AFRICA (A. T., 105-106 e 107-108)
Una delle tradizionali cinque parti del mondo. Appartiene al continente antico, è congiunta all'Eurasia mediante l'istmo di Suez, oggi attraversato artificialmente dal canale omonimo, ed è considerata quindi anche come un continente a parte.
Origini del nome.
Gli antichi Greci designarono l'Africa col nome di Libia, che secondo Erodoto era nome di donna di origine ignota al pari di Europa e di Asia, mentre, secondo Varrone, deriverebbe da Libis, voce con cui i Greci designavano il vento australe, e secondo altri, dal nome dei popoli che abitavano ad O. dell'Egitto chiamati dalla Bibbia Lūbīm e dagli Egiziani Lbu. Il nome di Africa compare per la prima volta in Ennio applicato dapprima alla sola parte settentrionale prossima all'Italia, e successivamente esteso a tutto il continente. Ignota ne è l'origine. Secondo Servio deriverebbe dal greco ἀϕαρίχη "senza freddo". Secondo Suida sarebbe stato il nome proprio di Cartagine; esso, in lingua punica, significherebbe Afrigah "colonia", dalla radice semitica faraqa "dividere, separare". Ipotesi moderne ne fanno il nome di una qualche tribù berbera, o forse anche l'appellativo generico dei popoli berberi. Sino al sec. III a. C., prima cioè che si arrivasse a conoscere in tutta la sua estensione il Mar Rosso, il limite orientale dell'Africa era segnato dal Nilo, onde l'Egitto era considerato talora come pertinente all'Asia. Fu solo dopo le conquiste di Alessandro Magno che il confine dell'Africa venne portato al Mar Rosso.
Limiti ed estensione.
L'Africa può considerarsi come un grande aggetto peninsulare dell'Eurasia a cui la congiunge soltanto l'istmo di Suez, largo 145 km. ed elevato, lungo la linea di massima depressione, non più di 16 m. sul mare. L'apertura del canale omonimo l'ha, come si è detto, convertita artificialmente in un'isola. I suoi limiti sono perciò determinati dai mari che la circondano: il Mediterraneo a N., l'Oceano Atlantico ad O., l'Oceano Indiano, il Mar Rosso, il canale di Suez ad E. Di forma grossolanamente triangolare, con la base rivolta a settentrione, ha i vertici estremi segnati a N. dal Capo Bianco nel Mediterraneo (37° 19 40″ lat. N.), ad O. dal Capo Verde 19° 55′ 7″ O.) nell'Atlantico, ad E. dal Capo Hafun (51° 22′ 15″ E., 160 km. a S. del Capo Guardafui), a S. dal Capo delle Aguglie (34° 51′ 15″ S.) presso il Capo di Buona Speranza. Il meridiano passante per detto capo segna convenzionalmente il limite divisorio fra l'Atlantico e l'Oceano Indiano. Fra questi punti considerati l'Africa si estende quindi per 72° 10′55″ in lat. e per 71° 17′ 22″ in long. e cioè per circa 8000 km. in lunghezza e per 7900 in larghezza. L'area del continente africano è di 29.205.390 kmq., di cui 19.947.322 kmq. nell'emisfero boreale e 9.258.068 in quello australe (Wagner).
Si considerano come facienti parte dell'Africa alcune terre insulari che la circondano: i gruppi di Madera, delle Canarie, delle isole del Capo Verde, del Golfo di Guinea (Fernando Poo, S. Thomé e Principe), delle isole del Rinfresco (Ascensione, S. Elena e Tristan da Cunha) nell'Atlantico; Madagascar e i gruppi delle Mascarene (Riunione, Maurizio), delle Comore, delle Seicelle e di Socotra nell'Oceano Indiano; il gruppo delle Dahlak nel Mar Rosso. Complessivamente queste isole hanno un'area di 631.000 kmq., di cui oltre 9/10 (586.000) sono rappresentati dalla sola Madagascar. L'area totale dell'Africa risulterebbe quindi di 29.836.000 kmq.
Storia della conoscenza e dell'esplorazione.
La conoscenza dell'Africa nel periodo più antico della storia della civiltà mediterranea era limitata al solo bacino inferiore del Nilo e ad una parte della costa adiacente. Erodoto (484-420) che visitò l'Egitto e la Cirenaica e, oltre alla notizia di quel che vide, ci tramandò informazioni attinte a varie fonti, pare non conoscesse che il nome di Cartagine, la grande colonia fenicia fondata nell'814 a. C., che certo aveva esteso le sue imprese marittime e commerciali sin oltre le temute Colonne d'Ercole. Tuttavia egli raccolse anche la tradizione di un navigatore fenicio che, per ordine del faraone Necos, avrebbe, partendo dal Mar Rosso, compiuto la circumnavigazione dell'Africa, rientrando nel Mediterraneo per lo stretto di Gibilterra. Maggiore attendibilità presenta l'impresa del cartaginese Annone il quale, nel sec. V, avrebbe navigato lungo le coste occidentali dell'Africa con 60 navi e 30 mila coloni, spingendosi sino ad Arguin e all'isola di Sherbro presso Sierra Leone, per fondarvi delle colonie. Una relazione di questa impresa, scritta originariamente in fenicio e collocata in un tempio di Cartagine per deliberazione del senato di quella città, è pervenuta a noi in un testo greco. Pare in ogni modo accertato che, sino dal sec. VI, i Fenici frequentassero la costa africana dell'Atlantico dove, secondo Eratostene, avrebbero posseduto 300 fattorie. D'altro canto, le navigazioni e le conoscenze dei Fenici nel Mar Rosso e nell'Oceano Indiano si sarebbero spinte non oltre l'equatore.
La colonizzazione greca della Cirenaica, che data dal sec. VII, e più ancora la conquista dell'Egitto per opera di Alessandro Magno, contribuirono largamente alla maggiore conoscenza dell'Africa nord-orientale; ma più specialmente vi contribuirono le imprese di guerra dei Romani contro Cartagine e la successiva conquista della Mauritania, per quanto contrastata da quelle popolazioni. Del resto, la misura delle conoscenze che ebbe il mondo greco-romano del continente africano ci è data dalla Geografia di Tolomeo e dalle opere di Pomponio Mela, di Plinio e di Strabone. Nel mappamondo di Tolomeo, l'Africa è rappresentata con certa abbondanza di particolari press'a poco sino al 20° parallelo australe, oltre il quale si estende la "Terra incognita". Ad una maggiore conoscenza delle regioni interne contribuirono le imprese militari dei Romani. Nel 19 a. C., Cornelio Balbo, alla testa di legioni romane, si spinse da Oea (Tripoli) sino al paese dei Garamanti (Fezzān), dove alcuni anni dopo penetrò Settimio Flacco perlustrandolo per 3 mesi. Giulio Materno, alleatosi col re dei Garamanti, condusse una spedizione contro gli Etiopi, viaggiando per 4 mesi sino al paese di Agisymba. Svetonio Paolino, nel 41 d. C., avrebbe per primo attraversato il sistema dell'Atlante giungendo nel paese dei Nigriti sulle rive di un fiume Ger o Ghir, da identificarsi col Niger, alla cui esistenza accenna vagamente, in una sua opera, Giuba. Secondo quanto ci narra Plinio, anche Nerone avrebbe inviato una spedizione militare per riconoscere le origini del Nilo: spedizione che avrebbe dovuto retrocedere dopo aver raggiunto la regione paludosa del lago No, alla confluenza del Baḥr el-Ghazāl.
Il sorgere e lo svilupparsi dell'islamismo e la conquista dell'Africa settentrionale compiuta dagli Arabi a partire dalla metà del sec. VII, ebbero una grandissima efficacia nell'estendere le cognizioni geografiche. Vi contribuirono particolarmente l'intensificarsi dei traffici marittimi sulla costa occidentale del continente sino al C. Bojador e su quella orientale sino a Madagascar (isola della Luna) e i viaggi terrestri nel Sūdān occidentale che riconobbero il corso del Niger, facendone però un ramo del Nilo, col quale nome venivano designati tutti i fiumi africani, la cui origine comune era da ritrovarsi in un lago centrale chiamato Kura. Notizie descrittive delle regioni settentrionali dell'Africa forniscono i viaggiatori arabi al-Mas‛ūdī (915-940), Ibn Ḥawqal di Baghdād (976) e lo sceicco marocchino Edrisi (1100-1164) (al-Idrīsī) cui si deve la redazione del noto "Libro del Re Ruggero". Contribuirono ad accrescerne le cognizioni il siriano Abū'l - Fidā' (nato nel 1273) che, con le sue determinazioni astronomiche, corresse la posizione di molte località, rettificandone la rappresentazione cartografica, e più ancora il marocchino Ibn Baṭṭūṭah di Tangeri, che per primo raggiunse Timbuctu e riferì ampiamente sul paese dei Negri, e finalmente lo storico tunisino Ibn Khaldūn che trattò particolarmente della storia dei Berberi (13 32-1409). Delle informazioni fornite da Arabi e da Ebrei si valsero mercanti italiani per estendere all'interno quelle loro relazioni commerciali che avevano stabilito con i porti della costa del Mediterraneo. Così, si ha notizia di un genovese Antonio Malfante che, sino dal 1447, avrebbe visitato l'oasi di Tuat; e un vago accenno del fiorentino Benedetto Dei che pochi anni più tardi, si sarebbe spinto sino a Timbuctu.
Un'esposizione complessiva che ci rappresenta lo stato delle cognizioni geografiche possedute dagli Arabi ai primi del sec. XVI ci è data dall'opera dell'arabo-spagnolo al-Ḥasan ibn Muḥammad al-Wazzān az-Zayyātī di Granata (1483-1552) il quale, dopo avere a lungo viaggiato in Europa, in Africa e in Asia, catturato nel 157 presso Gerba e condotto schiavo a Leone X, che lo fece battezzare col nome di Leone Africano, scrisse in arabo una descrizione dell'Africa che, tradotta da lui stesso in italiano, rimase per molto tempo la fonte principale, se non unica, delle nostre cognizioni sulle regioni interne dell'Africa.
Intanto era notevolmente progredita, per opera di arditi navigatori italiani e portoghesi, la ricognizione costiera del continente e quella delle minori terre insulari che lo circondano. Così, sino dal 1281, si ha notizia di un'audace impresa condotta dai fratelli Vadino e Guido Vivaldi genovesi, che si proposero di tentare da occidente la circumnavigazione dell'Africa, non essendo totalmente perduta, nonostante l'autorità di Tolomeo, la tradizione fenicia di un'aperta comunicazione a S. del continente, tra l'Oceano Indiano e l'Atlantico. Ma il loro tentativo fallì; né successo maggiore ebbe quello ripreso dieci anni più tardi da Ugolino Vivaldi e Tedisio Doria. Navigatori italiani scoprirono (o meglio riscoprirono) le Canarie (le isole Fortunate di Tolomeo), il gruppo di Madera e le Azzorre; mentre Marco Polo, di ritorno dalle sue lunghe peregrinazioni in Cina, raccoglieva e ci dava la prima notizia di Madagascar, di Zanzibar, dell'impero cristiano d'Etiopia. Delle nuove conoscenze acquistate sono testimonianza le carte nautiche e il progresso che esse segnano dalle prime costruzioni che datano dal sec. XII, tutte di fabbrica italiana o catalana, sino alla redazione del celebre mappamondo del veneziano fra Mauro camaldolese, che riassume e rispecchia le conoscenze geografiche del suo tempo (1459), e in cui l'Africa è rappresentata con sufficiente larghezza di particolari, in notevole contrasto con la tradizione tolemaica per quanto riguarda la sua parte australe. Ma il contributo maggiore che doveva, in capo a pochi decennî, portare alla totale ricognizione costiera del continente fu recato nel sec. XV dai navigatori portoghesi che, dietro impulso dell'infante Enrico, detto il Navigatore, iniziarono una sistematica ricognizione delle coste occidentali dell'Africa. Particolarmente notevoli le navigazioni del veneziano Alvise da Cadamosto e del genovese Antoniotto Usodimare (1456-57), continuata quest'ultima con nuova alacrità anche dopo la morte di lui (1460), onde, superato il Capo Palmas, si riconosceva la grande insenatura del golfo di Guinea; Diego Cam scopriva (1484) la foce del Congo e nello stesso anno Bartolomeo Diaz perveniva al Capo Tormentoso, superato 11 anni più tardi da Vasco da Gama. Aveva, così, felice coronamento il voto augurale di Giovanni II che ne volle cambiato il nome in quello di Buona Speranza. Con la navigazione di Vasco da Gama, che toccò tutta la costa orientale sino a Melinda, raggiungendo poi la costa indiana del Malabar a Calicut, si può dire compiuto ormai il periplo dell'Africa e riconosciuto nei suoi tratti fondamentali il contorno del continente.
Assai più lunga e difficile ne fu la ricognizione interna, le cui conoscenze si poterono dire limitate al corso del Nilo, nel suo tratto inferiore a valle del tropico, e all'Etiopia, nella quale mercanti e missionarî italiani erano penetrati sino dal sec. XIV raccogliendone notizie che poterono essere utilizzate nelle redazioni della carta di fra Mauro. Ma la maggior parte delle informazioni più sicure sulla geografia dell'Africa interna, raccolte da fonte araba e diffuse tra noi, come si disse, da Leone Africano e più tardi da Livio Sanuto (1588), vennero cartograficamente rappresentate dalla grande carta dell'Africa di Giacomo Gastaldi (1564) alla quale attinsero Mercatore e i cartografi del sec. XVII. La geografia interna dell'Africa si può dire che non facesse alcun sensibile progresso per tutto il sec. XVII e la prima metà del sec. XVIII, tranne per l'Etiopia dove le imprese portoghesi, iniziate con la missione da Giovanni II affidata a Pero de Covilhăo e Alfonso da Payva (1487) e chiusa con la definitiva cacciata dei gesuiti da quello stato (1632), fruttarono numerose opere illustrative della geografia e della storia della regione, e per il basso Congo e territorî adiacenti, che ebbero in missionarî particolarmente italiani (Giov. Ant. da Montecuccoli e Ant. Zucchelli da Gradisca) descrittori accurati.
Sono anche da ricordare alcuni viaggi isolati, dei quali si hanno notizie più o meno diffuse e attendibili, quali quelli degli olandesi Ten Rhyne (1673) e Kolbe (1705-13) nell'Africa Australe sino al paese degli Ottentotti, Andrea Bure, che dalla Senegambia avrebbe raggiunto Timbuctu (1697), del francese Poncet e del missionario P. Saverio da Benevento che dall'alto Egitto per la Nubia e il Sennār sarebbero pervenuti nel cuore dell'Etiopia a Gondar (1698). Una carta pubblicata nel 1748 dal celebre geografo francese Bourguignon d'Anville, in gran parte bianca per le regioni interne, ci rappresenta lo stato della conoscenza positiva della geografia africana alla metà del sec. XVIII.
Un avvenimento memorabile nella storia dell'esplorazione africana può considerarsi il viaggio in Etiopia del medico scozzese James Bruce, che, penetrato in Abissinia per la via del Sūdān (1769), vi rimase per 18 mesi percorrendola in vario senso, visitando le sorgenti dell'Abai, che egli credette identificare con quelle del ramo principale del Nilo, e dettandone una relazione nella quale, in mezzo a molte fantasticherie, sono contenute informazioni nuove e interessanti. Ma l'inizio di una sistematica ricognizione geografica dell'Africa è segnato dalla fondazione dell'African Association di Londra, costituita nel 1788 allo scopo appunto di promuovere l'esplorazione del continente misterioso. Ad essa dobbiamo l'impresa dello scozzese Mungo Park, che in due viaggi (1795-1797) dalla Senegambia riesce a raggiungere il Niger e a riconoscerne il corso per 2000 km., finché vi perisce miseramente annegato, e quella del tedesco Hornemann (1798-1800) che dall'Egitto per l'oasi di Sīwa e di Gialo penetrò, primo europeo nei tempi moderni, nel Fezzān, quindi a traverso il Sahara per l'oasi di Bilma al Bornū e al Niger, ove incontrò la morte. Sono dei primi anni del sec. XIX i viaggi nell'Africa Australe di Giovanni Barrow (1801-1804) nel paese dei Namaqua e di M. H. K. Lichtenstein (1803-06) alla steppa del Karru, di J. Campbell al fiume Orange (1812), di Enrico Salt in Abissinia (1805-09). Notevoli vantaggi per la ricognizione, principalmente archeologica, ed anche in parte geografica, fruttò la spedizione francese in Egitto del 1798; ma più specialmente la geografia africana si avvantaggiò dell'opera di studiosi che accompagnarono le spedizioni militari egiziane nella Nubia e nel Sūdān, cui sono legati i nomi dei francesi Federigo Caillaud, Jomard, Denon e Linant, e degli italiani Belzoni, Drovetti, Brocchi, Segato, Figari, Rossi, ecc.
Mentre così la ricognizione del Nilo si avanzava oltre il Sennar, fallivano i tentativi per risalire il corso del Congo e riconoscerne la ritenuta connessione col Niger, tentativi organizzati dalla Società Africana di Londra. Scarso profitto per la geografia africana fruttarono le grandi spedizioni di Giacomo Tuckey, del Peddie, del tenente Campbell, del maggiore Gray, del dott. Dochard, quasi tutti periti coi loro compagni, a causa del clima malsano (1816-1819).
Esito più fortunato per le loro resultanze, sebbene ottenute a prezzo della vita di numerosi viaggiatori, avevano le nuove imprese transsahariane, che, per iniziativa del capitato Smith dell'Ammiragliato britannico, si organizzarono da Tripoli sulle tracce dell'itinerario del Hornemann. Così, dopo quella del dott. J. Ritchie e del cap. G. Fr. Lyon (1818-19), che la morte del primo di essi troncò, ma che pure fruttò nuove e interessanti determinazioni nel Fezzān, si ebbe quella del dott. W. Oudney, cap. H. Clapperton e magg. Denham Dixon (1822-1825) che da Tripoli per il Fezzān raggiunse per prima il lago Ciad e i paesi sudanesi adiacenti, collegandosi gli anni di poi (1823-27) cogl'itinerarî dello stesso Clapperton e del suo servo Riccardo Lander (morto il Clapperton a Sokoto il 20 ott. 1826) da Badagry (Lagos) a Bussa sul Niger e quindi a Sokoto. Una gran parte dell'Africa centrale rimaneva così riconosciuta nelle sue linee idrografiche fondamentali, mentre nello stesso tempo la misteriosa Timbuctu veniva raggiunta partendo da Tripoli (agosto 1826) da Alessandro Laing che vi cadeva assassinato, e il francese René Caillé vi perveniva dal Senegal (1827-28) dandocene le prime sicure notizie.
Da queste, e dalle successive spedizioni dei fratelli Lander (1820-36), che riuscivano a riconoscere il corso del Niger nel suo tratto inferiore, il problema di questo fiume avrà la sua soluzione definitiva. Non altrettanto rapida quella delle origini niliache e in generale del corso superiore del Nilo, nonostante i fruttiferi viaggi di E. Rüppel in Etiopia (1824-25) a cui dobbiamo una prima ricognizione scientifica del Lago Tana e del Takazzé (Nilo Azzurro), e di Giuseppe Russegger che risale il Fiume Azzurro sino a Fazogl (1837-38), e quelli ancor più memorabili di Antonio d'Abbadie che fu col fratello Arnaldo per 10 anni (1838-48) in Etiopia e per primo pose le basi di una rappresentazione geometrica della regione, che poco ha cambiato nei tempi successivi.
La sistematica ricognizione dell'alto Nilo, intrapresa per ordine di Moḥammed ‛Alī dopo fondata Kharṭūm (1838) sotto il comando di Selīm Pascià e alla quale parteciparono ingegneri e naturalisti francesi e tedeschi, fruttò il rilevamento di tutto il corso del Nilo Bianco, risalito sin oltre il 50 parallelo nord, dove sorgeranno poi le stazioni di Gondokoro e di Ladò (1840-41), punto più avanzato della dominazione egiziana nell'alto Nilo.
Un periodo di più fervida operosità si avrà nel decennio seguente per opera di missionarî, specialmente inglesi, che amano di farsi ad un tempo strumento di propaganda civile e religiosa e di progresso geografico. Primo fra tutti lo scozzese David Livingstone, che nel 1840 inizia il suo apostolato e le sue fruttuose esplorazioni nell'Africa australe, che poi continuerà per oltre un trentennio, internandosi nel paese dei Beciuana. Nel 1845 l'inglese Richardson da Tripoli e Gadames si spinge, primo europeo, sino all'oasi di Gat, preparando la via a quella grandiosa e veramente memorabile spedizione dal Mediterraneo al Sūdān per l'Air che compirà insieme all'Overweg e della quale Enrico Barth, unico superstite, ci narrerà le vicende raccogliendo il frutto di oltre cinque anni (1850-1855) di esplorazioni e di studî e straordinariamente arricchendo le nostre conoscenze su quella parte dell'Africa centrale.
Intanto sulla costa orientale i due missionarî Krapf e Rebmann dalla stazione di Rabai M'pia presso Mombasa intraprendono (1848-1849) quelle ricognizioni nell'interno che li portarono alla scoperta dei colossi montani del Kilimangiaro e del Kenya e a raccogliere le prime notizie di un vastissimo bacino lacustre interno o di più bacini designati complessivamente col nome di Ukerevé, onde venivano a trovar conferma le antiche tradizioni della geografia tolemaica sull'esistenza dei Monti della Luna e sulle scaturigini del Nilo, defluente da grandi laghi. Sulle tracce delle informazioni raccolte, Riccardo Burton e W. Speke, per mandato della Società geografica di Londra, nel giugno del 1857 muovono dalla costa dello Zanzibar, accompagnandosi ad una carovana di mercanti arabi, e procedendo verso O. giungono nel febbraio successivo alle rive del lago Tanganica, di cui riconoscono in parte il contorno, e uno di loro (lo Speke), mentre il compagno è trattenuto ammalato a Tabora, procede nel luglio successivo verso N. e raggiunge l'estremità meridionale di un altro immenso lago, detto Nyanza nel linguaggio degl'indigeni e che il viaggiatore inglese battezzerà col nome della regina Vittoria; e, fissata la latitudine del punto raggiunto a 2° 26′ S., retrocede per riunirsi al compagno e ritornare in Europa recando l'annunzio delle memorabili scoperte, colle quali si intravede ormai la soluzione del problema secolare delle origini del Nilo. Di risolverlo integralmente, completando la ricognizione iniziata del lago Vittoria e seguendone l'emissario, assunse l'incarico lo Speke insieme col capitano Giacomo Grant. Partiti da Bagamoyo, essi raggiungono il gran lago Vittoria, ne riconoscono la costa occidentale e ne ritrovano l'emissario che non possono seguire ma che tutto induce a ritenere debba essere il Nilo, di cui riescono a raggiungere il corso presso la stazione di Faloro (3°10′ N.).
A Gondokoro trovano Samuele Baker, venuto loro incontro da Kharṭūm, che si assume il compito di verificare l'informazione avuta dai due connazionali circa l'esistenza di un altro gran lago, il Mvuta-Nzighe, in cui il Nilo si sarebbe riversato dopo uscito dal Vittoria. Il Baker riesce nell'intento e, pur non avendo potuto risalire il Nilo nel suo corso, raggiunge il 14 marzo 1864 la sponda orientale del lago cui impone il nome di lago Alberto e si assicura che l'emissario del lago Vittoria vi si riversa.
Il secolare problema delle origini del Nilo vien così risolto nelle sue linee generali. I viaggi e le ricognizioni ulteriori degli ufficiali a servizio dell'Egitto, che si affrettò, valendosi dell'opera del Baker, a estendere il suo dominio sull'alto Nilo, e quelli di privati viaggiatori e studiosi, che nel ventennio successivo sino alla insurrezione mahdista percorreranno il paese, varranno a integrarne le conoscenze.
Particolarmente notevoli per i resultati conseguiti i viaggi di Giorgio Schweinfurth nel paese deí Niam-Niam (1869-71), preceduti rispettivamente e seguiti da quelli degli italiani Carlo Piaggia (1863-65) e Giovanni Miani (1872), del col. Chaillé Long nella regione del lago Vittoria, di G. Junker nel Sobat, di Romolo Gessi intorno al lago Alberto (1876) e poi nel bacino del Baḥr el - Ghazāl; del Gordon e del Dott. Schnitzler (Emīn bey) nell'Uganda e nell'Unioro; del Messedaglia nel Dārfūr; del Casati nella regione di spartiacque tra il Nilo e l'Uelle e nella regione a S. del lago Alberto.
Frattanto era continuata nell'Africa australe la fruttifera opera del grande viaggiatore e missionario David Livingstone, che sino dal 1858, rilevando il corso dello Zambesi e risalendo il suo affluente Sciré, era pervenuto alla scoperta del lago Niassa (16 sett.) quasi contemporaneamente alla scoperta del Tanganica.
L'esplorazione della ignota regione interposta tra i due grandi bacini lacustri e la constatazione della pertinenza anche del Tanganica al bacino del Nilo, come egli ritiene, lo inducono ad un altro memorabile viaggio che, iniziato nel 1866, lo porta dal Niassa alla scoperta dei laghi Banguevolo e Moero e alla ricognizione della vasta regione acquitrinosa solcata dal Lualaba e dal Luapula, che poi si saprà pertinente al bacino del Congo di cui non si sospetta ancora l'estensione. Riesce così a raggiungere il lago Tanganica dove ad Ugigi lo raggiunge Enrico Stanley (28 ottobre 1871), inviato dal proprietario del New York Herald alla ricerca dell'infaticabile missionario, di cui da tempo non giungevano notizie in Europa. Insieme percorrono la sezione settentrionale del lago e le regioni adiacenti; poi a Tabora lo Stanley se ne separa e il Livingstone riprende le sue esplorazioni nelle regioni ad O. del lago; ma il 1° maggio 1873, in seguito agli stenti sopportati nelle difficili peregrinazioni attraverso regioni letteralmente inondate, soccombe a Scitambo presso il Bangueolo, e la sua salma viene trasportata dalle mani fedeli dei suoi servi sino alla costa, per essere poi accolta nell'Abbazia di Westminster. Non si perdono così i frutti di questa ultima parte dell'opera del grande viaggiatore, la quale viene ripresa e continuata dal tenente Cameron che, a capo di una numerosa spedizione, aveva lasciato Bagamoyo il 18 marzo 1873 per andare incontro al Livingstone. Il funebre convoglio che ne riportava le spoglie viene incontrato a Tabora. Il Cameron con pochi compagni prosegue verso O., raggiunge il Tanganica, ne compie l'esplorazione della parte meridionale scoprendone l'emissario nel corso del Lukuga, che non può però seguire, ma che apprende riversarsi nel Congo, ne raggiunge a Niangué il corso, quindi, volgendo verso SO., perviene alla costa del Benguela con una messe preziosa di elementi geografici: determinazione di coordinate e di altitudini e rilevamenti di ogni sorta per uno sviluppo di quasi 5000 km. a traverso regioni in gran parte inesplorate o imperfettamente note, che arricchirono grandemente la geografia africana. La pertinenza del Tanganica al bacino dell'Atlantico invece che a quello del Mediterraneo restava così provata. Rimaneva da riconoscere il corso del Congo di cui ormai si veniva delineando l'estensione e l'andamento. Fu questo il merito della nuova grande spedizione condotta dallo Stanley (1874-77) la quale da Bagamoyo, raggiunto e circumnavigato il lago Vittoria, pervenne al lago Alberto, e quindi al Tanganica che pure circumnavigava. Quindi sulle tracce del Cameron, a traverso una odissea memorabile, riesce a raggiungere il Congo e a seguirlo sino alla foce, giungendo a Cabinda il 13 agosto 1877. Il mistero del Congo, che tante vittime era costato, rimaneva così svelato e si poteva tracciare sulle carte il corso di questo immenso fiume che rivaleggia in importanza con quello delle Amazzoni. Con la memorabile spedizione dello Stanley la carta dell'Africa rimane fissata nelle sue linee fondamentali; ma il riconoscimento del misterioso continente è ben lungi dal rimanere compiuto, e spazî vastissimi ancora bianchi nelle rappresentazioni cartografiche attendono nuovi ardimenti e nuove vittime.
Riassumiamo brevemente le vicende di questa nuova fase. I successi delle grandi scoperte nelle regioni equatoriali dei grandi laghi, che si presentano così ricche e promettenti sotto ogni rapporto, non valsero ad arrestare quell'interessamento per le regioni settentrionali sahariane che già vedemmo così intenso e fruttifero nella prima metà del secolo e culminante nella grande spedizione del Barth. Le copiose risultanze di quest'ultima indussero altri viaggiatori, specialmente tedeschi, a seguirne le tracce. Si ebbero così le spedizioni sfortunate del Vogel e del Beurmann (1863), trucidati entrambi al Uadai, quella più fortunata del Nachtigal, che da Tripoli esplorò il Tibesti e penetrò nel Bornū e nel Uadai (1869-74) ritornando incolume per la via del Nilo; ma più di ogni altre ricche di risultati quelle compiute da Gherardo Rohlfs che dopo un primo viaggio nel quale egli, precedendo ogni altro europeo, almeno dei tempi moderni, visitò l'oasi di Tuat (1862-66), compì una magnifica traversata da Tripoli al Bornū e quindi al Golfo di Guinea (1864-67) e successivamente riuscì per primo a penetrare nelle misteriose oasi di Cufra (1878-79), inviolato asilo dei Senussi. La conquista francese dell'Algeria, iniziata nel 1830, dava alla sua volta occasione a numerose ricognizioni esplorative nella regione sahariana retrostante, tra le quali specialmente notevoli per noi italiani, perché in gran parte svolte nella Libia interna, quelle del Duveyrier (1859-61).
Nell'Africa orientale dopo la scoperta dei grandi bacini equatoriali rimaneva, campo ancora non sfruttato di esplorazione, la regione compresa tra l'altipiano etiopico, il lago Vittoria e il mare. Se ne volle assumere il compito la Società Geografica Italiana, avviandovi, sotto la direzione di O. Antinori, una grande spedizione che avrebbe scelto come prima base di operazione lo Scioa. Ma la spedizione fallì al suo scopo principale per la prigionia del Cecchi e del Chiarini e la morte di quest'ultimo.
Nuova luce su questa plaga africana dovevano recare le spedizioni di Giuseppe Thomson (1883-84) che primo pervenne al misterioso lago Baringo, e più ancora quelle degli austriaci Teleki e von Höhnel (1887-88) che scoprirono il lago Rodolfo. Ma la gloria del maggiore successo, in questo campo almeno, era giusto che dovesse spettare all'Italia, la quale, per merito delle due grandi spedizioni Bòttego (1892-93 e 1895-97), doveva, col sacrificio della vita del loro arditissimo capo (17 marzo 1896), risolvere il problema del corso del Giuba, che il von Detken aveva tentato invano di risalire (1865), e di quello dell'Omo, già ritenuto il ramo sorgentifero principale del Nilo, dando alla rappresentazione cartografica di quella parte estrema dell'Africa orientale lo schema fondamentale che le ulteriori spedizioni non modificheranno.
Il periodo che diremo eroico della storia dell'esplorazione africana, alla quale aveva portato ancora un altro grande contributo lo Stanley durante la sua spedizione per la ricerca di Emīn Pascià e del capitano Casati (1886-89) e con la scoperta del lago Edoardo e del Ruvenzori, già del resto segnalato dal nostro Casati, poteva dirsi chiuso con la fine del sec. XIX. La troppo rapida rassegna compiuta, limitandoci a quelle imprese che più contribuirono a svelarci le grandi linee del continente africano, ci vieta di ricordare le numerose altre spedizioni che spesso col sacrificio della vita dei loro componenti furono condotte nelle varie regioni africane per colmare i vuoti che ancora rimanevano e rettificare le precedenti determinazioni, fatte spesso in condizioni assai difficili e non sempre riconosciute di sufficiente precisione. Di esse sarà fatta parola nella parte che sarà loro dedicata nelle trattazioni delle voci regionali. Qui ci limiteremo a ricordare che, ai fini puramente scientifici che avevano inspirato le precedenti spedizioni, si accompagnano, a partire specialmente dall'ultimo trentennio, quelli di carattere politico-economico, intesi a definire sul terreno i tracciati dei confini fra territorî attribuiti agli stati colonizzatori, fissati secondo le norme della conferenza di Berlino del 1885. Inghilterra, Francia, Germania, Italia, Spagna e Portogallo vi portano il loro diretto contributo, coll'opera di commissioni miste affidate a tecnici sperimentati, onde si moltiplicano le determinazioni astronomiche, le triangolazioni, i regolari rilevamenti topografici sui quali si dovranno riportare i confini in massima convenuti. La cartografia africana se ne avvantaggia rapidamente in modo straordinario; d'altro canto l'interesse economico per la messa in valore dei possessi coloniali induce gli stati a iniziare sistematicamente il rilevamento topografico delle colonie, rapidamente progredito con risultati eccellenti per opera dei Francesi in Algeria, in Tunisia e più tardi nel Marocco e nell'Africa occidentale; degli Inglesi nell'Africa australe, in Egitto, nell'alto Nilo, nelle colonie del Kenya; dei Tedeschi nella regione del Tanganica e del Camerun; dei Belgi al Congo; degl'Italiani in Eritrea, in Somalia, in Libia. Lavoro immenso, quale non si compì certo altrettanto rapidamente in nessun altro continente, dato appunto lo sforzo convergente dei principali stati europei, per quanto ancora in gran parte limitato alle zone costiere e a quelle rivierasche dei maggiori fiumi e laghi.
Riconosciuta ormai insufficiente per tener conto di tante nuove conquiste la carta dell'Africa del Habenicht ad 1:4.000.000 pubblicata nel 1884 e tenuta al corrente sino al 1900, il Lanvy de Bissy ne iniziò e condusse a termine (1872-1889) una a scala doppia (1: 2.000.000). Lo stato maggiore inglese dal canto suo ne iniziò col principiare del nuovo secolo una alla scala di 1 : 1.000.000 che doveva constare di 132 fogli, ma che fu sospesa dopo pubblicatone solo qualcuno perché doveva essere sostituita dalla carta internazionale al milionesimo. La sua pubblicazione richiederà peraltro molti decennî ancora, onde i servizî geografici ufficiali francesi ed inglesi si accordarono sino dal 1919 per pubblicare una carta alla scala di 1: 2.000.000 in 39 fogli, di cui ogni foglio corrisponderà a 4 della corrispondente carta internazionale e che ci potrà rappresentare con sufficiente larghezza lo stato attuale delle nostre conoscenze del continente africano.
Bibl.: La storia dell'esplorazione africana è più o meno trattata in tutte le storie moderne della geografia e dei viaggi di scoperta. Singole storie parziali riferibili a determinate regioni saranno ricordate a loro luogo, come saranno ricordate nelle biografie dei singoli esploratori le relazioni e le opere che si riferiscono ai loro viaggi. Qui ci limiteremo a citare alcune opere generali che trattano specialmente dell'Africa: J. Leyden e H. Murray, Historical account of discoveries and travels in Africa, Edimburgo 1817; A. Forbes Gruar, Africa: Geographical exploration and Christian enterprise, Londra 1874; Paulitschke, Die Geographische Erforschung des Afrikanischen Continents von den ältesten Zeiten bis auf unsere Tage, 2ª ed., Vienna 1880; R. Brown, The story of Africa and its explorers, Londra 1895; V. Deville, Partage de l'Afrique. Exploration. Colonisation. Etat politique, Parigi 1898; Ch. de la Roncière, La découverte de l'Afrique au moyen-âge, Cairo 1924-27, voll. 3.
Geologia.
La forma massiccia, i contorni semplici e poco articolati del continente africano fanno subito pensare a una grande regolarità di struttura a una grande uniformità di costituzione: regolarità ed uniformità, le quali tuttavia sono per avventura minori di quanto si potrebbe supporre.
Così, mentre strettissime analogie e quasi indissolubili legami consigliano i geologi a considerare la Siria e l'Arabia come facienti parte dell'edificio continentale africano, differenze profonde, specialmente nei caratteri tettonici e geologici, rendono possibile contrapporre la regione dell'Atlante, col suo fascio di catene a pieghe di età recente e recentissima, al resto del paese; nel quale dopo i movimenti tettonici prepaleozoici nessun notevole disturbo tettonico si produsse, all'infuori delle grandi fratture che solcano gli altipiani.
Così la struttura a catene montuose, a pieghe, dell'Africa Minore, (come è anche stata chiamata la regione dell'Atlante) si contrappone alla struttura tabulare che prevale quasi dappertutto altrove, in quella che chiameremo Euafrica.
Solo nell'estremo lembo dell'Africa Australe ritroviamo infatti, nelle montagne del Capo, una catena montuosa a pieghe di età non eccessivamente antica, e quindi paragonabile, in qualche misura, a quella dell'Atlante; catena che si considera come il residuo di una cintura sprofondata, e alla quale si potrebbe riservare il nome di Noto-Africa.
Nella Euafrica stessa si deve ulteriormente distinguere una regione elevata, la così detta Alta Africa, comprendente l'Arabia, la Penisola Sinaitica, l'Etbai, l'Altipiano Abissino col tavolato Somalo, gli altipiani dell'Unyamwezi e del Niassa nell'Africa orientale e tutta l'Africa australe, a S. del 10° lat. S., eccetto le sopra indicate montagne del Capo. In tutte queste regioni, le quali come si vede formano nel complesso un grande elevato massiccio occupante la parte orientale e meridionale del continente, prevalgono altezze superiori ai 1000 m. s. m., e le invasioni marine furono in tutti i tempi limitate generalmente ai ristretti lembi costieri. La parte centrale, occidentale e settentrionale dell'Africa (escluso tuttavia l'Atlante) costituisce la cosiddetta Bassa Africa, che non raggiunge generalmente i 1000 m. s. m. e si limita spesso a meno di 500 m. La Bassa Africa è suddivisa in parecchi bacini, come il Bacino del Congo, il Bacino del lago Ciad, il Bacino del Niger, il Bacino del Baḥr el-Ghazāl, la conca libica, separati l'uno dall'altro da rilievi e ondulazioni, in cui affiorano spesso le rocce cristalline e metamorfiche dell'imbasamento: tali la soglia del Catanga e quelle di Banda e dell'Adamaua, che delimitano il bacino del Congo: la soglia del Tibesti tra il bacino libico e quello del Ciad, la soglia dell'Air tra quest'ultima e il bacino del Niger: tali pure gli altipiani sedimentarî di Tripoli e di Tademeit e il massiccio centrale dei Tuareg. Nei bacini della Bassa Africa le invasioni marine si produssero generalmente a più riprese e su vaste estensioni; ciò vale però specialmente per quelli settentrionali e occidentali, poiché nel bacino del Congo il mare sembra sia penetrato solo per un breve tempo nel Triassico.
In tutto il continente, là dove una erosione sufficientemente intensa mise allo scoperto il substrato, questo si mostra costituito da sedimenti arcaici e algonchici, ora quasi indisturbati, ora affetti da antichissimi e talora intensi ripiegamenti, cui è stato dato il nome di africidici; spesso attraversati da intrusioni di rocce magmatiche - ordinariamente graniti, pegmatiti, dioriti, diabasi - che però possono assumere così vaste proporzioni da superare localmente quelle delle stesse rocce metamorfiche fondamentali.
Le rocce sedimentarie antiche sono infatti spesso più o meno profondamente metamorfosate: si hanno così paragneiss e scisti cristallini, con intrusioni granitiche o basiche, e frequenti grosse concentrazioni di quarzo aurifero (Etbai, Eritrea, Uallega, ecc.); talora con lenti di quarziti, ma anche di conglomerati e di calcari; gneiss e scisti, diffusi un po' dappertutto: nel massiccio del Sinai, nell'Etbai, nel massiccio etiopico, ove sono noti anche conglomerati algonchici, e calcescisti con lenti di minerali di ferro, indi al piede occidentale di questo, fino al Kordofān e al Darfūr e nei rilievi di Banda: in varî punti della Somalia e poi in tutta l'Africa orientale dal lago Rodolfo fino allo Zambesi e nella metà orientale di Madagascar, dove racchiudono giacimenti produttivi di grafite. Nell'Africa australe vi appartengono le formazioni di Witwater coi suoi conglomerati auriferi e quella di Westerdorp: nel bacino del Congo un buon numero di formazioni distinte con nomi diversi e comprendenti specialmente micascisti, quarziti, filladi ed anche puddinghe e calcari. Nella regione sudanese i terreni arcaici e algonchici prevalgono nel Camerun, e di qui si spingono verso oriente fino a congiungersi con le zone similari del Sūdān orientale e dell'Etiopia, e nell'ondulazione della Guinea superiore, fra il Togo e la Liberia, dove ortogneiss e paragneiss sono attraversati da intrusioni acide e basiche di varia età. Nella regione sahariana il substrato arcaico-algonchico affioora in massicci distinti tra i lembi della copertura sedimentare e vasti deserti di sabbia: sono le itabiriti (scisti quarzoso-ferruginosi in rapporto probabilmente con un'alta eruttività e con fenomeni di alterazione e di disfacimento) che si riscontrano, ad. es., a Madagascar, al Congo, forse anche in Somalia, oltre che in molte regioni extra-africane dove affiori l'Algonchico.
Tettonicamente come stratigraficamente questa serie primitiva, fondamentale, non costituisce una unità, ma un aggregato assai complesso.
Così la direzione del ripiegamento, che s'indica generalmente come meridiana, oscilla poi di frequente verso ENE. o NE., come in certe parti del Sūdān e perfino a SO.: e accade non di rado che entro la serie stessa alcuni membri meno antichi giacciano in discordanza, talora quasi indisturbati, su membri di età più remota, fortemente dislocati e poi troncati dall'erosione, come nella regione sinaitica, nell'Africa orientale e meridionale, nel bacino del Congo: indizio certo che i ripiegamenti ebbero luogo a più riprese e in diverse fasi durante il Prepaleozoico, prolungandosi in taluni casi, come per gli strati di Gurma nel Sūdān, fino ai primordî del Paleozoico.
Nel Paleozoico gran parte dell'Africa meridionale e centrale doveva essere emersa e costituire un continente, assai vasto, sui margini del quale, specialmente da settentrione, il mare a volta a volta si estendeva o si ritirava. Il Cambrico, a dir vero, non è noto che nel Marocco occidentale e nella regione orientale del Mar Morto; il Silurico invece affiora più largamente, per solito con la sua facies a graptoliti: nel Ḥegiāz, poi nella regione del Sahara, spingendosi fino nel Tasili e nel Muidir, finalmente tra Senegal e Niger nella Guinea francese.
