ingresso si passava al frigidarium, poi al tepidarium, al laconicum e al calidarium.
I granai pubblici (thesauroi) erano già presenti anche nei periodi precedenti, ma in epoca romana il loro numero e la loro ampiezza sembrano aumentare considerevolmente. Nella sola Karanis ne furono portati alla luce dieci grandi e molti altri di medie e piccole dimensioni. Tali edifici erano costruiti con mattoni crudi e avevano una planimetria piuttosto articolata con cortili, magazzini per il grano di tipo aperto e chiuso, ambienti adibiti ad abitazione e a ufficio e talora anche colombaie e recinti per piccoli animali. Alcuni di essi si sviluppavano su quattro piani, di cui uno interrato. L'importanza di tali edifici per la raccolta delle tasse corrisposte in grano è ben nota grazie alla documentazione papiracea.
Le tipologie di abitazioni sono sostanzialmente di due tipi, come per il periodo precedente: uno si rifà a schemi egiziani (case a più piani con cortili esterni e costruite con mattoni crudi), mentre il secondo è più classico o mediterraneo. Quest'ultimo è rappresentato ad Alessandria da abitazioni piuttosto ampie, costruite con pietra e con ambienti pavimentati a mosaico. Le case di Marina el-Alamein, di tipo mediterraneo e costruite in blocchi di calcare, erano provviste di cisterne sotterranee destinate alla raccolta dell'acqua piovana. Nelle case di tipo egiziano, assai diffuse in tutto il Paese, si trovano a volte decorazioni in stile classico realizzate con pietra o stucco, come piccole colonne, e inserite all'interno di nicchie (Karanis, Narmouthis, Theadelphia). L'urbanistica e l'architettura di epoca romana in Egitto non sono state oggetto di studi sistematici, che ci consentano di stabilire quanto fossero diffusi sul territorio gli schemi urbanistici e i tipi architettonici classici. Ciò che sembra emergere dagli scavi recenti è una maggiore diffusione, rispetto al periodo precedente, di forme e stili classici, anche nei siti periferici e rurali.
Templi in stile egiziano furono costruiti o ampliati durante il I e II sec. d.C. Fino a ora se ne contano una cinquantina distribuiti su tutto il territorio, oasi incluse, eccetto che nel Delta. Lo stile architettonico, le planimetrie e le tecniche costruttive si collocano nella tradizione di epoca tolemaica. Anche lo stile architettonico nato dalla commistione di elementi tratti dall'arte egiziana e da quella classica continua a diffondersi (cfr., ad es., entrambi i templi di Karanis). Templi in stile classico sono per lo più ricordati nella documentazione papiracea, tuttavia alcuni o parti di essi si conservano a Luxor (piccolo tempio periptero dedicato a Isis e Serapis, situato nell'area antistante al tempio di Amon), a File (tempio dedicato a Roma e Augusto e portale di Diocleziano), a Ras el-Soda presso Alessandria (tempio di Isis), a Ramlah, ad Achoris, a Canopo (dedicato a Serapis), ad Alessandria (pochi resti del Serapeum), a Mons Claudianus (dedicato a Serapis), a Tuna el-Gebel (dedicato a Isis), a Hermopolis Magna.
Tra i templi di epoca romana in stile egiziano ancora oggi conservati nella valle del Nilo vanno ricordati il mammisi e il pronaos di Dendera, il pronaos di Esna, il chiosco e il cortile colonnato di File, il doppio portale e il cortile colonnato a Kom Ombo, i templi di Deir el-Sheluit (Tebe ovest), Shanhur, el-Qala, Assuan. Numerosi sono i santuari e le cappelle recentemente individuati nelle oasi del Deserto Occidentale (Ain Amur, Ain Birbiya, Deir el-Haggar, Bawiti, Balad er-Rum, Ismant el-Kharab, Dush, ecc.) e lungo le vie di comunicazione col Mar Rosso e nei centri abitati sorti presso le cave nel Deserto Orientale (Mons Claudianus, Mons Porphirites, Mons Smaragdus, Berenice). Anche in Nubia furono eretti nuovi templi (Dendur, Taffeh, Khalabsha, el-Dakka, Maharraqa) e ampliati molti altri (ad es., Dabod, Qertassi).