Il Devonico è anche più largamente esteso nella regione sahariana: i tavolati desertici, per esempio nel Fezzan, nel Tasili, nel bacino del Saura hanno per larghe estensioni un imbasamento di depositi marini di questa età, non di rado assai intensamente ripiegati da movimenti erciniani: Devonico con affinità americane è stato segnalato ad Accra nella Costa d'Oro.
Finalmente il Carbonico con Productus e Lepidodendron affiora al Uadi Nasb nel Sinai occidentale e nella prospiciente regione egiziana del Uadi ‛Araba; e terreni di questo periodo, orizzontali, affiorerebbero con resti di Sigillaria nel Fezzan, coprono in trasgressione il Devonico del Saura e si estendono con facies neritica e intercalazioni racchiudenti giacimenti di combustibili, fino a Taudeni.
Nelle pieghe caledoniane ed erciniane dell'Atlante sono pure assai largamente implicati i terreni paleozoici di varie età.
D'altra parte, all'estremo opposto del continente, la catena marginale delle montagne del Capo abbraccia una serie di depositi paleozoici piegati, alcuni dei quali, come gli strati di Bocheveld, ricchi di Trilobiti e Brachiopodi mesodevonici, sono evidentemente marini. Altri, come le arenarie della Montagna della Tavola, includenti materiali di tipo morenico, o come gli strati carbonosi di Wittemberg, hanno facies continentale e accennano a reiterate regressioni del mare. Questo occupava anche allora le regioni australi, poiché tanto nell'Africa orientale quanto nella occidentale mancano prove di trasgressioni di questa età, salvo qualche traccia molto tarda (Permico) dell'Africa Sud-Occidentale e del SO. di Madagascar: e d'altra parte i sedimenti di questi strati continentali dànno sicuro indizio della loro provenienza da settentrione.
A N. delle montagne noto-africane sembra esistesse infatti una vasta area continentale, la quale durante l'Algonchico e gran parte del Paleozoico doveva collegarsi a occidente col Brasile, a oriente col Madagascar, con l'India e con l'Australia, formando quello che è stato chiamato continente di Gondwana. Di questo continente rimangono conservati i sedimenti terrestri nella formazione di Karru. Si tratta di una massa dello spessore di forse 5000 metri, che riempie il vasto bacino compreso fra le montagne del Capo e le montagne arcaiche lungo l'Orange e il Vaal; di qui essa si estendeva grandemente verso N., specialmente in corrispondenza dell'Alta Africa: nell'Africa orientale si trovano zolle di questi depositi contenenti carbone, fino al Lukuga e al Lago Niassa: le arenarie della Colonia del Kenya e le stesse arenarie di Adigrat nell'Abissinia e nell'Eritrea, col loro imbasamento di laterite dovuta ad alterazione subaerea del substrato arcaico e algonchico, dimostrano una lunga fase continentale, cui succedette alla fine del Paleozoico e nel Trias la sedimentazione eolica e fluviale delle sabbie. L'enorme massa dei depositi di Karru ora concordante ora discordante sul substrato, in complesso orizzontale, sebbene rotta da fratture, corrisponde al lunghissimo periodo che va dal Carbonico superiore al Giurassico: ma anche tenuto conto di ciò, il suo spessore, la sua continuità di facies sono tali, che basterebbero di per sé a dimostrare trattarsi di depositi formatisi in una regione non lontana dal mare - dall'Oceano Australe - non certo nel cuore di un continente dove le forze demolitrici avrebbero per lo meno bilanciato quelle sedimentatrici.
La formazione di Karru contiene nei suoi strati basali (Dwyka) tracce evidenti di una fase glaciale: le nevi e i ghiacci coprivano la regione a N. del 33° parallelo e depositavano qui le loro morene di fondo, più a S. formando laghi e corsi d'acqua: forse i depositi di Kundelungu, che alla base della serie sedimentare nel bacino congolese presentano parimente una facies glaciale, appartengono alla stessa età e furono depositati al margine opposto della calotta glaciale sud-africana. Nell'Africa orientale i depositi glaciali pare manchino a questo livello.
Strati alquanto più elevati della serie di Karru (strati di Ekka e di Beaufort) contengono invece, insieme con abbondanti avanzi di interessanti rettili, letti di carbone e resti di piante caratteristiche, tra cui Gangamopteris e Glossopteris, che per la loro diffusione nell'Africa australe, a Madagascar, in India, in Australia, in Argentina, servono ottimamente a confermare l'esistenza di strettissimi legami tra queste varie regioni, che i più ritengono dovessero formare, durante il Permo-Carbonico, un unico continente.
In quest'epoca stessa però o subito dopo, al principio del Mesozoico dovette iniziarsi lo smembramento del continente di Gondwana nei due grandi lembi della Lemuria e dell'Archelenis, mentre il Madagascar rimaneva connesso all'India e l'Africa manteneva un largo ponte attraverso l'Atlantico fino al Brasile; ma dall'Oceano Australe un vasto golfo s'insinuava nel Retico entro il bacino congolese e vi lasciava nella formazione di Lualaba avanzi di pesci; mentre un braccio di mare, distaccandosi dalla Tethys e attraversando l'Omān, e la Somalia, deponeva in quest'ultima regione gli strati marini di Lugh e si spingeva fino all'estremo nord di Madagascar, dove le arenarie triassiche marine sono impregnate di bitume. Il resto dell'Africa era ancora emerso nel Trias: depositi di questa età sono noti solo con le facies delle marne variegate gessifere, con dolomie e carniole, nelle pieghe dell'Africa Minore e nelle colline pregarianiche della Tripolitania, e poi nel bacino del Mar Morto, dove il Trias assume la facies calcarea con fossili raibliani.
Maggiore estensione ebbero, in questo lato orientale del continente, le trasgressioni giurassiche, dovute ad un progressivo estendersi della Tethys. Questa abbracciava allora l'Atlante dal Marocco occidentale fino al Gebel el-Asker nella Tunisia orientale, estendendosi fino nella Gefara tripolitana: nella parte settentrionale dell'Etbai (Egitto orientale) e nel nord della penisola Sinaitica il Giurassico affiora, secondo recenti scoperte, con vari livelli, e altri affioramenti si trovano nella regione del Mar Morto e nel M. Hermon in Siria. Da qui si staccava probabilmente un braccio di mare, che, lambendo il margine orientale del massiccio cristallino del Negd-Etbai, attraverso l'Arabia centrale e l'Yemen, per la Dancalia, lo Scioa, e l'Harar scendeva alla Somalia meridionale, all'Oltregiuba, alla parte costiera della Colonia del Kenya, a Madagascar. In tutti questi paesi si osservano, infatti, estesi lembi di calcari giurassici, di varie età, ricchi di fossili di mare non molto profondo, ad affinità mediterranee e indiane.
Doveva trattarsi però di un canale stretto e allungato, nei primi tempi almeno, chiuso a S.: i terreni giurassici infatti non oltrepassano ad O. il 36° meridiano, e verso oriente, tanto nel Haqlramawt orientale quanto nella Migiurtinia e a Socotra, sui terreni cristallini antichi riposano direttamente i depositi della trasgressione cretacica, indizio della persistenza di un'area continentale, cui potrebbe attribuirsi il nome di Farsia. Nel Kimmeridgiano alle faune marine dell'India si aggregano elementi di origine probabilmente australe (Trigonia). suggerendo l'idea che la connessione tra quell'Oceano e i mari dell'emisfero boreale e della Tethys fosse ormai avvenuta. Anche il Cretacico inferiore dell'India, a facies litorale, ha rapporti stretti con le formazioni di Uitenhange, nell'Africa meridionale.
Tanto nel Giurassico, però, quanto nel Cretacico inferiore (e a maggior ragione nel Trias) questo bacino - o canale etiopico-malgascio - non costituisce una sinclinale, ma una piatta e bassa plaga, che il mare a volta a volta invade e abbandona: tanto il Trias del Mar Morto, quanto il Giurassico del Galala, quanto anche il Cretacico inferiore del Haramawt non sono che limitati strati calcarei fossiliferi, intercalati nella massa di un deposito sabbioso-siliceo bianco, o rosso, o screziato, o bruno, privo di fossili: deposito molto probabilmente continentale, che si confonde alla base con le arenarie di Adigrat, in alto con le così dette arenarie nubiane.
Mentre questi prodromi di invasione marina si accentuavano a levante, ad occidente rimaneva intatto il collegamento transatlantico: Giurassico marino non è noto che al Capo Verde; il bacino del Congo, segregato ormai dal mare, era occupato da laghi interni, e nella regione del Karru e adiacenti fin nell'Africa orientale, continuavano ad accumularsi i depositi continentali (strati di Stormberg), con avanzi di rettili e una flora diversa da quelle precedenti; finché una fase d'intenso vulcanismo, contemporaneo ai ripiegamenti della Noto-Africa, dà luogo a intrusioni doleritiche, poi a coperture di lave diverse, finalmente nel Cretacico alle esplosioni di kimberlite, cui sono dovute le formazioni diamantifere.
Nel Cretacico medio, a partire dall'Albiano, il mare invade aree sempre più vaste tutto attorno al continente, salvo nella sua parte meridionale. Nel Cenomaniano superiore, quando tocca la sua massima estensione, esso occupa ormai non solo la regione dell'Atlante, ma anche tutta la regione sahariana ed egiziana (salvo l'Etbai), donde si estende da un lato sulla parte N. della penisola sinaitica, sull'Arabia settentrionale, sulla Palestina e la Transgiordania, fino alla Siria, dall'altro attraverso il Sudàn, fino a congiungere il Mediterraneo con l'Atlantico. È il «tavolato desertico» del Suess, che si stabilisce sui terreni algonchici e paleozoici, spesso piegati e abrasi. Di qui il mare pare si estendesse ad O. fino alle Canarie; certo s'insinua molto a sud lungo le coste africane: poiché nel Camerun i depositi turoniani si addentrano assai nel paese e fino all'Angola si hanno lembi litorali di Cretacico: il ponte tra l'Africa e l'America meridionale è ormai rotto, sebbene frammenti del continente in via di demolizione persistano probabilmente fino al Terziario medio. A oriente, attraverso l'Arabia, il mare cretacico si estende sul Yemen e sul Hadramawt, invade l'Omàn, la Migiurtinia, Socotra, parte della Somalia meridionale e dei paesi Galla e abbandona su vasti tratti delle coste attuali, dell'Africa orientale, di Madagascar, di Conducia, del Pondo, della baia di Mossel, i suoi depositi a Orbitolina e ad Ammoniti, talora anche a Rudiste.
Il Senoniano segna nel N. un periodo di parziale ritiro del mare, con depositi spesso litorali, contenenti a diversi livelli orizzonti fosfatiferi produttivi: p. es. nell'Egitto orientale. Invece a S. corrisponde allo smembramento della Lemuria: lembi senoniani a facies indiana giacciono infatti sui terreni cristallini lungo la costa occidentale di Madagascar.
Ma una nuova invasione marina succede sul tavolato desertico sahariano e in tutta la parte settentrionale e orientale al principio del Terziario, iniziandosi con l'Eocene inferiore, pure fosfatifero, in Tunisia e in Algeria, e culminando nell'Eocene medio. In questo periodo, probabilmente, il Mediterraneo torna a comunicare con l'Atlantico attraverso il Sahara: le faune eoceniche della Nigeria hanno assai stretti rapporti con quelle della Cirenaica e dell'Egitto: mentre d'altro canto queste si ricollegano, in modo sorprendente, con quelle della Somalia settentrionale, di Socotra, dell'Africa orientale, di Madagascar, dell'India. E quantunque in via di regressione, il mare è ancora molto esteso nell'Oligocene: depositi francamente marini con Nummulites intermedius sono noti in Algeria, in Tunisia, nella penisola del Barca (Cirenaica) e se l'Egitto era almeno in gran parte sgombro di mare, e abitato dai primi progenitori dei proboscidati, l'Oligocene con identiche facies ricomparisce nella Migiurtinia orientale e nell'Africa orientale. Madagascar è invece temporaneamente collegata al continente africano in questo periodo e ne sarà definitivamente staccata solo dal mare Aquitaniano.
Anche nel Miocene, del resto, le ingressioni marine sono limitate a zone generalmente costiere, tanto a oriente — a Madagascar, a Zanzibar, a Lindi, sulla costa orientale migiurtina — quanto ad occidente nell'Angola. Più vasto spazio occupano dell'Africa settentrionale, non solo nella regione dell'Atlante, dove uno stretto a S. del Rif congiungeva — dopo la chiusura di quello Nord-betico e prima dell'apertura dello stretto di Gibilterra — il Mediterraneo con l'Oceano: ma anche nella Libia, dove il Miocene comincia nel sottosuolo della Gefara tripolina e nella Tripolitania orientale, estendendosi largamente nella Sirtica, nella Cirenaica, nel Deserto Libico (fino a oltre 4.00 km. entro terra) e nel Deserto arabico.
Un golfo miocenico si spinge allora per entro il massiccio cristallino dell'Etbai sull'area di quella che diverrà più tardi la Fossa Eritrea, ossia il Mar Rosso, fino a Ras Benas, oltre la bocca del golfo di Suez, ove i suoi depositi gessoso-salini sono la roccia madre di quei giacimenti di petrolio. Non per questo canale comunicava tuttavia il Mediterraneo coll'Oceano Indiano: la comunicazione doveva farsi attraverso la Mesopotamia: ciò non toglie che le faune mioceniche dell'Africa orientale abbiano parecchi elementi in comune con quelle mediterranee, mentre un carattere anche più spiccato presenta la placca miocenica dell'Angola, per la presenza di generi così tipicamente mediterranei come Amphiope.
Nel Neogenico si completa l'isolamento dell'Africa per lo sprofondamento delle isole, che probabilmente la ricollegavano fin allora da un lato per Madagascar all'India, dall'altro al Brasile, e il continente assume presso a poco la configurazione attuale: i lembi pliocenici e plistocenici marini che vi si osservano sono strettamente limitati alle coste, e testimoniano più che altro di oscillazioni nel livello relativo del mare.
Ma il Miocene e il Pliocene segnano il culminare di grandi fenomeni tettonici che, in modo diverso, hanno grandemente influito a modellare il continente. Già si è accennato come, dopo le molteplici fasi dei movimenti algonchici, accompagnati da copiose manifestazioni eruttive, e dopo qualche loro probabile tarda ripercussione paleozoica - p. es. in certe regioni del Stidàn e dell'Africa sud-occidentale - la maggior parte di questo - quella parte cioè che abbiamo chiamato Euafrica - non abbia subìto altri piegamenti. Due zone tuttavia, limitate di estensione, ma di somma importanza geologica, sono ripiegate e serrano come in una morsa il tavolato euafricano: sono le Montagne del Capo a S. e quelle dell'Atlante a N. Le Montagne del Capo, lembo ultimo di un antico fascio orografico australe in gran parte sommerso, sono composte di tre rami: i Cedar Bergen, i Zwarte Bergen, e i M. Pondo, che nel loro complesso si raccordano a formare una specie di semicerchio aperto a N., e abbracciante la massa tabulare dei depositi di Karru. Il movimento che dette loro luogo avvenne durante il Mesozoico, si è iniziato cioè verso la fine del Permico e continuato fino alla Creta inferiore non senza manifestazioni vulcaniche ingenti nella finitima regione. È da notare, che intorno all'Africa australe non esiste alcun lembo di Terziario marino.
Nell'Africa settentrionale i sedimenti paleozoici della regione sahariana furono piegati da replicate fasi orogenetiche caledoniane (Saharidi) ed erciniane (Altaidi africane), che al disotto dell'Atlante tendono a collegarsi con le pieghe coeve dell'Europa meridionale, e come in Europa furono accompagnate da intrusione di rocce magmatiche, non sempre facili a distinguere da quelle algonchiche.
Le pieghe dell'Atlante, come quelle dell'arco siriaco, fanno parte della grande cintura mediterranea generata nella geosinclinale della Tethys a partire dalla fine del Giurassico, con fasi culminanti nella Creta superiore e nel Miocene: i due archi si ricollegano rispettivamente ai monti della Sicilia e alla Cordigliera Betica il primo, alla Catena di Anatona il secondo. L'Atlante consta di varie catene di cui la principale, l'Alto Atlante, si continua ad oriente nell'Atlante Sahariano, a occidente nel gruppo delle Canarie. Questo fatto, e il contorno arrotondato della legione guineese, e i gruppi d'isole vulcaniche che ne seguono da lontano l'andamento, come anche il lieve piegamento dei depositi cretacei nella Senegambia e nella Nigeria, possono far pensare a un prolungamento dell'intero arco fino al golfo di Guinea, arco che sarebbe poi sprofondato.
Qualcuno dei vulcani, come il Picco di Teyde nelle Canarie, Fogo nelle isole del Capoverde, Fernando Poo nel Golfo di Guinea e alcuni crateri sottomarini, sono ancora attivi.
E sprofondamenti parziali ebbero luogo nel Pliocene anche nel settore mediterraneo: a questi è dovuta la formazione dello stretto di Gibilterra, con questi son connesse le masse eruttive del Marocco spagnolo, di Alborén, forse anche quelle della Tunisia e della Tripolitania. L'interruzione dell'istmo pliocenico siculo-tunisino, di cui Malta è un testimonio, è però più recente e ad esso si può collegare il vulcanismo di Pantelleria.
Intanto nell'oriente africano si abbozzava fin dal Terziario inferiore, e più tardi, specialmente alla fine del Miocene e al principio del Pliocene, si formava il più vasto sistema di fratture conosciuto. Fosse tettoniche e bacini chiusi, talora più bassi del livello del mare, si allineavano con direzione presso a poco meridiana dal margine dell'arco Siriaco fino allo Zambesi. Vi appartengono la fossa del Giordano e del Mar Morto, il Golfo di `Aqabah che ne è la continuazione, e la fossa eritrea, che si abbozza nel Miocene, ma solo nel Plistocene è invasa dalli Oceano Indiano, le cui acque pare giungano per breve tempo a mescolarsi con quelle del Mediterraneo. All'altezza di Massaua la fossa eritrea penetra neI continente, e lasciando ad oriente l'horst dancalo, per la Piana del Sale giunge al fondo del golfo di Aden. Qui convergono con essa da un lato la frattura abissina, che ne continua la direzione verso S. fino al lago Rodolfo, dall'altro la fossa aualite o golfo di Aden, diretta da ponente a levante, che delinea la costa settentrionale della Somalia. Dal lago Rodolfo la zona principale scende al lago Naivasha e va ad inserirsi presso il lago Niassa ad una seconda fossa più occidentale, il cui fondo è occupato dal lago Alberto, dal lago Tanganica e dal Niassa.
Questo sistema di fratture è contrassegnato spesso da anomalie della densità e del magnetismo, è sede di aree sismiche di qualche importanza, come in Palestina, in Eritrea, nell'Africa orientale, specialmente fra Niassa e Tanganica: è accompagnato da manifestazioni vulcaniche.
Un intenso vulcanismo si manifestò nella regione fin dalla fine del Cretacico e i primordi dell'Eocene, forse per effetto delle prime dislocazioni, che separarono la Lemuria dall'india: sono i vasti espandimenti trappici del Yemen e dell'altipiano etiopico, coevi di quelli ben noti del Deccan. Esso ebbe ripercussioni fino nel Sudan.
Più intensamente agì il vulcanismo nel Terziario e nel Plistocene, man mano che il sistema delle fratture si sviluppava, in Palestina, in Arabia, in Dancalia, nello Scioa, nel Golfo di Aden, in Somalia e nei Galla, in tutta l'Africa orientale fino al Madagascar e nelle isole dell'Oceano Indiano: Comore, Amirante, Seicelle, Mascarene. La così detta serie di Aden, tanto diffusa nel basso Mar Rosso, vi appartiene; si collegano parimente a questa serie i giganti dell'Africa: Kilimangiaro, Kenya, Elgon Notevole è il carattere alcalino di gran parte di queste rocce. Né il vulcanismo è del tutto estinto: ché il Dubbi in Dancalia, il Dofane nello Scioa il Teleki a S. del lago Rodolfo, il Virunga sul lago Kivu ed altri nella isole del Mar Rosso, nelle Comore, nelle Mascarene, fecero eruzione in tempi storici, e i giacimenti di minerali potassiferi della Piana del Sale in Eritrea sono in rapporto con depositi salini marittimi, ripresi e concentrati da fumarole e sorgenti termali ancora energicamente attive.
Così, a poco a poco, l'Africa assunse la sua fisionomia attuale.
Un lieve sollevamento ha messo allo scoperto, sulle coste del Mai Rosso e dell'Oceano Indiano, come su quelle dell'Atlantico e del Mediterraneo, i depositi marini del Plistocene: scogliere coralligene spiagge emerse; ma non ha alterato sensibilmente i contorni del continente.
Maggiormente ne modificò l'aspetto una fase di clima assai più piovoso di quello odierno (pluviale), che dovette corrispondere al periodo glaciale: esso avvivò le sorgenti, che hanno lasciato depositi travertinosi nel cuore del Deserto Libico presso Kharga: tracciò o approfondì solchi vallivi oggi interrotti e inariditi, riempì stagni ormai prosciugati, fece discendere sensibilmente i ghiacciai sui fianchi del. Ruvenzori, del Kilimangiaro, del Kenya: scolpì nel suolo forme vallive, estranee all'ambiente attuale. Se pare ormai assodato che un mare plistocenico sahariane non sia mai esistito, almeno come lo si concepiva un tempo, l'attuale regime desertico del Sahara sarebbe, d'altra parte, di origine recentissima.
Bibl.: Gurich, Ueberbliek iiber den geologischen Bau des afrikanischen Kontinents, in Peterm. Mitth., XXXIII (1887); T. Taramelli e V. Bellio, Geografi e geologia dell'Africa, Milano 1890; E. Haug, Traité de Géologie, Parigi 1911; E. Suess,La Face de la Terre (trad. De Margerie), Parigi 1921; E. Krenkrel, Geologie Afrikas, I-II, Berlino 1925; G. Mercalli, I Vulcani attivi della terra, Milano 1907; Montessus de Ballore, La Géographie séismologique, Parigi 1905. Carte geologiche generali dell'Africa si trovano nelle citate opere di Giirich, di Taramelli e Bellio, e nell'opera di Hahn, Afrika, in W. Sievers, Allgemeine Landerkunde, 2' ed., Lipsia e Vienna 1910. La cartina a colori che accompagna la presente trattazione è stata compilata espressamente da G. Stefanini, in base a cartine parziali di vari autori, in essa citati. G. St.
Coste.
La massa centrale dell'Africa ci appare nella sua rappresentazione cartografica con aspetto tozzo e privo di articolazioni notevoli. Una linea che dal Capo Palmas nell'Atlantico raggiunge il Capo Guardafui, poco inclinata rispetto al parallelo di 8° di lat. N., la divide in due parti, delle quali quella a N. ha forma presso a poco trapezoidale, e triangolare invece quella a S. Nella parte trapezoidale costituisce come una sezione distinta la regione dell'Atlantico od Africa Minore, sporgente verso NO. Per questa sua configurazione uniforme e scarsamente articolata lo sviluppo della sua linea di costa, che misura 30.500 km., è assai scarso in rapporto al raggio del circolo di pari area calcolato in 18.600 km. Tale rapporto è di appena 1,64; un terzo cioè di quello dell'Europa e dell'America del Nord.
La costa africana sul Mediterraneo, tra l'imbocco N. del Canale di Suez e il Capo Spartel, misura 4350 km. Il primo tratto di essa, costituito dalla fronte del delta del Nilo, è basso, palustre, importuoso, orlato di lagune. Nella Marmarica la costa è alta e presenta alcune insenature, delle quali le principali sono, procedendo verso O., il Golfo di Sollùm, che segnò già nell'antichità il punto di divisione tra l'Asia e l'Africa, quindi il profondo e sicuro golfo di Tobrùch e quello più ampio ma meno sicuro di Bomba all'estremità orientale della Cirenaica. Questa si protende a guisa di penisola, racchiusa ad O. dall'ampio Golfo di Sidra, con coste dapprima alte e importuose, fornite di meschini ancoraggi, poi basse e sabbiose che rendono difficili gli approdi e le costruzioni portuali, anche per l'insabbiamento a cui il trasporto eolico delle sabbie del deserto l'espongono e che si aggiunge al fenomeno, che sembra comprovato, di un abbassamento generale della zona.
Infausta ai naviganti anche per le condizioni del mare, spesso tempestoso, è tutta la costa sirtica, e come tale tristamente nota sino dall'antichità. Unico ancoraggio sicuro presenta il vasto porto di Tripoli, che l'opera degl'Italiani ha sistemato, usufruendo di alcune condizioni naturali.
Procedendo verso ponente a circa 400 km. da Tripoli e superato l'ampio Golfo di Gabes o Piccola Sirte, limitato ad oriente dall'isola di Gerba, la costa piega risolutamente a N. formando il Sahel Tunisino, poco propizio alla navigazione per le forti correnti e privo di sicuri ripari, che termina colla penisola del Capo Bon la quale si protende per circa 80 km., con una larghezza media di meno della metà, ed è considerata come l'unico notevole aggetto peninsulare di tutto il continente. Oltre il Capo Bon si apre il gran Golfo di Tunisi, in fondo al quale sorge la città di questo nome, adagiata sulla sponda meridionale di un ampio stagno, reso oggi accessibile alle navi e convertito in porto marittimo.
Tutta la costa adiacente della Tunisia e dell'Algeria è un alternarsi di tratti bassi e sabbiosi fronteggiati da lagune, e di scali più o meno riparati, che l'opera dei Francesi ha convertiti in porti sicuri (Bona, Bugia, Algeri, Orano). Ottimo fra tutti quello di Biserta, che ha utilizzato la vasta e profonda laguna retrostante. L'ultimo tratto del litorale mediterraneo, rappresentato dalla costa marocchina del Rif (Marocco Spagnuolo), è più del rimanente alto e accessibile, con piccole insenature già nido di pirati, rifugio per piccole imbarcazioni. Alla punta «de la Almina» si può considerare abbia termine la costa mediterranea e si entri nello stretto di Gibilterra, il quale sino al Capo Spartel si sviluppa per circa 65 km. con una larghezza minima di 15 km. La costa atlantica ha uno sviluppo complessivo di 11.200 km. ed è caratterizzata dalla vasta rientranza del Golfo di Guinea. Nel primo tratto, dal Capo Spartel al Capo Verde, la costa è bassa, importuosa, accompagnata da bassifondi sabbiosi, di grande ostacolo in ogni tempo alla navigazione. Oltre il C. Verde sino al C. Palmas la direzione piega verso SE. e la costa si mantiene sempre bassa, ma interrotta da numerosi sbocchi fluviali che offrono ripari portuali. Dal Capo Palmas sino alla Baia di Biafra, la costa, che prende il nome di Costa di Guinea, segue quasi esattamente la direzione dei paralleli e solo ne interrompe la generale uniformità l'ampio aggetto palustre del delta del Niger, conservando i caratteri del tratto precedente. Dalla Baia di Biafra sino al Capo di Buona Speranza la costa piega verso SE., interrotta solo dalle due ampie sporgenze del Capo Lopez e del Capo Frio, che racchiudono il vasto Golfo di Benguella, a N. del quale si apre l'ampio e profondo estuario del Congo. Bassa e spesso palustre in tutto questo suo tratto, la costa africana, salvo l'estuario anzidetto e quello del Gabon, non presenta nessuna rientranza notevole; non mancano tuttavia gli approdi sicuri e ben riparati, che l'opera dell'uomo ha convertiti in veri e propri porti. Notevole particolarmente la Baia della Balena, di cui l'Inghilterra si era assicurato il possesso nel territorio di quella che fu l'Africa tedesca del SO. Oltre il Capo di Buona Speranza, che non segna, come fu detto, l'estrema punta meridionale del continente, la costa si presenta alta, dirupata, infida ai naviganti per l'imperversare dei venti e delle correnti. Diviene poi più pianeggiante ed ospitale formando dapprima l'insenatura della Baia Algoa, all'ingresso della quale sorge Port Elizabeth, poi la più vasta Baia di Delagoa coll'ottimo porto di Lorenzo Marques.
La Punta da Burra segna l'ingresso al Canale di Mozambico tra il continente africano e l'isola di Madagascar: vasto solco oceanico di oltre 3000 m. di profondità, che nel suo punto più angusto, in corrispondenza del porto di Mozambico, misura 400 km. di larghezza.
La costa è qui bassa e malsana e s'inflette nell'ampio Golfo di Sofala su cui sorge il porto di Beira e più a N. ha foce lo Zambesi. Il canale di Mozambico termina a N. col Capo Delgado, di fronte al quale sorgono, a 300 km. di distanza, le vulcaniche isole Comore. La costa africana prosegue verso N. bassa e in parte palustre, fiancheggiata dalle isolette continentali di Mafia, Zanzibar e Pemba coi porti di Dar es-Salàm e di Mombasa. Più oltre piega a NE. con aspetto uniforme, importuosa, orlata di dune, accompagnata da bassifondi e sbattuta dai periodici monsoni: è la costa italiana del Benàdir e della Somalia settentrionale sino al caratteristico aggetto peninsulare di Ras Hafun, estremo punto orientale del continente. Da Capo Guardafui, 175 km. più a N., infausto ai naviganti, cui fronteggia a 90 km. l'isola di Socotra, la costa piega risolutamente a ponente chiudendo a S. il Golfo di Aden e, dopo formata l'ampia ma poco praticabile insenatura del Golfo di Tagiura, si approssima collo stretto di Bà1 el-Mandeb a soli 25 km. dalla costa arabica per continuare poi, lambita dal Mar Rosso, generalmente alta e importuosa con rare insenature sino al Golfo di `Aqaba, a S. dell'istmo di Suez. Unico porto naturale veramente notevole è quello di Massaua, città che sorge su di un'isoletta madreporica a 600 m. dalla costa, cui la congiunge artificialmente una diga, circondata dalle numerosissime isole formanti il gruppo madreporico delle Dahlac. Più a N. Porto Sudàn, di recente attrezzato dagl'Inglesi, sostituisce l'antico e male accessibile porto di Suàkin.
Dato così uno sguardo complessivo al contorno esterno, accenniamo alla struttura interna del continente e alle linee fondamentali del rilievo africano.
Già parlando della storia geologica dell'Africa fu detto della distinzione che, dal punto di vista genetico e tettonico, deve farsi tra la sua parte nord-occidentale, la così detta Africa Minore, e il resto del continente che ne differisce in modo sostanziale. La prima, che costituisce la regione dell'Atlante, attraversata dalle grandi catene più o meno parallele dell'Alto, Grande, Medio e Piccolo Atlante, dell'Atlante Riffano e dell'Anti-Atlante, che culminano in più punti con cime di oltre 4000 m., si ricollega più al continente eurasico, di cui il sistema anzidetto può dirsi la continuazione, che al resto del continente africano, nel quale prevalgono invece le formazioni tabulari, diversamente elevate, intramezzate da vaste conche pianeggianti o da monti isolati, generalmente di origine vulcanica. Questi tavolati, che nella parte settentrionale del continente stanno in media sui 500 m., nella parte meridionale invece si elevano oltre i 1000 m., mentre nella parte orientale superano col vasto ed erto altipiano etiopico la media di 2000 m. Caratteristica comune è il loro ripido declinare verso i lembi esterni, lasciando un'angusta fascia costiera pianeggiante, onde dal mare gli orli appaiono come vere catene di monti. Ma, salvo che nella parte centrale, dove si può dire che la costituzione del tavolato sia quasi continua, nella parte settentrionale e centrale le forme rilevate recingono, come si è detto, vaste conche pianeggianti, la cui altitudine si mantiene inferiore ai 300 m., quali sono quelle dell'alto Niger e del Ciad o dell'alto Nilo a N., del bacino del Congo nella parte centrale.
I tavolati non sono d'altronde così uniformi come si potrebbe credere, e in passato si credette, prima che fosse meglio conosciuto l'interno del continente.
Nel Sahara, per tanto tempo considerato come una vasta distesa, più o meno pianeggiante, di origine marina, si ergono vere zone alpestri, paragonabili per altitudine ed estensione ai Pirenei (Tibesti: Emi Kussi 3400 m.) o gruppi isolati toccanti i 3000 m. come nel Taha (Abaggar): gli uni e gli altri di origine vulcanica. Assai più elevato si presenta l'altipiano etiopico, che per tratti notevoli supera i 3000 m. e tocca i 4560 col Ras Dascian; a sud di esso si estende la regione dei grandi laghi, che occupano il fondo delle grandi fratture le quali, come fu veduto, continuano attraverso il continente africano, quelle da cui ebbero origine la valle del Giordano, il Mar Rosso e forse parte della valle stessa del Nilo; regione elevata in media oltre i 1000 m., che si presenta intramezzata dalle grandi masse vulcaniche dell'Elgon (4311 m.) del Kenya (5195) del Kilimangiaro (5930), la più eccelsa di tutte, mentre sul limite occidentale si erge la grande massa, di origine sedimentaria, del Ruvenzori (5125).
A S., il margine costiero orientale è formato dalla catena dei M. dei Draghi, che pur supera con molte cime i 3000 m. e col Champagne Castle tocca i 3660 m., mentre in fondo al Golfo di Guinea si erge isolata la grande massa vulcanica del M. Camerun (4070 m.).
Clima.
L'Africa, compresa per la sua massima estensione nella zona intertropicale (ne restano esclusi solo i 18 centesimi, dei quali 12 nell'emisfero settentrionale e 6 in quello australe) non superando in ambedue gli emisferi la latitudine estrema di 37°, gode nel suo complesso del clima caldo, proprio delle regioni dei tropici, che si attenua nelle estreme regioni settentrionali e meridionali anche per l'influenza mitigatrice che vi esercita l'oceano. La mancata sua influenza nelle zone interne, ne rende l'escursione termica diurna assai ampia, onde, specialmente nella regione sahariana, a causa della scarsissima umidità atmosferica e della forte irradiazione, si alternano temperature diurne elevatissime, superiori anche ai 50°, e temperature notturne assai basse, talvolta inferiori a 0°. L'altitudine considerevole di alcune vaste estensioni del continente contribuisce naturalmente ad abbassare la temperatura di estese zone elevate, specie nell'altipiano etiopico, dove, nonostante la latitudine, si hanno condizioni termiche assolutamente temperate.
Ma, prescindendo dagli effetti del rilievo, l'esame delle isoterme annuali e quello delle isoterme di luglio e di gennaio, ci permette già di vedere quale sia l'andamento della temperatura nel continente africano. Quello delle isoterme annuali ci mostra un'area centrale con temperature superiori a 30°, che comprende la regione sudanese centrale sino al tratto meridionale della costa eritrea, il cui asse, che rappresenterebbe il cosiddetto equatore termico, corre intorno ai 15°: la latitudine di Massaua. Con andamento quasi parallelo e sufficientemente uniforme risultano tracciate, nella parte settentrionale, le isoterme successive, sino a quella di 180 passante per il Capo Bon, mentre in quella meridionale l'isoterma di 26° si inflette considerevolmente verso S., sino a comprendere tra quelle di 28° e di 26° gran parte dell'Africa equatoriale e di quella subtropicale australe sino al Kalahari; alla isoterma di 26° succedono poi rapidamente quelle inferiori a 16°, con andamento regolare ed uniforme.
Notevole differenza presentano invece le isoterme di luglio e quelle di gennaio. Le prime accentuano naturalmente le più elevate temperature della parte interna settentrionale sino a comprendere tutta la zona sahariana entro la isoterma di 32°, degradanti verso mezzodì sino ai 14°. Quelle di gennaio mostrano invece due massimi di 30°, uno proprio sull'equatore e l'altro presso il tropico del Capricorno, con curve degradanti sino a 10° nell'Atlante e a 20° nella regione del Capo. Le differenze stagionali ne risultano peraltro assai notevoli, specialmente nelle zone interne subtropicali del Sahara, dove raggiungono i 20°, mentre in quella australe si mantengono intorno ai 10°.
A modificare sensibilmente il clima astronomico intervengono, oltre alla diversa continentalità e quindi alla diversa influenza marina, il regime dei venti e quello delle piogge che con esso è in relazione.
Nella regione equatoriale, zona di calme e di correnti atmosferiche ascendenti, non si hanno notevoli spostamenti in senso orizzontale, a eccezione della parte orientale, lambita dall'Oceano Indiano, e lungo la costa della Guinea, dove si fa sentire forte l'azione dei monsoni. Gli alisei agiscono normalmente in ambedue gli emisferi; ma in special modo in quello settentrionale l'aliseo è rinforzato dal monsone estivo. Regime di venti variabili hanno i territori del Mediterraneo e quelli del Capo. Una caratteristica propria della zona sahariana, e di quella che si estende a N. di essa, sono i venti secchi e violenti che spirano dalle zone di alte pressioni subtropicali verso le aree di bassa pressione che si formano sul Mediterraneo, determinando venti locali che assumono i nomi di khamsin nell'Egitto, di ghibli nella Libia.
Una grande diversità presentano le varie parti dell'Africa rispetto al regime delle piogge, sia per quanto riguarda la quantità complessiva annua delle precipitazioni, sia per quanto riguarda la loro distribuzione stagionale.
L'esame della cartina (cfr. p. 740) mostra subito come, in corrispondenza della zona equatoriale, a ponente del bacino del Nilo, si distenda una regione di forte piovosità, tra i 1500 e 2000 mm. di precipitazioni annue, che nella zona costiera della Baia di Biafra e della Guinea superiore arriva sino ai 4000 mm. e li supera nel delta del Niger e nella Costa d'Avorio. A questa zona centrale fanno seguito a nord, e specialmente a sud, zone di precipitazione più moderata di 1000-1500 mm. che, salvo qualche anomalia locale, come nell'altipiano etiopico, dove si mantiene appunto intorno a questo valore, va rapidamente decrescendo sino a lasciare una vastissima area a nord del 15° parallelo (eccettuata la zona costiera dell'Africa Minore e la regione del Grande Atlante) con meno di 250 mm. È questa la regione sahariana, con vastissime plaghe in cui passano talora alcuni anni senza che mai cada una goccia d'acqua e che dànno alla regione stessa quel carattere di arido deserto per cui è universalmente nota. Meno accentuata è l'aridità della zona centrale nella quale pure alla latitudine del tropico si stende il deserto di Kalahari. La formazione di aree di alta pressione in corrispondenza dei tropici è la causa, com'è noto, di questa scarsità di precipitazioni, meno accentuata nella parte australe per la sua minore continentalità. Nella zona equatoriale, invece, le minori pressioni richiamano le correnti umide dell'Atlantico, le quali si fanno sentire anche sino nelle zone più orientali. Le piogge che esse determinano vi raggiungono, sull'Atlantico, come abbiamo veduto, medie annue anche superiori a 4 metri.
Per quanto riguarda la distribuzione stagionale delle piogge si deve avvertire che in generale la caduta della pioggia è in relazione col passaggio del sole allo zenit, con differenze tuttavia notevoli secondo le latitudini. Così nelle regioni equatoriali si hanno bensì due massimi equatoriali, ma non si avverte una vera e propria stagione asciutta. Spostandosi a N. e a S. dell'Equatore, ai due periodi di maggiori precipitazioni s'interpongono due periodi più o meno accentuati di aridità, che in corrispondenza dei tropici si fondono in un solo, come in un solo periodo annuo si fondono i due periodi piovosi. Condizioni particolari di terreno di esposizione e di vicinanza al mare, specialmente nelle zone soggette all'azione dei monsoni, tendono a modificare queste condizioni generali.
Secondo la classificazione dei climi proposta dal Kiippen (1918), che del resto corrisponde sostanzialmente a quella del De Martonne, si distinguono nell'Africa cinque tipi di clima. Il bacino centrale del Congo, quello superiore del Nilo e la costa della Guinea apparterrebbero alla zona calda umida delle piogge tropicali o delle foreste. Le regioni adiacenti sino circa al 10° parallelo N. e S. e quasi tutta la regione orientale, dal golfo di Aden alla foce del Limpopo, appartengono alla regione calda umida, ma interrotta da una regione secca, o zona delle savane. Gran parte del Stlan, la zona interna dell'Africa Minore, della Libia e il basso Egitto, e la regione centrale dell'Africa Australe appartengono alla regione di clima arido delle steppe; la regione sahariana e l'Africa del SO. alla zona arida di clima desertico; l'altipiano etiopico e le regioni elevate dell'Africa orientale e di quella australe alla zona del clima temperato caldo a inverno asciutto. La zona costiera dell'Africa Minore, della Tripolitania propria e della Cirenaica, e quella dell'estrema regione australe del Capo di Buona Speranza, alla zona del clima temperato caldo estivo e estate secca.
Idrografia continentale.
I rapidi cenni sommari che abbiamo dato sulla morfologia del continente e sulle sue condizioni climatiche, che troveranno del resto svolgimento adeguato nelle voci speciali, a cui si rimanda, possono valere a spiegarci intanto alcune particolarità della sua idrografia continentale. E per prima cosa rileveremo la grande estensione che vi hanno i bacini chiusi, onde oltre la metà di tutto il continente africano (15.223.000 kmq. pari al 52%, secondo le recenti determinazioni del De Martonne) non ha libero sbocco al mare. Di questi il 77 % sarebbe rappresentato da regioni, che il De Martonne chiama «areiche», nelle quali la circolazione delle acque è praticamente nulla e il rimanente da regioni «endoreiche» lo scolo delle cui acque, cioè, non raggiunge il mare. Alle prime appartengono il Sahara e il Kalahari; in esse la estrema scarsità di precipitazioni, l'elevata temperatura che rende rapidissima l'evaporazione, e l'eccessiva disgregazione del terreno, favorita dalla fortissima escursione diurna, impediscono la formazione di veri e propri fiumi: per cui vi si trovano solo solchi vallivi più o meno accentuati (widyan, plur. di wadi). corrispondenti forse a valli fluviali di passate età geologiche, in cui si raccolgono le acque delle piogge torrenziali, che talvolta si abbattono sulla regione, o scorrono acque sotterranee, la presenza delle quali è tradita dalla vegetazione che vi si sviluppa e dalla possibilità di aprirvi dei pozzi.
Solo nell'Africa intertropicale possono perciò avere origine e svilupparsi i grandi fiumi perenni, alimentati costantemente dalle piogge della zona circumequatoriale e periodicamente da quelle di stagione, proprie delle zone subtropicali. Tali il Nilo, il Congo, il Niger e lo Zambesi. L'area dei bacini chiusi o delle regioni «endoreiche» è rappresentata da bacini parziali, facienti capo talvolta a laghi senza emissario in cui si riversano corsi d'acqua perenni di portata considerevole: acque che l'evaporazione smaltisce, o il suolo assorbe. Tale è il caso del bacino del Ciad che tuttavia in determinate occasioni di piogge straordinarie non può più essere considerato un bacino chiuso, riversando nel Niger l'eccesso delle sue acque; di quello del lago Rodolfo e dei numerosi altri laghi minori che si aprono ai piedi delle pendici meridionali dell'altipiano etiopico, raccogliendo cospicui fiumi come l'Orno; del bacino dell'Okavango e di altri minori bacini nell'Africa australe occidentale.
Caratteristica comune di tutti i grandi fiumi africani che scendono al mare, derivante dall'accennata forma generale del continente, degradante con pendii più o meno ripidi agli orli, è l'avere il tratto inferiore del loro corso interrotto da rapide o cateratte.
Rispetto al mare in cui riversano le loro acque, possiamo distinguere i fiumi africani in quattro versanti, e cioè quelli del Mediterraneo, dell'Atlantico, dell'Oceano Indiano e del Mar Rosso. Al bacino del Mediterraneo appartiene principalmente il Nilo, per sviluppo di corso uno dei maggiori della Terra, ma certamente il più importante dei fiumi del mondo per la civiltà che si sviluppò sulle sue rive e per la funzione che esercita su di una parte assai vasta di tutto il continente. Del corso di questo classico fiume, la cui valle interrompe l'uniforme aridità della regione sahariana che attraversa, del suo regime, della sua utilizzazione, della storia della scoperta delle sue fonti (il maggior problema geografico che per un lungo periodo di tempo abbia interessato la civiltà mediterranea) sarà detto a suo luogo. Qui ci limiteremo a ricordare come il Nilo sia formato principalmente dall'unione dei due rami principali cui impropriamente diamo il nome di Nilo Azzurro (Bahar el-Azraq) e Nilo Bianco (Bahar el-Abyad) ma che più propriamente dovremmo dire Fiume Azzurro e Fiume Bianco; il primo proveniente dall'altipiano etiopico e defluente dal lago Tana, l'altro dal vastissimo lago Vittoria nella regione equatoriale. Identificando come ramo sorgentifero principale del Nilo il Kagera, affluente meridionale del lago Vittoria, lo sviluppo lineare del fiume sarebbe di 6500 km., mentre l'area del bacino scolante raggiunge i 2.842 kmq. Oltre al Nilo, scarsi e relativamente di piccola importanza sono i fiumi che si versano nel Mediterraneo e tutti compresi nella regione dell'Atlante o Africa Minore: tali la Megerda in Tunisia, la Muluia nel Marocco. Al versante dell'Atlantico appartengono ancora i fiumi marocchini, di importanza limitata relativamente allo sviluppo del corso, ma considerevole per la funzione economica che oggi compiono solcando ampie valli alluvionali irrigabili; quali il Sebu e lo Uadi Sus. Quindi, dopo un'ampia interruzione rappresentata dalla costa orientale sahariana, il Senegal che con i suoi 1430 km. di sviluppo, in gran parte navigabile, costituisce una buona via di penetrazione, e successivamente i numerosi corsi d'acqua, di limitato sviluppo ma d'importanza idrografica ed economica considerevole, che s'incontrano dal Capo Verde al Golfo di Benin, a cominciare dalla Gambia, il più considerevole dei quali è il Volta; e finalmente il Niger, la cui regione sorgentifera nel gruppo montano del Futa Giallon è prossima a quella del Senegal.
Il Niger è il terzo dei fiumi africani per sviluppo di corso (4200 km.) e ampiezza di bacino (1.586.000 kmq.), ma è il secondo, venendo subito dopo il Congo, per portata d'acqua (15.000 mc. di media) e, con il suo grande affluente Benue, anch'esso navigabile, costituisce una delle più agevoli vie di accesso all'interno del continente.
Oltrepassato il Golfo di Biafra sbocca presso il Capo Lopez l'Ogoué la cui esplorazione è gloria del grande viaggiatore, italiano di nascita, ma francese d'elezione, Savorgnan di Brazzà, e quindi il Congo, che, sebbene inferiore al Nilo per sviluppo di corso (4640 km.), lo supera notevolmente per ampiezza di bacino (3.723.000 kmq.) e assai più per portata d'acqua (media 60.000 mc.): onde sotto questo aspetto è da considerarsi il secondo fiume della Terra, dopo il Rio delle Amazzoni, al quale esso è tuttavia superiore per la portata minima (40.000 mc.), che è doppia della portata minima del gran fiume sud-americano.
L'interruzione del corso navigabile nell'ultimo tratto del fiume, determinata dalle Cascate di Livingstone, impedì che per secoli il fiume fosse risalito dalla foce; ma, come si è veduto, riconosciutone il corso medio e superiore nell'ultimo cinquantennio, esso costituisce ora, coi suoi innumerevoli affluenti, la rete idrografica più largamente utilizzata per le comunicazioni di una parte estesissima del continente.
A S. del Congo, nel tratto sino al Capo di Buona Speranza sono da ricordare il Cuanza (630 km. di sviluppo e 150.000 kmq. di bacino) e specialmente l'Orange, uno dei maggiori fiumi africani (2100 km. di sviluppo e 1.020.000 kmq. di bacino), ma d'importanza limitatissima per la navigazione, sulle rive del quale si sviluppò l'antica colonizzazione olandese nell'Africa australe.
Nel versante dell'Oceano Indiano, il primo tratto, dal Capo di Buona Speranza alla Baia di Delagoa, fronteggiato dai monti dei Draghi, non offre possibilità al formarsi di fiumi considerevoli. La baia di Delagoa accoglie il primo dei grandi fiumi sud-africani di questo versante: il Limpopo (1600 km. di sviluppo e 440.000 kmq. di bacino). Proseguendo a N. per oltre 1000 km., al limite settentrionale del golfo di Sofala sbocca per un vasto delta lo Zambesi, per sviluppo di corso (2700 km). ed ampiezza di bacino (1.330.000 kmq.) il quarto fiume africano. Esso ha origine nella zona montana del Catanga e riceve come affluente di sinistra lo Shire, emissario del gran lago Niassa. Le cascate che ne interrompono il corso (particolarmente notevole quella veramente magnifica, cui il grande Livingstone, l'immortale esploratore della regione, dette il nome di Vittoria) lo rendono scarsamente atto alla navigazione.
Di minore importanza sono i fiumi delle zone più settentrionali, in cui l'orlo orientale dell'altipiano interno si mantiene a una distanza media di 600 km. dalla costa. Principale fra tutti il Rovuma (i 600 km. di sviluppo e 145.000 kmq. di bacino). Ma, raggiunto l'equatore, l'ampio ed elevato altipiano etiopico versa al mare una parte delle acque solcanti le sue pendici meridionali mediante il Giuba (165o km. e 440.000 kmq. di bacino) e l'Uebi Scebèli, sebbene questo normalmente si esaurisca, prima di giungere al mare, a breve distanza dalla costa. Ma del corso di questi fiumi, la cui esplorazione è gloria italiana e che particolarmente interessano l'Italia, sarà detto ampiamente a suo luogo.
Tutto il tratto rimanente della costa africana dall'equatore sino al Golfo di Suez, per le sue condizioni climatiche e morfologiche non presenta corsi d'acqua perenni. L'altipiano etiopico, dotato di abbondanti precipitazioni, appartiene, come vedemmo, per la maggior parte della sua estensione al bacino del Nilo o a quelli del Giuba e dell'Uebi Scebèli. Due grandi fiumi, uno a S., l'Omo, l'altro ad oriente, il Hawash, convogliano pure notevole parte di queste precipitazioni; ma essi non defluiscono al mare, riversandosi il primo nel bacino chiuso del lago Rodolfo, esaurendosi l'altro nella depressione del territorio dancalo. Tutta la costa del Mar Rosso non riceve che pochi torrentelli di nessuna importanza. Il maggiore di tutti, il Barca, che sviluppa il suo corso quasi intieramente nella Eritrea, non porta tributo d'acqua al mare che una sola giornata dell'anno in media.
Parlando delle condizioni geo-morfologiche della regione fu già accennato all'esistenza, nella parte orientale del continente, di vaste e profonde fratture, il fondo delle quali è occupato da vasti laghi. Tutta la regione che va dall'altipiano etiopico allo Zambesi è cosparsa di laghi, di estensione, altitudine e profondità diverse, che debbono generalmente a questa speciale struttura la loro origine. Il principale fra tutti è il lago Vittoria, vasto 68.800 kmq., il cui specchio d'acqua è a 1134 m. s. m., mentre la profondità massima non supera gli 80 m. Esso appartiene, come vedemmo, al bacino del Nilo al pari del lago Alberto (area 53.000 kmq.; altitudine 652 m.; profondità incerta) e del lago Edoardo (area 3550 kmq.; alt. 920); e così il lago Tana in Etiopia, da cui defluisce il Nilo azzurro (area 3100 kmq.; alt. 1755 m.; prof. 70 m.). Appartengono al bacino del Congo il Tanganica, il secondo lago africano per estensione (area 31.900 kmq.; alt. 780; prof. massima 1435 m.), il Kivu (area 3900 kmq.; alt. 1455; profondità oltre gli 80 m.), il cui emissario si versa nel Tanganica, il lago Moero (4600 kmq.), e il Bangueolo (300 kmq.) vaste distese lacustri della zona acquitrinosa della regione sorgentifera del Congo, e il lago Leopoldo II, il cui emissario si scarica nel Cassai a meno di 50 km. dalla sua confluenza nel Congo (area 2320 kmq.; alt. 340 m.; profondità piccolissima). Appartiene, come si vide, al bacino dello Zambesi il lago Niassa, poco inferiore al Tanganica per estensione (50.800 kmq.) ma notevolmente inferiore per altitudine (480 m.) e per profondità (786 m.).
Appartengono a bacini chiusi il Ciad, che occupa, come fu detto, la depressione centrale della pianura sudanese, a 295 m. d'altitudine. Più che un vero e proprio lago, il Ciad è un vasto impaludamento, di una profondità media di m. 1,50 (massima conosciuta 12 m.), dal contorno mal definito e soggetto a continue variazioni, la cui area si calcola intorno ai 16.000 kmq.
Esso accoglie come principale tributario il fiume Sciari (km. 1400 di sviluppo e 88o kmq. di bacino) ingrossato dal Logone. Non ha emissario costante, ma in occasioni di grandi piene sembra che l'eccesso delle sue acque si riversi nel Niger. Dei numerosi bacini lacustri che si aprono ai piedi delle pendici meridionali dell'altipiano etiopico (ricordiamo, tra i principali, il lago Margherita), il più vasto è il lago Rodolfo (8000 kmq. di area, 407 m. di alt. e 8 di profondità massima) che riceve, come si disse, il fiume Omo. Nell'Africa australe il piccolo e ormai prosciugato lago Ngami al pari del Ciad dal contorno già incerto e soggetto a variazioni continue, rappresentava il più considerevole residuo di un vasto lago che un tempo doveva occupare il fondo della depressione di Makarikari, compresa tra il corso medio dello Zambesi e l'altipiano desertico del Kalahari. Una particolarità della morfologia e dell'idrografia africana è rappresentata dalle depressioni assolute occupate da alcuni laghi salsi quali si trovano tra gli Sciott (stagni salati) tunisini (Sciott Melghir, - 31 m.) e nella fascia costiera del Mar Rosso quali l'Alel Bad nel Piano del Sale sul confine eritreo (- 120 m.) e il lago d'Assale più a S. (- 175 m.) e in alcune oasi del deserto libico. Att. Mo.
Flora.
È stato ripetutamente detto che l'Africa è il più simmetrico dei continenti. Tagliata dall'equatore presso a poco a metà del suo asse longitudinale, essa presenta al centro una zona di calme e di piogge equatoriali e la corrispondente vegetazione di foreste e di savane; queste ultime aumentano di numero, non senza fondata presunzione che l'azione dell'uomo abbia avuta una larga parte nella loro costituzione, procedendo verso i tropici, per trapassare gradualmente nei deserti delle zone tropicali aride. Finalmente all'esterno di queste, due zone sub-tropicali, la mediterranea e la capense, completano la fisonomia botanica del continente nero coi loro consorzi di sclerofille, floristicamente ed ecologicamente corrispondentisi.
I caratteri peculiari della vegetazione nei principali distretti africani potranno leggersi nelle voci ad essi dedicate. Da un punto di vista generale si possono distinguere in Africa quattro grandi regioni floristiche: mediterraneo-atlantica, desertica nord-africana, steppico-forestale e capense.
E' noto come una parte dell'Africa boreale appartenga alla regione mediterranea e come anche la vegetazione degli arcipelaghi atlantici (Canarie, Madera) si avvicini, nella sua fisionomia, a quella del nostro mare interno. È però difficile tracciare una separazione netta tra la vegetazione di quest'ultima e quella del Sahara. L'Engler assume come confine il limite boreale della diffusione delle Acacia. Nel Marocco meridionale infatti, appena oltre i confini dell'Africa mediterranea, incontriamo, coll'Acacia gummifera, anche due altri rappresentanti arborei della zona tropicale, una Sapotacea (Argania sideroxylon) ed un'Euforbia cactiforme (E. resinifera). Più ad oriente l'Acacia tortilis si spinge sino ai limiti meridionali della Tunisia ed in Egitto, quantunque il deserto algerino e la zona settentrionale di quello libico possiedano un carattere mediterraneo, grazie a numerose specie proprie di questa regione, anche se la fisonomia generale del paesaggio vegetale mediterraneo non vi si conserva quale la troviamo nell'Algeria ed in Cirenaica. La regione mediterranea può quindi scindersi in tre sottoprovincie: mediterranea-meridionale, mediterranea sud-occidentale o marocchina, e macaronesica o degli arcipelaghi atlantici. A proposito di quest'ultima si possono citare: il ricco endemismo presentato specialmente dai generi Sempervivum, Echium e Sonchus, la presenza di specie particolari dei generi Dracaena e Phoenix, e le note formazioni forestali di lauracee.
La regione desertica nord-africana comprende quattro provincie, delle quali una è l'accennata provincia sud-marocchina alla quale fa riscontro, ad oriente, la provincia tebaico-nubiana, caratterizzata dalla comparsa della palma Dum (Hyphaene tebaica). Fra di esse si stende la vasta provincia sahariana, dall'Atlanticc al Mar Rosso, rappresentante da sola circa un quinto della superficie del continente africano, con una flora uniforme, povera di specie, ma estremamente interessante pei suoi adattamenti ad un massimo di aridità. Floristicamente la si divide in tre sottoprovincie: occidentale, in diretto contatto con la sud-marocchina della quale accentua il carattere di aridità; centrale, dall'Ahaggar al Fezzàn con la palma Dum e forse anche l'Acacia arabica allo stato spontaneo; ed egiziana, nella quale, grazie all'influenza climatica del Nilo, il componente mediterraneo della flora ricompare con frequenza notevole, tanto che l'Engler avverte di averla classificata nella regione desertica anziché nella mediterranea soltanto in omaggio alla regolarità del limite rappresentato dalla distribuzione del genere Acacia (qui Acacia tortilis). Finalmente, quarta è una provincia di transizione, intercalata fra il Sahara vero e proprio e la regione steppico-forestale che lo continua a sud, e caratterizzata da estese formazioni erbacee riccamente frammiste di specie arboree a foglie caduche, grazie all'influenza di piogge estive deboli, ma raramente mancanti. È la zona delle cosiddette dune morte, cioè conquistate e fermate dalla vegetazione e testimonio di un periodo climatico precedente al nostro, nel quale la siccità desertica si era estesa più verso il mezzogiorno. Al limite meridionale di questa provincia cominciano a comparire sporadicamente il baobab (Adansonia digitata). il tamarindo (Tamarindus indica). la palma Delel (Borassus flabelliformis var. aethiopum). nonché i grossi Ficus. Anche la piccola sottoprovincia delle isole del Capo verde, con la sua flora mista di specie mediterranee e sudanesi, rappresenta una regione di passaggio.
Le esplorazioni di questi ultimi anni hanno sensibilmente attenuato la distinzione, ritenuta un tempo quasi assoluta, fra la flora dell'Africa tropicale orientale e quella dell'occidentale. L'eccezionale ricchezza della provincia occidentale rimane incontestabile ma molte specie del versante atlantico sono state ritrovate nel cuore del continente e persino sulla costa orientale; e d'altra parte parecchie forme della flora steppica orientale giungono sino alla Nigeria ed al Camerun. Le provincie di questa regione possono essere ridotte a cinque, delle quali una, insulare, comprendente il Madagascar, le Mascarene e le Seicelle, forma un complesso molto distinte dal rimanente (v. MADAGASCAR). La provincia delle cosiddette steppe sudanesi fa seguito alla provincia di transizione dalla regione desertica già citata: in essa le vaste estensioni di savana, più o mene alberata, con numerose specie di acacie, il baobab, il tamarindo il borasso ed i Ficus sopra indicati si alternano, in rapporto con la distribuzione delle acque superficiali, con vere e proprie formazioni a parco e, a diretto contatto con le sponde dei fiumi e dei bacini lacustri, con densi boschi a galleria. La provincia degli altipiani steppici orientali, grazie alla sua elevazione media, accoppia ad una fisionomia, che in molti punti si avvicina a quella della precedente, una caratteristica ricchezza di tipi boreali, accennanti a rapporti genetici con la flora mediterranea, e di tipi montani arabici ed indiani. Dalle coste dell'Oceano Indiano sino alle vette notevolmente elevate che essa possiede, la disposizione normale della vegetazione in senso altimetrico vi è ormai conosciuta nelle linee essenziali. La provincia forestale dell'Africa occidentale si contrappone invece ad essa per le sterminate estensioni di foreste che, con caratteri similari fra di loro, si estendono sulle alluvioni dei grandi fiumi che sfociano nell'Atlantico, dal Senegal al Congo, penetrando nel cuore del continente fino al distretto dei grandi laghi equatoriali, attorno ai quali tuttavia il paesaggio vegetale assume piuttosto il carattere della savana riccamente e variamente alberata, la cosiddetta formazione a parco. Finalmente la quinta provincia delle steppe e dei deserti sudafricani, costituisce un contrapposto alle due provincie sahariana e steppica-boreale di transizione, si estende come questa, pur presentando nel suo ambito notevoli variazioni, da un oceano all'altro, ed è notevole per il ricco sviluppo di specie succulente, per i numerosi endemismi che la avvicinano alla flora capense con la quale, benché in grado minore, ha in comune il ricco sviluppo delle famiglie delle Ericacee e delle Proteacee.
Finalmente la piccola regione capense deve la sua posizione nettamente distinta alla eccezionale ricchezza di specie endemiche ed a una certa affinità che la sua flora presenta con quella australiana. Alcune specie delle due famiglie caratteristiche di questa regione, le Proteacee e le Ericacee, si spingono sino all'Africa tropicale e mediterranea, ma rapporti floristici stretti essa non presenta che con le porzioni meridionali del Karru e del Gran Nama.
Per l'esatta comprensione della distribuzione della vegetazione africana è poi necessario tener conto di alcuni particolari geografici generali. Possono citarsi come i più salienti:
a) l'esaurimento attuale (fatta eccezione per il Nilo) delle correnti fluviali dirette dall'Africa tropicale verso il N. nella zona desertica settentrionale e la conseguente interruzione di comunicazioni, conservatesi sino ad un passato geologico assai prossimo a noi, fra la vegetazione sudanese e la vegetazione mediterranea;
b) lo sviluppo assunto nell'orografia africana dalla disposizione ad altipiano e la conseguente costituzione di aree proporzionalmente molto vaste ad altezze tali da modificare, profondamente e globalmente, le condizioni della vegetazione nella porzione intertropicale; del continente (tipica la condizione dell'altipiano etiopico);
c) l'allineamento dei gruppi montani lungo il margine orientale del continente e la innegabile differenza floristica che questo presenta rispetto al margine occidentale, malgrado le eccezioni già ricordate;
d) l'allacciamento naturale delle radici dei vari bacini fluviali – tipico quello che interviene fra il bacino dello Zambesi e quello del Congo – ed il conseguente collegamento delle vie d'acqua del continente con le conseguenze che ne derivano per la disseminazione di una quantità di specie vegetali ed animali;
e) la costituzione della vasta regione lacustre centro-africana.
Bibl.: A. Engler, Die Pflanzenwelt Afrikas, in A. Engler e O. Drude, Die Vegetation der Erde, IX; O. Drude, Manuel de géographie botanique trad, fr., Parigi 1897; A. Hayek, Allgemeine Pflanzengeographie, Berlino 1926. G. Ne.
Fauna.
L'Africa è, dal punto di vista faunistico, estremamente ricca e un gran numero di famiglie di animali abitano esclusivamente questo continente: soltanto fra i vertebrati, non meno di 180 famiglie, parecchie delle quali durante il Miocene e il Pliocene vivevano anche nell'Europa e nell'Asia.
Bisogna considerare separatamente tre provincie zoologiche abbastanza nettamente distinte. La prima comprende l'Africa settentrionale e fa parte della regione circummediterranea; la seconda comprende tutto il continente africano a sud del Sahara e costituisce la regione etiopica; il Madagascar ha una fisionomia propria e costituisce con le Seicelle, le Comore e le Mascarene la regione malgascia.
L'Africa settentrionale ha una fauna di carattere simile a quello europeo. Nel Quaternario presentava caratteri tropicali più spiccati con popolazione abbondante di elefanti, rinoceronti, zebre, asini selvatici, giraffe, antilopi, bufali, facoceri, ippopotami, leoni, iene, a cui erano mescolati elementi eurasiatici come orsi, cervi, cinghiali, montoni, cammelli; ma in seguito la fauna andò acquistando un carattere sempre più europeo. Nondimeno non vi mancano i cercopiteci, localizzati nel Marocco, i Macroscelidae nell'Algeria e Tunisia, il leone nel Marocco, gli Octodontidae in Algeria, Tunisia e Tripolitania, i Numididae nel Marocco, i Glauconidae in Algeria e i camaleonti diffusi ovunque. La fauna circummediterranea è quindi infiltrata di elementi che hanno carattere etiopico. Nell'Egitto il mescolamento delle due faune assume un carattere speciale: mentre le forme terrestri sono in generale circummediterranee, quelle d'acqua dolce o igrofile (salvo le rane) sono puramente equatoriali.
A sud del tropico del Cancro si estende la regione etiopica dei zoogeografi, a cui questi aggiungono la porzione meridionale dell'Arabia. Nessuna parte del mondo come l'Africa tropicale presenta una tale abbondanza di ruminanti, di solipedi, di pachidermi, che popolano le sue immense savane.
Tra gli animali più caratteristici vi si trovano due delle quattro specie di scimmie antropoidi conosciute: il gorilla (Gorilla) e lo scimpanzè (Anthropopithecus). essi si estendono dalle coste della Guinea fino ai grandi laghi. I cercopiteci abbondano con varie specie di colobi (Colobus) sprovvisti di pollice, di Cercocebus, di Theropithecus, di Papio e soprattutto di Cercopithecus. I Lemuridi, così abbondanti nel Madagascar, sul continente africano sono rappresentati da due soli generi (Perodicticus e Galago). per altro molto diffusi. Fra i chirotteri si notano varie rossette frugivore: è notevole il grosso Hypsignathus monstrosus Allen dell'Africa equatoriale occidentale. Oltre ai pipistrelli comuni in Europa, la famiglia dei Nycteridae o falsi-vampiri vive in tutta la regione etiopica, risalendo l'Egitto fino alle coste mediterranee; tale famiglia è ben rappresentata anche nell'India, nell'Indocina, nelle Indie olandesi, nelle Filippine e nel centro dell'Australia.
Mancano le talpe, insettivori diffusissimi in Europa, Asia e America del Nord; esse sono sostituite dalle cosiddette talpe dorate (Chrysochloridae). la cui famiglia comprende 16 specie distribuite a sud dell'equatore fino all'estremo mezzogiorno; l'unico genere, Chrysochloris, è esclusivamente africano. Altri interessanti insettivori sono i Potamogalidae, i quali, oltre che nella Guinea meridionale, dove sono rappresentati dal genere Potamogale, caratteristico, vivono anche a Madagascar, ove esiste il Geogale. Anche la famiglia dei Macroscelidae è esclusiva dell'Africa ed oltre ad avere una vasta diffusione nell'Africa meridionale ed orientale, la si rinviene anche in Algeria e Tunisia (Macroscelides rozeti Duv.). I toporagni appartengono ai generi Crocidura, comune anche in Europa, e Myosorex, etiopico.
Gli orsi, presenti in tutti i continenti salvo che in Australia, vivono solo nel Marocco. L'Africa resta però oggi la patria del leone che altrove non si riscontra che in Persia, nella Mesopotamia e nell'Arabia meridionale, mentre un tempo abitava anche l'Europa. Felini di minor mole sono la pantera o leopardo (Felis pardus L.) che si ritrova anche in Asia. I lupi mancano nella regione: sono sostituiti dal Lycaon pictus Temm., dall'Otocyon megalotis Desm., dalle volpi, dagli sciacalli. Le iene abbondano in tutta l'Africa, mancando solo nel Congo e nell'Angola: esse s'inoltrano a nord fino all'Asia minore e alla Transcaspia e ad oriente fino al Gange. Affini agli Hyaenidae sono i Protelidae col solo Proteles cristatus Sparrm., che è strettamente africano. I Mustelidae, carnivori diffusi in tutti i continenti salvo che nell'Australia, hanno i generi Zorilla e Poecilogale e due specie di lontra. I viverridi sono invece assai ben rappresentati da varie specie di Viverra, Genetta, Poiana, Nandinia, Herpestes, ecc.
I rosicanti presentano in Africa gruppi caratteristici. Famiglie esclusive dell'Africa sono i Bathyergidae, diffusi soprattutto nell'Africa meridionale ed orientale, fra cui il curioso Heterocephalus glaber Rapp., che vive nella Somalia; i Lophiomyidae, con tre specie dell'unico genere Lophiomys proprio dell'Etiopia; i Pedetidae, o lepri saltatrici, con due specie, proprie dell'Africa meridionale e della regione del lago Vittoria; gli Anomaluridae che, salvo le specie del genereZenkerella, somigliano a scoiattoli volanti e vivono nelle zone equatoriali. Gli Octodontidae, diffusissimi nell'America del Sud, vivono anche in Algeria, in Tunisia e su grande estensione dell'Africa intertropicale e meridionale; una delle specie più sparse è il topo delle canne, Thryonomys swinderianus Temm.; il topo di roccia (Petromys typicus) vive nell'Africa meridionale i Pectinator sono propri della Somalia.
Abbondantissimi sono gli ungulati. Gli ippopotami, che un tempo vivevano anche in Europa, nell'India e nel Madagascar, presentemente sono confinati nell'Africa intertropicale e sono rappresentati da una grossa specie, Hippopotamus amphibius L., diffusa ovunque salvo che in Liberia e da una piccola forma (H. liberiensis L.) propria di questa regione. I cinghiali sono rappresentati dai generi Phacochoerus, Hylochoerus, Potamochoerus. Gli elefanti, presenti anche nell'India, nell'Indocina, in Sumatra e nel Borneo, sono in Africa ridotti alla zona intertropicale, che è la patria dell'Elephas africanus L. (Loxodonta africana Blumend), ben distinto dall'elefante asiatico; recentemente nel Congo belga è stata scoperta una interessante sottospecie dell'elefante africano che è l'elefante acquatico (E. africanus Fransseni). I rinoceronti, che si trovano anche in Indocina, in Sumatra, Giava e Borneo, presentano nella parte orientale dell'Africa varie specie tutte con due corna fra cui il Rhinoceros simus (Cerathotherium simum Burch.) che comincia a diventar raro. I Procaviidae sono una famiglia caratteristica della regione etiopica e si estendono anche all'Arabia e alla Siria; oltre le varie specie del genere Dendrohyrax è degno di menzione l'irace arboreo del KilimangiaroDendrohyrax (Procavia) validus (True). Tra gli equidi vengono in prima linea le zebre, caratteristiche dell'Africa meridionale ed orientale, ma assenti in Somalia; tra le varie specie di zebre menzioneremo l'Equus zebra L., il più piccolo dei cavalli striati, l'E. quagga Burchelli Gray, l'E. q. Chapmani Layard., l'E. q. antiquorum H. Sm., l'E. GrevyiOust., ecc. L'asino non si trova allo stato selvaggio che in Somalia e nel Saan orientale, cioè a nord delle aree abitate dalle zebre; notiamo l'E. asinus somaliensis Naack., della Somalia e l'E. a. africanus Fitz. dell'Abissinia e dell'Eritrea. ITragulidae, rappresentati in India, Indocina, Sumatra, Giava e Borneo da una dozzina di specie, posseggono nell'Africa occidentale un tipo considerato come arcaico, Hyomoschus aquaticus. I cervi si trovano solo nell'Africa settentrionale dal Marocco alla Tripolitania, e mancano nel resto del continente. Quivi invece sono numerose le antilopi, di cui non si contano meno di 140 specie, dal Taurotragus oryx Pall., che ha la grandezza di un bove, al Neotragus pygmaeus L., della grandezza di un capretto. Le capre sono assenti nella maggior parte del continente; nondimeno si trovano nell'Africa settentrionale, nella Nubia e nell'Abissinia, ove vive l'Ibex walie Rapp. Nella zona intertropicale e qua e là nell'Africa del sud si trovano varie specie di bufali come Bos (Bubalus) caffer Sparrm. dell'Africa orientale e australe, B. centralis Gray dell'Africa centrale e del Sudàn occidentale, B. aequinoctialis Blyth. del Sudàn orientale, B. pumilusBrooche del Congo. La famiglia dei Girajfidae, ormai esclusiva dell'Africa intertropicale, non ha che due specie, laGiraffa camelopardalis L., assai estesa, e l'Okapia Johnstoni Scl. del Congo. I camelli a una gobba sono domestici nell'Africa settentrionale, in Arabia e in Siria.
Le coste atlantiche ed indiane dell'Africa sono frequentate da due diverse famiglie di Sireni: quella degli Halicoridae possiede Halicore (Dugong Lac.) Dugong P. L. S. Múll., esclusivamente marino, che va da 200 di latitudine sud fino a 20° di latitudine nord, inoltrandosi nel Mar Rosso; quella dei Manatidae ha una specie, il lamantino del Senegal (Trichechus senegalensis Desm.), che risale i fiumi della costa occidentale per chilometri e chilometri e vive anche nel lago Ciad.
Due generi di sdentati vivono nell'Africa centrale e meridionale. Uno di essi, Orycteropus, costituisce da solo la famigliaOrycteropodidae, esclusiva dell'Africa, e possiede due specie: l'O. aethiopicus Sund., o formichiere africano, da non confondersi coi veri formichieri che appartengono ad altra famiglia e sono americani, e l'O. capensis Gm. L'altro comprende i Pangolini (Manis) della famiglia dei Manidae, che però non sono esclusivi dell'Africa, ritrovandosi anche nell'Asia meridionale e nella Malesia fino a Celebes.
Non meno abbondanti e caratteristici dei mammiferi sono gli uccelli africani, di cui alcune famiglie sono esclusivamente localizzate in Africa. Tali i Promeropidae dell'Africa meridionale fra i Passeriformi, i Musophagidae dell'Africa equatoriale e meridionale fra i Coccigi, gli Irrisoriidae e i Coliidae dell'Africa equatoriale e meridionale fra i Coraciformi, i Serpentariidae dell'Etiopia e dell'Africa australe fra gli Accipitriformi, i Balaenicipitidae dell'alto Nilo fra gli Ardeiformì, e infine gli struzzi, che peraltro si estendono anche all'Arabia e alla Siria. Gli Scopidae e i Numididae vivono solo nell'Africa e nel Madagascar; mentre gli Aerocharidae, i Vangidae, i Philepittidae, i Leptosomatidae, i Mesoenatidae sono esclusivi del Madagascar. Localizzazioni importanti sono quelle degli Ampelidae, abbondanti nell'India, l'Indocina, le Indie orientali e l'Australia, che in Africa sono soltanto rappresentati nel Congo francese, e degli Anatidae Chenonettinae, diffusi in Australia, Patagonia e Chile e localizzati in Africa intorno al lago Tana in Abissinia. Mentre l'Africa settentrionale presenta uccelli nettamente circummediterranei, la parte intertropicale e meridionale del continente possiede le maggiori affinità, per quanto riguarda gli uccelli, col sud-est dell'Asia e con le Indie orientali.
Tra i Promeropidae va ricordata l'unica specie, Promerops cafer (L.). Altri passeriformi importanti sono compresi nel genere Hyphantica, esclusivamente africano, nel genere Euplectes rappresentato nell'Africa tropicale dall'E. franciscanus (Isert), nel genere Penthetria, nel genere Vidua fra cui la specie più nota è la vedova del paradiso (V. paradisea L.), nel genere Coryphegnathus, nel genere Philagrus, nel genere Calyphantria, fra cui il tessitore-cardinale (C. eminentissima). che vive nel sud-est dell'Africa; nel genere Textor, le cui specie, limitate all'Africa, si posano sui bovini liberandoli dagli insetti che li molestano, nel genere Lamprotornis con circa quaranta specie, ecc.
Gli Indicatoriidae e i Capitonidae abbondano in tutta l'Africa intertropicale ed australe; i primi vivono anche nel Tibet, nella Malacca e nel Borneo, i secondi nell'India, Indocina, Sumatra, Giava, Borneo, e Filippine, e a nord e a nord-ovest dell'America meridionale. I generi Pogonorhyncus, Trachyphonus e Tricolaema comprendono capitonidi esclusivamente africani; al genere Prodotiscus appartengono due importanti specie di indicatoridi: il P. regulus Sund., di Natal e P. insignis (Cass.) esteso dal Gaboeln all'Africa orientale equatoriale.
Alla caratteristica famiglia dei Musophagidae appartengono i sei generi Gallirex, Musophaga, Turacus, Schizorhis, Gymnoschizorhis, Corythaeola. La specie più grossa appartiene a quest'ultimo genere ed è grande quanto un fagiano. Tutte le specie, eccetto Musophaga violacea Isert, dell'Africa occidentale, posseggono una cresta di penne erettili. ITrogonidae, soprattutto americani, posseggono in Africa due generi e quattro specie, tra le quali Hapaloderma narinaSteph. Non meno di 34 specie di Bucerotidae vivono nell'Africa tropicale ed australe: per la grandezza e la curiosa forma del loro becco questi uccelli ricordano i tucani dell'America: Bucorvus abyssinicus (Bodd.) vive nell'Abissinia e B. caffer (Schl.) nell'Africa meridionale; Bycanistes buccinator (Tem.) nell'Africa orientale; Lophoceros nasutus (L.) nell'Africa nord-orientale e occidentale; Ceratogymna elata (Tem.) nell'Africa occidentale. Affini alle upupe sono gliIrrisoriidae con le varie specie del genere Irrisor diffuse anche a Madagascar, quelle di Scoptelus del NE. e dell'E. dell'Africa e di Rhinopomastus del Congo e dell'Africa meridionale. I Coliidae posseggono una dozzina di specie esclusivamente etiopiche e appartenenti al genere Colius. I pappagalli, meno svariati che nelle Indie orientali e in Australia, appartengono tutti alla famiglia dei Psittacidae, di vastissima distribuzione, e non sono rappresentati che dai tre generi Psittacus, Poicephalus e Agapornis, mentre proprio di Madagascar è il vaza (Caracopsis).
Fra gli Accipitriformi vi sono rapaci propri dell'Africa. Tali l'aquila avvoltoio (Gypohierax angolensis Gm.) e i Serpentariidae, rappresentati da una sola specie, Serpentarius secretarius (Miller); questa vive nell'Etiopia, nella Senegambia e nell'Africa meridionale e si distingue da tutti gli altri rapaci per la straordinaria lunghezza delle gambe.
Gli Scopidae e i Balaenicipitidae sono ardeiformi puramente africani: i primi mancano nell'Africa settentrionale e comprendono una specie (Scopus umbretta Gm.) che abita nella maggior parte del continente e nel Madagascar; gli altri sono costituiti dall'unica specie Balaeniceps rex J. Gd. propria del Nilo.
Le gru son comuni in tutto il continente. Gli FIeliornithidae, che vivono anche in America, nell'Indocina e in Sumatra, posseggono in Africa Podica senegalensis (Vieill.) a occidente e P. petersi nel Congo e nella parte orientale e meridionale.
Diffusi sono i colombi. La famiglia dei Treronidae possiede numerose specie del genere Vinago. Ai galliformi appartiene la famiglia dei Numididae, che si rinviene anche nel Madagascar: la specie più nota, fra una ventina, è la gallina di Faraone (Numida meleagris L.).
Come patria degli struzzi odierni può considerarsi l'Africa: fra le quattro specie note ricordiamo Struthio camelus L. del nord-Africa, Arabia, Siria e Mesopotamia; S. australis Gurn. del sud-Africa, S. moyb dophanes Rchw. della Somalia.
Esclusivamente africana è una sola famiglia di rettili, quella dei Rhachiodontidae; i Gerrhosauridae e i Zonuridae sono comuni all'Africa e al Madagascar, mentre gli Uroplatidae sono lucertole esclusive del Madagascar.
I serpenti boa, così diffusi nell'Asia e nelle Americhe, sono presenti nell'Africa settentrionale, nell'Egitto, nell'Etiopia, in Somalia e nel Madagascar, mancando nel resto del continente, e rappresentati da alcune specie del genere Eryx; i pitoni, frequenti nell'Africa centrale e meridionale, presentano quattro specie fra cui Python sebae Gm., che raggiunge sei metri di lunghezza. I Glauconiidae, presenti anche in Arabia e nelle Americhe, sono abbondanti e posseggono in Africa una ventina di specie di Glauconia; mentre i Typhlopidae, dalla vita sotterranea e vermiformi, con molte specie africane del genere Typhlos, si trovano anche in America, nell'Asia meridionale, nella Malesia e nell'Australia. Dasypeltis scabra L., una delle due specie del genere che costituisce la famiglia dei Dasypeltinae, è estesa a tutta l'Africa intertropicale e australe e arriva in Egitto fin quasi al delta del Nilo. Un serpente cobra, Naia haie L. è diffuso in tutto il continente e appartiene agli Elapidae, di cui un altro serpente velenoso, Sepedon haemachates Merr., vive nell'Africa meridionale. Le vipere sono abbondanti e notiamo in Africa i generi Causus, Bitis e Cerastes: a quest'ultimo appartiene Cerastes vipera. Il genere Atractaspis, di cui alcuni autori fanno una famiglia a sé, esclusivamente africana, è l'unico fra i viperidi che deponga uova anziché essere viviparo.
Tra le lucertole abbondano soprattutto in Africa gli Agamidae e gli Zonuridae. I camaleonti riconoscono come loro patria l'Africa e il Madagascar, ma si rinvengono anche in qualche luogo dell'Europa meridionale, nell'Asia minore, nell'Arabia e nell'India; non meno di cinquanta specie sono africane e popolano tutto il continente. Gli Anelytropidae,sorta di sauri apodi vermiformi e sotterranei, salvo una specie del Messico meridionale, sono tutti africani e malgasci:Typhlosaurus e Feylinia sono generi propri dell'Africa orientale e australe. I Gerrhosauridae vivono nell'Africa centrale e meridionale: il genere Tetradactylus è proprio dell'Africa meridionale, il genere Gerrhosaurus si estende fino a 10° lat. N. Gli Zonuridae, dall'aspetto caratteristico, sono in gran parte confinati nell'Africa del sud, solo qualche specie si rinviene in aree ristrette nella regione dei laghi ed una di Zonurus abita nel Madagascar; l'Uganda possiede un Chamaesaura.
I coccodrilli del genere Crocodilus, comune in quasi tutte le terre tropicali, infestano tutti i fiumi e i laghi; il genere affineOsteolaemus ha solo una piccola specie propria dell'Africa occidentale.
Le testuggini d'acqua dolce posseggono due generi, Sternotherus e Pelornedusa, propri dell'Africa e del Madagascar e affini ad altri Pelomedusidae dell'America meridionale.
Salvo che nell'Africa settentrionale, mancano in Africa gli anfibi urodeli: nel Marocco, Algeria, Tunisia e presso il delta del Nilo vivono delle salamandre. La mancanza di urodeli, del resto, è comune a tutte le terre dell'emisfero australe. Fra gli anuri gli Hylidae e i Discoglossidae sono limitati alla porzione settentrionale; ma le vere rane abbondano ovunque. Esclusivi dell'Africa e propri della zona equatoriale ed australe sono i Dactylethridae con sei specie del genere Xenopus (o Dactylethra). Il genere strettamente africano Hymenochirus conta una specie che vive ad est del Tanganica e nel Congo francese; esso insieme col genere Pipa, proprio delle Guiane, costituisce la famiglia deiPipidae. Gli anfibi apodi posseggono nella zona equatoriale dell'Africa e nelle isole vicine varie specie dei generi Dermophis, Hypogeophis, Geotripetes, Uraotyphlus, ecc.
Abbondano nelle acque dolci dell'Africa i pesci, tra cui dobbiamo anzitutto notare quattro famiglie caratteristiche ed esclusive di questo continente: i Kneriidae, i Pantodontidae, i Mormyridae e i Polypteridae. I Kneriidae, con sole due specie del genere Kneria sono localizzati nell'Angola e nell'Africa orientale. I Pantodontidae con solo una specie,Pantodon Buchholzi Ptrs., vivono fra il Niger ed il Congo. I Mormyridae, con più di cento specie si trovano nella zona intertropicale e ad essi appartiene anche il genere Gymnarchus, da alcuni considerato come rappresentante di una particolare famiglia. I generi africani Polypterus e Calamichthys rappresentano oggi l'antico ordine dei Crossopterigi. Non meno importante è la presenza in Africa del Protopterus, diffuso nelle regioni centrali ed occidentali, che è uno dei tre generi di Dipnoi oggi esistenti. Vivono ancora nelle acque dolci dei Mastacembelidae, dei Gobiidae, dei Cychlidae,degli Anabantidae, degli Ophiocephalidae, dei Cyprinodontidae, dei Siluridae, dei Charangidae, dei Cyprinidae, degliOsteoglossidae, dei Notopteridae, dei Galaxiidae. Questi ultimi sono accantonati presso il Capo di Buona Speranza e si ritrovano nelle parti meridionali dell'America del sud, dell'Australia e nella Nuova Zelanda. Fra i Gobiidi è notevole ilPeriophthalmus, che esce continuamente fuor d'acqua in cerca di insetti, crostacei e molluschi, saltellando per mezzo delle pinne pettorali peduncolate. Gli Anabantidae sono caratteristici, perché non solo possono uscire temporaneamente dall'acqua, ma mediante spine ventrali son capaci anche di arrampicarsi sui tronchi degli alberi in cerca di nutrimento. Anche gli Ophiocephalidae possono respirare all'aria atmosferica e un Siluride, Clarias lacera C. V., del Senegal, si nutre di grani vegetali e percorre spazi considerevoli pei campi sotto il sole bruciante.