Nei centri del Fayyum furono costruiti nuovi templi di medie e piccole dimensioni dedicati al culto locale del dio-coccodrillo. Quelli meglio conservati sono costruiti in pietra (Dionysias, Karanis sud e nord, Bakchias). In altri casi ai templi già esistenti furono apportati modifiche, ampliamenti e aggiunte (Tebtynis, Bakchias, Soknopaiou Nesos, Narmouthis). Molte di queste opere sono attribuite al regno di Augusto che, come a Roma, perseguì una politica di monumentalizzazione urbanistica. Dopo di lui i più attivi costruttori sembrano essere stati Nerone, Adriano e Antonino Pio.
La tecnica costruttiva non si discosta molto da quella dell'epoca precedente, così come i rituali di fondazione (nicchie di fondazione e isolamento delle fondamenta con sabbia pulita nel tempio romano di Bakchias) e l'unità di misura (il cubito) continuano a essere di tradizione faraonica. I templi di pietra erano costruiti con blocchi isodomi lavorati sul cantiere in modo che solo la faccia a vista (paramento) non venisse levigata. Al termine della costruzione venivano levigate e rifinite solo le superfici dei muri a vista, mentre quelle dei vani di fondazione, non agibili, venivano lasciate grezze. In questo modo dunque molto lavoro veniva risparmiato. I blocchi erano legati con una malta di gesso di colore bianco o rosato che, almeno nei casi di costruzioni a grandi blocchi, era trattenuta nei giunti verticali e sui piani d'attesa in canalette larghe e poco profonde. Malta fine e liquida veniva poi versata dall'alto tra i giunti per riempire le eventuali intercapedini rimaste. Linee guida, marchi di cantiere e tacche per l'appoggio di leve erano incisi o dipinti sui blocchi e sugli intonaci dei muri di mattoni crudi; questo procedimento era utilizzato per agevolare le maestranze nel preciso allineamento di blocchi e muri. Grande attenzione era rivolta alla stabilità e solidità degli edifici che presentano, nei casi indagati, fondazioni particolarmente profonde (5-6 m) e tecniche costruttive molto accurate.
Fino al IV secolo continuò a essere praticata la mummificazione con corredi e rituali religiosi egiziani. Ad Alessandria tuttavia sono attestati anche riti di sepoltura greci a inumazione. Complessi ipogei costituiti da sale e loculi, talora riccamente decorati con pitture e altorilievi, continuano la tradizione di epoca tolemaica (Kom el-Shuqafa, Tigrane Pasha, Stagni). In essi i cicli decorativi si ispirano contemporaneamente alla tradizione funeraria egiziana (mito di Osiris) e a quella greca (mito di Persephone) e testimoniano anche nell'ambito delle credenze funerarie una realtà multiculturale.
Il complesso funerario di Kom el-Shuqafa (fine I - inizi IV sec. d.C.) ha una struttura e una decorazione uniche: all'ipogeo si scende per mezzo di una scala a chiocciola tagliata anch'essa nella roccia, unico accesso anche nell'antichità, che rimaneva sempre aperto per consentire le visite ai defunti. Le camere funerarie e i loculi sono disposti su tre livelli, il più profondo dei quali è ora al di sotto della falda freatica. Attraverso una sala circolare denominata Rotunda si ha accesso al triclinium, a stanze con loculi e alla tomba principale. Quest'ultima è una sorta di piccolo tempio scavato nella roccia con due colonne, due statue e altorilievi in stile egiziano, classico e misto. Nonostante la ristrettezza degli spazi, l'impatto è di grande monumentalità e la decorazione fortemente evocativa del mondo ultraterreno.
Una necropoli con monumenti e cappelle in stile classico costruiti al di sopra di ipogei è stata recentemente indagata a Marina el-Alamein. La maggiore era dotata di un portico con colonne ioniche e di una sala per banchetti; non tutti i corpi rinvenuti erano stati mummificati.