Gli insetti presentano in Africa dei coleotteri e specialmente Caraboidi assai notevoli: tali Manticora, Myrmecoptera, Dromica ed altri cicindelidi di cui non meno di i i generi sono propri del continente. Le cetonie sono presenti con circa 65 generi, fra cui quello dei giganteschi Golianthus: il maschio G. Druryi M. L., della Guinea superiore è lungo fino a cm. 10. Tra i lepidotteri, il genere Amauris è caratteristico dell'Africa e del Madagascar, mentre il genere Euphedra è limitato all'Africa tropicale.
Una triste caratteristica è data dalla presenza delle mosche tse-tse, esclusive di questo continente: tra le specie del genere Glossina ricordiamo G. palpalis R. D., trasmettitrice del Trypanosoma gambiense, agente della terribile malattia del sonno, e G. morsitans Westw., che trasmette il Trypanosoma brucei producendo il naganà del bestiame.
I crostacei abbondano nelle acque dolci. I gamberi (Potamobiidae) mancano in Africa, ma sono sostituiti da molti altri macruri. I granchi fluviali sono abbondantissimi e presentano generi particolari, come Erimetopus del Congo, leDeckenia in Somalia e nell'Africa orientale e il Plathytelphusa nel lago Tanganica.
I Peripatidi, sparsi in tutto il mondo a sud del Tropico del Cancro, presentano in Africa il genere Mesoperipatus nel Camerun e i generi Peripatopsis e Opisthopatus, all'estremità meridionale del continente; l'ultimo genere è comune col Chile, i due primi sono esclusivamente africani.
Scarsissime sono nell'Africa intertropicale le comuni chiocciole (Helicidae). che invece si rinvengono con qualche abbondanza nell'Africa settentrionale e meridionale; e mancano, salvo che nell'Africa settentrionale, i veri limacidi, che nella zona intertropicale sono sostituiti dagli Helixarionidae. Fra i molluschi terrestri abbondano gli Achatinidae, gliEnnaeidae e gli Streptaxidae. I Vaginulidae sono presenti su tutta la costa orientale e intorno al golfo di Guinea. IMytilidae e la caratteristica Aetheria elliptica sono bivalvi diffusissimi in tutte le acque dolci dell'Africa intertropicale; quest'ultima specie risale il Nilo fino al delta. G. Col.
Produzioni e condizioni economiche.
L'Africa è un paese di grandi risorse economiche in gran parte ancora non sfruttate, ma capaci di sempre maggiore incremento. Per quanto riguarda la ricchezza del sottosuolo, le troppo imperfetta cognizione che ne abbiamo, non permette di valutarne le possibilità; ma già per quello che si conosce e che l'industria umana ha messo in valore, le sue risorse si mostrano assai cospicue. All'Africa australe spetta il primato nel mondo per quanto riguarda la produzione dell'oro. La scoperta dei giacimenti auriferi del Transvaal avvenne nel 1885; oggi il loro rendimento raggiunge il 50 % della produzione mondiale. Una superiorità ancora più considerevole le spetta per quanto riguarda la produzione dei diamanti, la cui presenza fu constatata presso Kimberley (Griqualand) nel 1867 e che oggi contribuisce per quasi l'85 % alla totale produzione del mondo. L'influenza che queste due scoperte ebbero sull'assetto politico, economico e demografico dell'Africa australe è risaputa. Il rame, scoperto da pochi anni nel Catanga (Congo Belga) costituisce un'altra considerevole ricchezza mineraria, per cui all'Africa spetta oggi il secondo posto, dopo gli Stati Uniti, nella produzione mondiale. Altrettando dicasi dei fosfati, di cui cospicui giacimenti si rinvennero in tutta l'Africa minore ma specialmente in Tunisia, messi in valore sino dai primi del presente secolo, e che oggi, dopo quelli degli Stati Uniti, sono i più redditizi del mondo. A queste ricchezze principali si aggiungono quelle del ferro (Tunisia, Algeria), dello zinco (Algeria, Marocco), della grafite (Madagascar), del manganese (Costa d'Oro), della soda (Kenya), del sale (Libia, Eritrea, Somalia, Sahara). La presenza del carbone e del petrolio è stata constatata in vari punti del continente; ma la loro estrazione, salvo nell'Africa australe, non ha per ora acquistato notevole importanza.
Più svariati e abbondanti sono i prodotti della vegetazione spontanea e delle coltivazioni, specie di quelle proprie dei climi tropicali, alle quali la colonizzazione europea ha dato e tende a dare uno sviluppo sempre maggiore.
Di quanto riguarda la vegetazione spontanea fu già detto a suo luogo parlando della flora del continente. Ricorderemo solo come suoi prodotti utilizzati e che dànno luogo ad un certo movimento di traffico, l'alfa e lo sparto dell'Africa settentrionale; il caucciù dell'Africa equatoriale (Uganda, Congo) la cui raccolta, in seguito alle regolari coltivazioni altrove impiantate, ha perduto notevolmente della sua importanza di un tempo; l'acagiù, l'ebano ed altri legnami pregiati per l'ebanisteria forniti dall'Africa intertropicale; il sughero dell'Algeria e della Tunisia; l'acacia gommifera del Sùdàn. Fra le piante coltivate: i cereali (frumento, orzo, mais, riso), in Egitto e in tutta l'Africa mediterranea e in quella australe, nella Colonia del Kenya e nel Madagascar; la vite in Algeria e in Tunisia e, in limitata misura, nell'Africa australe; l'olivo in Tunisia, in Algeria e in Libia; il caffè nell'Etiopia, nella colonia del Kenya, nel Territorio del Tanganica, nell'Uganda, nell'Africa portoghese orientale ed occidentale, nel Congo e in Liberia; le arachidi le palme da olio e il cacao in tutte le colonie dell'Africa intertropicale; i semi oleosi nell'Uganda, nell'Africa orientale portoghese, nella Somalia italiana; la canna da zucchero nell'Africa australe, nel Mozambico e nelle isole Mascarene; la palma dattilifera in tutta l'Africa settentrionale e nelle oasi sahariane; il cotone in tutte le colonie dell'Africa intertropicale ma particolarmente in Egitto e nel Sùdàn; i chiodi di garofano a Zanzibar; l'agave e le altre piante da fibra in varie parti dell'Africa orientale, ecc. Fra i prodotti animali distinguiamo quelli ottenuti con la caccia, fra cui particolarmente l'avorio (Uganda, Africa orientale inglese, Etiopia, Congo belga, Africa Equatoriale Francese) e le fiere da serragli e da giardini zoologici (Africa orientale) da quelli forniti dall'allevamento. Bovini, caprini, ovini sono allevati particolarmente nell'Africa mediterranea ed australe, ma, più o meno, dovunque alla loro esistenza non insidia la mosca tse-tse. La lana costituisce uno dei principali articoli di esportazione dell'Africa australe, onde essa occupa il terzo posto nella produzione mondiale. Cuoi e pelli, burro, carni fresche e refrigerate si esportano dall'Africa nord-orientale e australe e dal Madagascar. L'allevamento dello struzzo, notevolmente ridotto nelle oasi sahariane, si pratica largamente nell'Africa australe.
I mari che bagnano le coste africane sono assai fruttiferi per la pesca. Sulle coste della Libia si pratica in larga misura quella del tonno e delle spugne; nel Mar Rosso quella della perla e della madreperla; l'industria della salagione del pesce viene esercitata sulle coste dell'Angola e della colonia spagnola del Rio Muni.
Comunicazioni.
L'Africa, per la natura delle sue coste, non offre, come abbiamo veduto, che un limitato numero di facili approdi e di sicuri ancoraggi, ove le navi possano trovare rifugio e compiere regolarmente le loro operazioni d'imbarco e di sbarco, e che siano nello stesso tempo punti di sbocco e di partenza per le più agevoli comunicazioni con l'interno. Gli estuari dei grandi fiumi oceanici non si prestano a questo ufficio, mentre le correnti, i bassi fondi e il regime dei venti rendono la navigazione difficile per vari tratti delle coste. Col progredire della colonizzazione europea e con le grandi opere portuali che essa ha compiuto, queste condizioni, per quanto riguarda gli approdi e le comunicazioni interne, sono grandemente migliorate; e oggi le relazioni marittime dell'Africa con l'Europa e con gli altri paesi del mondo sono rese facili e attive da regolari servizi di navigazione di ogni nazionalità. Per quanto riguarda la costa mediterranea, i grandi porti artificiali di Porto Said e di Alessandria sono legati ai porti italiani di Genova, Napoli, Trieste e Brindisi, a quello di Marsiglia e ai maggiori porti dell'Europa occidentale. Tripoli e Bengasi sono legati a Siracusa e al Pireo; Tunisi a Cagliari, a Trapani e a Marsiglia; Algeri a Marsiglia, a Genova, a Napoli; Tangeri e Casablanca a Gibilterra e a Marsiglia. I porti di Funchal (Madera), Teneriffa e Las Palmas (Canarie) e quello di Dakar (Senegal), che servono di scalo a quasi tutte le grandi linee di comunicazione tra l'Europa e l'America meridionale, sono alla lor volta in comunicazione con gli scali della costa africana dell'Atlantico: Conakry (Guinea francese), Freetown (Sierra Leone), Monrovia (Liberia), Accra (Costa d'Oro), Libreville (Africa equatoriale francese), Banana (Congo belga), S. Paolo Loanda e Mossamedes (Angola), Swakopmund (Africa del SO.), Città del Capo che alla sua volta è in diretta comunicazione con Barbados, Albany, Melbourne (Australia). Sulla costa dell'Oceano indiano Port Elizabeth (Colonia del Capo), Durban (Natal), Lorenzo Marques, Beira, Mozambico, Zanzibar sono toccati da servizi europei provenienti dal Mar Rosso e in diretta comunicazione con porti indiani, malesi, australiani. I porti della Somalia italiana e Massaua nel Mar Rosso sono legati direttamente all'Italia, Gibuti alla Francia, che ha pure regolari servizi con Tamatave e altri porti dell'isola di Madagascar nonché con la Riunione. Insomma non vi è scalo marittimo della costa africana o delle sue isole di una qualche importanza, che non sia toccato da regolari servizi marittimi che lo mettono in comunicazione col mondo civile.
Alle comunicazioni marittime sono da aggiungersi quelle aeree, per cui Tolosa è collegata con Orano da una parte, con Casablanca e Dakar dall'altra; Tripoli e Bengasi con Napoli ecc.
Più difficili ancora le comunicazioni interne, nonostante il rapido sviluppo che esse vanno prendendo in alcuni territori coloniali. I fiumi, per le ragioni dette a suo luogo, non offrono grandi faciliti di navigazione. Tuttavia il Congo, specialmente nel suo tratto medio e superiore, insieme con i suoi maggiori affluenti, che complessivamente formano una rete di 15.000 km. di vie d'acqua, il Niger, pei una parte notevole del suo corso, il Nilo, salvo l'interruzione delle cateratte, lo Zambesi e il Senegal rappresentano delle vie di penetrazione sulle quali si vanno sempre più sistemando servizi regolari Lo stesso dicasi per i grandi laghi Vittoria, Tanganica, Niassa solcati ormai da numerosi piroscafi.
La rete ferroviaria, notevolmente sviluppata nell'Egitto e nell'Algeria, nella Tunisia, nell'Africa Australe, non conta che qualche grande arteria di penetrazione nel resto del continente. Complessivamente vi sono in Africa circa 60.000 km. di ferrovie, di cui oltre la metà nei territori facienti parte dell'Impero Britannico. Di queste le principali sono: la linea che da Wddi. Hala, al confine egizio-sudanese si spinge a Khartùm e si dirama ad el-Obeyyid. a Port Sudar e a Cassala; la linea che congiunge il porto francese di Gibuti con Addis Abeba; la ferrovia che da Mombasa va a Kisumu (Port Florence) sul lago Vittoria e quella di Dar es-Salam a Kigoma, presso Ujiji, sul Tanganica; quella che, innestandosi alla rete sud-Africana a Mafeking, a traverso il Becivana e le due Rhodesie penetra nel Catanga (Congo Belga); la ferrovia del Congo tra Matadi e Léopoldville, ove il fiume diviene navigabile; la rete della Nigeria che fa capo a Kano, quella che da Dakar raggiunge il Niger navigabile a Bamako, ecc. Delle varie ferrovie di penetrazione, la più ardita, sebbene di limitato sviluppo, è forse quella da Massaua per Asmara a Cheren ed Agordat, che supera l'altitudine di 2300 m. L'attività spiegata dalle potenze colonizzatrici dell'Africa per promuovere la costruzione di ferrovie non tende a diminuire, sebbene possano ritenersi per ora almeno sospesi gli antichi propositi di una ferrovia inglese diretta dal Cairo al Capo, che rappresentava più un'affermazione politica che un interesse economico, e di una linea francese transahariana. A questa attività si collega quella per la sistemazione di vie e piste camionabili, a cui il rilievo e le condizioni del suolo di vaste regioni africane opportunamente si prestano. Già si contano numerose le grandi traversate africane compiute in automobile. Come per le comunicazioni esterne, così anche per quelle interne l'aviazione porta un notevole contributo ai più agevoli rapporti, per cui Orano si collega con Casablanca toccando Fez; da Dakar si diramano numerose linee che collegano varie località dell'Africa Occidentale Francese. Con tutto ciò le vie carovaniere e il trasporto a dorso di cammello, nelle regioni sahariane, o a dorso d'uomo, per gran parte dell'Africa centrale, rappresentano ancora mezzi largamente usati per il traffico commerciale di vaste regioni del continente.
Numerosi cavi attraverso il Mediterraneo e lungo le coste dell'Atlantico o dell'Oceano Indiano, legano l'Africa alla rete telegrafica europea, senza contare le installazioni ultrapotenti radiotelegrafiche istituite in varie località e di cui si va ognora moltiplicando il numero, onde non vi è ormai località interna ove il dominio europeo non sia affermato e, anche in regioni affatto indipendenti, come l'Etiopia e la Liberia, che non sia provvista di stazioni telegrafiche o radiotelegrafiche.
Popolazione.
L'insufficienza delle nostre cognizioni intorno a vaste distese dell'Africa interna, nonostante il suo quasi completo assoggettamento a potenze europee, non consente di precisare il numero degli abitanti, che approssimativamente, secondo i computi dell'Istituto internazionale di statistica si fa ascendere, per il 1924, a 137.361.000 ab. con una notevole diminuzione rispetto a valutazioni anteriori, per cui un mezzo secolo addietro si riteneva potesse toccare quasi i zoo milioni. Sebbene in alcune regioni africane, dove ancora l'opera dell'incivilimento europeo non ha potuto affermarsi in modo vantaggioso, si possa ritenere che la popolazione abbia effettivamente subito notevoli diminuzioni (e di ciò le attestazioni e le prove non mancano), la scarsità degli elementi statistici non rende possibile di tradurle in cifre. D'altro canto, alle cause che hanno influito in queste diminuzioni, alcune delle quali dovute alle epidemie, altre alle lotte interne, allo schiavismo praticato dagli Arabi in quelle parti dove la loro azione si è svolta, ed anche talvolta alla stessa colonizzazione europea, si contrappongono quelle, che, come la cessazione di sanguinose lotte interne e un pacifico consolidamento di ordinamenti civili sotto l'influenza europea, o le migliorate condizioni economiche, hanno influito invece sull'aumento della popolazione. Ciò è sicuramente avvenuto, p. es., in Egitto, nell'Africa mediterranea, nell'Africa australe. In questo aumento solo assai parzialmente concorre l'immigrazione europea, la quale, iniziata già nel sec. XVII nell'Africa australe, solo a partire dal sec. XIX poté prendere un maggiore sviluppo, sebbene sempre assai limitato. Il numero degli abitanti di origine europea stabiliti nell'Africa non arriva infatti a 3 milioni (non considerando le isole dove l'elemento europeo ormai prevale da secoli), dei quali oltre la metà (1.519.000) sono stabiliti nei paesi dell'Africa meridionale (Unione Sud-africana), e il resto principalmente nei paesi dell'Africa mediterranea (Algeria 900.000, Egitto 200.000, Tunisia 173.000).
L'Africa intertropicale non accoglie, in tutto, 100.000 Europei dei quali poco meno della metà (45.256) nei protettorati inglesi della Rhodesia e del Niassa e nell'Africa del SO., e il resto sparso nelle varie colonie europee.
Ammesso dunque che la popolazione complessiva dell'Africa ascenda a 137.361.000, la densità media risulta di 4,8 per kmq., poco più cioè di un decimo di quella dell'Europa, un quarto di quella dell'Asia e inferiore anche a quella dell'America. Ma tale densità palesa le più grandi sproporzioni tra le diverse grandi unità territoriali del continente. Così dall'Egitto (parte coltivata) in cui raggiunge e supera i 400 ab. per kmq., cosicché essa rappresenta una delle regioni di massima densità demografica del globo, si passa all'immensa distesa sahariana in cui non si raggiunge neppure i abitante per kmq.
L'esame della carta schematica unita ci mostra che, all'infuori della valle inferiore del Nilo, la popolazione si addensa particolarmente nella valle superiore del Niger, nella regione rivierasca settentrionale ed occidentale del lago Vittoria e in quella costiera dell'Africa Minore e dell'estrema cuspide meridionale del territorio del Capo di Buona Speranza. Zone di relativa densità offrono tutta la costa della Guinea e la parte orientale di Madagascar.
La popolazione africana indigena, astrazion fatta quindi dai 3 milioni di immigrati europei, appartiene, come più ampiamente vien detto a suo luogo, alle due grandi divisioni etniche della specie umana e cioè alla razza bianca e alla negra. I Bianchi sono ripartiti fra le genti camitiche e semitiche, queste ultime immigratevi a partire specialmente dal sec. VII dopo la conquista araba e stabiliti quasi esclusivamente su centri costieri. Le genti bianche camitiche occupano la parte settentrionale, i Negri la parte centrale e meridionale. Popoli misti si sono venuti formando specialmente nella parte orientale. Rimandando a ciò che sarà detto in seguito sulle diversità antropologiche, etniche e culturali delle diverse genti africane, diremo che, salvo le genti camitiche che hanno una civiltà originaria propria e che hanno subito quella della conquista e delle immigrazioni semitiche, esse appartengono tutte ad una civiltà inferiore; ma che fra esse si distinguono popoli che occupano i gradini più bassi della civiltà, altri che hanno invece, indipendentemente da ogni influenza esteriore recente, ordinamenti sociali sufficientemente evoluti, e altri finalmente che palesano uno stato di notevole decadenza rispetto a stadi più progrediti, dei quali conservano solo qualche traccia. L'influenza dell'islamismo, che ha ormai conquistato oltre all'Africa settentrionale quasi tutta quella centrale, ha contribuito e contribuisce sempre più a modificare la civiltà originaria, come vi contribuisce, sebbene in più scarsa misura, l'influenza della dominazione europea, ormai affermatasi in tutto il continente, salvo l'Egitto, che possiamo in ogni modo considerare europeizzato, l'Etiopia e la Liberia. In quest'ultima, sebbene la società dominatrice sia costituita da Negri di provenienza nord-americana, è pur sempre la civiltà europea quella che predomina.
Questa influenza delle diverse civiltà si fa sentire nella formazione e nel tipo degli aggregati umani. Mancano pertanto in Africa i grandi centri urbani, che caratterizzano le antiche e la moderna civiltà asiatica o europeo-americana, e di vere e proprie città non si può parlare che là dove si è potuta affermare da tempo e consolidare la civiltà araba o quella europea. Le maggiori città africane si trovano in Egitto: il Cairo, che con oltre i milione di ab. contende a Costantinopoli il primato tra le città del mondo islamico, e Alessandria con 570.000 ab., città di tipo assolutamente europeo. Altre cospicue città si trovano nell'Africa settentrionale, alcune come Algeri (226.000 ab. di cui 160.000 Europei) o Tunisi (186.000 ab, di cui 136 mila Europei) di tipo prevalentemente europeo; altre come Marocco (130.000 ab.) o Fez (81.000) di popolazione e di tipo assolutamente arabi.
Grandi città miste europee-indigene, ma sempre di tipo europeo, sono sorte con la colonizzazione anglo-olandese nell'Africa australe: tali Johannesburg (302.000 abitanti), Città del Capo (208.000), Durban (146.000).
Grandi centri urbani indigeni si trovano nell'Africa intertropicale occidentale e orientale, quali Ibadan (270.000 ab.) e Abeokuta (100.000) nella Nigeria; Omdurman (79.000) nel Sti.e15.n Anglo-Egiziano, Addis Abeba (50.000 ab.) e Harar (50.000) nell'Etiopia. In complesso vi sarebbero in tutta l'Africa solo 13 città con oltre 100.000 ab. e 10 con popolazione tra i 50 e 100.000 abitanti. Il progresso della colonizzazione europea ha dato origine e sviluppo a centri notevoli non solo sulla costa, ma anche nell'interno della zona intertropicale, ad altitudini considerevoli. Tali Nairobi (28.000 ab.) nella Colonia del Kenya a 1675 m. e soprattutto Asmara (15.000 ab.), la capitale della Colonia Eritrea, a 2347 m. s. m., che è da ritenersi, dopo Addis Abeba (2445 m.), il centro abitato più elevato di tutto il continente africano.
Assetto politico e colonizzazione.
Nel quadro delle vicende storiche, a traverso le quali l'Africa è pervenuta al suo assetto attuale, fu veduto già come l'inizio dell'insediamento di potenze europee sulle coste africane datasse dal sec. XV, allorché Spagnoli, Portoghesi, Francesi e Inglesi istituirono presidi militari e fondarono fattorie commerciali sulle coste marocchine e su quelle dell'Africa occidentale e orientale.
Più tardi gli Olandesi presero piede nell'Africa australe, dove sino dai primi del sec. XIX vennero sopraffatti dagli Inglesi. A partire dal sec. XIX l'attività colonizzatrice degli Europei prese vigore con la conquista francese dell'Algeria iniziata nel 1830 e con l'estensione sempre maggiore dei domini francesi e portoghesi nei territori adiacenti alle loro primitive fattorie. La Conferenza coloniale di Berlino del 1885 provvedeva a disciplinare le modalità con le quali si consentiva l'affermazione del proprio dominio su lembi di coste africane, non ancora sottoposte ad alcun regolare governo, e nei territori retrostanti. Ciò valse ad affrettare la spartizione dei territori africani tra le varie potenze colonizzatrici, alle quali, oltre alle indicate, si erano intanto aggiunte la Germania e l'Italia; onde nel volgere di pochi anni tale spartizione poteva dirsi compiuta. La creazione dello Stato indipendente del Congo (1885) e la sua necessaria trasformazione in vera e propria colonia belga (1908), il riconoscimento dell'indipendenza etiopica (1896), la conquista libica da parte dell'Italia (1911); la proclamazione del protettorato francese, e, per una parte minore, di quello spagnolo, sul Marocco (1912), salvo il territorio di Tangeri internazionalizzato, e, dopo la guerra, l'assegnazione come mandato della Società delle Nazioni delle antiche colonie tedesche all'Impero Britannico, alla Francia e al Belgio, la proclamata autonomia del Regno d'Egitto, hanno valso a dare all'Africa l'assetto politico che oggi presenta. Esso comporta l'organizzazione di tre stati autonomi e indipendenti: l'Abissinia o Etiopia, l'Egitto e la Liberia, per un decimo di tutta l'Africa, e la ripartizione di tutto il resto tra gli stati colonizzatori: Gran Bretagna, Francia, Portogallo, Spagna, Italia e Belgio. I singoli territori a ciascuno spettanti non hanno tutti peraltro lo stesso ordinamento giuridico. Parte, come l'Unione Sud-Africana, rappresenta un Dominion, ossia un membro autonomo dell'Impero Britannico; parte, come l'Algeria, viene considerata come faciente parte integrale della Francia; parte sono veri e propri possedimenti coloniali retti da ordinamenti diversi; parte sono protettorati, ossia conservano istituzioni autonome sotto il controllo degli stati protettori; parte, infine, sono soltanto amministrati dagli stati colonizzatori per mandato revocabile della Società delle Nazioni.
Nel quadro qui a fianco riportato diamo il prospetto delle singole divisioni territoriali dell'Africa con la specificazione della loro qualifica e natura e l'indicazione dell'area e della popolazione, distinguendo in essa quella di origine europea da quell'indigena.
Bibl.: La geografia africana conta una ricca bibliografia, la quale per altro ha carattere più generale che regionale. Rimandando tuttavia alle singole bibliografie indicate per le diverse regioni segnaliamo qui le opere geografiche che si riferiscono all'intero continente.
C. Ritter, Die Erdkunde von Afrika, 2ª ed., Berlino 1822 (traduz. francese Géographie de l'Afrique, ecc., di E. Buret e E. Desor, Parigi 1836); E. Reclus, Nouvelle Géographie Universelle, Parigi 1876-1894; sono dedicati all'Africa i voll. X, XI, XII, XIII; A. Biasutti, L'Africa, in G. Marinelli, La Terra, VI; J. Chavanne, Afrika im Lichte unserer Tage, Vienna 1881; Afrikas Ströme und Flüsse, Vienna 1883; T. Taramelli e V. Bellio, Geologia e geografia dell'Africa, Milano 1890; S. Passarge, Die natürlichen Landschaften Afrikas, in Petermann's Mitt., LIV (1908); A. Ghisleri, Atlante d'Africa, Bergamo 1909; Al. Knox, The Climate of the Continent of Africa, Cambridge 1911; K. Dove, Wirtschaftsgeographie von Afrika, Jena 1917; A. Fock, Les voies ferrées africaines, in Revue Génér. des Sciences, 1921; E. Lewin, Africa, Oxford 1924; Fr. Jaeger, Afrika, Berlino 1925; id., Afrika in E. von Seydlitz'sche Geographie, Hundertjahr-Ausgabe, Breslavia 1927. Per la cartografia rimandiamo alla nota bibliografica del paragrafo sull'esplorazione.
Antropologia.
Anche in tempi relativamente a noi prossimi, e nelle sfere più competenti, dominava (come del resto, parzialmente, domina anche oggi) un'opinione, per la quale l'Africa presenterebbe un forte grado di affinità fra i diversi suoi tipi umani. Si usava e si usa così di dividere l'Africa all'ingrosso in due parti, sotto l'aspetto antropologico: l'una settentrionale-orientale, l'altra occidentale-meridionale.
La prima regione sarebbe stata abitata da genti di tipo più simile all'europeo, e costituenti, nel loro insieme, la stirpe cosiddetta camitica (Berberi, Arabi, Egiziani, Abissini, Somali, ecc.), la seconda da genti che presentano, più o meno, quei caratteri comunemente noti sotto il nome di negri.
Il limite fra queste due parti, che si possono ammettere anche oggi per una prima divisione, è definibile, come è naturale, solo approssimativamente. Possiamo ritenere che esso proceda, seguendo press'a poco il 18° parallelo nord, nel senso ovest-est, dalla costa atlantica al Nilo, prosegua quindi dal nord al sud, seguendo il corso del grande fiume e il bacino del Nilo Bianco e arrivando al lago Rodolfo; di qui vada al monte Kenya, da cui segua il fiume Tana fino alla costa dell'Oceano Indiano.
Si ammette del resto ancora adesso da molti che esista un certo grado di affinità originaria fra queste due grandi sezioni. L'indagine moderna è venuta però dimostrando a poco a poco che queste affinità, sia all'interno dei gruppi etnici delle due sezioni, sia per le due sezioni fra loro, se pure esistenti, sono di un carattere assai generale, in guisa che permettono la specificazione di tipi umani a sufficienza distanti l'uno dall'altro.
La ragione principale di quella prima opinione era il giudizio che si faceva del valore di due caratteri fisici, a cui si credeva di dovere attribuire grande importanza, per apprezzare le somiglianze nell'aspetto fisico e le affinità, e cioè il colorito scuro della pelle e il carattere fortemente arricciato del capello.
Presentemente a nessuno dei due si può dare un grande valore, dall'una parte apparendo assai probabile che molti gruppi etnici, che ora presentano colorito chiaro e capelli più o meno lisci, abbiano avuto un tempo pelle scura e capelli fortemente arricciati, dall'altra parte che il capello fortemente crespo appartiene a tipi che non hanno nulla a che fare con il Negro propriamente detto, come del resto già prova il fatto che alcuni Camiti (Abissini, Somali) presentano proprio pelle scura e capelli fortemente arricciati.
Un'esposizione della materia antropologica sotto gli esponenti geografici più noti incontra difficoltà, giacché i detti esponenti non corrispondono ordinariamente a zone aventi valore zoogeografico o, comunque, zoobiologico; le quali zone, al contrario, spesso coincidono con disposizioni dei continenti (cioè con legami e disgiunzioni delle masse continentali) quali si verificarono in passati periodi geologici. I danni di questa distinzione, però, sono diminuiti dal fatto che la vera realtà con cui l'antropologo ancora lavora (e per molto dovrà lavorare) è costituita dai cosiddetti gruppi etnici (tribù, popoli, nazioni e simili) che sono risultati di miscele fra unità elementari, le cosiddette razze, le quali, sole, hanno un valore zoologico, analogo, più o meno, a quello delle specie, sottospecie, varietà dello zoologo. Ora la elaborazione del materiale grezzo di cui dispone l'antropologo, allo scopo di trarne fuori le razze, è stata spinta innanzi in guisa assai disuguale per la superficie terrestre, per qualche zona di essa essendosi arrivati con sicurezza o quasi alle razze, per altre essendosi ancora assai lontani da ciò. Ne consegue che per molte zone della superficie terrestre il metodo geografico è tuttora di applicazione essenziale, dato che la ricerca scientifica è, per esse, ancora nella sua prima fase; e a maggior ragione, perciò, dovrà seguirlo un'esposizione che cerchi di guidare il profano, nella molteplicità dei tipi che si presentano in una popolazione, a interpretarne le variazioni, e stabilire il predominio di uno su gli altri, il tipo cioè che caratterizza e determina una zona o cerchia antropologica. Questo tipo non sarà mai solo, o rarissime volte; ma ciò che si deve cercare è il tipo prevalente.
Occorre però avvertire che lo stabilimento di dette zone o cerchie è, allo stato attuale della scienza, più prodotto di intuizione che di analisi, e non tanto perché molti gruppi etnici non siano stati studiati, ma perché sono stati studiati ricercando caratteri che hanno scarso o nullo valore discriminativo, onde assai spesso dagli autori si affermano somiglianze o dissomiglianze basate sopra particolari che non le giustificano.
Al nord del Sahara, dall'Oceano Atlantico fino al Mar Rosso, o, per dir meglio, fino alla parte settentrionale dell'Egitto, sono distinguibili due tipi umani, per lo più uniti insieme dagli autori, il berbero e l'arabo; il primo dei quali è allo stato più puro all'ovest e sull'Atlante, il secondo, in realtà un tipo appartenente all'Asia meridionale-occidentale, e, più propriamente, all'Arabia, è per lo più mescolato al precedente e, in Egitto, al tipo che vedremo in seguito e che noi diciamo copto. Il tipo berbero (vedi tav., fig. 1) ha testa che tende ad essere più rotondeggiante in complesso, con archi sopraccigliari ben segnati, fronte non verticale, naso corto, spesso concavo, faccia quadrangolare, un po' rozza. La statura è media, più che alta, le forme sono un po' tozze, a spalle larghe e tronco piuttosto lungo in confronto delle gambe.
Il tipo arabo (v. tav., fig. 2) ha testa in media più lunga, assenza di archi e fronte spesso verticale, occipite prominente, naso spesso lungo e stretto, diritto o addirittura aquilino, faccia ovale, stretta in basso, fine. Statura che tende ad essere elevata, forme piuttosto slanciate, spalle strette, portate un po' in alto, gambe piuttosto lunghe.
La radice nasale forma in entrambi i tipi una rientranza del profilo, ma il dorso del naso è ben formato, specie nel secondo. Il colore della pelle è piuttosto chiaro e i capelli neri, lisci o ondulati in entrambi i tipi. Lo sviluppo della pelosità corporea è piuttosto scarso nell'Arabo, un po' più notevole nel Berbero.
In tutta la zona in parola commistioni di sangue negro si dimostrano col presentarsi di individui con capelli lanosi, radice nasale fortemente infossata, labbra grosse, everse, prognatismo, ecc. Gli aborigeni delle Canarie, gli antichi Guanci, appartengono al tipo berbero.
In Egitto si ha la mescolanza, con altri, di un tipo che può dirsi indigeno e che è assai probabilmente la continuazione del tipo predominante negli antichi Egiziani. Esso è forse da considerarsi prodotto da raffinamento civile del tipo successivo, l'etiopico o amhara. Gli altri tipi con cui esso è mescolato sono il berbero (forse da tempi molto antichi) e l'arabo.
Il gruppo etnico in cui il suddetto elemento meglio è conservato è quello dei Copti, onde il nome che noi diamo ad esso. Esso corrisponde al tipo fine che si riscontra nei cranî dell'antico Egitto, mentre il tipo rozzo, forse, appartiene al tipo berbero. L'elemento arabo è più simile ad esso, e, sui cranî, non facilmente distinguibile. Il tipo copto (v. tav., fig. 3) ha occhi grandi, ha globo oculare, cioè, piuttosto prominente, e occhio bene aperto. La rima palpebrale è lievemente obliqua, con angolo esterno un po' sollevato. La radice nasale è scarsamente infossata e la linea del naso è piuttosto in continuazione di quella della fronte, senza uno scalino evidente. La fronte però non è sfuggente, ma piuttosto prominente. Tutta la fisionomia ha un aspetto carnoso, pieno, con labbra spesse, ma non everse come nei Negri. La pelle è piuttosto scura, i capelli, sempre neri, ondulati o ricci, gli occhi neri.
Il tipo etiopico (v. tav., fig. 4), presente soprattutto negli Abissini, Galla, Somali, è forse parente al copto, di cui sarebbe l'immagine alquanto più rozza. È probabile però che esso sia mescolato con altri tipi, il berbero soprattutto e qualche altro, precedente cronologicamente nella regione ed ora difficile a determinare.
La faccia etiopica è caratterizzata da un naso molto ben formato, con scarsa rientranza del profilo in corrispondenza della radice nasale. Ciò nonostante, il dorso del naso, a detto livello, non è molto profondo. Il naso è dritto o convesso, le labbra un po' tumide, gli occhi bene aperti. La faccia è ovale, il colore della pelle cioccolato, i capelli intermedî fra quelli ricci dell'Arabo e i crespi del Negro, le gambe piuttosto lunghe e il torace non grande. Gli Etiopici non sono molto muscolosi, le forme generali risultano perciò piuttosto eleganti e slanciate. La pelosità corporea è poco sviluppata, come, in genere, in tutta l'Africa, fatte poche eccezioni.
È poco probabile l'opinione di molti autori che l'aspetto fisico degli abitatori della zona anzidetta sia dovuto ad una semitizzazione od orientalizzazione per un'influenza venuta dall'altra sponda del Mar Rosso; influenza che avrebbe rialzato un tipo negroide preesistente.
Il tipo negro classico è ben noto (v. tav., fig. 5): ha naso fortemente depresso alla radice, largo in basso, con narici dilatate, fronte prominente sulla linea mediana e sui lati piuttosto sfuggente, labbra spesse ed everse, prominenza del mascellare e della mandibola (prognatismo), testa allungata fortemente, con occipite prominente. Il colore della pelle raggiunge il nero più carico ed i capelli sono lanosi. Questo tipo è caratterizzato da un forte predominio delle gambe sul tronco, che raggiunge in certi casi (Negri nilotici) proporzioni, per il nostro gusto, disarmoniche.
Le spalle in questo tipo sono portate in alto, non spiovono in giù, cioè, ma decorrono orizzontalmente. Lo sviluppo muscolare non è, in complesso, notevole, sebbene la statura raggiunga i valori più alti. La pelosità è minima. A questo tipo conviene dare il nome di Nigrizio propriamente detto, ed esso, tutto sommato, non è il più diffuso in Africa. Nelle sue forme più spiccate esso è localizzato nel Sūdān orientale e centrale.
I cosidetti Nigrizî della Guinea settentrionale (in ispecie immediatamente ad ovest della foce del Niger) sono in realtà abbastanza diversi da questo tipo, soprattutto per un forte sviluppo della pelosità. Ciò fa supporre la presenza di qualche elemento etnico che per il momento non si può determinare.
Nell'Africa centrale e sopra un vasto territorio (press'a poco dal 5° lat. N. al 5° lat. S. e dall'Oceano Atlantico alla regione dei laghi), allo stato disperso o in piccoli gruppi, sono diffusi i cosiddetti Negrilli.
Il carattere che li accomuna è la statura più o meno ridotta. Ma per il resto si notano diversità notevoli. L'analisi antropologica ha finora accertato in essi due tipi molto distinti: il tipo Batua e il Babinga. In sostanza il primo (v. tav., fig. 6) è un piccolo Negro; le proporzioni somatiche, però, sono diverse da quelle del Nigrizio, avendo il tronco più lungo. Il secondo (v. tav., fig. 7) ha caratteristiche sue proprie e cioè: naso assai largo alla base, radice piuttosto saliente, piccola distanza interorbitale, occhio più incassato, arcate sopraccigliari più accentuate, minore prognatismo; colore della pelle e degli occhi più chiaro, tronco relativamente ancora più lungo, statura più bassa che nei Batua. Ma, soprattutto, il tipo Babinga è caratterizzato da una discreta pelosità corporea. In qual misura altre stirpi cosiddette negre siano da riattaccare a questo tipo è ancora dubbio. Ma soprattutto occorre notare che è ben possibile che nella massa dei cosiddetti Negrilli restino ancora altri tipi da distinguere e da definire.
Il tipo del cosiddetto Negro Bantu (v. tav., fig. 8), che abita quasi tutto il restante dell'Africa, compresa la zona dei Negrilli ed escluse le zone dei Boscimani-Ottentotti e quella degli stati della Unione Sud-africana, è alquanto diverso dal Nigrizio, per la statura più bassa, la testa meno allungata, il naso meno depresso alla radice, il prognatismo meno accentuato.
Da molti si ritiene che questo tipo provenga da una mescolanza dell'elemento etiopico coll'elemento nigrizio. Le forme generali però di esso non si conciliano bene con questa ipotesi. È un tipo a forte sviluppo muscolare, a forme piene e carnose, torace bene sviluppato in larghezza, spalle piuttosto spioventi in basso. Tali caratteri non sono posseduti da nessuno dei due tipi presunti genitori.
Il tipo umano di gran lunga il più interessante di tutta l'Africa e forse di tutta l'umanità, è il Boscimano-Ottentotto, che abita soprattutto le zone desertiche dell'Africa meridionale (Kalahari, Damara).
La radice nasale (v. tav., fig. 9) si può dire assente, senza che si possa parlare, ordinariamente, di un forte infossamento, in confronto della regione degli archi sopraccigliari; il naso in basso è stretto, l'occhio, poco aperto, ha talvolta una indubitabile plica mongolica, una piega cioè che copre la caruncola (v. occhio).
La faccia ha forma di losanga, essendo il mento stretto e gli archi zigomatici divaricati. L'aspetto presenta un miscuglio strano di caratteristiche negre e mongoliche. Il colore della pelle è gialloscuro, la pelosità nulla. I capelli sono all'estremo della caratteristica negra, presentandosi sotto la forma cosidetta a grano di pepe, cioè a piccoli batuffoli. Il tipo presenta alcune caratteristiche che sono del tutto particolari, fra le quali quella di avere un accumulo di tessuto adiposo sulle natiche e nella parte superiore delle cosce, più forte nelle donne, ma presente anche negli uomini (Steatopigia).
Tralasciando di parlare degli Europei o discendenti di Europei, stabiliti in Africa, basti un cenno sul tipo misto rappresentato dai cosiddetti Bastaards (v.) dell'Africa meridionale, discendenti da incroci degli Ottentotti con gli Olandesi (Boeri), per cui v. anche ibridismo umano.
Trattazioni particolari intorno all'antropologia delle singole regioni si trovano alle voci relative. Le trattazioni delle questioni generali, connesse con i tipi umani dell'Africa, si trovano alle voci generali relative, come per esempio: cranio, fisionomia facciale etnica, paleoantropologia, pigmei, ecc.
Popoli e culture.
L'Africa è posta in così stretto contatto col resto del mondo antico, da poter essere definita, dal punto di vista storico e culturale, come una penisola dell'Asia. Benché la connessione territoriale sia limitata ad un brevissimo tratto, e benché il continente presenti verso l'Europa e l'Asia, per immense distese, coste inospitali, steppe assetate e desolate, deserti quasi privi di vita, la prossimità delle plaghe terrestri nelle quali l'attività materiale e spirituale dell'uomo è stata assai più fervida e viva non può non aver avuto ripercussioni profonde sulla storia delle sue genti. Occorre inoltre tener presente che in età geologiche vicine, quando già l'èra umana durava da tempo, le condizioni climatiche dell'Africa settentrionale sono state, in determinati periodi, più favorevoli al popolamento e, forse, anche le connessioni continentali più ampie. Ma una fascia di deserti, pure spostandosi col suo asse in armonia con le variazioni climatiche terrestri, ha sempre ostacolato le comunicazioni tra la fascia mediterranea ed i territorî tropicali. E, oltre i punti estremi di contatto con l'Asia, il continente estende la sua enorme massa per 6000 km. fra m oceano che è rimasto deserto sino alle prime navigazioni fenicie, l'Atlantico, e un altro oceano che probabilmente non è stato traversato da marinai in età anteriore a quelle. Nonostante la dipendenza dal mondo antico, il territorio etnico africano risente perciò in misura molto notevole anche gli effetti della lontananza e dell'isolamento, che si traducono nel fenomeno complessivo di una spiccata differenziazione dal mondo esterno. Così esso ci offre le sue razze umane ben distinte ed esclusive, i suoi proprî linguaggi, le sue culture ben caratterizzate. Per nessuno di tali elementi l'isolamento è assoluto: ed esso appare man mano attenuarsi procedendo da quello che ha avuto origine ed assetto più remoti, la razza, a quelli che l'hanno ricevuto in periodi più recenti, la lingua e, poi, la civiltà. Ma i caratteri di diversità, di endemismo, sono sufficienti a fare della maggior parte dell'Africa una delle regioni etniche meglio definite e distinte della terra.
A questa differenziazione dall'esterno si accompagna una considerevole differenziazione interna, che è il resultato dell'ampiezza dell'area e della grande diversità degli ambienti naturali che si succedono attraverso di essa. Le due fasce di terre povere ed aride, il Sahara ed il Kalahari, che si addossano alle ristrette fasce temperate del nord e del sud, sembrano anche rinchiudere e isolare le terre tropicali umide: in queste stesse, la possente foresta equatoriale forma territorî di scarsa abitabilità. Deserti e foreste hanno infatti costituito regioni di rifugio (di regresso territoriale) per le razze e per le culture più antiche e primitive, e cioè più deboli, sotto la spinta delle genti più forti e meglio equipaggiate: i paesi aperti e fertili, la savana, il parco, le grandi vallate, sono divenuti il campo di movimento e di sviluppo di queste ultime, hanno ricevuto la maggior quantità di prodotti culturali esterni e recenti. Si sono formate così delle grandi provincie culturali, a fisionomia ben distinta, che corrispondono spesso, nelle grandi linee, alle provincie razziali e linguistiche, non perché razza, lingua e cultura si siano formate al tempo stesso, ma perché i moti umani sono stati, dalle condizioni geografiche, obbligati a percorrere sempre, all'incirca, le stesse vie.
Un elemento fisico decisivo per la storia delle genti africane è dato dalle alture orientali che culminano nel massiccio etiopico e si prolungano a sud verso i grandi laghi equatoriali. Partendo da questa grande gobba del continente le acque del Nilo presentano una delle vie più facili attraverso il deserto settentrionale sino al Mediterraneo; dai grandi laghi, su terre ora elevate ora depresse, una vegetazione tropicale non esuberante fascia di continuo il lato orientale del continente sino alla sua estremità australe. Questa via non ha posto alcun serio ostacolo al passaggio dell'uomo e delle sue culture, ed ha, anzi, costituito l'asse lungo il quale la penetrazione culturale è stata più profonda e continua.
I popoli cacciatori: Pigmei e Boscimani. - Tra mezzo alle popolazioni africane che praticano, nella loro quasi totalità, l'agricoltura o l'allevamento, e in maggioranza ambedue, sono facilmente identificabili i popoli in condizioni primitive di cultura, che ignorano tali arti e vivono esclusivamente di caccia e della raccolta dei frutti e delle erbe selvatiche. Sono anzitutto i Negrilli o piccoli negri, Pigmei e Pigmoidi, sparsi nelle foreste centrali fra il 5° N. e l'5° S., in piccole comunità nomadizzanti in territorî determinati; in secondo luogo i Boscimani (San), cacciatori nomadi del Kalahari, dell'arida costiera sud-occidentale e, al tempo della prima colonizzazione europea, delle steppe del Gran Karru. Nettamente differenziati per i caratteri somatici, i due gruppi umani, nei riguardi della cultura, si distinguono dai Negri soprattutto per la grande povertà. L'arma, quasi unica, è l'arco con le frecce avvelenate, di forme elementari (v. arco e freccia); l'abitazione è data dal rifugio emisferico (nel sud) o dal tipo più semplice di capanne ad alveare; le vesti assenti tra i Pigmei, ridotte al mantello e al grembiule di pelle per le donne tra i Boscimani; unico ani-male domestico, e non sempre presente, il cane. Nei Pigmei si ha anche la massima semplicità di vita sociale e spirituale, la famiglia monogamica, la discendenza paterna, l'assenza di mutilazioni del corpo e del tatuaggio: nei Boscimani questi tratti sono già meno semplici, con minore distacco dalle organizzazioni totemistiche dei vicini pastori o agricoltori. In essi persisteva però, sino a poco tempo fa, la sola industria litica ancora in uso nel continente africano (v. pigmei, boscimani): caratteristiche anche le loro pitture e incisioni parietali richiamanti quelle del paleolitico superiore europeo.
Ma la pressione delle culture più ricche su questi poveri resti di primitivi è stata così intensa, che ben poco di veramente arcaico essi ci conservano intatto. Accanto alla povertà, il tratto più caratteristico comune alla loro cultura è il parassitismo. Questo è oltremodo evidente nei Pigmei, che vivono in uno stato di vera soggezione alle tribù negre padrone del territorio forestale che essi sfruttano nei recessi più isolati, e da quelle ricevono anche il ferro per le loro armi. In condizioni poco diverse sono stati trovati i Boscimani rispetto agli Ottentotti. Spiegabile è quindi anche il parassitismo linguistico dei Negrilli, che in nessun luogo si sono mostrati in possesso di linguaggi particolari ad essi. E un fenomeno analogo è forse alla base della lingua dei Boscimani che, come quella affine degli Ottentotti, è apparsa imparentata strettamente con le lingue camitiche, con lingue cioè parlate da genti che sono per tipo fisico e per cultura tra le più alte e meno primitive del continente.
Fuori delle plaghe di rifugio che ci hanno conservato i resti di queste antiche genti - poiché Pigmei e Boscimani erano in altri tempi fuori di ogni dubbio molto più diffusi - le tribù di cacciatori sono state quasi dovunque eliminate. Soltanto in alcune valli dell'Africa orientale, in qualche angolo del suo aspro rilievo, ne persistono alcune. Presso il lago Stefania c'è, a quanto pare, il gruppo estremo orientale dei Negrilli; nelle steppe dei Masai i cacciatori Wassandawi e Wakindiga che parlano lingue affini al boscimano-ottentotto. Pochi altri gruppi di cacciatori, i Wandorobo, i Waboni del Giuba e del Tana inferiori, i Watà del Ganale e del Daua, sembrano differire meno per la cultura dalle vicine tribù pastorali ed hanno assorbito in qualche caso anche i residui soccombenti delle lotte di queste. Negri e negroidi ritornati alla caccia e alla raccolta per effetto di una decadenza economica e spaziale, si incontrano anche intorno alle paludi dell'Okavango nell'Africa australe, e fatti analoghi spiegano forse la singolare posizione dei Damara montanari (Bergdamara o Bergdaman) dell'Africa del Sud-Ovest, di aspetto negroide, parlanti una lingua ottentotta e viventi, prima che le missioni cristiane ne raccogliessero i resti, una vita anche più grama e stentata di quella dei Boscimani.
Nell'Africa, come nell'Oceania, i resti dei più antichi strati culturali sono dunque confinati nelle foreste equatoriali e nelle estremità meridionali dell'abitato. La cultura dei primitivi dell'Africa è stata infatti assimilata da varî etnologi alle più antiche culture oceaniche. I tratti comuni tuttavia sono pochi (capanna alveare, bastone da difesa, scarso sviluppo dell'organizzazione della tribù, dell'animismo, delle pratiche magiche); mancano in Africa alcuni degli elementi oceanici più caratteristici, come il bumerang e il propulsore, al posto dei quali è l'arco (e presso i Boscimani anche l'arco musicale), che in Oceania compare soltanto in uno strato considerato molto più recente. Perciò, o le culture dei primitivi africani sono più recenti che non quelle degli oceanici, o la cultura primitiva dell'arco (da non confondere con quella seriore dell'arco da guerra, ben rappresentata anche nella Melanesia) è originaria dell'Africa o di qualche regione vicina ad essa e non è penetrata in tutta l'Oceania, come sembra che la cultura detta del bumerang (v. civiltà) non abbia superato verso l'occidente l'Africa settentrionale. Il cattivo stato di conservazione dei resti culturali più arcaici dell'Africa rende ormai ben difficile la soluzione del problema.
Gli Ottentotti. - Tutta la regione erbosa e steppica dell'Africa centrale, nelle regioni meno aride, era occupata, al tempo della scoperta, dalla popolazione puramente pastorale degli Ottentotti. Le mandre di bovini fornivano a questa gente tutta la base dell'esistenza: cibo, vesti, materiale per gli oggetti più comuni. Fatto assai raro nell'Africa, l'animale era usato anche per il trasporto. Ma fuori di questa concentrazione dell'attività economica nell'allevamento, la cultura degli Ottentotti non presentava caratteri distintivi dai Negri del sud-est, tanto diversi per l'aspetto e la lingua, se non per una maggior povertà e per qualche tratto comune ai Boscimani (v. ottentotti). La loro ignoranza dell'agricoltura è citata spesso da quegli autori che ritengono la domesticazione e l'allevamento originati in seno alle società di cacciatori. Ma la mancanza di tratti distintivi ed originali, o anche solo arcaici, nella cultura ottentotta esclude che si tratti di un fatto o di uno stadio primitivo. Il bestiame è certamente tra essi un acquisto tardivo, e la funzione economica da esso assunta un caso di quella separazione geografica del lavoro, determinata dalle condizioni ambientali, della quale si hanno varî esempî tra le culture più elevate.
La Nigrizia. - Mentre le genti finora nominate raggiungono, tutte insieme, poche diecine di migliaia di individui, i 90 milioni di Negri, anche dopo l'ingresso della colonizzazione europea, e pure escludendo dal computo i melanodermi etiopici, costituiscono quasi i 4/5 della popolazione del continente che a buon diritto è stato chiamato nero. I confini della Nigrizia risultano tuttavia alquanto diversi a seconda che se ne considerino i caratteri fisici o la lingua o la cultura. Le corrispondenze maggiori sono quelle razziali-linguistiche, giacché l'area delle lingue bantu-sudanesi copre quasi tutto il dominio della razza negra: l'eccezione più notevole è data dalla diffusione (recente) delle parlate arabe nel Sudan orientale e nelle colonie negre dislocate nel territorio Sahariano (Fezzān, Marocco). Perciò anche sotto il riguardo statistico la Nigrizia linguistica dà cifre lievemente inferiori a quelle della razza. In compenso bisognerebbe tener conto degli elementi raziali allogeni assimilati nelle lingue bantu-sudanesi (Pigmei, Etiopici), ma il calcolo statistico relativo è ostacolato dalla difficoltà di apprezzare l'entità delle infiltrazioni di sangue etiopico, abbondanti specialmente verso il lago Vittoria (Masai, Wahima, Watussi), nel Sahara centrale (Tibbu) e nel Sudan (Fulbe).
Molto diversa si presenta la condizione della cultura: essa mostra dovunque trapassi graduali, e confini precisi, fuori che intorno ai gruppi primitivi, non si possono tracciare. Nel sud, in ogni modo, la cultura ottentotta già fa parte delle nigritiche. Nel nord, al contrario, le popolazioni negre più settentrionali (Tibesti, Nubia) hanno adottato quasi integralmente la cultura camito-semitica, e il trapasso culturale, del resto assai poco rilevante, ha luogo presso l'orlo meridionale delle steppe sudanesi. In generale, quivi e intorno al massiccio etiopico la civiltà camito-semitica è presentata in modo più netto dai popoli che conducono vita in prevalenza pastorale, mentre le persistenze nigritiche sono più o meno evidenti in tutte le comunità agricole: il conflne è dato quindi da condizioni climatiche e botaniche.
L'agricoltura alla zappa (giacché l'aratro, strumento dell'agricoltura superiore, non oltrepassa a sud l'altipiano abissino), è in realtà un elemento essenziale delle culture nigritiche, anche dove l'allevamento ha preso, per le condizioni climatiche dominanti, un grande sviluppo. Le piante coltivate fondamentali sono, nella regione umida forestale, la banana e la manioca con qualche altra specie a tubero (colocasia e taro, batata, yam) e la palma da olio (Elaeis guineensis); nelle savane dominano i cereali con diverse specie di Sorghum, Eleusine Pennisetum e col mais, penetrato largamente anche nella zona forestale. Anche il riso s'incontra dal Nilo alla Guinea, ma non è tra le coltivazioni preferite dai Negri; il frumento si arresta al 10° parallelo N.; diffusione limitata alle savane settentrionali e orientali hanno l'arachide ed altre piante da olio, come il sesamo e il ricino. Già questo sommario elenco mostra quanto l'agricoltura negra dipenda da piante di introduzione recente, poiché la manioca, la batata, il mais, l'arachide (nonché il tabacco e qualche specie di fagiuolo) sono di origine americana e penetrati in Africa dopo la scoperta del Nuovo Mondo. Anteriormente a questa il quadro dell'agricoltura africana era dunque molto più ristretto e costituito essenzialmente da piante che si ritengono originarie dell'Asia meridionale: di queste stesse alcune sono state introdotte in Africa in epoca storica: così la colocasia, il riso, la canna da zucchero, il sesamo, e probabilmente anche il cotone. A differenza di alcune delle piante americane che hanno invaso e attraversato tutto il continente, tali specie asiatiche più recenti hanno diffusione limitata e non raggiungono in generale la costa occidentale. Vien fatto di chiedersi se all'inizio dell'èra volgare o pochi secoli prima i Negri fossero ancora semplici raccoglitori e cacciatori; ma in tal caso si dovrebbe ritardare in ugual misura anche il passaggio dello strato più profondo delle culture nigritiche (successivo ai veri primitivi) del quale l'agricoltura fa parte integrante; e affrontare il difficile problema geografico inerente al passaggio stesso (origine marittima?). Le piante di più antica introduzione sono il banano e il miglio.
Con l'agricoltura è strettamente connesso l'allevamento: tutte le tribù negre hanno, oltre il cane, varî animali domestici, dipendendo la varietà di questi sostanzialmente dalle condizioni climatiche. Così nelle regioni umide infestate dalla mosca tse-tse manca il bue, e l'allevamento si limita al maiale, alla capra e agli animali da cortile (gallo). Fuori di esse il bue assume il posto più importante, tanto da prendere presso alcune popolazioni (Cafri, Masai, Wahima e Fulbe) il sopravvento sull'agricoltura. Le aree più favorevoli per la vera pastorizia sono in sostanza le savane e le steppe, e attraverso queste e con quella sono penetrati fino all'Africa australe e tutt'intorno alla grande zona equatoriale delle foreste gli elementi di una prima cultura pastorale e, successivamente, tutte le più vigorose ondate culturali provenienti dal nord. Si sono così formati due tipi alquanto divergenti di civiltà legate a due principali ambienti geografici: l'uno formato dalla Guinea e dal Congo, con propaggini o isole staccate verso lo Sciari, il Nilo e lo Zambesi - l'ambiente umido delle foreste - a base agricola e con l'uso di materie vegetali per tutti i manufatti non metallici; l'altro che circonda il primo dal Sūdān, per la regione dei laghi, sino all'Africa sud-orientale e sud-occidentale - l'ambiente delle savane, del parco, delle steppe - a base pastorale o almeno con notevole sviluppo dell'allevamento, e con largo uso delle materie fornite da questo per le vesti, gli arnesi, le armi. L'area guineana-congolese ha anche caratteri arcaici in tutte le manifestazioni culturali (sopravvivenze matriarcali, maschere, società segrete, cannibalismo) e conserva per esempio un posto importante anche alla caccia e all'arco: ha per forma tipica di abitazione la capanna quadrangolare con tetto a spioventi. L'area delle savane presenta fenomeni di rinnovamento quanto più si va verso il nord e il nord-ovest (Sudan occidentale): la famiglia patriarcale, forti organizzazioni politiche e militari, maggiore mobilità etnica: in varie delle sue provincie l'arco è poco usato o scomparso, la lancia è l'arma tipica, la forma prevalente di abitazione è la capanna cilindrica a tetto conico o, più raramente e per le genti più mobili, la capanna ad alveare.
Poiché il Sudan occidentale e centrale, per la forte immistione di elementi recenti (sahariani, semitici), costituisce una provincia culturale aberrante, i due più vecchi complessi culturali hanno ricevuto i nomi di "occidentale" e "orientale" (Ankermann) o di "etiopico", nel senso di negritico, e "camitico" (Frobenius). Subordinati nella loro distribuzione alle esigenze del suolo e del clima, essi non sono però un semplice prodotto di questi.
La cultura occidentale ha il suo corrispondente nella Nuova Guinea e nella Melanesia, con sì strette affinità da far ritenere indubbio il passaggio intero di uno o più cicli culturali dall'una all'altra regione o, meglio, da qualche plaga dell'Asia meridionale verso l'una e l'altra: passaggio avvenuto prima dello sviluppo e della diffusione delle civiltà sud-asiatiche più elevate, e recante all'Africa anche le prime piante coltivate ed i primi animali domestici. Più oscure sono le relazioni esterne della cultura orientale, che ha pure qualche affinità con cicli oceanici più arcaici degli anzidetti (armi da getto, bastone da difesa, capanna cilindrica) ma appare nell'insieme una formazione largamente indigena, africana, sulla base degli elementi più antichi, e delle continue, graduali introduzioni venute dal nord e dal nord-est (v. negri e civiltà). In queste successive ondate colonizzatrici settentrionali il Frobenius ha cercato di identificare storicamente: le correnti eritree facenti capo all'antica civiltà axumita e a quella che ha lasciata le rovine della regione della Rhodesia (v.), la corrente sirtica cui egli attribuisce le rovine del Sahara occidentale e il primo incivilimento del Sūdān; la corrente atlantica, di provenienza marittima, forse fenicia, che avrebbe condotto allo sviluppo della estinta civiltà del bronzo del Benin (v). Ultime venute, le correnti semitiche e neo-semitiche (Islamismo).
Un forte contrasto con le culture oceaniche a fondo affine è dato anche dall'antichità e dalla universale diffusione della metallurgia. Il ferro soprattutto è dovunque abilmente lavorato, come nell'India, e si discute fra gli etnologi se tale arte sia originaria di quest'ultima regione o dell'Africa negra. Certo in questa la siderurgia è anteriore al suo ingresso nel Mediterraneo e il ferro è indicato fra i tributi dei Negri sulle pitture egiziane. I fabbri formano, in talune regioni, caste a parte, temute e spregiate, mentre altrove hanno una posizione sociale eminente: le prime sono le regioni (orientali e settentrionali) nelle quali si è formata una aristocrazia di origine pastorale, e ciò riprova che le correnti culturali del nord hanno trovato già l'arte sul posto.
Altri metalli (oro, argento, rame) sono meno diffusi: particolarmente pregiato il rame, l'oro dei Negri, usato in passato anche come moneta (Catanga) com'è, del resto, tuttora in alcune plaghe il ferro. Ma di una fase del rame o del bronzo precedente quella del ferro, come in Europa e in Asia, non vi sono nella Nigrizia tracce sicure. Il ferro pare aver seguito direttamente ad un'età litica, della quale si vanno scoprendo in molti luoghi (Congo, Guinea, Somalia) resti riportabili, per il tipo, non già, come si è giudicato da prima, alle più vecchie industrie litiche europee (chelleano), ma al campignano, un'industria neolitica che conosce già le punte di freccia e la ceramica e che in Europa è propria di una cultura di agricoltori e allevatori (Menghin).
La ceramica, benché d'uso universale, non sembra per contro molto progredita; ha forme semplici e povere di decorazione. Ricchi e svariati invece i prodotti dell'intrecciatura. Il telaio sembra esser giunto col cotone e la distribuzione dell'arte tessile ne indica chiaramente l'origine orientale e seriore. Le arti figurative trovano la loro massima espressione nella scultura del legno, specialmente nell'area forestale, sotto gli stimoli dell'abbondanza del materiale adatto e delle credenze feticiste.
L'introduzione dei manufatti europei sta portando fatalmente alla decadenza e alla scomparsa delle arti indigene, come la dominazione dei Bianchi ha già recato la decadenza delle organizzazioni sociali e politiche. Nell'Africa australe la colonizzazione bianca ha anche eliminato le genti indigene più deboli o le ha ridotte a una casta di domestici. Lo sviluppo economico, l'introduzione di operai asiatici (Indiani, Cinesi), l'opera delle missioni minaccia anche la Cafreria. Ma, nel complesso, la distribuzione dei popoli della Nigrizia è rimasta quella dei tempi della scoperta e la loro integrità razziale e linguistica quasi intatta. Relativamente piccolo è per esempio il numero dei meticci afro-europei, fuori che nelle isole popolate modernamente, e in qualche punto delle colonie portoghesi: un gruppo singolare di meticci olandesi-ottentotti è dato dai Bastaards (Bastardi) dell'Africa sud-occidentale.
Per compenso, grandi progressi ha fatto e fa la nostra conoscenza del mondo negro, della storia della sua civiltà, delle sue divisioni etniche. Di queste, illustrate nella carta annessa, si trova notizia anche nelle voci relative ai grandi gruppi etno-linguistici (v. bantu, nilotici, sudanesi): della storia culturale si sono indicati qui alcuni dei tratti generali e fondamentali. Ma la sintesi è stata appena affrontata e le ricerche future dovranno illuminare molti problemi ancora oscuri.
Le isole. - L'unica grande isola africana, il Madagascar, è stata trovata dagli Europei in possesso di una popolazione a cultura affine a quella dell'area guineana-congolese, e di uno strato, sovrapposto, di recente (sec. XI?) origine indonesiana e recante ben chiari, nella lingua, nella cultura, nel tipo fisico, i segni della provenienza (v. madagascar). La stessa popolazione occupava probabilmente, al tempo della scoperta europea, le Comore, poi colonizzate da Arabi e Negri, mentre le Seicelle e le Mascarene, che erano disabitate, hanno una variopinta miscela di Creoli, Arabi, Indiani e Negri. Disabitate, nel sec. XVI, erano anche le isole del golfo di Guinea, eccettuata forse Fernando Poo, e quelle del Capo Verde, nelle quali i Negri furono introdotti dai Portoghesi. L'interessante popolazione indigena delle Canarie (v.), i Guanci camiti, è stata completamente sostituita dai coloni europei, come a Socotra l'antica colonia nestoriana da Arabi, Suaheli e Indiani.
Gli Etiopici. - Ad oriente del medio e alto Nilo e attraverso il massiccio etiopico, sino alle foci del Giuba, e del Tana, i Begia, gli Abissini, gli Afar, (Danachili), i Galla, i Somali e varî altri popoli affini costituiscono una provincia ben distinta sotto il riguardo antropologico, ma strettamente connessa per la cultura al resto dell'Africa settentrionale. Come in questa, l'industria pastorale vi possiede il cavallo e il cammello, estranei alla Nigrizia, ultimi arrivati fra gli animali domestici nel continente; l'agricoltura, in una parte del territorio, ha l'aratro; l'islamismo e il cristianesimo lo hanno profondamente penetrato. Tuttavia è una regione di "vecchie" influenze camitiche e semitiche e mostra, sotto a queste, numerose tracce di culture anche arcaiche, come, qua e là, conserva qualche tribù pagana e residui di veri primitivi.
Africa Mediterranea e Sahara. - La zona costiera mediterranea da Barca a Tangeri è compresa fin dall'antichità nel mondo civile del Mediterraneo e anche la costa atlantica del Marocco partecipa a questo intenso sviluppo di civiltà con la diffusione dell'Islamismo. Nella regione dell'Atlante il quadro della civiltà, in armonia col rilievo, è molto vario. Altrove (Libia) quasi immediatamente accanto alla regione coltivata è il deserto, in cui la vita si concentra di preferenza nelle oasi, spesso distribuite in fila una presso l'altra, che sono contemporaneamente piazze di mercato e punti d'appoggio per il commercio carovaniero. Le tribù del deserto fan centro specialmente negli altipiani di Ahaggar e di Air provvisti di depressioni in parte fertili e ricche d'acqua, e ad oriente di queste nelle aride e rupestri montagne del Tibesti, nel Borku e nell'oasi di Cufra. Anche gli abitanti delle oasi di Sīwa ascritte all'Egitto, appartengono alla grande schiatta dei Libi o Berberi, ma per la cultura sono fin dall'antichità legati alla valle del Nilo, che insieme ad alcune serie di oasi forma una regione culturale distinta (v. egitto). Per questa vasta duplice regione, un'analisi alquanto più estesa delle precedenti mostrerà, meglio delle trattazioni relative ai singoli territorî nei quali essa è politicamente divisa, le essenziali fattezze etniche e di civiltà.
Sulla base della corrispondenza linguistica e di particolari caratteri somatici si riunisce la vecchia popolazione indigena di tutto il territorio sotto il nome di popoli Berberi (v.). Imazigen, cioè "uomini", è il nome che essa stessa adopera sovente, mentre la loro lingua chiamano Tamazigt o - in Tuareg - Tamaheq. Denominazioni locali sono shāwiyyah (pastori di buoi e pecore) nel Marocco occidentale e nell'Aurès; šloḥ nel Marocco; giabaliyyah (montanari) a Tunisi e a Tripoli. Cabili è una designazione europea da qabīlah (tribù). Le tribù del Sahara occidentale distinte secondo una denominazione araba col nome di Tuāreg (sing. Tarhui) chiamano sé stesse imoschiagh. I Tibbu (o Tubu o Tedâ) della regione Tu (Tibesti) insieme con i Dâsa del Bodele appartengono pure, malgrado la mescolanza negra, come avviene presso i Tuareghi del sud (Kelôwi), all'antico ciclo mediterraneo, ma parlano una lingua di affinità sudanese. Anche le tribù beduine arabo-semitiche degli Ulād Hālil, direttesi nel sec. XI dall'Alto Egitto nel Maghrib, e gli Ulād Slimān, cacciati nella regione dello Ciad, si sono potuti mantenere soltanto per mezzo di una certa assimilazione di popolazione negroide indigena.
Le scoperte preistoriche nel Sahara fanno testimonianza di una distribuzione della popolazione (nigritica) assai diversa dall'attuale durante un passato periodo climatico più favorevole. Nell'epoca storica è dimostrabile in più maniere l'espansione delle razze più chiare dal nord verso il sud e dall'est verso l'ovest e specialmente si è estesa in profondità verso l'Algeria meridionale e il Fezzān l'opera civilizzatrice dei Romani. La tradizione indigena di grandi piantagioni di olivi e i resti di strettoi di pietra molto addentro verso il sud ne offrono una riprova. Nell'Algeria meridionale e nel Marocco occidentale si racconta anche di insediamenti di Nazareni (Cristiani) e si menzionano anche i Giudei nell'antichità come i fondatori della cultura delle oasi (Tuat); una "età d'oro" che noi dobbiamo identificare con le prime migrazioni cristiane e giudaico-ellenistiche nell'epoca imperiale romana. Dal XIII al XV secolo si fa sentire specialmente nel Marocco la corrente culturale mauro-ispanica. La tecnica idraulica andalusa rese possibile l'impianto di oasi-giardino fino a Tidikelt che nel sec. XIII era ancora un luogo di pascolo dei Tuareghi e che allora divenne, con lo scavo di pozzi, un forte centro di popolazione sedentaria. Tribù sceriffiane (sceriffo è il discendente del Profeta) dal Marocco conquistarono nel sec. XVI il regno negro di Songhai che dominava anche il Sahara settentrionale, ed i Tuareghi, come le orde di Beduini arabi del Maghrib, manifestarono una maggior attività aggressiva, mentre la popolazione di coltivatori cercava rifugio nelle oasi. Uno strato più scuro (negroide) costituisce la casta degli agricoltori nell'Algeria meridionale e nello Ahaggar (Harratins) e la classe degli schiavi domestici e da lavoro che si trova ovunque fra la popolazione cittadina, ciò che si può spiegare bene col ratto e col commercio degli schiavi negli antichi tempi; alcuni studiosi han voluto vedere in esso i resti di una popolazione originaria negra.
Economicamente la popolazione si divide in agricoltori e coltivatori sedentarî e in nomadi e tribù di Beduini, come già si presentò agli occhi dei Romani al tempo della conquista della Numidia. Tuttavia anche oggi i contadini dell'Atlante, se non assoldano appositi pastori, si spostano spesso durante l'estate con grandi greggi verso pascoli assai lontani e vivono allora sotto la tenda; viceversa in Tunisia e nella Cirenaica anche i Beduini, se e dove appunto cade la pioggia, coltivano qualche tratto di terreno. Nelle oasi, le tribù del deserto sono divenute spesso proprietarie di giardini che i residenti coltivano dietro corrispettivo di 1/7 della raccolta dei datteri e del prodotto degli orti (così in Algeria). Essi vi si recano solo per la raccolta dei datteri, ma in alcuni luoghi hanno già occupato radi villaggi. Fra la popolazione cittadina hanno molta importanza gli Ebrei; in alcune località del Marocco essi rappresentano ¼ ed anche una metà degli abitanti. Essi stanno, in cambio di una imposta personale, sotto la speciale protezione dei signori musulmani locali; sono, come dappertutto, essenzialmente commercianti, e anche argentieri, cambiavalute, macellai e calzolai, e abitano per lo più raccolti in quartieri molto malsani. Le condizioni economiche corrispondono in molti riguardi a quelle dell'Europa meridionale. Coltivato fin dall'antichità è il frumento, e di introduzione ancor più remota l'orzo, che è prodotto specialmente sui monti. Il primo rappresenta fin dai tempi antichi la ricchezza delle pianure costiere, specialmente del Marocco. Il sorgo (la dura) e la Penicillaria (Duchn) arrivano dal sud fino alla zona costiera. Nel Fezzān si coltivano durante l'inverno orzo e frumento e si ottengono durante l'estate fino a quattro raccolti. Ovunque i cereali sono la base dell'alimentazione. Anche i Beduini non possono per lungo tempo mancare di un'aggiunta di pane ai datteri e al latte delle mandrie e li scambiano sui mercati delle oasi se essi stessi non posseggono campi. Nella Cabilia i campi situati sui pendii scoscesi sono ancora lavorati con la zappa e le granaglie si svellono a mano, principalmente per la produzione della paglia. Si conosce pure qui fin dall'antichità molto bene la concimazione. Tuttavia si adopera un aratro di legno con un piede piatto e con sopra delle aggiunte a forma di orecchi (un antico tipo romano); nell'Aurès si usa anche l'aratro a uncino con manico e vomere di legno tutto di un pezzo e senza punta di ferro. La falciatura è fatta a mano con falci dentate, gusci di canna alle dita della mano sinistra e polsini intrecciati; la trebbiatura a mezzo di animali, e in Tunisia anche con una carretta trebbiatrice. Per l'aratura e la raccolta i vicini di casa si riuniscono in gruppi e si prendono anche dei lavoratori. Il grano viene deposto in silos, mentre la paglia nella Cabilia è conservata in antiche capanne rotonde di pietre a secco o di graticcio con tetti conici di paglia o addirittura in granai di legno (agranio). Piante indigene antichissime sono l'olivo selvatico, il fico, probabilmente anche la vite, e fra gli erbaggi il carciofo, la cipolla e i cocomeri delle steppe. Le migliori piantagioni arboree dovettero essere introdotte sotto l'influsso della cultura micenea e della prima espansione semitica (Fenici). I successivi scambî culturali portarono anche il carrubo e il melograno; la civiltà romana dalle parti orientali dell'impero, recò il noce, il mandorlo, il melo, il pero, il ciliegio e da ultimo il pesco, l'albicocco, il susino; gli Arabi introdussero il limone, i Portoghesi per i primi l'arancio. La coltura del cotone si deve all'epoca araba; il mais, la zucca, il pomodoro e il fico d'India furono qui come altrove conosciuti per la prima volta dopo la scoperta dell'America. Essi, insieme con le piantagioni d'aranci di molto aumentate nell'Evo moderno, e con gli ortaggi, rappresentano la parte principale della orticoltura nella regione costiera e nelle valli montane irrigue, e prosperano in gran parte anche all'ombra dei palmizî nelle oasi dove la palma da dattero fu introdotta già in tempi preistorici da qualche regione orientale e rappresenta oggi, come in passato, la base alimentare della popolazione.
Per i campi di cereali e per gli orti ci sono ovunque impianti irrigatorî. Dove mancano corsi d'acqua naturali, si fanno cisterne e fontane spesso molto profonde. Nel Mzāb esse sono costruite in pietra fino a 60 m. di profondità, quelle nelle regioni sabbiose dell'Erg vengono mantenute da palombari che lavorano fino a 3-3 ½ minuti sott'acqua ad una profondità anche di 40 m. L'acqua vien sollevata per mezzo di carrucole da animali che camminano su di un piano inclinato oppure con ruote a secchi; sistemi diffusi da molto tempo in tutto l'Oriente. Per l'irrigazione l'acqua viene distribuita in rigagnoli mediante canali a rastrelliera; dove essa è scarsa viene misurata, come nell'antichità romana e bizantina, per mezzo di un recipiente forato di rame che si apre e si chiude il numero determinato di volte che è consentito dal diritto. Il mantenimento dei canali spetta per lo più alla comunità. La proprietà d'acqua è spesso indipendente da quella del suolo (Tuat), altrove (Marocco) l'impiantare una palma porta con sé la proprietà del suolo e il diritto all'acqua. Lavori imponenti sono le foggaräs delle oasi sud-algerine: sono canali a spiragli e a debole pendenza che gradualmente sono stati spinti fino a terreni provvisti di una falda acquifera, e che in talune oasi hanno raggiunto un tale sviluppo da potersi spiegare soltanto col lavoro intenso di molte generazioni. Già anche numerosi pozzi artesiani furono qui scavati dagli Arabi. Il prodotto degli orti delle oasi, spesso molto rigogliosi, viene portato sui mercati e scambiato col sale, il bestiame e le pelli delle tribù del deserto. Queste traggono abbondante profitto, oltre che dai datteri e dai prodotti animali, anche dalle piante alimentari selvatiche. Resti di una tale economia di raccolta si trovano anche nella regione dell'Atlante, dove una ghianda dolce (Quercus Ballota) viene raccolta e negoziata per preparare la farina, e nel Marocco, dove si utilizzano i frutti dell'argan (Argania Sideroxylon) per olio da cucinare e da bruciare e per foraggio. Gli uliveti sono proprietà private. Nella Cabilia il frutto si schiaccia semplicemente in sacchi mediante grosse pietre lasciando che l'olio coli in un recipiente a staccio o in bacini pieni d'acqua, ma fin dall'epoca romana si adoperano anche frantoi a macina girevoli e torchi a leva.
Fra gli animali domestici si allevano buoi, muli (specialmente sulla montagna), molte pecore e minor numero di capre. La caccia ai mufloni, alle gazzelle, alle pernici è esercitata per lo più come sport, spesso con falchi, e il bottino viene diviso. Ma nel Marocco vi sono ancora caste di cacciatori, disprezzate dai musulmani, fra le quali la carne dei cinghiali, dei ricci e dei porcospini non è disdegnata. Un cibo frequente è il cuscuss, farina rimestata in pallottole e cotta sopra una piccante zuppa d'erbaggi; oltre a questo, legumi, carciofi, cipolle e inoltre frutta, specialmente fichi secchi, poi latticini e uova. La carne viene mangiata solo nei giorni di mercato e per le feste. Il pane, chiaro e scuro (d'orzo), è cotto in pagnotte e in focacce. Le case hanno forni mezzo scavati nella terra, alle cui pareti riscaldate vengono attaccate le focacce per la cottura; nelle città vi sono fornai di professione e forni orientali. Il miele rappresenta un condimento bene accetto: si tengono le api in tronchi di legno orizzontali, panieri di paglia o in nicchie nei muri. Dal taglio e dalla spillatura di giovani fusti di palma si ricava, nelle oasi, un vino di palma che fermenta presto (lagbi). Estesa in maniera straordinaria è nelle steppe, come anche in alcune oasi (Bilma), la produzione del sale.
Semplici come gli alimenti sono anche le abitazioni. Gli antichi scrittori qualificarono spesso i nord-africani come trogloditi (abitatori di caverne) e ancor oggi nell'Atlante e nei monti da Tunisi a Tripoli e nel Tibesti i pastori e la popolazione stabile, si servono, come riparo temporaneo, di rupi e di caverne dinanzi alle quali con un muro circoscrivono un cortile. Nella Tunisia meridionale e nella Tripolitania, vi sono abitazioni semi-sotterranee, collocate l'una sopra l'altra, nelle quali le celle scavate nel monte vengono completate in corti mediante piccole case dal tetto piatto; il tutto viene poi coronato da una o più torri di difesa. Spesso le caverne vengono scavate artificialmente nel pendio con vòlta a botte, mentre a Matmata sulla cima di un'altura si pratica un largo scavo, sulle pareti del quale sono disposti in diversi piani i vani di abitazione che si raggiungono mediante un ripido corridoio attraverso la collina. A Madenin consimili abitazioni cellulari con la vòlta a botte sono state costruite all'aperto e riunite in grandi caseggiati a più piani. Una schietta forma primitiva di abitazione è inoltre il cosiddetto gurbi, una capanna da rotonda a ovale, per lo più alquanto affondata nel suolo, costituita da una impalcatura di pali, sopra i quali vengono posti dei rami incurvati, coperti a loro volta con stuoie o con la terra levata dall'interno della capanna. Ci sono anche tende di stuoia molto leggiere, con coperto a schiena d'asino, o che imitano, specialmente nel Fezzān e nel Tibesti, le case a dado con tetto piatto. Le costruzioni a corte rappresentano il tipo più diffuso sia nella zona costiera sia nelle oasi. Suggestivi cortili interni coperti sono frequenti in tutte le città, ma le camere d'abitazione sono scure e il cortile serve più che altro da lavoro e appartiene talvolta a più case. Nella Cabilia vi sono case di pietra o ad impalancato con tetto a spioventi alla maniera europea, coperto con tegole curve o con paglia; nel Marocco, invece, come elemento culturale negro, vi sono capanne cilindriche con tetto a cono. Nelle regioni montuose più povere, uomini e animali sono divisi nelle case soltanto da una bassa parete sulla quale vengono messi vasi di terra cruda contenenti il grano. Si dorme sopra piattaforme di argilla o di legno (angareb), o su tappeti, coperte e stuoie. Nel sud, in relazione alle condizioni climatiche, si usa per letto una cassa chiusa da tre lati e con una tenda di stuoia davanti (Agadès), oppure alti giacigli a tavolaccio. Gli averi vengono custoditi in nicchie nel muro o anche in bauli. Per il fabbisogno di cucina si trovano dappertutto stoviglie di terra cotta (industria paesana delle donne), scodelle e piatti di legno rozzamente torniti, ciotole per il cuscuss, una macina a mano con pietra girante, otri per i liquidi e per fare il burro e recipienti di zucca. Le antiche sedi berbere erano pure fino al sec. XIII costruite di pietre a secco e collocate sulle alture in posizioni atte alla difesa. Alcune di tali sedi fortificate, coronate da molte torri, si trovano ancor oggi nell'Atlante e nei Monti dell'Aurès e altrove. Le torri sono contemporaneamente granai (Marocco) e il piano terreno serve nell'Aurès come sala di consiglio per l'assemblea comunale. Ma la popolazione si è andata fissando di più nelle pianure e attualmente domina fino nel Sahara la casa a terrazza di mattoni o pisé, che viene imbiancata con la calce nei villaggi più importanti. Soltanto nel Sahara, dove si usano, come in Egitto, i mattoni seccati all'aria, le case si distinguono a stento dal paesaggio circonvicino per il loro colore bruno-rossiccio. Anche queste sedi sono fortificate con muri e torri agli angoli. Nel Marocco al posto dei muri di cinta si trovano spesso le siepi. Le città offrono l'immagine tipica della civiltà orientale con le viuzze strette, i quartieri silenziosi e le chiassose vie del bazar dove vivono raggruppati i calzolai, gli artigiani di metalli, i lavoratori in cuoio, ecc.
Le stoviglie di terra, oltre che da pentolai di mestiere, come in Tetuan, Gerba, Nabeul, dove si pratica anche la verniciatura e la pittura, vengono ancora confezionate dalle donne col metodo dei cordoni sovrapposti a spirale (senza tornio) e cotte all'aperto. La filatura è fatta dalle donne e dagli uomini (tessitori); filando, il batuffolo di lana si tiene nella mano e il fuso appoggiato alla coscia, oppure si usano rocche da filare e fusi con due verticilli. Su di un telaio ritto le donne tessono, annodano e intrecciano anche burnus, coperte e tappeti di lana e stuoie di fibre vegetali. Gli uomini lavorano, su telai a pedale, stoffe di cotone (nella Cabilia, una volta, anche telerie di lino).
Il costume dei cittadini consta di larghi calzoni, camicia, panciotto e giacca, ampî mantelli con cappuccio (burnus) o sopravvesti a forma di toga (ḥaik), berretto, turbanti e pantofole. Le donne sopra un costume simile portano giacche a mantello e si avvolgono quasi completamente il capo in fazzoletti. Nella campagna, gli uomini portano soltanto una o due camicie, la seconda come abito, per lo più cadente sopra i calzoni, e ghette di maglia o di cuoio, al tempo della raccolta anche un grembiule di cuoio, sandali di cuoio o di halfa intrecciata, durante l'estate un ampio cappello di paglia, e quando è freddo un camice di lana con cappuccio e maniche corte (qaṣabiyyah). Le donne della campagna o portano un pezzo di stoffa turchina ravvolta e legata sopra una spalla con un fermaglio, oppure legano insieme sulle spalle un pezzo di panno davanti e uno di dietro fermandoli con una cintura alla vita. L'abbigliamento è completato da un fazzoletto da testa e da ornamenti d'argento sulla fronte, alle tempie ed al collo. La faccia viene velata soltanto fra i Beduini. Uomini e donne di bassa condizione si fanno tatuare in tutte le parti scoperte del corpo, molto più che per motivo di bellezza, come segno della tribù alla quale appartengono. Per le feste si mettono polvere nera di koḥl sulle ciglia e henné sulle guance e sulle mani.
La condizione della donna è completamente libera, specialmente nel Marocco, e la sua influenza negli affari della tribù non piccola. Nel Rīf è riconosciuta la discendenza materna. In complesso prevale nella regione la monogamia. Le famiglie vivono in comunione patriarcale nella stessa casa che comprende anche i figli sposati; questi ricevono soltanto un posto particolare per dormire. La costituzione della tribù è mantenuta rigorosamente presso i Beduini ed anche fra i Cabili dell'Atlante e del Rīf. Chi è solo, cerca un appoggio anche mediante una fratellanza di elezione che dura inviolabile; gli affari della comunità sono regolati dalla lega del villaggio con un consiglio costituito dai più vecchi e con la persona più autorevole alla testa. Nei rapporti fra giovani avvengono diversi intrighi amorosi, specialmente dove, come presso i Beduini, la clausura delle donne è molto rigorosa; tuttavia i giovani hanno occasione di conoscersi alle feste ed agli sposalizî. Nel Marocco anche alla fanciulla, in occasione della richiesta di matrimonio, viene domandato il suo consenso.