Nel rituale funerario egiziano venne introdotto un passaggio nuovo al quale probabilmente dobbiamo una rinnovata cura per l'involucro esterno delle mummie. Esse infatti, anziché essere sepolte al termine del processo conservativo, venivano esposte, per un certo periodo di tempo, nelle case e nelle cappelle funerarie: la mummia era collocata verticalmente all'interno di un mobile di legno provvisto di due ante nella parte superiore, che potevano essere aperte così da mostrare il volto del defunto. Tale pratica è chiaramente testimoniata nel Fayyum, in cui numerose mummie di epoca romana sono state rinvenute in diverse necropoli. Molte di esse, a partire dalla metà del I secolo, erano rifinite con i cosiddetti "ritratti del Fayyum" (i maggiori sono a Hawara e Philadelphia; altri provengono da Assuan, Marina el-Alamein, Ossirinco, el-Hibe, Antinoopolis), ovvero ritratti del defunto dipinti secondo la tradizione classica su tela e su tavolette di legno, disposti a vista tra le bende in corrispondenza del volto. Anche il resto del corpo era particolarmente rifinito con un bendaggio che disegnava sul corpo losanghe. In alternativa rimanevano in uso la maschera a elmo e anche un involucro di cartonnage che racchiudeva interamente il corpo e poteva essere in stile egiziano o in stile classico. Dal II al IV secolo inoltre si realizzarono anche ritratti di gesso modellato a rilievo, che di fatto costituiscono un'ulteriore evoluzione della maschera funeraria di tradizione egiziana. Essi raffigurano il volto o la testa appoggiata su un cuscino, il petto e le mani del defunto, con abiti, gioielli e acconciatura classici. Nei casi più elaborati i gioielli vengono non soltanto modellati a rilievo e dorati, ma anche applicati (con perle di pasta vitrea); i capelli possono essere realizzati con fili di cotone dipinti di nero.
Nell'oasi di Bahryia è stata individuata e solo parzialmente scavata una grande necropoli dell'inizio dell'epoca romana, con tombe ipogee costituite da diverse stanze con sepolture multiple. Alcuni dei corpi erano mummificati e indossavano maschere dorate. L'analisi delle mummie ha rivelato che il procedimento di mummificazione era ormai estremamente sommario e semplificato.
Senza soluzione di continuità col periodo tolemaico è la produzione di statuette a stampo di terracotta (coroplastica), che perdura fino al IV sec. d.C. Il loro uso si diffonde ampiamente su tutto il territorio e la produzione diventa seriale, meno pregiata e assai ripetitiva nei tipi. Tra i motivi iconografici nuovi compaiono Horo a cavallo, figure femminili in varie attività (danzatrici, in preghiera, ecc.) e con acconciature elaborate.
Una produzione originale, diversa da quella diffusa in tutta la valle del Nilo, si trova nelle oasi del Deserto Occidentale. A Kharga sono recentemente stati riconosciuti due tipi: quelle di Dush sono statuette modellate, caratterizzate da incisioni e applicazioni di elementi, come i capelli, gli occhi, i gioielli e altri particolari, e talora anche dipinte. Il secondo gruppo, sicuramente prodotto a Kharga o a Dakhla, è di terracotta rossa con ingobbio rosso brillante; esso è associato alla produzione di vasellame e di lucerne dello stesso tipo, che imita i modelli di sigillata nordafricana.
Anche la manifattura del vasellame di ceramica continua la tradizione ellenistica, soprattutto nella produzione degli stessi tipi di forme aperte di ceramica fine. Nuove forme sono introdotte a imitazione di tipi diffusi nel Mediterraneo (ad es., quelli della Eastern Sigillata e quelli occidentali detti à la barbotine) e compaiono anche tra il vasellame da cucina e le forme chiuse. Uno dei centri di produzione di ceramica fine, comune e di anfore, destinata all'uso locale ma diffusa anche su tutto il territorio, è Assuan, in cui come materia prima vengono usate delle argille refrattarie locali ricche di caolino. Altri ateliers sono stati recentemente rinvenuti nell'oasi di Kharga, attivi per tutto il periodo e fino al V sec. d.C.; a Tell el-Farain (Buto) e a Tell el-Haraby, entrambi attivi già in epoca tolemaica; lungo le rive del lago Mareotide fino a Taposiris Magna, con particolare concentrazione sulla riva meridionale, erano numerosi i centri di produzione di anfore vinarie.
Nella tarda epoca romana la produzione di ceramiche fini si rifà principalmente ai tipi delle sigillate nordafricane (sigillata chiara C e D) e a quelli ciprioti (Late Roman D). Nel Medio Egitto (Hermopolis Magna, Antinoopolis) a partire dalla tarda epoca romana la produzione di vasellame e di lucerne era associata negli stessi laboratori, così come quella di anfore tipo Late Roman Amphora 7, con vasellame fine da mensa a ingobbio rosso denominato Egyptian B.