Gli usi nuziali sono caratteristici: la richiesta di regola è fatta dal padre dello sposo al quale appartiene determinare la dote (prezzo della sposa) comprendente per lo più anche il corredo e le gioie, che vengono portate solennemente in un canestro. Seguono i preparativi delle nozze con trattenimento e ballo della gioventù maschile da una parte, della sposa con le sue compagne dall'altra, il solenne bagno della sposa, il ricevimento della stessa nella casa dello sposo in una lettiga o su di un mulo, velata tanto da non poter essere riconosciuta. Si conduce il mulo sulla strada e intorno all'aia, tre o più volte in circolo, e si gettano sulla comitiva, all'arrivo, latte, datteri e mandorle. Nel Marocco la sposa è portata sulla soglia e messa su di una piattaforma per essere veduta, e distribuisce ai giovani fiori tratti dalla sua acconciatura ornata di basilico. Altrove essa si mostra soltanto alle donne. Molto diffusa è l'usanza di una percossa rituale con una pantofola o il getto di una pantofola da parte dello sposo alla sposa all'entrata in casa.
Una particolare festa famigliare è anche la circoncisione di un ragazzo. In tutto il territorio, fino a Uargla e Figuig, in occasione della ‛anṣarah (corrispondente ai nostri fuochi di S. Giovanni) o della ‛āshūrā' (nel decimo giorno dell'anno) si accendono dinanzi alle case o sulla piazza fuochi di gioia sui quali saltano vecchi e giovani e si fa passare anche il bestiame. Qualche volta per la festa della ‛āshūrā' si accende un gran fuoco nel quale viene bruciato un alberetto verde come "sposa", a volte anche un secondo come "sposo", o si getta nel fuoco uno sciacallo per scongiurare con esso il male, o col vino si invoca la pioggia. Sovente compaiono in queste feste i vecchi fantocci indigeni apportatori di fertilità che le donne festeggiano con danze rituali e da ultimo talvolta gettano nell'acqua o seppelliscono. In alcuni luoghi (Rabat) le donne cercano le tombe dei morti per impetrarne la prole, e pratiche magiche sono ovunque diffuse. Lo svolgimento della ‛āshūrā' ha un carattere orgiastico come i Saturnali: sotto rivestimenti di animali compare il Billmaum o Bužlūd (padre delle pelli) e con esso i compagni che portano sul nudo corpo pelli di capra e che sono muniti di piedi di capra e di scudisci (la sferza della vita) e percuotono specialmente le donne e i bambini per sollecitare la fertilità. Le denominazioni derivate dal latino di alcuni usi come anche delle processioni impetrative e delle canzoni giovanili sembrò ad alcuni dimostrassero la diretta relazione con le antiche feste dell'anno nuovo e primaverili (Lupercalia).
Come religione, anche sotto l'aspetto civile e politico, l'islamismo, dal sec. XI fino all'occupazione europea, ha avuto in tutto il territorio una posizione predominante e incontrastata. Con la cacciata definitiva dei Mauri dalla Spagna nel sec. XV, parte dal Marocco una energica corrente verso il Sahara dove le famiglie sceriffane assoggettano la popolazione indigena inclusi i Tuareghi. Nelle oasi si stabilivano anche colonie claustrali (zāvie) esercitandovi una azione economica e culturale e Marabutti (pellegrini, eremiti e santoni) i quali, per l'azione opposta contro il brigantaggio esercitato dalle tribù del deserto, sono, come rappresentanti del diritto, tenuti in grande considerazione dalla popolazione, sebbene spesso si atteggino anch'essi a cupidi mendicanti. Marabutti della tribù dei Tinylkum regolarono in tale modo il commercio e il traffico nelle città tuareghe di Gat e Agadès e persino le tombe dei santi furono adibite a depositi di legna da ardere (Zusfana) o di sale (Marocco).
Le sette automartirizzanti, i dervisci urlanti e danzanti, che richiamano alle società segrete dei Negri, formano, nel Marocco, un substrato sciamanistico nella sfera di questa confessione religiosa che in altri ambienti sociali, ha peraltro raggiunto una fioritura di arte e di pensiero degna di rilievo. Al suo seguito la lingua araba, pur con varietà locali, ha limitato l'idioma berbero indigeno a isole linguistiche e gli ha fornito buon numero di parole, sostituendo completamente la vecchia scrittura berbera (tifīnagh), che si incontra nelle scritture rupestri fino nell'oasi di Siua ed è oggi usata soltanto dalle donne dei Tuareghi.
Anche le tribù nomadi del deserto mostrano, malgrado l'unità del tenor di vita, differenze etniche rimarchevoli. Dappertutto essi allevano pecore e cammelli: importante è l'allevamento di questi ultimi nel Fezzān e nel Tibesti; le pecore appartengono per lo più ancora a una specie dalla lana lunga, più simili alle capre e con gambe lunghe (Ovis longipes), che discende da una antichissima pecora selvatica indigena (Ovis tragelaphus). Seguono poi capre, asini e pochi bovini che sono stati però utilizzati anche per il trasporto carovaniero. Il cavallo, già ben conosciuto dai Numidi all'epoca romana, non ha molta importanza nel deserto. Si vive di latte e formaggio duro; di regola si ammazzano soltanto animali vecchi o divenuti inservibili, la carne viene conservata seccata all'aria, di carne fresca si mangia soltanto quella della selvaggina cacciata.
La raccolta della vegetazione spontanea aiuta ampiamente, specie presso i più poveri, l'alimentazione. Si ricava farina dai frutti degli alberi (Balanites aegyptiaca), da quelli dell'albero della gomma (Acacia nilotica), dai noccioli della coloquinta (Fezzān). Nella Tripolitania i tartufi che crescono sulla spiaggia dopo le piogge dànno, come le cipolle e i meloni, alimento di quando in quando a tutte le tribù.
Presso le tribù formatesi sotto l'influsso arabo i pali delle tende vengono ricoperti con tele di stoffa di lana e di pelo di capra che vengono fatte dalle donne stesse mediante un congegno orizzontale per tessere. Nel Marocco fino a Zusfana, si innalzano anche tende circolari, di stoffa di cotone o di fibre di asfodelo, a tetto conico, che ricordano le capanne dei Negri. Procedendo verso il Sūdān, i Berberi (v. tuareg e zenaga), le popolazioni arabizzate che vanno sotto il nome generico di Mauri (v.) e, più ancora, le tribù Tibbu (v.) mostrano, come per l'aspetto fisico, cosi per la cultura la prossimità della Nigrizia. Il trapasso a questa è reso anche meno distinto dalle colonie di Sudanesi stabilite nei centri del Sahara meridionale e dalla intercalazione, fra le genti sedentarie del Sūdān, di tribù a cultura steppica e sahariana; tali sono i Fulbe (v.) che nel sec. XIX han seminato i loro insediamenti pastorali dal Senegal al Bornu e le genti arabizzate (talora bilingui) che dominano nelle steppe orientali (Kabābish, Baggāra, Shukriyya) fino al Kordofān e all'Atbara.
Bibl.: Il compendio migliore sulla etnologia africana è dato dalle sezioni Afrika e Mittelmeerlandschaften Nordafrikas dettate da A. Haberlandt per la Illustrierte Völkerkunde di G. Buschan (Stoccarda 1922-1926). V. inoltre: B. Ankermann, Kulturkreise und Kulturschichten in Afrika, in Zeitschr. f. Ethn., 1905; G. Montandon, Des tendences actuelles de l'ethnologie à propos des armes de l'Afrique, in Arch. suisses d'anthrop. génér., Ginevra 1914; L. Frobenius, Der Ursprung der afrikanischen Kulturen, Berlino 1898; id., Atlas Africanus, Monaco 1921-22; id., Das unbekannte Afrika, Monaco 1923; F. Jäger, Afrika: Geographie des Menschen und seiner Kultur, Lipsia 1925; O. Menghin, Die Tumbakultur, in Anthropos, III-IV (1925); M. J. Herskovits, A Preliminary Consideration of the culture Areas of Africa, in Amer. Anthropologist, 1924; L. Piette, Verbreitung witchtiger Nutzpflanzen der Eingeborenen im tropischen Afrika, in Peterm. Mitt., 1927 (carte). Per l'Africa mediterranea e il Sahara vedi la bibl. alle voci algeria, berberi, egitto, libia, marocco, tibbu, tuareg.
La carta etnografica qui riprodotta utilizza le poche carte generali esistenti: G. Gerland, Atlas für Völkerkunde, Gotha 1892 (1 : 30.000.000); B. Struck, in Völkerkunde, già cit. di G. Buschan (1 : 45.000.000); W. J. W. Roome, Ethnographic Survey of Africa, Londra 1925 (1 : 6.000.000), nonché varie monografie regionali provviste di carte parziali (Meyer, Johnston, Czekanowski) e le carte contenute nelle più moderne opere di linguistica africana (Meinhof, Meillet e Cohen, P. W. Schmidt). È stato accolto il nuovo aggruppamento proposto dal Conti Rossini (Lingue nilotiche, in Riv. st. or., XI, 1926), per il gruppo nilotico. La ubicazione dei Pigmei e Pigmoidi è il risultato di una apposita revisione della letteratura speciale (v. anche la Carte ethnographique du Congo belge, di J. Maes).
Lingue.
Le condizioni linguistiche dell'Africa sono relativamente semplici, talché già da mezzo secolo suggerirono le sintesi più grandiose, non in tutto premature. L'isolamento del continente africano, le limitate possibilità di antiche immigrazioni dal di fuori, la mancanza di catene di montagne che valgano a segregare durevolmente le popolazioni e altre circostanze, fanno supporre già a priori una grande omogeneità linguistica, parallela alla scarsa varietà antropologica. Un primo esame sommario, infatti, induce a distinguere soltanto due grandi gruppi: Camitico al nord, Bantu al sud.
Una prima sintesi chiara e geniale sui popoli e idiomi dell'Africa fu data da R. Lepsius nella celebre introduzione alla sua Nubische Grammatik, Berlino 1880. Secondo il Lepsius, in origine il continente africano era occupato soltanto dalla razza negra, la quale l'occupa tuttora, salvo le regioni costiere del N. e NE. invase più tardi da popolazioni camitiche provenienti dall'Asia. Quanto alle lingue, il Lepsius distinse tre zone: lingue bantu al S. dell'equatore; lingue della zona intermedia; lingue camitiche originarie dell'Asia (donde provennero più tardi anche lingue semitiche).
Secondo il medesimo autore le lingue della seconda zona, parlate da popolazioni negre, sarebbero state in origine di tipo bantu e avrebbero in seguito subìto maggiori o minori modificazioni per influenza di lingue camitiche. Ma questo tentativo di spiegare tali lingue per posizione geografica e per struttura intermedie come derivate da mescolanza di elementi camitici su fondo africano appare arbitrario, perché privo di fondamento e del tutto inverosimile.
Recentemente Westermann (Die Sudansprachen, Amburgo 1911), seguito da Struck e da Meinhof, ha riunito le lingue della zona intermedia in un gruppo a sé, detto sudanese, con inclusione di linguaggi da altri considerati come camitici (Nuba, Kunama, Baria, Dinka) e con esclusione di linguaggi erroneamente considerati dalla scuola di Meinhof come camitici mentre sono semi-bantu (Pul).
La costituzione del gruppo sudanese di Westermann è lungi dal soddisfare le esigenze della scienza. Tutta la sezione occidentale è strettamente collegata al Bantu, come riconobbero Bleek, Norris, Logan, Christaller, De Gregorio, Krause, Lepsius, Torrend, Finck, W. Schmidt, Homburger, Delafosse e Trombetti; anzi nell'estremo NO., dopo una vasta zona di lingue di tipo "sudanese", ricompare in pieno vigore il tipo bantu con tutte le sue principali caratteristiche (lingue bantuidi o semi-bantu). Le maggiori difficoltà per una buona sistemazione s'incontrano nella sezione centrale e orientale. Quest'ultima è più camitica che bantu, salvo anche qui l'estremo NE. in cui si hanno pure idiomi semi-bantu nel Kordofān, a sud di el-Obeyyid.
Meinhof così pervenne a una triplice partizione delle lingue africane: 1. Camitico; 2. Sudanese; 3. Bantu. Fra la prima e la seconda egli ammette un distacco assai profondo.
Una reazione contro queste sintesi, che a taluni sembrarono eccessive e premature, si ha nel lavoro di A. Drexel, Die Gliederung der afrikanischen Sprachen, pubblicato nella rivista Anthropos, 1921-1924. Drexel stabilisce dei gruppi minori (parecchi dei quali, del resto, erano già prima riconosciuti) e, come Lepsius, ammette una quantità di mescolanze indimostrate e indimostrabili, giungendo a mettere i suoi gruppi linguistici in relazione coi cicli culturali. Per questa ragione il sistema (se così può chiamarsi) di Drexel fu adottato da W. Schmidt in Die Sprachfamilien und Sprachenkreise der Erde (Heidelberg 1926). Cominciando da sud i gruppi sono i seguenti:
1. Lingue dei Khoin (uomini"): Boscimano, Ottentotto, Sandawe. - L'affinità del Boscimano e Ottentotto fu riconosciuta da Th. Hahn, Bleek, Lepsius, Schils, Planert, Trombetti, Drexel, Homburger e W. Schmidt. Nel 1910 Trombetti, seguito da Dempwolff, Planert e Drexel, aggiunse la lingua dei Sandawi, che abitano molto lungi dagli Ottentotti, tra il 5° e il 6° lat. S. Gli Ottentotti abitavano anticamente fin verso lo Zambesi e, secondo le vedute geniali del Lepsius, furono cacciati verso S. da una invasione di Negri (Bantu). Lepsius e Meinhof considerarono l'Ottentotto come camitico e Trombetti collegò al Camitico l'intero gruppo Ottentotto-Boscimano e Sandawe.
2. Lingue dei Bantu ("uomini"): v. bantu.
3. Lingue dei Wule ("uomini"). - Questo gruppo corrisponde in parte alla "famiglia equatoriale" di F. Müller. Drexel vi aggiunge il Fang e lo Yaunde, lingue veramente bantu, nelle quali egli crede riconoscere un fondo appartenente al Wule e uno strato successivo Ngo-Nke.
4. Lingue dei Ngo-Nke (lo strano nome è formato artificiosamente coi suffissi che si trovano, p. es., in Mandi-ngo e Soni-nke). - Corrisponde al Mande, gruppo linguistico bene studiato da Steinthal. Drexel vorrebbe toglierne il sotto-gruppo Mende per unirlo al Manfu, nel che non è seguito neppure da W. Schmidt. Questi aggiunge, per parte sua, il Songhai, che Drexel vorrebbe includere nel gruppo Kanuri.
5. Lingue dei Manfu (altro nome artificioso formato con un prefisso e un suffisso formativi del plurale dei nomi di persona; e dovrebbe significare "popolo"). - Si divide in tre sotto-gruppi: 1° occidentale o Kru, 2° centrale o Egbu (Ashanti, lingue del Volta, Yoruba, Ibo e affini); 3° orientale o di Adamaua (Baya, Runga, Banda e affini).
6. Gruppo Kanuri. - Comprende, oltre al Kanuri, il Teda (Tibbu, Tubu), poi il Maba, Bagrima, Logone, ecc. Questo gruppo si stende attorno al lago Ciad. Drexel pretende che il Kanuri sia particolarmente affine al Sumerico.
7. Gruppo nilotico. - In questo gruppo Drexel comprende, con L. Reinisch, H. Schuchardt e A. Trombetti, il Nuba, che Meinhof e Westermann considerano come sudanese.
8. Lingue bantuidi. - Presentano affissi di classe per il singolare e il plurale. Vi sono due gruppi, uno occidentale più vasto con parecchi sottogruppi e uno orientale meno esteso nel Kordofān. Stranamente Drexel ha ripreso l'antica ipotesi che il Pul sia lingua mista con elementi maleopolinesiaci, ipotesi che W. Schmidt molto giustamente rigetta. Giusto è invece ritenere con Drexel e W. Schmidt che le lingue bantu si siano formate nel NO. dell'Africa, donde avvennero migrazioni verso SE. Opinioni simili aveva espresso già A. Trombetti.
9. Hausa. - Generalmente considerato come camitico (Lepsius, Reinisch, Meinhof, Trombetti). Drexel troverebbe relazioni speciali con l'Assiro-Babilonese.
Le sintesi s'impongono e s'imporranno sempre più. Trombetti distingue nell'Africa soltanto due massimi gruppi, Bantu-Sudanese al S. e Camito-Semitico al N., e osserva che nella parte centrale e orientale è difficile tracciare confini precisi, poiché parecchi linguaggi sembrano essere realmente intermedî tra il Bantu e il Camitico tipici. In Elementi di Glottologia, Bologna 1923, egli diede la seguente classificazione delle lingue camitiche:
1. Camitico settentr.: Egizio, Berbero, Hausa, Muzuk, ecc.
2. Cuscitico:
a) basso: Begia, Afar-Saho, Somali e Galla;
b) alto: lingue Agau, lingue Sidama.
3. Nilotico:
a) nord: Nuba sett. e mer., Baria e Kunama;
b) sud: Dinka e Scilluk, Bari, Masai, ecc.
4. Camitico merid.: Sandawe, Mbulunge, Ufiomi, Ottentotto e Boscimano.
I sotto-gruppi 1° e 2° costituiscono il Camitico in senso ristretto, ossia il Camitico tipico (escluso lo Hausa, Muzuk, ecc.).
Il Nilotico fu distinto da Westermann in due sottogruppi, Nilotico-Sudanese e Nilotico-Camitico. Il primo si distingue in:
a) medio: Scilluk e dialetti;
b) basso: Dinka e Nuer;
c) alto: Mittu, Madi, Abaka, Luba, Wira, Lendu, Moru.
Il Nilotico-Camitico secondo Struck si distingue in:
a) Iraku, Ufiome, Uassi, Mulungu, Ungomvya;
b) Tatoga, Ndorobo, Nandi e lingue affini (Lumbwa, ecc.);
c) Bari, Masai, Kwafi, Ava, Ngisu, Elgumi.
Le rimanenti lingue africane appartengono secondo Trombetti al Bantu-Sudanese.
Recentemente M. Delafosse ci diede in Les langues du monde (Parigi 1924) una sintesi molto pregevole delle lingue negro-africane, la quale concorda in gran parte con quella di A. Trombetti. Riconosciuta l'unità fondamentale delle dette lingue, Delafosse le distribuisce in 17 gruppi, di cui uno è il Bantu. Gli altri 16 gruppi, comprendenti ben 455 idiomi, sono denominati con criterî geografici. (v. sudanesi, lingue).
In ultima analisi, secondo il Trombetti, i due massimi aggruppamenti, Bantu-Sudanese e Camito-Semitico, non sono altro che diramazioni di un unico tronco, onde si spiega la posizione intermedia, e perciò discussa, di molti linguaggi africani (Nuba, Dinka, Masai, Hausa, ecc.). Le condizioni linguistiche dell'Africa somigliano molto a quelle dell'America: o si stabilisce un unico gruppo da suddividere in molti sottogruppi, o si stabiliscono molti gruppi che inevitabilmente presto o tardi si devono ricondurre a unità.
Il Trombetti ha pure indagato le relazioni delle lingue africane con le lingue asioceaniche. Il Bantu-Sudanese ha maggiore affinità col Munda- Polinesiaco, il Camito-Semitico col Dravidico-Australiano; v. Elementi di Glottologia, pp. 194-198. Posteriormente, nell'articolo Le lingue dei Papua e gl'idiomi dell'Africa, pubblicato nella Festschrift in onore di C. Meinhof, egli ha voluto dimostrare più precisamente che le lingue africane a costruzione inversa (B-A) concordano in moltissimi elementi con le lingue papuane e affini che hanno la medesima costruzione; e nell'articolo I numerali africani e le loro corrispondenze extra-africane, pubblicato nella Festschrift in onore di W. Schmidt, ha inteso dimostrare che le rimanenti lingue africane a costruzione diretta (A-B) concordano mirabilmente con le lingue munda-polinesiache aventi, in generale, la medesima costruzione.
V., oltre ai più brevi articoli dedicati a lingue singole, gli articoli bantu; camitiche, lingue; sudanesi, lingue.
Bibl.: Per la bibliogr. oltre alle opere cit. v. W. Schmidt, Die Sprachfamilien und Sprachenkreise der Erde, Heidelberg 1926, pp. 56-63, 79-116.
Arte.
Generalità e limiti. - Nel trattare dell'arte figurata del continente africano, anzitutto è opportuno che siano fissati i limiti che ragionatamente s'impongono alla trattazione. Se si rivolge lo sguardo, complessivamente, a tutte le manifestazioni artistiche fiorite, dai più remoti tempi, in questa vasta terra in un succedersi complicato di civiltà, anche diversissime fra loro, e tra un continuo e impressionante movimento e mescolamento di razze o di popoli o di tribù, si rimane colpiti dalla diversità e dalla complessità di produzioni così numerose, sia in architettura, sia in pittura, sia in scultura, sia nell'arte cosiddetta ornamentale, che la possibilità di comprenderle in un unico quadro realmente ci sfugge o si dimostra non conseguibile. Le scoperte e gli studî più recenti nel campo dell'archeologia preistorica e riferentisi alla Rhodesia e all'Africa meridionale, hanno indotto molti scienziati alla supposizione che l'uomo primitivo sia d'origine africana; taluno poi, come il Péringuey (The Bushman as a Palaeolithic Man, in Transact. R. Soc. of South Afr., V, 1915), vedono precisamente negli attuali Boscimani i diretti discendenti di quell'uomo del paleolitico superiore che avrebbe lasciato chiare tracce di sé anche nell'Europa mediterranea. Certo si è che nell'Africa meridionale si sono rintracciati i più antichi manufatti dell'industria litica (p. es. nello Swaziland), e che nelle stesse contrade si incontrarono pitture e incisioni su roccia, già da tempo conosciute e non troppo antiche; le quali, mentre palesano un'arte molto sviluppata, ci sorprendono per la loro analogia con le figurazioni tracciate nelle caverne franco-cantabriche dell'età della renna. Né basta; anche nell'Africa settentrionale da tempo si stanno raccogliendo i prodotti di una ricca industria litica che rimonta al paleolitico e perdurando discende nell'età neolitica; dalla Tunisia al Marocco, sull'Atlante sahariano, numerosissime sono apparse le incisioni rupestri che, per spirito e forme, si collegano a quelle della penisola iberica, del cosiddetto epipaleolitico. Benché le pitture di territorio boscimano siano piuttosto recenti, e le incisioni algerine e sahariane siano in parte di discutibile antichità, possiamo peraltro scorgervi i riflessi dei due stadî primitivi della civiltà umana, indicatici dall'analisi comparativa. Alle vestigia neolitiche, già note, dell'Africa settentrionale, ora si possono aggiungere quelle delle coste della Guinea e gli avanzi megalitici del cosiddetto plateau nigérien verso il cuore del continente misterioso; sono luci improvvise, pallide ma assai preziose, che illuminano il vuoto, dovuto forse alle nostre conoscenze manchevoli per cause assai semplici d'ordine storico e fisico. Silenzio e mistero che incombevano sull'Africa "negra" fino a che le rovine medievali scoperte a Zimbabue in Rhodesia, le quali ci testimoniano un'attività architettonica forse del tutto africana, unica, non sono venute a corroborare con la loro positiva evidenza il ricordo di antichi imperi negri, vasti e potenti, come quello di Ghāna nel Sūdān, già antico nel sec. X dell'èra nostra, quando i viaggiatori arabi ne presero cognizione. Né questo di Ghāna fu il solo nel tempo e nello spazio, degli stati indigeni o negri, sorti nel Sūdān e sulle coste della Guinea; si ricordino quelli del Mali e del Songhai, dell'Ascianti e del Dahomey, fino a quello superstite ai nostri giorni di Benin, e fino a quelli rintracciati nel loro decadimento dagli esploratori europei nel bacino del Congo e nell'Uganda. Siffatto riferimento storico, in una trattazione dell'arte africana, non è superfluo, ma strettamente necessario; in quanto che proprio nelle regioni dove sorsero e fiorirono quei molti stati negri, espressioni politiche di una civiltà indigena in progresso, si trovano i prodotti artistici più pregevoli e più significativi, dal punto di vista dell'intensità di produzione, dell'abilità tecnica, dell'impronta spirituale di razza. Questi prodotti artistici sono nella massima parte recenti, dei nostri tempi; ma l'arte di Benin, come vedremo, risale al sec. XVI, ed è seguita da alcune opere d'arte del Congo e dell'Angola vecchie di due o tre secoli. Non basta; le ultime spedizioni scientifiche tedesche, capitanate dal Frobenius, hanno rivelato l'esistenza di manufatti artistici ancor più antichi, riferibili perfino al primo millennio avanti l'èra nostra, a Ife nel Yoruba, presso le sponde di quel Niger che ben vide molti potenti reami indigeni; in quella terra di Guinea dove l'arte scultoria tocca un alto grado di potenza espressiva e conta opere moderne che giustamente si ritengono come tarde o estreme rappresentanze di una cultura atlantica antica e possente. Si aggiungano poi le strane e mostruose statuette in steatite della Sierra Leone (Sherbro), ritenute preistoriche, che gli stessi indigeni possessori non sanno spiegare, e la cui antichità in ogni modo si perde nel buio dell'origine stessa del tipo.
È impossibile, per la mancanza di una documentazione continua, tracciare sia pure per sommi capi, un quadro dello sviluppo storico dell'arte africana. Le soluzioni di continuità sono troppe e gravi, e i perturbamenti prodotti dalle vicende storiche, con la penetrazione pacifica di elementi culturali stranieri o con la distruzione violenta, in seno allo sviluppo delle civiltà indigene d'Africa, sul sostanziale carattere di quasi tutti i popoli autoctoni, mobili nello spirito oltre ogni dire, sono stati così profondi, che non ci è dato, almeno finora, di rintracciare gli elementi sicuri e continui per l'abbozzo del quadro. Esistono per ora soltanto dei punti ben fermi e chiaramente significativi; è merito dell'indagine modernissima di averli messi in valore o di averne accresciuto il numero, soprattutto da quando nello studio delle civiltà africane, per merito principale di Leo Frobenius, è intervenuto il concetto che l'indagine doveva in special modo approfondirsi nel tempo. Per questo, ove si tentasse di abbozzare quel quadro, non si potrebbe trascurare quella che fu la più potente manifestazione artistica del continente africano, cioè l'arte egizia (v. egitto). Non poche analogie formali di oggetti d'uso e di armi, qualche elemento più intimo della produzione artistica, hanno fatto sì che sorgesse più o meno timida l'idea di un influsso dell'antica arte egiziana sull'arte negra, perfino nelle coste della Guinea e del Congo. I sostenitori di tale influsso, geograficamente possibile, e storicamente provato con la penetrazione di influenze egizie nell'interno del Sūdān, fino alla Costa d'Avorio (cfr. M. Delafosse, in L'Anthrop., XXI, 1900, p. 437 segg.), devono peraltro riconoscere la mancanza di prove monumentali da aggiungersi al debole sostegno offerto dalle terrecotte raccolte dal Frobenius nel Yoruba; debole, perché la rassomiglianza generica dei tipi statuarî, così come per le più recenti opere plastiche sudanesi e congolesi, potrebbe benissimo spiegarsi con il fenomeno delle coincidenze naturali. Se, dunque, è vero che bisogna procedere con infinita cautela nel trarre conclusioni da comparazioni formali, separate dal silenzio di millennî, quali quelli che si frappongono tra certi tipi statuarî dell'Egitto preistorico e storico e certe forme scultorie del Yoruba o del Congo; se, ad esempio, di fronte agli idoletti femminili in terracotta della necropoli copta di Karanogh sul Nilo, del sec. II-III d. C., ricordanti quelli dell'Egitto preistorico da una parte, e dall'altra le statuette congolesi, è meglio supporre con l'Anti (Scultura negra in Dedalo, I, 1921, p. 621) l'influsso di un substrato preistorico negro preesistente nella valle del Nilo; tuttavia un retaggio della più grande e splendida arte fiorita nel continente africano per millennî è tutt'altro che da escludersi. Così pure non può negarsi che nel Sūdān e nella Guinea siano penetrate influenze dall'antica civiltà nord-africana, la libica, che, dapprima contaminata dalla fenicia, poi più profondamente sulle coste dalla romana, per ultimo fu quasi sommersa dalla civiltà dell'Islām. Problemi, tutti questi, assai ardui, alla cui risoluzione solo una intensa e continua esplorazione archeologico-etnologica delle regioni africane meno note può apportare reali benefici.
Nella trattazione del problema dell'origine dell'arte negra possono qui esser comprese solo le manifestazioni artistiche più propriamente africane, perché dovute alle più antiche e autoctone razze dell'Africa, e perciò sono esclusi, oltre l'Egitto, gli Arabo-Berberi, e gli Etiopi, cioè gli Abissini con le altre popolazioni camitiche dell'Africa orientale. Con questo, poco vien trascurato, in quanto che, all'infuori dell'Abissinia dove l'arte pittorica con la miniatura ha raggiunto espressioni pregevoli, presso gli altri popoli sopra detti, in massima parte immigrati, l'arte, se nelle applicazioni ornamentali raggiunge gradi di sviluppo eccellenti, non ha peraltro prodotti tali da paragonarsi ad esempio alla prodigiosa produzione plastica, o meglio scultoria, dell'Africa occidentale, in ambiente sudanese-guineano e bantu. Qui, per l'appunto, nel grande arco formato dalle coste atlantiche che vanno dal Senegal alle foci del Cuanza nell'Angola, presso il Niger, e lungo il Congo con i suoi molti affluenti, si trovano le vere manifestazioni di arte africana, la vera arte negra, la quale soltanto da una ventina d'anni a questa parte gode il favore degli studiosi e del pubblico. Ora, se diamo uno sguardo complessivo alle grandi unità etniche che, in una infinita e impressionante varietà di tribù e sottotribù, compongono il mosaico vivo dell'Africa centro-meridionale (popoli Asande, Pigmei, Negri del Sūdān e della Guinea, Negri nilotici, Bantu dell'ovest e dell'est e del sud, Boscimano-Ottentotti), se si considera sinteticamente tutto ciò che di artistico vien prodotto, è da constatare anzitutto che nulla, o quasi, dal punto di vista estetico, abbiamo per l'architettura; pochissimo e di scarso significato per la pittura (eccettuato, s'intende, il fenomeno isolato di terra boscimana); il più è scultura. Scultura in legno nella grandissima maggioranza dei prodotti, talvolta di pregio veramente eccezionale; scultura anche in bronzo, in pietra, in avorio, in terracotta; scultura sia a tutto tondo, sia a rilievo, come fine a sé stessa o in decorazione di oggetti svariati. È dunque un indubbio senso estetico che si palesa fra le razze negre; il quale senso, pur traendo la sua prima o più forte inspirazione dalla religione, cioè dall'animismo e dal culto dei morti, dimostra tuttavia una precisa inclinazione al gusto e al culto dell'arte figurata. Ciò specialmente si nota nei popoli di razza bantu.
L'arte ornamentale. - Il grande e fondamentale patrimonio della scultura negra è costituito dalle statuette, in numero straordinario: siano feticci veri o no, idoli protettori di società segrete o di villaggi o di capanne o di persone, ritratti di antenati, o, infine, libere creazioni rappresentative. Ad esse vanno poi aggiunte le numerose ed originali maschere in uso nelle cerimonie delle società segrete e in altri riti di tribù. Se tale produzione risponde, per la massima parte, a esigenze del culto, non mancano tuttavia anche numerose opere, le quali sono emanazione di pura e semplice arte. Non si spiegherebbero altrimenti tutti gli oggetti lignei d'uso comune, della vita quotidiana, bellamente adorni di fregi e di figure, bastoni, tazze, bicchieri, sedili, sgabelli, stipiti o pilastri di capanne, poggiateste, e così via. Lo stesso istintivo senso d'arte ci è manifestato dai prodotti di altre industrie, la tessile e quella del fabbricante di stuoie e di panieri, nelle quali l'ornato non manca mai e si concreta in figure pregevolissime fra le tribù più inclini alla produzione artistica; ci è manifestato perfino dalla metallurgia, così in voga fra i popoli negri, veri artieri del ferro, con le strane ed eleganti forme di armi, coltelli da lancio e da sacrificio, pugnali, lance. Le tribù congolesi sembrano eccellere in questo genere di lavorazione, in cui spesso si notano misteriose reviviscenze di antichissime fogge egiziane. E talvolta perfino nei tatuaggi, o meglio nelle scarificazioni, è presente quel gusto d'arte; poiché in più di una tribù sono in voga sistemi ornativi assai complicati e vaghi, che spesso ripetono i motivi geometrici usati nell'intaglio del legno, nell'adornamento a ricamo dei tessuti di rafia, nell'arte della stuoia, nella lavorazione del cuoio. In particolar modo, a questo riguardo, spiccano alcuni popoli congolesi, come, ad esempio, i Batetela e i Bacuba, questi ultimi artisti egregi in tutto. Quest'arte ornamentale trae i suoi motivi dalla natura come tutte le arti primitive in genere; essa si manifesta dappertutto, fra le razze negre qui considerate, ma naturalmente con notevoli diversità di stile e di produttività. I tentativi fatti, specialmente dal Heydrich, di delimitare, per tutta l'Africa, le "provincie" artistico-ornamentali, sono utili per lo studio del fenomeno artistico, ma non possono avere effettivo valore. I materiali di cui disponiamo non sono anzitutto completi; inoltre la mobilità, materiale e spirituale, dei popoli africani, gli scambî intensi e continui fra razza e razza, fra tribù e tribù, la penetrazione di influenze culturali straniere, soprattutto asiatiche ed europee, l'azione sterilizzatrice prodotta dal diffondersi dell'islamismo, tutto ciò rende oltremodo difficile, se non impossibile, il lavoro di delimitazione. Ciò nonostante, qualche osservazione discriminante può farsi con sicurezza. Ad esempio, nella parte occidentale, tra il Niger e il Congo, e nei bacini di questi fiumi, si riscontra la più fervida e la più ricca delle attività ornative dell'Africa; sembra che ivi, specie fra certe popolazioni del Yoruba e del Camerun, dell'Ogouè e del Cassai, imperi veramente un prepotente istinto d'ornare. In queste provincie artistiche, privilegiate perché dentro i medesimi confini troviamo i più importanti e i più numerosi prodotti della statuaria negra, predominano i motivi biomorfi, siano tratti dalla figura umana o dall'animalesca; i quali poi si mescolano ai fitomorfi e ai puri geometrici, in schemi originalissimi e talora complicati, sempre elaborati da un innegabile senso estetico. Nelle tribù della costa, la mentalità artistica nativa mostra i perturbamenti prodotti dall'influenza straniera, specie sulle coste orientali, dove molti sono gli imprestiti dalla civiltà araba, persiana, europea, perfino indiana. Dunque, per ricchezza d'inventiva e di composizione, nell'arte ornamentale soprattutto primeggiano i popoli Bantu dell'occidente e i Negri della Guinea; infatti notiamo presso le tribù sudanesi, su cui ha più influito l'Islamismo, una indiscutibile semplicità e parsimonia di ornati, così come presso le tribù negre dell'alto Nilo. L'impiego della figura umana, tanto dal punto di vista ornamentale quanto dallo statuario, man mano che ci allontaniamo dalle regioni atlantiche fra Niger e Congo si va rarefacendo: è questo uno dei caratteri più salienti dell'arte africana. I molti popoli Bantu dell'est, comprese le tribù della regione dei grandi laghi, mostrano in generale la stessa mentalità dei loro compagni d'occidente; la figura umana è sempre fonte d'ispirazione, benché non così predominante come nell'ovest; l'ornamentazione in complesso è più semplice nei suoi elementi, meno elaborata negli schemi, più chiara. I Negri del mezzogiorno, Cafri, Beciuana, Matabele, Masciona, e in genere le tribù rivierasche dello Zambesi hanno ornati non troppo complicati, ma pieni di gusto e denotanti una matura esperienza artistica, che potrebbe anche interpretarsi per un residuo di più antica ed elevata cultura. Fra i popoli Beciuana, i Basuto primeggiano nello scolpire e incidere vasi, sgabelli e cucchiai di legno, e simili utensili, nell'ornare stoviglie e panieri, nel formare con l'argilla e ricavare dal legno anche statuette umane e animalesche, che peraltro non possono stare a confronto con i più abili e originali prodotti dei Bantu occidentali. Più poveri si mostrano gli Herero, o Damara, e gli Ovambo; poverissimi, fin quasi ad esser sforniti di talento ornativo, ci si presentano i popoli Pigmei, e le razze a tinta chiara dell'Africa australe, cioè gli Ottentotti e quei Boscimani, nel cui territorio invece si incontrano i più alti e interessanti prodotti di pittura su roccia. Più ci allontaniamo dalla regione delle grandi foreste, e più s'attenua e impallidisce l'innato spirito d'arte. I centri produttori, i focolari d'arte negra, che è possibile riconoscere e indicare, più attivi e più espressivi, sono dentro quei limiti: fra Niger e Congo, quasi. Sembra che il segreto del genio creativo africano riposi nella maestà e nel lusso della foresta equatoriale. Rarefacendosi questa, s'indebolisce quello.
Passando alle manifestazioni d'arte superiori, si può seguire quest'ordine: a) pitture e incisioni di terra boscimana; b) incisioni dell'Africa settentrionale e del Sahara algerino; c) monumenti d'arte più antica delle coste atlantiche; d) arte del Benin; e) scultura propriamente detta negra, fiorente dalla Guinea settentrionale al Cuanza e tra l'Atlantico e i grandi laghi equatoriali. Se non fossero poste in primo luogo le manifestazioni pittoriche boscimane, di tempi relativamente recenti o in ogni modo non troppo antiche, ne risulterebbe chiaro quasi un ordine cronologico; esso peraltro può sempre apparire, perché, sebbene non antiche, le pitture boscimane sono l'espressione di una mentalità artistica paragonabile a quella dei cacciatori della renna del paleolitico superiore dell'Europa occidentale.
La pittura dell'Africa meridionale. - Le pitture e i disegni attribuiti ai Boscimani, popolo così selvaggio e vivente in modo cosi primitivo, furon divulgati in Europa massimamente dopo l'esposizione inglese di Città del Capo del 1878. Da allora in poi i facsimili e le riproduzioni circolarono più facilmente anche fuori del campo della scienza etnografica; ma lo studio di tali ingenue manifestazioni d'arte primitiva si è avvantaggiato e ha preso maggior impulso dopo la scoperta e durante la continua rivelazione dell'arte paleolitica franco-cantabrica. Si tratta di figure, specialmente animalesche e umane, tracciate nell'arenaria e anche nella roccia dura con profonda incisione; ovvero dipinte, con l'uso fondamentale di quattro colori, rosso, nero, bianco, ocraceo, nell'interno e sulle pareti esterne delle caverne naturali, che in passato furono dimora delle bellicose tribù boscimane. Abbiamo rappresentazioni isolate, sia d'uomini, sia di animali proprî dell'Africa australe, buoi, quagga, antilopi, struzzi, e anche rettili, ma non mancano composizioni folte di figure, vere scene di caccia e di combattimento. Notissima da tempo è la Lotta fra Cafri e Boscimani intorno ad un armento, dipinta a quattro colori, senza piani prospettici, ma con felice visione realistica dei movimenti, in una grotta presso Wepener; la copia fattane dal Christol e dal Weitzecher è quella che ha reso celebre questo quadro di vita vissuta, in cui non è illogico scorgere un sentimento orgoglioso di razza, se riflettiamo alla esagerata sproporzione con cui sono raffigurati i piccoli e rossicci Boscimani di fronte ai grandi e neri Cafri. Altre notevoli pitture furono viste e copiate nella regione di Clanwilliam, nelle grotte di Bain's Kloof e di Brandewyn's River; un'importante serie di circa trecento rappresentazioni fu più recentemente studiata dallo Schweiger nei dirupi e nelle grotte dei fiumi Nriba (Kei-River) e Iracadu (White-River), pitture di piccole dimensioni, molto antiche e conservatissime perché riparate dalle intemperie, generalmente in colore rosso-bruno, e con numerose rappresentazioni umane. È importante ricordare che i Boscimani del Keiland furono distrutti dai conquistatori cafri nella prima metà del secolo XVIII. Altre importanti pitture sono state studiate dal Hall sulle montagne presso Bulawayo. Anche si ricordi che un antichissimo documento di questa arte, uno sfaldone di roccia coperto di pittura policroma con una movimentata scena di caccia, fu trovato fra la cenere di un abbandonato focolare di una caverna di Zaamen Komst, nel Griqualand orientale (cfr. Haugton, in Transact. of the Roy. Soc. South Afr., XIV, parte 3ª). Infine ricordiamo le incisioni o graffiti raccolti dallo Holub e recentemente pubblicati dallo Zelizko, nei quali sempre più stringenti si notano le affinità stilistiche con le incisioni aurignaziano-maddaleniane della Francia meridionale e della Cantabria.
In generale, in quest'arte dell'Africa meridionale, che qualche studioso ha pensato non prodotta dai Boscimani (ad es. il von Luschan), ciò che colpisce è la naturalezza con cui sono ritratti gli animali; talvolta la vivacità realistica è veramente singolare. Non è questo il solo tratto in comune con l'arte pittorica del paleolitico europeo; ma bisogna riconoscere che, sebbene le figure umane siano per lo più grossolanamente eseguite, con sproporzioni sorprendenti, con infantilità di esecuzione, la pittura boscimana supera nell'antropomorfismo quella delle caverne del puro maddaleniano. Viene così ad accostarsi maggiormente all'arte dell'epipaleolitico di Spagna; tanto più che in molte figurazioni africane non mancano i segni di una tendenza allo schematismo, a una specie di convenzionalismo ieratico. La ricerca per determinare una datazione più o meno precisa è oltremodo difficile, sì come vano riesce il tentativo di scorgere e definire varî periodi di quest'arte, che possiamo con sicurezza ritenere il prodotto di uomini di razza boscimana.
Le incisioni rupestri dell'Africa settentrionale. - Una certa analogia ci presentano le incisioni rupestri dell'Africa settentrionale segnalate già da tempo, ed ora illustrate con compiutezza dal Frobenius e dall'Obermaier, in seguito alle spedizioni scientifiche germaniche del 1910 e 1914. Dalla Tunisia al Marocco, e soprattutto in Algeria, sull'Atlante che separa dal Sahara le regioni costiere, spesseggiano grandi blocchi di calcare albiano e devonico, in cui la mano di uomini difficilmente definibili ha tracciato figure d'animali in grande quantità: leoni, elefanti, felini, struzzi, buoi, vacche, antilopi, bufali, cammelli, cavalli. La figura umana è scarsamente rappresentata, e per lo più nelle incisioni meno antiche, con grossolano schematismo. Qualche tratto di felice realismo pur si nota, come ad esempio in una lotta fra bufali (Er Richa, Oranese), in un cinghiale abbattuto da un leopardo (Kef Messouier, Guelma algerino); ma generalmente queste incisioni algerino-sahariane sono piuttosto schematiche; se naturalistiche, assai semplici; si avvicinano maggiormente all'arte del paleolitico finale della Spagna. Ragionevolmente, le più antiche fra esse possono riferirsi alla civiltà detta capsiana. Se ne hanno certo di due epoche diverse; le più recenti, schematicissime sgraffiature, sono dovute a tribù berbere arabizzate; altre più antiche sono d'epoca storica, posteriori anche all' impero romano, libico-berbere. Le più belle, dal punto di vista dello stile e dell'esecuzione, sono le più antiche; la base per il riconoscimento dell'età è offerta dalla patina che il tempo ha steso, apparentemente identica, nel solco e sulla parete rocciosa circostante. I gruppi più importanti sono nella valle dell'Uadi Safsaf, presso Géryville, presso Guelma; verso la frontiera marocchina, nel territorio di Beni Guill, di Beni Smir (Djattou), dell'Uadi Ghilane; sulla catena dell'Atlante, nella valle di Taghit, sul Gebel Magtouba, presso Ain Gudeja, El Korema, Ksar Amar, ecc. Unico esempio di pitture su roccia, nell'Africa settentrionale, si ha nella grotta d'In-Ezzan, nel Sahara centrale, con figure umane assai schematiche, animali erbivori e cavalli, che in parte possono riferirsi ad età antica (cfr. in L'Anthrop., 1926, pp. 409-427). Anche nel Sfiddn francese, in una grotta a Kita, si hanno schematiche figure d'animali dipinte, d'incerta attribuzione cronologica.
La scultura: monumenti arcaici e arte del Benin. — La scultura negra, rappresentata da lavori in argilla, in bronzo, in avorio, e soprattutto in legno, ha una storia secolare, non priva di punti luminosi. Dopo la distruzione dell'antico reame di Benin (v.), avvenuta per opera di una spedizione militare inglese nel 1897, i musei etnografici, soprattutto quelli di Londra e di Berlino, accolsero i prodotti di un'arte fino allora sconosciuta e che stupì il mondo europeo. Bronzi fusi e cesellati con una perfetta maestria di tecnica, avori lavorati con finezza singolare, legni scolpiti, si rivelarono subito per prodotti risalenti a qualche secolo anteriore, testimonianze di una attività artistica con tradizioni certo antiche, per quanto perfezionatasi col contatto della civiltà europea. Ma di antichissimo fino allora non si conoscevano se non le strane figurette di steatite della Sierra Leone, dette Numori, di cui si è già detto in principio. Considerate dai Mendi come talismani o portafortuna, misteriose nella loro origine, ritrovate in caverne abbandonate dall'uomo, queste statuette di piccole dimensioni riproducono esseri mostruosi, accosciati, dalla grossa testa con tratti bestiali, che non si lasciano accostare ad alcun tipo umano vivente sul continente africano. Ma oggi, in virtù delle esplorazioni tedesche, iniziatesi nel 1904 e continuatesi più intensamente nel 1910, si posseggono documenti artistici di una cultura «atlantica» fiorita anche prima dell'èra cristiana nell'Africa occidentale, sulle coste della Guinea. Come il Frobenius ritrovò negli strati più profondi di un tumulo sepolcrale, eretto verso il 1000, un sonaglio di bronzo fuso, che dimostrerebbe quanto antica sia la pratica della metallurgia africana, anzi della lavorazione del bronzo che in Benin trovò poi un centro di primaria importanza; così il medesimo esploratore, negli scavi eseguiti sul luogo dell'antica Ife, nel Yoruba, raccolse parecchi esemplari di arte plastica, e un singolare prodotto metallurgico. Trattasi di piccole teste di terracotta, teste-ritratti di Negri modellate con nobilissimo stile e con straordinaria vivezza; più un gruppetto fantastico di terracotta, e una testa-ritratto diademata di metallo giallo fuso ed eseguita con la tecnica a cera perduta (il dio del mare, Olokun). Queste preziose reliquie sono state datate dal Frobenius al primo millennio a. C; ancorché non si accetti tale attribuzione, è certo che esse testimoniano una fioritura d'arte antica tra il Niger e l'Atlantico, in quella medesima terra del Yoruba, dove molti prodotti recenti sembrano contenere i riflessi di una lunga tradizione d'arte (p. es. la scultura in legno detta Il fondatore d'imperi). in quella medesima regione dove esistettero fiorenti stati indigeni, nel Dahomey e nel paese degli Ascianti, uno dei quali, Benin, sopravvive nelle sue mirabili creazioni artistiche.
Le collezioni di Londra e di Berlino non sono le sole, benché siano le maggiori; altre serie di oggetti d'arte di Benin trovansi a Stoccarda e ad Amburgo. In Italia non si conserva alcun prodotto di metallotecnica; ma in più di una pubblica collezione esistono avori scolpiti (cfr. Pettazzoni, in Boll. d'arte, V-VI, 1911-1912), così come ne esistono sparsi in varie città europee.
In quest'arte di Benin due sono le categorie di oggetti che primeggiano: i bronzi lavorati secondo la fusione a cera perduta e gli avori scolpiti. I primi comprendono statue a tutto tondo (personaggi, animali — galli, pantere, rettili, — teste di Negri), e piastre ornamentali con figure in altorilievo e con lo sfondo decorato a bulino. Gli avori comprendono corni tratti dalle zanne d'elefante, finemente ricoperti d'intagli; calici o coppe, di strana forma, col recipiente globoso per lo più montato su base traforata o su sostegno conico; cucchiai dagli elegantissimi manichi terminanti con figure animalesche. Le zanne d'elefante sono talora grandissime; l'ornamentazione, eseguita col taglio e con l'incisione, comprende figurette mostruose o fantastiche e umane, di indigeni e di Europei, e inoltre sistemi complicati ed eleganti di linee intrecciate. Per lo più questi corni terminano in punta con una testina umana, spesso barbuta; essi hanno sempre l'imboccatura laterale. Con lo stesso stile e con la stessa unione di elementi geometrici e figurati sono decorati i calici. Ma il più alto grado di perfezione, sia dal punto di vista tecnico sia da quello dell'invenzione artistica, è raggiunto dai bronzi. Le statue isolate e le teste umane a tutto tondo possono rappresentare ritratti di re o di capi, ovvero sono sculture funerarie. In questo gruppo sono notevoli alcune figure a cavallo, nelle quali la sproporzione fra uomo ed animale annulla il realismo della rappresentazione; in esso, poi, si possono comprendere numerose altre opere a tutto tondo o isolate e oggetti minuti, come vasi, sgabelli, braccialetti, anelli da piede, scettri, scudi e simili, nei quali si avverte sempre la stessa tecnica, lo stesso spirito informatore, armonioso e originale. Ma il capolavoro della metallurgia di Benin, in questo genere, è certo la cosiddetta Fanciulla dei coralli del Museo Britannico, una deliziosa testa-ritratto, forse di principessa. Purissima di stile, improntata ad un sano realismo che riproduce le caratteristiche fisiche della razza quasi idealmente, di una straordinaria levigatezza e semplicità formale, essa è affascinante e piena di grazia, e può annoverarsi fra le più espressive e nobili opere d'arte d'ogni tempo e d'ogni luogo.
Le numerose e belle piastre, o placche ornamentali, di non grandi dimensioni, anch'esse ottenute con la perfetta fusione del bronzo a cera perduta, servivano certo a scopo ornamentale; sembra ch'esse decorassero i pilastri e i muri della reggia. Rettangolari o quadrate, esse portano figure ora isolate, ora accoppiate, ora più numerose e componenti una scena; le figure rappresentano per lo più tipi indigeni, con caschi dalle forme bizzarre, armature complete, oggetti d'abbigliamento sia uomini sia donne. Caratteristiche sono le collane di perle in più fili, ricoprenti tutto il collo e il mento, fino alla bocca. Si ha in queste figurazioni una preziosa documentazione dei costumi indigeni del tempo. Non mancano anche piastre con figure d'animali, come pantere, coccodrilli, serpenti, rettili vari; né altre con figure di Europei, Portoghesi od Olandesi, vestiti e armati secondo il costume proprio dei secoli XVI-XVII. Contemporanee certo delle figure indigene, queste rappresentazioni sono un prezioso mezzo per la datazione. Le piastre che, come s'è detto, hanno per lo più il fondo ornato di fini incisioni, sono anche adorne ai quattro angoli di particolari motivi ripetuti: stelle, rosette, figurette animalesche, ecc.
Paragonati da alcuni nientemeno che alle opere di un Cellini, questi bronzi di Benin sono invero degni d'alta ammirazione; l'arte ch'essi, insieme con gli avori, rivelano, è un'arte essenzialmente africana. Difficile sarebbe stabilire se quest'arte di Benin sia sorta spontaneamente sulle rive del Niger, e quali correnti di civiltà straniere possano aver confluito nella sua formazione. Il grande numero dei manufatti e la loro varietà indicano un movimentato fenomeno artistico, che non può essere il prodotto iniziale del fortuito soggiorno di uno straniero. Da molti studiosi furono affacciate anche ipotesi ardite sulla sua origine; si sono supposte perfino influenze fenicie, assire, indiane. Non è invece da escludersi un influsso del Rinascimento europeo che, pel tramite dei navigatori portoghesi, venuti per primi a contatto col feudale reame negro, avrebbe sospinto gli artisti indigeni a perfezionare soprattutto la tecnica. L'arte di Benin evidentemente, verso i secoli XVI-XVII, tocca il suo apogeo; è logico supporre un tirocinio anteriore. Ad assicurare la sua sostanza africana più d'un fatto interviene; e come gli indigeni attuali del Yoruba e altrove sanno produrre ancora opere perfette in metallotecnica (cfr. Staudinger, in Zeitschr. f. Ethnol., XXVIII, 1896, p. 224; ibid., XLI, 1909, p. 855 segg.; H. Balfour, in Journ. Anthrop. Inst., XL, 1910, p. 525 segg.)`; e come il processo tecnico a cera perduta è ancora praticato in Guinea, specie fra gli Ascianti, così lo stesso spirito dell'arte di Benin si continua in opere scultorie più recenti della Nigeria, e financo fra i Bacuba del Congo.
La scultura negra dal Niger al Cuanza. — Fino ai primi anni del secolo volgente non si era posta grande attenzione all'importanza che nel campo dell'arte figurata assumono i prodotti scultori dell'Africa occidentale. Più sopra è stato detto come i limiti del fenomeno, rivelatore di una non comune sensibilità plastica, basata sul predominio della figura umana, sieno quasi gli stessi della grande foresta equatoriale. Legno e avorio, soprattutto il durissimo legno della foresta, sono i materiali preferiti per l'estrinsecazione di quella sensibilità negra. La scultura dei negri della Nigeria, del Camerun, del Gabon, del Congo, dell'Angola, gode più rinomanza ed è divenuta oggetto di studi frequenti dopo l'esaltazione, anche esagerata, fattane dagli artisti post-impressionisti di Francia. Le pubblicazioni, finora fatte, degl'innumerevoli pezzi conservati in pubblici musei e in collezioni private, più che le trattazioni, ancora troppo inorganiche e varie, ci permettono non solo di comprendere l'entità del fenomeno africano, ma anche di fissare nello spazio le svariate manifestazioni plastiche, lasciando facilmente scorgere i centri operosi più netti ed espressivi e, in certo qual modo, il persistere di un'attività che è certo dovuta a parecchie generazioni di uomini. Ma cause assai varie, come la straordinaria mobilità dell'anima negra, le vicende tumultuose della storia, la speciale organizzazione sociale o politica, l'intervento deciso della civiltà europea, forse non permetteranno mai allo studioso di tracciare, non diciamo una storia dell'arte negra, ma di indicare con qualche precisione o verosimiglianza tutte le scuole o gli stili. Alcuni centri irradianti ben determinati, tuttavia, si possono additare: la Costa d'Avorio, la terra di Yoruba e del Dahomey, il Camerun, l'Ogoué; e, nell'ampio bacino del Congo, il Maiumba, la regione del Cassai-Sankuru, la regione presso il Tanganica. Benché in apparenza tutti i prodotti di scultura dell'Africa negra sembrino assumere un'aria di famiglia che li identifica, è facile scorgere fra essi notevoli differenze di stile. Ma, a far sì che la scultura negra appaia quasi monotona nella grande massa delle sue espressioni, contribuisce la fonte unica d'ispirazione che è la religiosa. L'antropomorfismo rappresentativo delle forme, a servizio della religione animistica propria delle popolazioni africane, si fissa quasi necessariamente in una serie di tipi determinati che si allontanano a poco a poco dalla realtà, per assurgere dove più e dove meno, secondo l'anima particolare degli artisti e della razza di cui sono emanazione, ad una stilizzazione che diviene caratteristica. Il repertorio degl'idoletti esprimenti le forze naturali, o consacrati al loro culto, è poco variato. Più feconda e più libera si manifesta l'invenzione dell'artista nella serie delle statuette funerarie, sieno ritratti più o meno propri, siano semplici forme commemorative legate al culto degli antenati. Si guardino queste statuette funerarie d'ogni regione, e in tutte si troverà una espressione bonaria, una riuscita impronta di dolcezza e di calma interiore, che sono sicuro indizio dell'affettuosità onde nacquero e della protezione, forse, che i discendenti richiedono allo spirito del defunto in esse racchiuso. I tipi diversi che pur si riscontrano fra le popolazioni produttrici, nonostante la varietà di aspetti dovuta a cause materiali e alla maggiore o minore potenzialità artistica delle tribù, hanno però tutti quella suprema espressione: in alcune opere frutto d'arte più matura o di più potente genialità, essa è così forte che riesce a commuovere anche noi Europei.
Anche maggiore varietà di tipi si trova negli oggetti scolpiti, non statuari, ma legati alle pratiche religiose, sieno magiche più propriamente, sieno cerimoniali in genere: vasi da libazione, bastoni sacerdotali o scettri di capi-stregoni, tamburi e strumenti musicali sacri, pipe da cerimonia, pilastrini, stipiti, e simili. In alcuni esemplari di cosiffatta suppellettile, specie quando l'ornamentazione abbandona le forme antropomorfe, la fecondità e la libertà dell'invenzione appaiono più intense, come pure negli oggetti creati a puro scopo lusorio, i quali non mancano, o in quelli della vita comune. Più sorprendente è la varietà che si riscontra nelle maschere, il qual genere costituisce una delle più originali manifestazioni dell'arte africana. Molteplici gli aspetti, esuberante l'inventiva costruttrice di questi strumenti, indispensabili alla fervida vita delle numerose società segrete che tanta parte hanno nella vita delle popolazioni negre. Usate in cerimonie speciali, nelle danze rituali, e, fuori della cerchia delle società segrete, in fatti salienti della vita della tribù, esse ci colpiscono con la molteplicità delle forme, con la potenza di certe loro espressioni, con la solidità, e talora la stranezza, delle composizioni. I centri artistici più importanti, e precisamente quelli già nominati e che spiccano per fervore di attività, sono anche quelli che producono le maschere più attraenti. Accanto a modelli scialbi e inespressivi, come quelli di alcune tribù nilotiche (Bari, Dinca, ecc.), si hanno forti rappresentazioni realistiche, ingegnose elaborazioni di aspetti animaleschi, composizioni d'aspetto cubista, interpretazioni audaci delle masse e dei piani del viso umano, stilizzazioni della forma reale originalissime, espressioni di morte o di sonno, di vita corrucciata o di ebetismo, tra grottesche e mostruose. Tutto rivela una straordinaria facoltà d' immaginazione e, insieme, una non comune abilità di esecuzione. Le maschere più interessanti provengono dalla Costa d'Avorio, dal Camerun, dall'Ogoué, dal Cassai-Sankuru, dal Cuango, dal Loango; le tribù dei Dualla e dei Bakviri, dei Fan e dei Bavili, dei Baiaca e dei Bakuba e Baluba, dei Varua, o Urua, primeggiano con pezzi di primissimo ordine, nei quali spesso l'opera della scultura è completata e resa più efficace dalla pittura.
La scultura negra, tanto lignea quanto in avorio o, più raramente, in argilla, è generalmente di piccole dimensioni. Rare sono le statue che sorpassano i cinquanta centimetri, numerose quelle di pochi centimetri. Le più grandi dimensioni, non mai a grandezza naturale, sono raggiunte dalle curiose statue «chiodate», dai feticci per esorcismi, che abbondano fra le tribù costiere del Loango e del Congo; ad esempio tra i Maiumba, la cui arte in generale ha maggior tendenza al realismo. Piccolissime, ad esempio, sono le figurette d'avorio, dette mzimu, dei rivieraschi del Tanganica. La figura umana, sia maschile sia femminile, prevale di gran lunga; non mancano rappresentazioni animalesche, anche fuori della cerchia dei popoli diretti eredi dell'arte di Benin. Nel basso Congo e nel Cassai frequenti sono le figurette di elefanti, cani, scimpanzé, anche di uccelli, ma per lo più schematizzate o semplificate; è raro, s'intende all'infuori della realistica arte di Benin, trovare atteggiamenti naturalisticamente vivaci come in una minuscola scimmietta dei Maiumba, conservata nel museo etnografico Pigorini di Roma. La figura umana, qual'è trattata dagli artisti negri, appare principalmente in due pose: accosciata e stante. Ma per lo più, quand'è stante, si presenta con una caratteristica posa delle gambe, rattrappite o piegate alle ginocchia, quasi sempre poi sproporzionate al tronco. Si è voluto, in tale strano atteggiamento, riconoscere una ispirazione provenuta dall'aspetto fisico dei Pigmei, i primi abitatori delle foreste, i quali nella mentalità dei Negri avrebbero assunto quasi la forma di geni, originando così la tradizione del tipo. Ma non sempre a quella sproporzione si ac-compagna, nelle statuette della Guinea e del Congo, una testa grossa e quasi bestiale; inoltre altri particolari, chiaramente derivati da caratteri etnici, fanno escludere quella derivazione pigmaica. Dall'esame dei vari prodotti, qualunque sia il centro artistico, si rilevano molti elementi che potrebbero chiamarsi comuni, o fondamentali, a tutta la statuaria negra, e in parte anche ad ogni arte primitiva. Oltre al naturalismo d'espressione, si nota la tendenza all'esagerazione delle linee predominanti, che può spingersi fino alla caricatura; oltre all'altra principale tendenza alla semplificazione, specie delle masse, si nota l'impero di quella ben nota legge, sovrana nelle arti primitive, che è la frontalità. Inoltre, gli statuari negri si mostrano quasi sempre alieni dal rifinire, trascurando le minuzie rappresentative per darci spesso una visione sintetica della forma con ardite scomposizioni, con esagerate sensibilità dei volumi; se una preoccupazione esiste e si concreta, essa sta nella quasi costante accentuazione degli organi più delicati e relativi alle funzioni vitali, generatrici (genitali, seni, ombelico). Talvolta questa preoccupazione arriva a manifestazioni grottesche od oscene. Non è affatto comune trovare, fra l'innumerevole produzione statuaria, figure singolarissime come quelle provenienti dal Gabon, dall'Ogoué: immagini geometrizzate in legno, rivestito di ottone, che venivano deposte sulle casse conservanti feticci. Furono oggetto di ammirazione esagerata da parte di artisti futuristi per la loro sintetica stilizzazione, derivante certo da uno schema disegnativo e poi ritagliato; ma esse non rappresentano la vera sensibilità degli artisti negri. I quali, benché anonimi, spesso si rivelano nella loro personalità, con opere che spiccano tra la massa degli idoletti femminili che raffigurano la Terra feconda o madre, sprizzantesi i seni o col bambino sulle ginocchia; degli idoletti protettori o usabili per pratiche magiche; delle innumeri figurette d'antenati. Generalmente nelle figure scolpite di questi artisti, più nobili benché anonimi, è contenuto un vigore intimo, che non potrebbe soltanto spiegarsi con la durezza della materia usata. Più sopra, e più di una volta, sono stati nominati i principali centri di produzione, veri e propri focolari che accusano un'individualità sia nelle concezioni, sia nelle pratiche attuazioni. La Costa d'Avorio, ad es., spicca per solidità di costruzioni, per ricchezza di inventiva, per vivacità di atteggiamenti; nel Yoruba e nel Dahomey e nel Togo, si nota una forza stilistica che non può staccarsi dalla tradizione artistica di Benin; le tribù produttrici d'arte del Camerun rivelano spiccate tendenze realistiche e preferenze per il movimento, unitamente ad espressioni ardite; i Fan e gli Ossieba, soprattutto i primi, sono inclini a severità di stile e a semplicità d'ideazione; i Bavili del Loango tendono a forme massicce, rudemente squadrate; le tribù costiere del Congo, specie i Maiumba, mostrano una più forte tendenza al realismo, con varietà di manifestazioni, che li porta a scolpire delicate opere, piene di morbidezza, come una Dea-madre allattante del museo etnografico Pigorini, accanto ad altre numerose figure dai tratti volgari. Il bacino del Congo, con i suoi molti affluenti, dove tribù e tribù si affollano e si sovrappongono, presenta da solo un'impressionante varietà, una ricchezza senza pari. Dei Maiumba s'è detto; oscillanti fra tendenze realistiche e idealismi formali appaiono le opere delle tribù circostanti a Stanley-Pool: Basundi, Babuendi, Bacongo, Bateche; più infantili e meno fecondi sono i popoli stanziati sull' Ubanghi - Dua e sull'Uelle - Bomu. Anzi, più si risalgono questi fiumi, spingendosi verso la terra degli Azande, più si nota la rarefazione o lo scadimento della rappresentazione antropomorfa. Fertilissimo di prodotti è invece il bacino del Cassai, fino alla regione di Lunda e alle coste dove sfocia il Cuanza, nell'Angola. I Baiaca del Cuango, e anche i Chioco, si mostrano fantasiosi nelle loro ricche sculture spesso policromate; ma un posto eminente è tenuto dalle tribù di razza Bacuba, primi i Busciongo, e di razza Baluba. Si distinguono esse per un'arte austera, tranquilla, in cui spesso prevale una stilizzazione che è frutto di lunga esperienza tecnica, oltre che di profondità spirituale. Nell'arte dei Busciongo, accanto a quella di Benin, si trovano statue isolate, commemorative, le quali per potenza di stile e per sentimento ritrattistico, vanno contate fra i migliori lavori di scultura negra. Sono le quattro statue di legno, raffiguranti, come si crede, quattro re dei Busciongo : Sciamba Bolongongo, vissuto verso il 1600; Miscia Pelenghe, Bope Pelenghe I e Kata Mbula, fioriti fra il 1776 e il 181o. Queste ultime tre furono eseguite da un medesimo artista; superiore senza dubbio è la prima, piena di vigore e di maestà. Ritenuta opera contemporanea del capo raffigurato, essa costituirebbe un prezioso anello di congiunzione fra l'antica arte di Nigeria e la più moderna arte Bakuba.
L' antichità della tradizione d'arte nelle regioni bagnate dal Congo e dal Cuanza è anche attestata dai due idoletti detti di Vallisnieri, conservati nel museo Pigorini in Roma; rappresentano la dea Terra feconda, nella caratteristica posa di comprimersi i seni, in forma stranamente stilizzata. Portati in Italia dal Portogallo, dove alla lor volta erano giunti dal paese dei Bamba, sul finire del sec. XVII, possono ritenersi fabbricati verso la metà di questo secolo, se non prima.
La regione fra il Lualaba e i grandi laghi equatoriali è una delle più ricche di sculture, specie nella terra del Maniema. Vi primeggiano gli Urua con un'arte vigorosa, ondeggiante fra rigidezze stilistiche e movimenti realistici, spesso dinamica, non priva di affinità con quella dei Bakuba; certo matura arte con una tradizione propria. Anche i Caiumba, gli Ugoma, e i Marungu fra il Tanganica e il Moero, hanno opere eccellenti che rientrano nella cerchia di quest'arte dell'alto Congo, quasi sui limiti orientali della grande foresta.
Concludendo, i dati fondamentali per stabilire una visione della scultura negra, non foss'altro che sotto il rispetto cronologico, non mancano: figurette in steatite della Sierra Leone, teste in terracotta del Yoruba, arte di Benin, idoletti Vallisnieri dei Bamba, statue-ritratti dei capi Busciongo. Più ardua, se non impossibile, riesce la ricerca del tramite che risalirebbe alla fioritura dell'antico Egitto; per compierla con qualche successo occorre che sia maggiormente rivelato il substrato negro preistorico. È anche difficile trarre conclusioni troppo positive circa analogie generiche fra le manifestazioni artistiche africane e quelle dell'Oceania, benché senza dubbio esistano concordanze notevoli fra la civiltà dei Negri d'Africa e la cultura melanesio-polinesiana.
Nonostante la varietà e la molteplicità dei prodotti, il campo dell'arte africana è limitato. Le cause di questa sua limitazione, sia dal punto di vista dell'inspirazione, sia delle forme praticate, sono chiare: contenuto e significato magico-religioso, ragioni d'indole fisica, psichica, e storica. «Nulla di possente, che riveli una forza creatrice eccessiva» - scrive l'Hardy - in quest'arte «animistica» negra. È forse vero, anche se si riflette sul momento segnato da Benin. Ma è anche indubitabile che, dalle opere di pregio non comune che si sono segnalate, scaturisce la miglior prova di un innato e prepotente senso d'arte, di una genialità fresca, spontanea, che trova anzitutto la sua ragion d'essere nello straordinario sviluppo delle facoltà sensuali presso i Negri. E le altre manifestazioni estetiche, fuori del campo ristretto all'arte figurata, ne sono la riprova. Il diffondersi e l'intensificarsi di influssi stranieri, prima arabo-islamitici, e poi soprattutto europei, han prodotto danno irreparabile al libero svolgimento di quest'arte primitiva, la quale ha pure tradizioni secolari, e sforzi di miglioramento, con momenti felici, degni di ammirazione e di studio.
Ridotta, oggi, alla ripetizione industriale di tipi e motivi tradizionali, senza più la vivezza e la ragione essenziale del sentimento, l'arte negra può dirsi tramontata (v. tavv. CXXXVII-CXLII).
BIBL.: In generale: L. Frobenius, Das unbekannte Afrika, Monaco 1923; H. Kúhn, Die Kunst der Primitiven, Monaco 1923; E. von Sydow, Die Kunst der Naturviilker, ecc., Berlino 1923. Arte ornamentale: M. Heydrich, Afrikanische Ornamentik, ecc., in Intern. Arch. f. Ethnogr., 1914, Suppl. al vol. XXII; L. Frobenius, Ursprung d. afrikan. Kulturen, Berlino 1898; P.-C. Lepage, La Décoration primitive, Parigi 1925. Pitture boscimane: H. Tongue, Bushman paintings, Oxford 1909; 0. Moszeik, Die Malereien d. Buschmanner in S. A., Berlino 1910; Fr. Christol, L'Art dans l' Afrique austr., Parigi 1911; M. A. Schweiger, Neuentdeckte Buschmannmaler., ecc., in Anthropos, 1913, pp. 652-669, 1010- '025; J. V, Zelizko, Felsgravierung d. siidafr. Buschm., ecc., Lipsia 1925. Incisioni nord-africane: E.-F. Gautier, Nouvelles stations, ecc., in L'Anthropologie, 1916, p- 27 segg ; L. Frobenius-H. Obermaier, Hddschra Maktuba, ecc., Monaco 1925. Idoli « Sherbro o: L. Riitymeier, Cb. zvestafrik. Steinidole, in Int. Arch. fiir Ethnogr., XIV (19o1), pp. 195-215. Arte di Benin: C. H. Read-O. M. Dalton, Antiquities from the city of Benin, ecc., Londra 1899; Pitt Rivers, Antique works of art from B., [Londra] 1900; R. Pettazzoni, Avori scolpiti afric., ecc., in Boll. d'arte, 1911, p. 338; 1912, pp. 56 e 147; F. von Luschan, Die Altertilmer von Benin, Berlino 1919, voll. 3. Arte negra in generale: G. Hardy, L'Art nègre, Parigi 1927. Scultura : H. Clouzot - A. Level, L' art nigre et l' art océanien, Parigi 1919; C. Einstein, Negerplastik, 2a ed., Monaco 1920; id., Afrikan. Plastik, Berlino 1921 (traduz. francese, Parigi 1922, e italiana in Valori Plastici, s. a.). Scultura congolese: Annales du Musée du Congo, Bruxelles 1906-1911; C. Anti, Scultura negra in Dedalo, 1921, fase. 90; U. Antonielli, in La Terra e la Vita, 1922, fase. 10°. U. An.
MUSICA.
Qui si vuol trattare, e brevemente, della musica dei Negri, dell'Africa. Per notizie intorno alla musica dei due popoli del continente africano che ebbero un'antica civiltà, Egiziani e Arabi, rimandiamo alle voci EGITTO e ARABIA; alla v. ETIOPIA per notizie sommarie sulla musica delle popolazioni di quell'impero, che se non ebbe mai una civiltà da potersi avvicinare a quelle egiziana ed araba ha, però, prodotto espressioni estetiche sufficienti a meritare menzione particolare.
La trattazione dell'argomento non è agevole; non solo perché è scarso il numero degli scrittori che se ne sono occupati, e delle opere da cui trarre notizie o giudizi: ma anche perché le considerazioni di questi scrittori musicologi fantasiosi o viaggiatori, esploratori, missionari, per lo più privi di cognizioni musicali sono spesso di dubbio valore.
Dubbia è poi la stessa notazione delle melodie, vocali o strumentali, quando non sia stata fatta da un musicologo esperto e scrupoloso come il Tiersot e ancora scarsissimo il materiale fonografico raccolto direttamente.
Restano gli strumenti. E sono in verità numerosi, e ne sono in generale ben provvisti i principali musei etnografici europei: in Italia posseggono notevole numero di vari strumenti esotici, anche africani, parecchi musei quali p. es. il Museo del Conservatorio di Milano (ora al Museo della Scala), quello del Conservatorio di Firenze, e il Museo Bòttego di Parma. Ma gli strumenti non valgono a dare un'idea adeguata della musica del popolo che li usa: prima, perché soltanto conoscendone bene l'uso e le risorse si può giudicare della possibile estensione ed importanza della musica per essi esprimibile, mentre noi conosciamo poco e male l'uso e le risorse degli strumenti esotici: e poi perché data la materia di cui sono costruiti — legno, fibre vegetali o animali — materia deperibile per l'azione del tempo e di climi non propri, gli istrumenti esotici dei nostri musei non sono molte volte, che corpi disseccati, ombre di organismi non più vivi. In ogni modo, però, quanto di meglio si è detto sulla musica esotica è, forse per ora, negli studi sugli strumenti musicali: tra i quali, notevolissimi, benché non riguardino in modo speciale la materia di cui si tratta, quelli del Hornbestel e di Curt Sachs.
Fra quelle opere che s'è detto, di musicologi forniti più di fantasia che di preparazione scientifica e di metodo, son forse da annoverare, nonostante le acute e preziose osservazioni, anche quei saggi che sulla musica dell'Egitto e paesi limitrofi pubblicò, fra il 1809 e il '26 il Villoteau, uno degli esperti condotto da Napoleone in Egitto nel 1798. Per buona parte fantastiche sono naturalmente le notizie della Musurgia universalis del Padre Kircher (1650) e di opere analoghe. Fra le dubbie notazioni di melodie sono poi da comprendere le Mélodies malgaches del P. Colin (1899), uno dei pochi documenti che possediamo per lo studio della musica malgascia, oltre le trascrizioni troppo europeizzate, contenute nel volume del Burchel (Travels in the Interior of Southern Africa,1822-24).
Anche gli indigeni dell'Africa, come tutti i popoli della terra, hanno una musica vocale ed una musica strumentale: e , come quella di tutti i popoli primitivi, la loro musica non esiste quasi mai come espressione disinteressata dell'intimo, tanto più raramente quanto minore è il grado di civiltà, di cultura di chi l'ha concepita, ma è accompagnamento di riti religiosi o famigliari o guerreschi: spesso, specialmente nell'ultimo caso, più rumore che suono.
Non occorre un lungo studio della musica negra dell'Africa per dimostrare chiaramente che, al contrario di quel che suppongono molti Europei - i quali se pensano all'Oriente e ai paesi tropicali, pensano paesi magici e popolazioni di sensibilità acuta e squisita e immaginano una musica ondeggiante fra ardore e languore, più sottile e misteriosa della nostra, e cromatica o addirittura a quarti di tono - la musica dei Negri dell'Africa è invece tutta diatonica, soltanto diatonica : non solo non v'è traccia di cromatismo, ma non v'è nemmeno ombra di modulazioni tonali. Molte melodie poi son costruite su quei soli gradi della scala che distano di un tono l'uno dall'altro: e l'intervallo di semitono vi potrebbe apparire studiosamente evitato, se la loro limitata estensione (estensione, dal grave all' acuto; non lunghezza) non bastasse a far pensare che si tratta invece di sensibilità musicale limitatissima, povera. Musica, insomma, che, non sembri troppo ardito o arbitrario affermarlo, è espressione di una sensibilità e di un modo di concepire del tutto elementari. Per ciò che riguarda i modi nei quali le melodie appaiono composte, è più difficile stabilire definizioni. Julien Tiersot - al quale si devono pazienti e intelligenti studi su questa materia - afferma che il modo maggiore è quello dai Negri dell'Africa generalmente e quasi esclusivamente praticato. Può essere che egli abbia ragione e la sua affermazione sarebbe confortata anche dal Sichel, il quale assicura che, p. es., tutta la musica dei Negri del Madagascar non solo è in modo maggiore, ma è addirittura in sol maggiore. E se essi cantano o suonano qualche melodia in minore, sarebbero tutte, a suo dire, melodie importate.
Lo stesso Tiersot ha però pubblicato non solo melodie negre in modo maggiore ma anche melodie che dànno chiaro e indubitabile il senso del modo minore, e una poi - non solo interessante, ma bella - che potrebbe benissimo dare l'impressione di essere in modo dorico (con appoggiatura della tonica iniziale). Possono esser qui citate tre melodie vocali udite e notate dal Tiersot, di Negri del Dahomey. La prima, nonostante la terminazione sulla quinta, è in modo maggiore; la seconda, che fu cantata al trascrittore da un'amazzone, nonostante la terminazione sul quarto grado, è in minore; ma la terza - un canto religioso a voci alterne che in fine si sovrappongono - si potrebbe considerare, a parer nostro, inmodo dorico. Si noti, nelle due prime, la totale assenza di intervalli di semitono.
Non si citano melodie di altre popolazioni dell'Africa perché non offrono caratteristiche degne di particolare rilievo. Gli strumenti usati dai Negri dell'Africa sono, come presso tutti i popoli della terra, a percussione, a corda, e a fiato; numerosi e vari i primi, pochissimi e rudimentali quelli a fiato. Gli strumenti a percussione -quando non consistono semplicemente di un qualsiasi corpo solido vibrante, pezzo di legno o di osso o di altra materia che, percosso da un altro corpo solido, rende rumore - sono costruiti di un corpo concavo - un pezzo di tronco d'albero cavo (bambù o altra specie), una scodella di argilla, e dove è arrivata la civiltà europea anche una pentola o un altro oggetto cóncavo di metallo - sull'apertura del quale è tesa una membrana, per lo più animale, che viene ritmicamente percossa da mazzuoli o bacchette, o anche dalle mani del suonatore, e per mezzo dell'aria contenuta nella cavità sottostante produce rumore e qualche volta - come nel caso del balafo senegalese - anche suoni determinabili. Tali i tamburi, talvolta più somiglianti, anche per il modo di percuoterli, ai nostri timpani, dei Senegalesi e dei Negri della Guinea (tamburi di varie diensioni, detti hungan, jokri, dangbè, apoka, benbè, pesiu). tali i tamburi e tamburelli dei Congolesi e gli strumenti detti amponga degli isolani del Madagascar. Gli strumenti a corda, probabilmente tutti a corde pizzicate, hanno una cassa armonica. I Senegalesi usano, per es., una specie di arpa a dieci corde detta bulu, e una specie di chitarra a undici corde (ma se ne son trovate anche a 22 corde) detta kora; e strumenti simili si son trovati presso altre popolazioni africane. Ma gli strumenti a corda più perfezionati sono quelli usati dagl'isolani del Madagascar: il lokangavoatavo (a tre corde pizzicate), il bobre (ormai inusitato), e, specialmente importante, la valika o marovany, fatta di un cilindro di bambù, la scorza del quale è per un tratto sollevata e divisa in tanti filamenti (sino a venti), i quali, rimanendo attaccati al legno dai due lati, sono sollevati verso il centro e tesi per mezzo di ponticelli. La valika, secondo il Sichel, è sempre accordata in sol maggiore. A dimostrare le possibilità della valika trascriviamo qui un frammento musicale notato dal Tiersot, da una esecuzione a lui ripetutamente fatta dal madagascarese Joseph Randriamparany.
Pochissimi e affatto rudimentali sono gli strumenti a fiato dei Negri. Corna di animali o zanne di elefante, che non dànno se non un unico suono, rauco e sgradevole: e sufoli di canna pure a un solo suono. Più vari e più ricchi di possibilità gli strumenti a fiato dei Negri del Madagascar (ma in ogni modo assai meno importanti di quelli a corda), che sono l'Anjomàra, somigliante al nostro clarinetto (forse imitato da questo e dunque non antico): il sobàba, sufolo di derivazione araba: il sódina, specie di flauto di bambù, prima a tre e poi a sei fori: e infine l'ankirana, fatto di una conchiglia marina, a suono unico e quasi indeterminato.
Infine si può dire che la musica vocale dei Negri dell'Africa, se pur può avere un valore considerevole da un punto di vista etnologico, non ha, almeno per noi Europei, che scarsissimo valore artistico. Non v'è in essa nulla -'né le movenze, né il periodare, né alcuna forma - che non si possa trovare nella più comune musica popolare dei nostri paesi, e mancano in essa tutti quei segni - speciale senso modale, modulazioni estensive, movenze originali, fioriture - che dimostrano la musica vocale popolare europea, ora più, ora meno, espressione di una vita sentimentale profonda e acuta e varia. Né più ricca di quella melodica è la struttura ritmica della musica negra africana: sia che si considerino i ritmi generali (son quasi sempre ritmi binari o ternari semplici), sia che si consideri la scomposizione quantitativa del singolo movimento di battuta, cioè il piede. Della qual cosa potrebbe indicarsi la ragione, forse, nell'essere tutta la musica africana associata alla danza, e a una danza primitiva e di una plastica elementare. Alcuno potrebbe osservare che vi sono esempi di musica africana di un ritmo libero e vario, affine al ritmo della musica liturgica latina. Ma si tratta appunto di melodie liturgiche etiopiche, in parte di derivazione probabilmente araba, e in parte di derivazione probabilmente europea (da canti della liturgia cattolica).
Per quel che riguarda il senso dell'armonia e della polifonia, è ovvio - dopo quel che s'è detto sin qui- che le popolazioni negre dell'Africa non possono averlo che in misura limitatissima. Però non ne sono prive: musicologi ed esploratori hanno potuto udir cantare da Negri africani musiche di tanto in tanto a più parti, a intervalli paralleli di terza e talvolta di quarta, o con accordi intermessi di due, tre, e perfino (se è vero) di quattro suoni. Né i Negri mancano del gusto di associare al canto un accompagnamento strumentale, ché anzi la maggior parte dei loro canti è eseguita con accompagnamento di strumenti; spessissimo però di soli strumenti a percussione, i quali non hanno altro ufficio, se non quello di accentare, per i cantori-danzatori, il ritmo.
Può darsi che nuove ricerche e nuovi studi vengano ad accrescere e a chiarire la conoscenza della musica dei Negri dell'Africa e valgano a far mutare il giudizio sullo scarso suo valore artistico, ma è più probabile che il tempo e le influenze della civiltà cooperino a distruggere o deformare quel poco di musica africana che ancora rimane schietto e vivo. È dimostrato che i Negri accolgono in generale con piacere la musica europea più volgare e più chiassosa, e volentieri abbandonano i loro strumenti per apprendere, se possibile, la pratica degli strumenti nostri più rumorosi. Una prova di più, a parer nostro, che la musica loro propria ha uno scarsissimo valore estetico e che non risponde a una necessità di espressione del loro spirito.
BIBL.: A. Kircher, Musurgia universalis, Roma 1650; Forkel, Allgemeine Geschichte der Musik, Lipsia 1788; Burchell, Travels in the Interior of Southern Africa, Londra 1822-24; Villoteau, De l'État actuel de l'art musical en Égypte, Parigi 1809-1826; Chouquet, Le Musée du Conservatoire National de Musique, Parigi 1875; Stanley, Through the dark continent, 1878; id., In darkest continent, 1890; Wallaschek, Primitive Music, Londra 1893; E. Colin, Mélodies malgaches, Tananariva 1899; Kraus, Catalogo della collezione etnografica musicale Kraus in Firenze, Firenze 1901; J. Tiersot, La Musique chez les Nègres d'Afrique, in Encyclopédie de la Musique et Dictionnaire du Conservatoire, V, p. 3197 segg., Parigi 1922; A. Sichel, Histoire de la musique des Malgaches, ibid., p. 3226 segg. Da rilevare che di notizie sulla musica dei Negri d'Africa sono privi quasi tutti i dizionari di musica, anche se importanti come quello del Riemann e come quello, ricchissimo, del Grove. I. P.
STORIA.
I. PRIMA DELLA DOMINAZIONE ROMANA. - La presenza dell'uomo nel continente africano è testimoniata per la prima volta nell'epoca quaternaria e si manifesta, come di consueto, con i prodotti dell'industria paleolitica. Tali prodotti sono apparsi in molteplici punti del continente: a settentrione, nel centro, nelle regioni meridionali, quasi in ogni luogo dove esplorazioni più o meno sommarie sono state condotte, o dove qualche studioso si è preoccupato di raccoglierli. Poiché tuttavia le esplorazioni e le scoperte fortuite hanno avuto assai spesso carattere sporadico ed isolato, anziché sistematico, né i loro risultati sono stati sempre verificati con rigoroso metodo scientifico, e poiché d' altro lato l'associazione e la successione dei diversi prodotti appaiono talvolta varie e notevolmente diverse da quelle che siamo abituati a riscontrare nei paesi europei, si comprende facilmente come sia per ora assai arduo tracciare un quadro sicuro e preciso della preistoria africana. È forse peraltro possibile distinguere, sia per l'età paleolitica sia per la neolitica, alcuni gruppi o centri principali di sviluppo di industria e di civiltà.