Prodotti artigianali di faïence conoscono anch'essi ampia diffusione nell'Egitto romano. La tradizione artigiana di epoca ellenistica si evolve in una produzione numericamente abbondante di statuette e vasellame a stampo di forme chiuse e aperte, anche di grandi dimensioni. Per le forme aperte, piatti e ciotole, si introduce la lavorazione al tornio. Come per il periodo precedente si continua a decorare il vasellame con incisioni, motivi ad altorilievo ricavati da stampi e anche con applicazioni di protomi, rosette, ghirlande. Rispetto alla produzione di epoca ellenistica la faïence romana ha un impasto più grossolano e friabile, uno spessore maggiore e un'invetriatura più spessa in cui la colorazione può non essere uniforme. Il colore dominante è il blu vivo, ma nei laboratori menfiti viene anche impiegato un colore scuro dai toni violacei.
In epoca romana un incremento notevole ebbe la produzione del vetro, specialmente di vasellame di ogni tipo e forma realizzato con la tecnica della soffiatura. Questa, che si diffuse nel Mediterraneo intorno alla metà del I sec. a.C., consentiva di fabbricare vasi in modo piuttosto rapido e a bassi costi. Il vasellame di vetro soffiato si diffuse così anche nei centri periferici e rurali del Paese, oltre che a Roma e nei mercati del Mediterraneo. Il vetro di produzione egiziana e alessandrina era particolarmente rinomato; per la sua produzione venivano usati i sali di natron disponibili in natura nel Wadi Natrun, area nel Deserto Occidentale a sud di Alessandria. Oltre alla soffiatura libera era praticata la soffiatura in stampi, che dava origine a recipienti di maggiore spessore e con decorazione a rilievo. Continua anche la produzione del cosiddetto "vetro mosaico", una tecnica impiegata già in epoca tolemaica per realizzare oggetti e recipienti di forme aperte, con decorazioni ottenute tramite la fusione di barrette prefabbricate di pasta vitrea. Oltre al vetro mosaico vanno ricordati tra le produzioni di pregio i vetri cammeo e i vetri dorati. Il vetro era usato anche nella fabbricazione di vaghi per collane, orecchini e anelli, a imitazione delle pietre preziose e in particolare dello smeraldo, molto apprezzato.
La gioielleria è abbastanza ben conosciuta grazie ai rinvenimenti ma anche grazie alle puntuali e numerose raffigurazioni di preziosi nei ritratti funerari (in maschere di cartonnage, di gesso e nei ritratti del Fayyum). Come per il periodo tolemaico lo stile dei gioielli di moda in epoca romana è quello diffuso nel Mediterraneo dall'inizio dell'età ellenistica. Molto frequente nella gioielleria di pregio era l'impiego di perle e di pietre preziose incastonate o di vaghi da usare come pendenti (agata, granato, smeraldo), di catenelle di fogge diverse talora particolarmente complesse e di medaglioni.
L'ingresso dell'Egitto tra le province dell'Impero romano ha contribuito alla diffusione di alcuni suoi culti religiosi all'estero, come, ad esempio, quelli di Isis e Serapis. Isei e serapei vennero costruiti anche a Roma ed è in questo ambito che si diffuse l'iconografia egiziana. Molti monumenti egiziani (statue, obelischi, sfingi) furono portati a Roma e più in generale nelle città ove si erano diffusi i culti egiziani (ad es., Benevento, Pompei). Inoltre, oggetti e monumenti vennero prodotti in loco a imitazione di quelli egiziani (la Tabula Isiaca, gli obelischi con falsi geroglifici, le sculture di Villa Adriana). Tali imitazioni si rifacevano sia a modelli di età tolemaica sia a quelli di epoche più antiche.
Anche la statuaria privata e quella imperiale non si discostano molto dalla produzione tolemaica. L'imperatore venne ancora raffigurato come un faraone, secondo il classico canone e con abiti e insegne della regalità egiziana, ma si diffuse in tutto il territorio anche il ritratto imperiale di tipo romano. A partire dalla fine del I secolo scomparve il ritratto di tipo greco-egizio e dal regno di Adriano il pilastro dorsale venne spesso omesso dalle statue, che pure si mantennero entro i canoni egiziani. Nella chora si assiste alla produzione in laboratori locali di statue di privati per uso templare; il loro modellato e la tecnica scultorea appaiono alquanto semplici e poco raffinati. Un gruppo di statue proveniente da due siti del Fayyum (Karanis e Soknopaiou Nesos) e databili all'inizio del I secolo è caratterizzato dalla ormai insolita posizione in cui è rappresentato il proprietario: seduto su un sedile cubico. Tale tipologia statuaria era stata molto diffusa in età dinastica, ma iniziò a essere meno utilizzata a partire dall'Epoca Tarda e fu assai raramente impiegata nel periodo tolemaico. Questo gruppo di sculture, quasi tutte in basalto nero (proveniente dalle cave del Gebel Qatrani), sembra provenire da un unico laboratorio, forse situato a Soknopaiou Nesos.
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di Loretta Del Francia Barocas
I marmi colorati furono utilizzati in Egitto fin dall'epoca preistorica; è nota la produzione di vasi di pietra del periodo predinastico. Numerosi siti egiziani attestano un impiego molto esteso dei marmi colorati e delle pietre di pregio. L'esistenza del grande obelisco di Assuan ancora in situ e con la faccia inferiore non distaccata dal piano di cava testimonia di attività estrattive per grandi monoliti, trasportati utilizzando la via d'acqua del Nilo, approfittando anche dei periodi di inondazione che permettevano di disporre di una più ampia area navigabile.
Dopo la conquista dell'Egitto da parte dei Romani questi vi estrassero alcune fra le pietre più apprezzate e più impiegate nell'Urbe e, in misura minore, nelle province. Le pietre estratte in Egitto dai Romani erano soprattutto le pietre dure colorate, correntemente definite "marmi colorati", con poche eccezioni rappresentate dall'alabastro e dalla breccia rossa e gialla. Le attività estrattive dei Romani sono attestate nel Deserto Orientale egiziano e nell'area di Assuan, dove i giacimenti si trovano sempre sulla riva orientale del Nilo e sulle isole della I Cateratta. Le zone più fecondamente esplorate sono il Mons Basanites, il Mons Ophyates, il Mons Claudianus e il Mons Porphirites o Igneus, con i numerosi widyān, i letti dei corsi d'acqua stagionali. Il deserto era attraversato da strade maggiori che collegavano la valle del Nilo al Mar Rosso, fra cui la via Hadriana, fatta tracciare dall'imperatore Adriano a collegamento di Antinoe con la costa, e da un tessuto di piste minori, servite da hydreumata (pozzi fortificati) e da torrette di segnalazione. Presso le cave maggiori sorgeva un forte per l'alloggiamento dei militari, una presenza necessaria anche perché per le attività più faticose che vi si svolgevano erano impiegati forzati e prigionieri a vario titolo.
Nel quadro delle pietre cavate esistono numerose differenze; il loro pregio è frutto di vari elementi: l'aspetto, la durezza, ma anche la maggiore o minore disponibilità di materiale nei giacimenti, le difficoltà di estrazione e di trasporto. Alcuni giacimenti si trovano a notevole altitudine (ad es., sul massiccio del Gebel Dokhan le cave sono situate intorno ai 1000 m s.l.m.), a quota elevata sul piano stradale e a grande distanza dalle vie d'acqua, elementi che anche contribuivano alla valutazione economica dei materiali ivi estratti: indicativa in proposito è la testimonianza dell'Edictum de pretiis di Diocleziano (20 novembre - 9 dicembre 301 d.C.).
La sienite si presta all'esecuzione di monoliti di grandi dimensioni e fu tra le prime pietre a essere impiegate a Roma. Cupo era il colore di una delle pietre più apprezzate fin dal primo periodo augusteo, la basanite, nella quale si riconosce la pietra-bekhen, assai ricercata anche in epoca faraonica. Interstratificata con la basanite, a poca distanza dal Bir Hammamat, si trova una delle pietre che hanno maggiormente destato l'ammirazione degli antichi, come rivelano i nomi che le vennero dati: è la breccia verde antica che include clasti arrotondati di minerali diversi e di vari colori su fondo verde (o più raramente rosso). Nei toni del verde si presenta anche un'altra pietra, il marmo verde ranocchia, o serpentina moschinata, che è forse il lapis batrachites ricordato da Plinio come proveniente da Coptos e utilizzato dai Romani per la statuaria, anche zoomorfa, nonché per lastre e piccoli oggetti; presente in rivestimenti a Pompei, è conosciuta dunque fin dal I sec. d.C. La cava di questo materiale è stata localizzata presso la confluenza di un anonimo wādī tributario del Wadi Umm Esh con il Wadi Atalla. L'area del Mons Ophyates è quella di elezione dell'ofite, detta anche "granito verde della sedia" dagli scalpellini romani, nelle due varietà a grana fine (nella Sedia di s. Lorenzo) o più grossolana (nella Sedia di s. Pietro). Non lontano da questa zona, nel Wadi Maghrebiya e in un wādī confluente, si trovano i 12 loci estrattivi da cui i Romani ottennero una pietra il cui colore va da un verde molto scuro a un verde più chiaro, talvolta verde mare, macchiato di bianco grigiastro.
Procedendo verso nord si trova l'area del Mons Claudianus, il Gebel Fatirah. Vi si estrassero il cosiddetto "granito del foro", perché estensivamente impiegato nel Foro di Traiano a Roma, e il granito bianco e nero del Wadi Barud, nelle due varietà. Le cave del Mons Claudianus furono utilizzate soltanto dai Romani, a partire dal regno di Claudio e per tutto il III sec. d.C., e la pietra è fra quelle di più largo impiego. Dopo il taglio dei blocchi i fusti venivano lavorati in cava, catalogati e registrati, con numerazione sul pezzo corrispondente a quella su registro. Una stazione di transito nei loro spostamenti da Alessandria al Mons Claudianus si trovava a Hermopolis Magna (el-Ashmunein). I fusti venivano caricati probabilmente su carri per il trasporto verso il Nilo: 120 km di deserto su pista fornita di pozzi; venivano poi trasportati su chiatte lungo il Nilo verso Alessandria, dove erano rilevati dalle naves lapidariae. Lo studio dei relitti di quelle naufragate fornisce indicazioni sulle loro dimensioni, sulla consistenza e sul peso del loro carico, sulle rotte che di preferenza si percorrevano. A Roma la statio marmorum si trovava nella zona del porto fluviale sotto l'Aventino, detta appunto Marmorata. Fu poi usato anche il Porto di Claudio e con la costruzione del grande Porto di Traiano i blocchi provenienti dall'Egitto furono raccolti nei magazzini adiacenti in attesa di essere inoltrati a Roma.
La storia delle cave del Claudianus si legge in funzione delle grandi opere edilizie che vennero commissionate a Roma e in altre aree dell'Impero. Si individuano fasi diverse: una nel regno di Traiano con la costruzione della Basilica Ulpia; una fase adrianea, con l'edificazione del Pantheon; una ripresa in età severiana, con il frigidarium e la natatio delle Terme di Caracalla e il teatro di Teano. Ma l'area che ha dato ai cavatori romani i litotipi più prestigiosi è quella del massiccio del Gebel Dokhan, le cui cave furono aperte nel 4° anno di Tiberio. Esse vennero statalizzate e la pietra fu utilizzata per la statuaria imperiale, dove talvolta è usata per rendere gli abiti di porpora, mentre il capo e le parti scoperte sono di marmo bianco; inoltre venne impiegata per statue di divinità, di barbari e di Daci. Le cave del Mons Porphirites erano utilizzate fino alla prima metà del V sec. d.C. Vi si accede attraverso il Wadi Umm Sidri e il Wadi Maamel, che confluisce in esso e nel quale sono situati il villaggio principale e il tempio di Serapis. Le cave sono raggruppate in tre distretti, nominati Licabetto, Ramnius e Lepsius, che fornivano varietà e sfumature cromatiche diverse. I blocchi venivano fatti scendere dalla montagna e trasportati per la via che conduce da Coptos a Qusair verso il Nilo. Di quale difficoltà fossero queste operazioni è facile intuire.
I Romani furono anche interessati alla cavatura dell'alabastro egiziano e della cosiddetta "breccia rossa e gialla egiziana", che si trova in molte località della valle e del deserto, ad esempio fra Minya ed Esna. L'alabastro, il cui nome deriva dalla città di Alabastrine, è una delle pietre più abbondanti e più belle d'Egitto, detta anche "onice"; ne sono state identificate nove località estrattive. Era già noto ai Romani perché impiegato per i piccoli flaconi per unguenti che da esso prendono il nome (alabastra) e che i Fenici trasportavano sulle vie dei commerci. Si riteneva che la pietra conservasse intatto il profumo e le proprietà degli unguenti contenuti. Una testimonianza sull'alabastro e su altri materiali preziosi viene da Lucano, il quale descrive la reggia di Cleopatra in Alessandria come rifulgente di rivestimenti e pavimenti di porfido, agata e onice. Non sembra che i Romani abbiano impiegato l'alabastro su grandi superfici, ma solo per parti di statue, vasi, urne cinerarie, colonne piccole e medie, rivestimenti. L'uso precedente, in epoca faraonica e tolemaica, contempla invece anche statue colossali e lastre monumentali, tra cui celebri sono i lastroni monolitici della cosiddetta Tomba di Alessandro in Alessandria.
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