Nelle regioni settentrionali, in Egitto, cioè, e nei paesi ad occidente delle Sirti fino all'Atlantico, Tunisia, Algeria, Marocco, i rinvenimenti sono stati, come si comprende, assai più copiosi e meglio condotti e studiati; più scarsi fino ad ora sono invece i dati offerti dalla Libia, ma da essi, per quanto esigui, non risultano per ora notevoli divergenze dalle terre vicine.
Tuttavia anche in queste regioni il quadro non è unico e uniforme: l'Egitto pare che abbia avuto uno svolgimento diverso dalle regioni tra le Sirti e l'Atlantico, anzi da tutte le regioni settentrionali. Tale diversità si manifesta non tanto nel periodo paleolitico più antico, quanto nei periodi immediatamente susseguenti.
Nella maggior parte del periodo paleolitico tutto il settentrione del continente africano doveva essere, al pari degli altri paesi mediterranei, in regime di clima caldo umido: il suolo, assai più fecondo di quello che ci si presenta in epoca storica, doveva essere coperto di foreste e di praterie, la fauna era quindi di necessità quella corrispondente a tale clima, ed era rappresentata dall'elefante, dal rinoceronte, dall'ippopotamo, dal cinghiale ecc., animali tutti le cui ossa si ritrovano associate ai prodotti dell'industria dell'uomo. Questi si rinvengono talvolta in terreni alluvionali, più spesso, e ciò contrariamente a quanto si verifica di solito nei paesi dell'Europa, alla superficie del suolo o a piccolissima profondità da essa. Non solo: mentre nei paesi dell'Europa,, specialmente occidentale, si sono voluti distinguere vari tipi di industria paleolitica, a seconda del luogo dove essi si presentano in maggior copia e con aspetti più nettamente caratteristici, e tali tipi corrispondono, almeno fino ad un certo punto, a fasi successive di sviluppo, nell'Africa gli stessi tipi, o di poco mutati, si presentano normalmente associati e confusi insieme negli stessi luoghi e nello stesso strato, che, come si è detto, è superficiale o quasi. Il De Morgan ha voluto vedere in ciò la prova dell'esistenza nell'Africa settentrionale di una sola cultura chelleo-mousteriana; contrariamente a lui il Pallary e altri sostengono invece che anche nell'Africa si siano succeduti gli stessi tipi del paleolitico inferiore e medio europeo, e che l'associazione dei diversi prodotti nello stesso strato superficiale possa spiegarsi con il rimaneggiamento subìto dai terreni alluvionali.
I tipi che si rinvengono comunemente nell'Africa settentrionale sono quelli che vengono indicati con i nomi di Chelleano, Acheuleano, Mousteriano; ma anche il Solutreano, o per lo meno un'industria che con quello del Solutreano ha molta somiglianza (quella che il Reygasse in Études de paléoethnologie maghrébine chiama sbaikiana) non manca completamente.
Fra le Sirti e l'Atlantico stazioni o centri di lavorazione di prodotti paleolitici sono stati riconosciuti nel Marocco, a Rabat e ad Oudjda, nell'Algeria, nei distretti di Orano e di Tebessa, nel Sahara, e, sopra a tutti caratteristici, nel mezzogiorno della Tunisia, a el-Mekta, presso Gafsa, antica Capsa. Qui ognuno dei tipi sopraddetti sembra corrispondere ad una diversa qualità di materiale adoperato: l'amigdaloide (coup-de-poing) chelleano è in pietroselce, le asce acheuleane sono in selce scura ordinaria, i raschiatoi e le punte mousteriane sono in selce chiara, molto fine.
Fra gli strumenti raccolti in Egitto, a Tebe, a Tukh, ad Abido, ecc., si presentano, oltre alle forme già indicate per la Tunisia e l'Algeria, punte e mezzelune: le une da riunirsi con i tipi chelleani, le altre con i mousteriani; i materiali adoperati sono, oltre alla selce, il pietroselce e la quarzite.
In nessun punto dell'Africa, né nel settentrione né nel rimanente di essa, si ha traccia dell'industria che in Europa si designa col nome di maddaleniana: viceversa, mentre nell'Egitto al periodo paleolitico inferiore sembra succeda, dopo uno spazio di tempo, certamente lungo nel quale il paese dovette attraversare profondi mutamenti di clima e subire il flusso di popoli e culture diverse, un'industria che solo impropriamente potrebbe dirsi neolitica, e che ha già in sé i germi di quella che sarà la civiltà dei tempi storici, dell'età predinastica e dei Faraoni, nelle regioni occidentali invece dal paleolitico più antico o inferiore si passa ad un'industria che corrisponde evidentemente ad una fase di civiltà più recente, cioè ad una industria paleolitica superiore, che il De Morgan chiama archeolitica: di essa si hanno le testimonianze più caratteristiche nella Tunisia meridionale, in quella stessa località di Capsa già ricordata, dalla quale pertanto alcuni hanno tratto il nome con cui designarla: capsiana.
E’ tuttavia da osservare che essa si riscontra, con qualche variante tuttavia, per tutta l'Africa nord-occidentale, anzi le poche scoperte avvenute in Cirenaica ne proverebbero l'esistenza anche ad oriente della Grande Sirte: onde altri pensano sia più opportuno sostituire al nome di capsiana. di senso limitato, quello di getuliana di più vasta comprensione. Altri infine vogliono distinguere in essa per lo meno due aspetti, due gruppi principali, uno occidentale da porre sotto il nome di capsiano, l'altro orientale, più recente, da designarsi con l'indicazione di ibero-maurusiano poiché si trova, quasi con eguali caratteri, oltre che in queste regioni più occidentali dell'Africa (antica Mauretania), anche nella Spagna meridionale.
Qualunque di queste denominazioni si voglia adottare, è certo peraltro che la civiltà della quale si tratta dovette, come quelle di cui si discorrerà fra breve, non solo svolgersi attraverso un lungo periodo di tempo, e quindi presentare uno sviluppo successivo di tipi, ma, distendendosi su una vasta superficie di territorio, per di più poco facile per natura agli scambi e alle comunicazioni, variare di forme e di aspetti a seconda dei luoghi: così solo è possibile spiegare le diversità, alcune volte assai sconcertanti, che si riscontrano fra una località e l'altra; nella stessa maniera del resto, anche in età storica, il popolo che abita fra le Sirti e l'Atlantico, uno di origine, si presenta frazionato in tribù e in gruppi diversi e spesso contrastanti fra loro.
Nel periodo di questa industria paleolitica superiore, le stazioni sono talvolta ancora all'aperto, e ordinariamente, come per l'innanzi, vicino a corsi d'acqua, ma più spesso già in ripari sotto roccia, come a el-Mekta presso Gafsa, o alla Mouilah presso Lalla Maghnia in provincia di Orano (Algeria). Mancano ancora del tutto la ceramica e la pietra levigata: tuttavia gli strumenti di pietra, che come al solito si raccolgono alla superficie e nei depositi dei ripari sotto roccia, e sono rappresentati da lame, punte, raschiatoi, sono in selce fine, lavorati con cura, piccoli di dimensioni, tagliati su una sola faccia, con ritocchi su uno o su ambedue i dorsi; la loro rassomiglianza con i prodotti aurignaciani europei è manifesta e forse non fortuita. Talvolta le lame hanno forma di mezzaluna allungata; alcune punte, fatte a guisa di bulino, e delle lame con tacche laterali sembra che servissero a trattare le ossa degli animali, che ora infatti si presentano lavorate. Appaiono uova di struzzo ornate di incisioni, prima rudimentale manifestazione di una decorazione artistica; come in piccoli dischi o frammenti di uova di struzzo forati, in conchiglie, in resti di piccole macine con tracce di color rosso, evidentemente usato per tingere la pelle, abbiamo le prime forme e prime tracce di una ornamentazione della persona.
La persistenza delle stazioni all'aperto, e la fauna di cui si ha traccia nei depositi di queste stazioni, siano esse all'aperto o in ripari sotto roccia, cervi, antilopi, bovini, rinoceronti ecc., ci dicono che nessun rapido o radicale mutamento di clima aveva segnato il passaggio dal paleolitico inferiore al superiore, ma che solo dovevano essersi verificati un graduale raffreddamento e una graduale diminuzione di umidità.
Diverso è, come già accennavamo in principio, il quadro della cultura paleolitica che ci si palesa nelle regioni centrali e meridionali del continente africano. Rinvenimenti più o meno notevoli di prodotti paleolitici si sono verificati nella Somalia britannica, nel Congo e nella vicina Uganda, nella Guinea francese e nel Senegal, nella regione dello Zambesi e dell'Orange: quelli tra questi rinvenimenti che sono stati fino ad ora meglio e più ampiamente illustrati e studiati sono quelli del Congo.
Anche qui i prodotti di questa prima industria umana si raccolgono alla superficie del suolo o a pochi centimetri di profondità; i luoghi dove essi si presentano, sparsi nelle regioni del medio e del basso Congo, del Congo francese e dell'Angola, sono di solito in posizione elevata: sulla sommità di colline, o su terrazze o ripiani lungo i fianchi di esse, sulla riva di fiumi ecc. Gli strumenti, lavorati dalle due parti col metodo della percussione, sono di solito in quarzite, la pietra più comune della regione: le forme caratteristiche, pure attraverso le loro varietà, si collegano fondamentalmente con l'amigdaloide chelleano; ma dalla forma più rozza e grossa, tipica di esso, passano alla forma allungata, simile a quella della punta campigniana, alla forma a foglia di lauro del solutreano, curva in basso, o appuntita ad ambedue le estremità, fino ad arrivare alla piccola punta di freccia: tra queste punte di freccia mancano però sempre quelle caratteristiche del periodo neolitico. Una forma particolare di strumento è poi quella della punta di lancia o di, freccia con denti, uno o più su ognuno dei lati, che deve avere servito con molta probabilità come coltello.
La ceramica, al pari dei prodotti tipicamente neolitici, manca o se ne ha solo incerta traccia. Onde, considerando da un lato tale mancanza, e dall'altro la persistenza e l'evoluzione insieme dello strumento amigdaloide, gli studiosi sono inclini a ritenere che la cultura corrispondente a questa industria, che dalla località di Tumba sul basso Congo si è voluta denominare con il termine di tumbiana, sia da ascriversi al periodo paleolitico e precisamente al paleolitico finale.
L'esame dei prodotti della Somalia, per i loro punti di contatto e, allo stesso tempo, per le differenze che dimostrano con i prodotti del Congo, indurrebbe a credere fossero essi pure da riportarsi alla stessa civiltà: forse tuttavia a una fase più antica di essa.
Nella Guinea francese invece è possibile riscontrare non solo una sovrapposizione di strati, l'uno paleolitico con strumenti in limonite, l'altro certamente e pienamente neolitico con strumenti levigati in labradorite e con resti di ceramica, ma nel primo di questi due strati sono forse da riconoscere due correnti diverse che si incontrano: l'una probabilmente connessa o identica con la civiltà di Tumba, l'altra esistente già prima di questa nel paese. E la stessa corrente tumbiana, che sembra abbia avuto la sua culla nell'Asia anteriore o meridionale, sembra diffondersi di là verso occidente, nello Zambesi, nell'Orange e nella Rhodesia. Anche in queste regioni i prodotti delle industrie paleolitiche, chelleana, acheuleana, mousteriana, si trovano associati fra loro; alla mousteriana succede, apparendo bruscamente, come fosse l'apporto di un nuovo popolo, l'industria dell'età della renna, rappresentata in particolare da delicate punte solutreane; quel che è interessante osservare è che espressioni di arte assai progredita si rivelano contemporanee ai prodotti acheuleani. Del resto la lunga persistenza, attraverso età e secoli diversi, delle stesse industrie, e forse anche delle stesse razze umane, è un fatto da tener presente nello studio delle civiltà preistoriche e storiche dell'Africa: come un cranio, rinvenuto nella caverna di Broken Hill nella Rhodesia, presenta da un lato somiglianze con quelli dell'uomo fossile che viveva nel continente europeo nell'ultimo periodo glaciale, e sembra d'altro lato che non debba risalire ad epoca geologica diversa dalla nostra, così i Boscimani, secondo il Péringuey, dovrebbero essere considerati come discendenti dai Solutreani e dagli Aurignaciani dell'età paleolitica, della quale hanno conservato l'industria.
Scarse e mal certe sono le testimonianze del periodo neolitico nelle stesse regioni centrali e meridionali dell'Africa: si è già accennato a quelle della Guinea francese; a Tumba nel Congo si è rinvenuta fra gli strumenti paleolitici un'ascia levigata di ematite, oggetto sporadico, estraneo certamente all'ambiente in cui è comparso, ma testimone di una civiltà neolitica, della quale non è in nessun modo possibile fino ad ora fissare il quadro: si pensa tuttavia che essa dovesse essere diffusa in tutta l'Africa equatoriale, ed avere il suo centro nella regione dello Uelle; nell'Orange e nel paesi limitrofi il Goodwin (Capsian affinities of South African later stone age culture, in South African Journal of Science, XXII, novembre 1925, pp. 428-436), ha voluto distinguere tre diverse industrie della pietra più recente, caratterizzate in generale da strumenti ben lavorati, talvolta molto piccoli nelle dimensioni, e dalli presenza di oggetti di ornamento della persona.
Assai più copiosi invece, sì da essere, sia pure ancora in manieri imperfetta e non definitiva, classificabili, sono i resti neolitici delle regioni settentrionali, fra le Sirti e l'Atlantico: nell'Egitto, come si è già detto, la civiltà che può chiamarsi neolitica è il primo aspetto di quella che sarà la civiltà dei tempi storici e va trattata pertanto in stretta connessione con questa.
Vari sono gli aspetti, i modi e le forme con cui si presenta l'industria neolitica nella Tunisia, nell'Algeria, nel Marocco e nelle attigue regioni del Sahara. Innanzi tutto è da notare che quando compaiono i primi prodotti di essa la fauna calda dell'età quaternaria è scomparsa, e l'uomo, pure abitando talora ancora all'aperto cerca già più spesso i suoi ripari nelle grotte naturali o artificiali capaci di difenderlo sia dai freddi rigidi dell'inverno, sia dagli eccessivi calori dell'estate: ripari così efficaci e così rispondenti allo scopo che ancora in piena epoca storica, ed oggi stesso, non sono del tutto abbandonati da alcune popolazioni della Tripolitania e della Tunisia meridionale.
Le varie fasi o forme del neolitico nord-africano sono state da alcuni studiosi raccolte in tre gruppi principali.
La fase più antica sembra essere caratterizzata dalle stazioni in grotte, di cui molte sono state riconosciute ed esplorate, sebbene con metodo non molto rigoroso, nell'Algeria, qualcuna nel sud della Tunisia, nessuna nel nord di questa, dove d'altronde i rinvenimenti di età preistorica sono finora assai scarsi.
La grotta doveva essere per gli uomini del tempo l'abitazione e la tomba insieme: ché in essa si rinvengono, confusi o sovrapposti gli uni alle altre, i resti della vita giornaliera (strumenti da lavoro, e rifiuti del pasto) e le ossa dei defunti, sepolti appena sotto un piccolo strato di terra e di cenere.
La grotta doveva essere per gli uomini del tempo l'abitazione e la tomba insieme: ché in essa si rinvengono, confusi o sovrapposti gli uni alle altre, i resti della vita giornaliera (strumenti da lavoro, e rifiuti del pasto) e le ossa dei defunti, sepolti appena sotto un piccolo strato di terra e di cenere.
Gli oggetti sono qui per la massima parte di selce (di quarzite o di calcare i più grossolani), e dovevano essere lavorati sul posto, data la presenza dei nuclei, dei rifiuti di lavorazione ecc. Sono in generale strumenti di piccole dimensioni, sottili, lavorati su una sola faccia, che presentano somiglianze con i prodotti neolitici dell'Europa occidentale, e particolarmente della Spagna meridionale: lame a tacche, punte con o senza ritocchi, seghe, raschiatoi circolari ecc.; molte volte il peduncolo rudimentale, con cui gli strumenti terminano in basso, ci dice che essi dovevano andare innestati in un manico di legno o di osso. Le asce levigate, di solito in ofite, sono molto rare e generalmente piccole; l'osso lavorato è invece più frequente che nelle stazioni del periodo archeolitico. Compaiono i vasi di terracotta rozza, lavorati a mano, cotti a fuoco libero, talvolta ornati di una primitiva decorazione geometrica, fatta con punte di legno o di osso o con bulini di pietra; cordoni in risalto e bozze sporgenti dovevano insieme costituire un partito decorativo e servire a facilitare la presa. Una decorazione più progredita, con traccia di figure di animali, troviamo sulle uova di struzzo; oggetti vari, piccole macine per triturare il colore, conchiglie, denti di animali, resti di collane di frammenti di uova di struzzo, ci testimoniano la ricerca di effetto nell'abbigliamento della persona.
Più recente dell'industria che si rivela in queste stazioni entro grotte è quella che compare in stazioni all'aperto, di solito stabilite in vicinanza di fiumi o di sorgenti o in luoghi facili alla difesa; è la fase che è stata chiamata berbera, in quanto la sua zona di diffusione corrisponde, si può dire, quasi perfettamente alla regione che in età storica troviamo abitata dai Berberi: fino ad oggi essa è stata riscontrata in tutto il paese ad occidente delle Sirti, da Gafsa alle rive dell'Oceano, dalla costa del Mediterraneo al Sahara: l'esplorazione della Tripolitania ne rivelerà con quasi certezza l'esistenza anche là. Gli strumenti di pietra (selce o quarzite), mostrano chiaramente una decadenza della tecnica: da piccoli e leggieri essi si fanno pesanti, tagliati senza cura a grandi schegge su una sola faccia; copiose sono le punte a peduncolo: le asce levigate sono di dimensioni molto grandi, a boudin; anche la ceramica appare più grossolana. Ma l'età più recente di tale industria, o per lo meno la sua persistenza in età più recente, ci è provata particolarmente dal fatto di trovarne i prodotti associati ad incisioni rupestri, che, e per l'arte, (ben possiamo chiamarla così) che rivelano, e per il costume e l'armatura delle figure che riproducono, non possono non appartenere ad un periodo piuttosto tardo. Gli uomini rappresentati in queste incisioni sembrano vestiti di tunica stretta alla cinta, hanno il capo adorno di piume, le braccia e il collo ricchi di monili, vanno alla caccia con archi o con giavellotti, sono muniti di scudi. D'altronde, sia per questa industria berbera, sia per l'altra di cui si dirà tra poco, occorre sempre tener presente che ambedue esse ebbero certamente un periodo di vita assai lungo, che dall'età preistorica si estende fino alla piena età storica, e molto probabilmente assai addentro a questa. Basta ricordare quei monumenti sepolcrali di grandi pietre rozze, che per la somiglianza che mostrano con i monumenti megalitici dell'Europa sono stati detti cromlech e dolmen, e che sono così frequenti nell'Algeria: se anche essi, come è molto probabile, risalgono nel tipo a tempi assai antichi, e cioè all'incirca allo stesso tempo, o di poco posteriore, a quello in cui furono costruiti i somiglianti monumenti dell' Europa, certo è d' altra parte che il maggior numero loro è fuor di ogni dubbio di un' età molto tarda, di un' età posteriore al sec. III a. C.: alcuni sono perfino di età imperiale romana.
La terza civiltà nord-africana del periodo neolitico ha una zona di diffusione più meridionale della precedente: essa si ritrova soprattutto, e con grande frequenza di stazioni e di officine, nel Sahara orientale francese, spingendosi a settentrione fino ai dintorni di Gabès nella Tunisia meridionale: per questo essa è stata designata col nome di civiltà sahariana. Cronologicamente essa si pone a cavallo, o meglio si stende dall'una all'altra delle due fasi già esaminate: ché mentre in alcune stazioni si trovano associati i prodotti sahariani con i berberi, nel riparo sotto roccia di Redeyef, presso Gafsa, alcune punte di freccia caratteristiche sahariane, certo qui prodotto importato, non lavorato sul luogo, sono mescolate agli oggetti tipici del neolitico delle grotte.
Le stazioni sahariane erano situate soprattutto nelle zone dunose, presso quelli che dovevano essere i letti dei fiumi e nei punti più ricchi di acqua sorgiva o stagnante, che allora certo era in questa regione più copiosa di oggi. Gli strumenti, di selce, sono fini, leggieri, ben lavorati; le punte di freccia sono fornite di alette, con o senza peduncolo; alcuni strumenti sono in forma di fuso, altri a semicerchio; altri infine ricordano la foglia di lauro del solutreano.
Si rinvengono altresì asce levigate, di selce o di calcare siliceo, molto piccole, appiattite o trapeziformi, molto simili alle asce egiziane: d'altronde tutta questa industria sahariana mostra stretti punti di contatto con quella fiorita in Egitto in età preistorica e sotto le prime dinastie.
La ceramica è di fattura non molto rozza, ornata di motivi decorativi geometrici, talvolta dipinti in rosso; altri motivi decorativi consimili portano le uova di struzzo. Al pari degli uomini delle stazioni berbere, anche i Sahariani amavano l'ornamento della persona: nel periodo più recente della loro civiltà essi erano altresì coltivatori di cereali e conoscevano il metallo e il vetro.
È certo infatti, come già si è accennato, che anche questa industria sahariana, pur risalendo nelle sue origini molto lontano, persiste in età storica; anzi è probabile che il maggior numero delle stazioni da noi conosciute debba porsi proprio ad una data relativamente recente: a quali popolazioni essa appartenga, e donde si sia diffusa, è difficile dire: si potrebbe tuttavia supporre, data l'area che essa copre e il tempo attraverso cui si sviluppa, che essa si debba riportare a quelle tribù di color bruno, che storici e geografi greci designano col nome di Etiopi, e che in età storica abitavano le regioni a sud dell'orlo settentrionale del Sahara.
Sta il fatto che con le due industrie che abbiamo ora ricordate, la berbera e la sahariana, noi veniamo ad avere dinanzi agli occhi la distribuzione di popoli, che, secondo alcuni studiosi, fu la distribuzione dei tempi storici nelle regioni dell'Africa nord-occidentale: a settentrione, dalle rive del Mediterraneo all'orlo settentrionale del Sahara, le popolazioni di color bianco, Libi, Numidi, come le dissero i Greci e i Romani, Berberi, come più tardi li chiamarono gli Arabi e come li chiamiamo ancor noi; a mezzogiorno, nel Sahara, le popolazioni di color scuro, gli Etiopi, diversi tuttavia dai veri negri del Stidàn.
Un'età dei metalli, nel senso in cui essa si distingue e si suddivide per i paesi dell'Europa, è, come si comprende, difficile ad essere definita per l'Africa: nel centro del continente la conoscenza e l'uso dei metalli sono penetrati nel modo e nei tempi più vari; nell'Egitto essi si fanno strada fin dai primi momenti del periodo che segue ai mutamenti fisici succeduti all'età paleolitica; nelle regioni a occidente delle Sirti essi furono portati con ogni probabilità dai coloni fenici, e quindi si diffusero variamente, ove più ove meno rapidamente, a seconda dell'estendersi e del diffondersi della civiltà fenicia. D'altronde con l'apparire di questa, sul principio del primo millennio a. C., si apre per queste stesse regioni l'età storica.
Circa questo tempo, infatti, tra la fine del secondo millennio e il principio del primo, si pone dai più la fondazione da parte dei Fenici di Tiro delle più antiche colonie di Utica, Adrumeto, Ippona e Leptis Magna (Sallustio, Bell. Iug., XIX) ; nell' 814, secondo la cronologia ufficiale, sorge Cartagine, forse sul luogo di uno stabilimento più antico.
La colonizzazione fenicia ebbe, come è noto, carattere eminentemente marittimo e mercantile, e non recò quindi con sé né spostamento notevole di popolazione, né sotto un certo aspetto rapida ed efficace propagazione di civiltà. Le colonie fenicie, molte e disseminate lungo tutta la costa dalla Grande Sirte alle Colonne d'Ercole, e anche al di là di queste, sulle rive dell'Atlantico, non erano che stazioni commerciali, empori ove i mercanti e i naviganti che venivano d'Oriente portavano le merci delle terre lontane, per venderle e scambiarle con i prodotti del continente africano offerti dagli indigeni: il contatto fra gli uni e gli altri era breve e limitato allo scopo. Tuttavia esso non poteva a lungo rimanere senza effetto: la forza di attrazione esercitata dalla civiltà superiore, il graduale salire a potenza di Cartagine, dominante il passaggio dal Mediterraneo orientale all'occidentale e protesa verso la Sicilia e la penisola italica già in pieno rigoglio di cultura, il costituirsi e l'estendersi di un suo dominio, che potremmo dire di terraferma, su una parte delle popolazioni indigene, più tardi ancora la necessità di difesa o di offesa contro il sopravvenire di altri popoli, Greci e Romani, condussero via via queste popolazioni a un regime di vita più progredito, a ordinamenti sociali e politici più saldi e più organici. Nel momento in cui i Romani, nella prima metà del sec. III a. C., discendono per la prima volta nell'Africa, questa appare divisa politicamente fra Cartagine, signora di un vasto impero marittimo, e di una non ampia zona di territorio attigua alla città stessa verso S. e verso O., corrispondente all'incirca all' attuale Tunisia, e i regni indigeni, vari di ampiezza e di continuo tramutantisi, ma fra i quali si affermano il regno dei Mauri nell'estremo occidente, e quelli dei Massili e dei Masesili, tra i Mauri e il territorio Cartaginese, a volte divisi, a volte, e specie più tardi, uniti in uno stato solo: il regno di Numidia.
Frattanto, nel corso del sec. VII a. C., un altro flusso di civiltà era partito dall'Europa verso le coste africane: un manipolo di coloni greci dell'isola di Tera, spinti dall'oracolo di Apollo, guidati da un re, che poi nella lingua indigena del luogo ove i coloni si stabiliranno si chiamerà Batto, avevano approdato alla terra che a guisa di grosso e massiccio sperone trapezoidale si protende in mare tra la foce del Nilo e la spiaggia sabbiosa della Grande Sirte e, salito sull'altipiano, aveva quivi fondato presso una pura sorgente d'acqua viva e fresca la colonia di Cirene.
Anche qui, si è già detto, strumenti litici, rinvenuti tuttavia fino ad ora in scarsa copia, testimoniano la presenza nell'età preistorica di popolazioni affini a quelle che abitavano le regioni ad occidente della Grande Sirte: i Greci chiamano il popolo con cui i loro coloni vennero a contatto e si mescolarono, Libi, con il medesimo nome cioè con cui essi designano gl'indigeni di quelle stesse regioni occidentali: onde l'ipotesi che veramente una sola stirpe fosse diffusa su tutte le terre settentrionali, mediterranee, del continente africano, all'infuori dell'Egitto.
Invece più tardi, fiorendo la Cirenaica della civiltà greca, e gravitando le regioni occidentali intorno a Cartagine, il golfo, profondo e importuoso, della Grande Sirte venne a costituire come un'ampia e deserta zona di separazione fra due civiltà diverse, ognuna indirizzata su una propria via e con una propria storia: la prima apparendo strettamente collegata con i paesi del Mediterraneo orientale, con la Grecia, le isole dell'Egeo, e con l'Egitto, la seconda associata al destino di Cartagine e, dopo la caduta di questa, a quello di Roma.
BIBL .: G. Bellucci, L'età della pietra in Tunisia, Roma 1876 (estr. dal Bollettino d. R. Soc. geografica). P. Pallary, Instructions pour les recherches préhistoriques dans le Nord-Ouest de l'Afrique, in Mémoires de la Soc. hist. algérienne, III, Algeri 1909; id., Notes critiques de préhistoire nord-africaine (estr. dalla Revue africaine, 1922, nn. 312-313); L. Péringuey, The Bushman as a Palaeolithic Man (estr. da Transactions of the Royal Society of South Africa, V, 1915); S. Gsell, Hist. ancienne de l'Afrique du Nord, Parigi 1921, I; M. Reygasse, Nouvelles études de paléoethnologie maghrébine, Costantina 1921; id., Ptudes de paléoethnologie maghrébine, S. 2a, Costantina 1922; V. Zanon, Appunti di Paletnologia bengasina, in Memorie d. Accad. Nuovi Lincei, IX, pp. 137-171; Menghin, Die Tumbakultur am unteren Kongo und der Westafrikanische Kulturkreis, in Anthropos, 1925, pp. 516-557; H. Obermaier, El hombre fósil, Madrid 1925; A. Taramelli, Quelques stations de l' dge de la pierre découvertes... dans l'Etat indépendant du Congo, in L' Anthropologie, XII, p. 396; U. Rellini, Stazioni africane di transizione tra il paleolitico e il neolitico, in Riv. di antropologia, XXIV, p. 498; N. Jones, The stone age, in Rhodesia, Londra 1926.
2. PROVINCIA ROMANA. - Come si è avvertito, con il nome Africa, che fa la sua comparsa al tempo delle guerre puniche, i Romani designarono soltanto la porzione nord-occidentale del continente africano, ad esclusione dell'Egitto.
Ordinamenti. - Conquistata e distrutta Cartagine nel 146 a. C., Roma costituì del territorio che la città aveva posseduto nell'ultimo periodo della sua vita e della sua potenza, la prima provincia africana. I confini di questa non furono molto estesi: tagliando trasversalmente l'estremo lembo della penisola, che si protende a oriente verso la Sicilia, andavano essi dalla foce del fiume Tusca presso la città di Tabarca (Thabraca) sulla costa settentrionale, fino ad un punto non precisato ad occidente di Adrumeto (Hadrumetum, Susa): di qui, correndo a non molta distanza dal mare, scendevano verso S. fino a Tene (Thaenae, Henshir Tina), comprendendo le città del litorale, con una piccola zona retrostante, e la città interna di Tisdro (Thysdrus, el Djem). Una fossa, aperta da Scipione stesso al momento dell'ordinamento della provincia, e detta regia, perché divideva il territorio romano dal territorio del regno di Numidia, segnava tali confini da un mare all'altro. La provincia fu detta Africa: e il nome le rimase anche dopo, quando pure il dominio romano nell'Africa si estese e si suddivise in altre provincie: solo gli fu aggiunto l'appellativo di proconsularis, determinato dal rango che, come vedremo, doveva avere il magistrato mandato a governarla. Cartagine fu rasa al suolo, e la sua area consacrata agli dei infernali, col divieto per i Romani di mai più abitarla o coltivarla: le città che avevano nell'ultima guerra parteggiato per essa o furono distrutte anch'esse o ridotte alla condizione di tributarie (stipendiariae). a quelle invece che avevano tenuto la parte dei Romani, ed erano in numero di sette, fra cui principali Utica e Adrumeto, furono lasciate la libertà e l'autonomia interna. Il territorio fu, come sempre nelle provincie, assoggettato all'imposta fondiaria (tributum soli). tranne quello delle città libere e l'altro che, in ricompensa dell'aiuto prestato, fu donato, entro l'ambito della provincia stessa, al re di Numidia e ai disertori Cartaginesi.
Tale rimase la provincia per un secolo, fino al 46 a. C., fino cioè a dopo la battaglia di Tapso.
Alcuni invero hanno voluto che già dopo la guerra di Giugurta, nel 105 a. C., la regione, che fu più tardi chiamata Tripolitania, compresa fra la Piccola e la Grande Sirte, fino ai confini della Cirenaica, venisse staccata dal regno di Numidia e aggregata alla provincia romana: ma dalle fonti, per quanto scarse ed incerte, ciò non risulta né appare d'altronde probabile. Soltanto invece nell'anno 46 a. C. Cesare, conducendo prigioniero a Roma il re Giuba e mettendo così fine al regno di Numidia, aggiunse tutto il territorio di questo, che, come avvolgendo la parte di dominio romano, andava dal fiume Ampsaga (Wàdi el- Kebir), ai confini della Mauretania, fino al fondo della Grande Sirte, ai confini della Cirenaica, alla provincia dell'Africa, distinguendolo tuttavia da essa col nome di Africa nova. Primo governatore della nuova provincia fu lo storico Sallustio. L'ordinamento di Cesare ebbe tuttavia vita breve: poiché Augusto, nel 3o a. C., credette opportuno ricostituire il regno di Numidia, affidandolo al figlio del vecchio Giuba, Giuba II, che aveva in sposa Cleopatra, figlia di Cleopatra regina di Egitto. È probabile peraltro che già fin d'allora Augusto avesse in mente il carattere di precarietà che tale provvedimento doveva avere, e che ad esso si risolvesse soltanto perché premuto dalle più urgenti necessità di sistemazione che rivelavano le provincie orientali: certo è che, appena cinque anni dopo, nel 25 a. C., il rifiorito regno di Numidia veniva per la seconda volta soppresso, e il suo territorio ancora nuovamente annesso alla provincia dell'Africa; Giuba II fu ricompensato della perdita con l'investitura del regno di Mauretania, rimasto fino ad allora piuttosto fuori dell'influenza diretta romana, e che si stendeva dal fiume Ampsaga verso occidente, fino alle colonne d'Ercole e all'Atlantico.
Nella partizione del governo delle provincie fra sé e il senato, che Augusto aveva fatta nell'anno 27 a. C., è noto che il concetto ispiratore era stato quello di tenere per sé le provincie non ancora interamente pacificate e nelle quali pertanto doveva risiedere una guarnigione militare (il comando dell'esercito era di spettanza del principe, come imperator), e di lasciare invece al senato le provincie di più antica costituzione, e nelle quali il ritmo ormai tranquillo della vita civile rendeva superfluo ogni presidio. L'applicazione di tale principio all'Africa era invero non facile: poiché se la parte della provincia più vicina al mare, e più prossima a Cartagine, che, nonostante la devotio di Scipione, aveva cominciato a risorgere, prima per breve periodo con la colonia di C. Gracco, poi definitivamente con Cesare e con Augusto, cioè la zona che era possesso romano da più di un secolo, era ormai in pieno stato di pace, la zona interna invece, dove le popolazioni indigene mal si adattavano alla soggezione romana, o contro i cui confini premevano le selvagge tribù del deserto, doveva essere ancora saldamente difesa con la forza e il prestigio delle armi. Prevalse tuttavia in Augusto l'idea di affidare anche questa provincia al senato, lasciandovi egualmente una forte guarnigione militare e ponendo il comandante di questa, che era un legatus legionis, di ordine senatorio e di rango pretorio, alle dipendenze del proconsole.
Ma la riunione, nelle mani di questo, dei due poteri civile e militare, e d'altra parte la non ben definita sfera di attività dei due magistrati non potevano non dar luogo assai presto ad inconvenienti. Onde non è da meravigliare se, trascorsi solo pochi decenni, gli imperatori avvertirono il bisogno di mutare tale stato di cose. E fu Caligola ad attuare il provvedimento, stabilendo, nel 37 d. C., che d'allora in poi il legato fosse indipendente dal proconsole: egli avrebbe avuto il comando di tutte le truppe, legionarie e ausiliarie, e con l'esercizio di questo comando sarebbe stato intimamente connesso il governo effettivo di tutta la zona che le truppe presidiavano, cioè di tutta la zona che potremmo dire, con termine moderno, di governo militare: tale zona era, come è naturale, la regione interna, distendentesi a sud e ad ovest del nucleo originario primitivo della provincia dell'Africa. I suoi limiti erano da principio piuttosto incerti: col tempo invece essa venne sempre più assumendo una fisionomia e un'esistenza propria, fino a costituirsi in provincia separata, la provincia della Numidia; la quale tuttavia ebbe solo all'inizio del sec. III, al tempo di Settimio Severo, la sua regolare e compiuta organizzazione autonoma.
Caligola egualmente provvide alla sistemazione delle regioni occidentali dell'Africa, conducendo anch'esse sotto l'effettiva dominazione romana: nel 4o d. C. egli chiamava a Roma l'ultimo re di Mauretania, Tolomeo, lo deponeva, e del suo regno costituiva due nuove provincie, la Mauretania Caesariensis e la Mauretania Tingitana, il cui governo affidava a due procuratori.
Così l'Africa raggiungeva l' assetto che rimarrà poi invariato fino alla riforma dioclezianea: una provincia senatoria, retta da un governatore che doveva essere sempre di rango consolare, residente a Cartagine: l'Africa proconsolare; una provincia imperiale, retta da un legatus pro praetore, che era insieme il legato della legione e il comandante delle truppe, residente perciò di solito nell'accampamento della legione: la Numidia; due provincie, di quelle che erano considerate quasi come una proprietà dell' imperatore e che questi governava a mezzo di funzionari , che avevano più che altro carattere amministrativo: la Mauretania Cesariense, con centro a Cesarea (antica /a, oggi Cherchel), e la Mauretania Tingitana, con centro a Tingi (Tingis, Tangeri).
La provincia senatoria, l'Africa propriamente detta, era divisa in diocesi, ognuna sotto la particolare giurisdizione di un legato: tali diocesi erano, sembra, tre, delle quali due almeno prendevano nome dalla loro capitale: la Carthaginiensis e l'Hipponiensis (da Hippo Regius, Bona); la terza non sappiamo se comprendesse la parte meridionale della provincia, e avesse il suo centro in Adrumeto, o se abbracciasse invece la regione fra le due Sirti, quella cioè che fu poi la regio Tripolitana. All'amministrazione finanziaria in genere, a quella delle numerose proprietà imperiali in specie, provvedevano nella provincia senatoria e in quella della Numidia procuratori di vario grado.
Con l'ordinamento dioclezianeo l'Africa costituì una dioecesis dipendente dalla prefettura del pretorio dell'Italia (praefectus praetorio Italiae, Illyrici et Africae). un vicarius ne aveva il governo civile, un comes il comando militare. Le antiche provincie furono poi, come di consueto, frazionate in provincie minori: dell'Africa pro-consolare si ebbero:
1. l'Africa proconsolare o Zeugitana, con capitale Cartagine, retta da un proconsul, che, contrariamente alla norma, veniva nominato e dipendeva direttamente dall' imperatore, anziché dal prefetto del pretorio;
2. la Bizacena, con capitale Adrumeto, retta da un consularis.
3. la Tripolitania, governata da un praeses, che risiedeva forse da principio a Leptis Magna, poi certamente a Tacape (Gabes).
La Numidia venne, come nei primi tempi della sua costituzione, ricollegata con l'Africa e messa sotto il suo vicarius, formando la provincia della Numidia Cirtensis o Numidia Constantina, così detta dal nome della sua capitale, Cirta o Costantina, dove aveva sede il governatore, un consularis.
Dalla Numidia propriamente detta venne tuttavia, secondo alcuni, staccata la parte di essa che si stendeva lungo la frontiera militare meridionale, della quale si fece un'unità a sé, detta Nunzi dia Militiana.
Storia. — La vita delle provincie africane non fu mai, attraverso i secoli della dominazione romana, del tutto tranquilla e scevra di pericoli per i dominatori: nonostante l'antica data della prima costituzione di esse, la vicinanza della regione all'Italia e il suo gravitare intorno al bacino occidentale del Mediterraneo, che, più ancora di quello orientale, poteva dirsi un pacifico lago romano, nonostante l'opera lunga, sapiente e faticosa di colonizzazione e di civilizzazione, le provincie africane richiesero ognora dai Romani uno sforzo continuo di vigile difesa. Prima contro i regni indigeni, che mal si adattavano alla subordinata posizione di clienti di Roma, e volevano anzi far sentire il loro peso fin nella politica interna della repubblica, poi contro il non mai spento spirito di ribellione delle popolazioni soggette, o contro l'irriducibile furore selvaggio delle tribù del deserto, prementi da mezzogiorno contro i confini del possesso romano. Ancora nei tempi repubblicani la pace fu turbata dalle guerre di Giugurta e di Giuba, l'una accesasi per le ingiuste pretese del primo alla successione del trono di Numidia, la cui sorte toccava direttamente gl'interessi di Roma; l'altra causata dall'aver tratto i Pompeiani il secondo, per i vantaggi che loro potevano venirne, nella lotta contro Cesare. Ma queste guerre appartengono ancora al periodo di formazione delle provincie africane, ed hanno il carattere di vere e proprie guerre esterne. Invece, a mano a mano che i regni indipendenti sono abbattuti, i Romani si trovano di fronte alle insurrezioni delle popolazioni locali: tumultus anziché bella, come le dicono, con più precisa determinazione, gli storici.
Già sotto Augusto abbiamo nei fasti memoria di generali romani qui triumphaverunt ex Africa: più celebre fra tutti L. Cornelio Balbo, il quale nel 19 a. C. spingeva le truppe romane al di là della regione fino allora tenuta, e, avventurandosi in paesi difficili per natura e per clima, e completamente sconosciuti, batteva tutta la zona desertica del mezzogiorno, dalla Numidia fino al retroterra della Sirtica, la Tripolitania e il Fezzàn (Phasania), o paese dei Garamanti, e celebrava quindi a Roma un trionfo, rimasto memorabile, al dire di Plinio (Nat. hist., V, 5, 33-38), per la novità e la stranezza dei trofei riportati.
Nel 6 d. C. L. Cornelio Cosso combatteva di nuovo contro i Getuli delle Sirti, riportandone l'attributo di Getulico. Ma veramente dura prova per la sicurezza e l'integrità della provincia africana fu la guerra suscitata dal ribelle numida Tacfarina nel 17 d. C. (Tac., Ann., 11, 52; III, 20-21; 73-74; IV, 23-26; Cantarelli, Tacfarinata, in Atene e Roma, 1901, p. 3 segg.). Era Tacfarina un ex-soldato delle coorti ausiliarie, ed aveva nella disciplina romana perfezionato il suo talento militare e la sua arte di comando, e più che tutto compreso quale fosse la debolezza di un esercito regolare in una campagna nell'Africa, e quali risorse pertanto potessero trarre contro di esso, dalla loro particolare arte di combattere, le mobili tribù indigene. Egli accese la prima fiamma della rivolta fra le tribù abitanti il retroterra della Piccola Sirte: ma, nel terreno propizio che offriva la naturale insofferenza delle popolazioni locali contro il dominio straniero, la fiamma trovò facile esca e rapidamente si propagò verso oriente e verso occidente, sollevando contro Roma tutte le tribù disseminate lungo il margine della provincia, e traendo a sé, da sud, il lontano re dei Garamanti.
Attraverso varie alternative di sconfitte e di successi, illusori, dei quali i generali romani venivano a trionfare nella capitale, ma dopo i quali il nemico, ricostituite più numerose le sue schiere nelle sconfinate e inesauribili regioni desertiche del sud, tornava baldanzoso ad assalire le truppe romane, Tacfarina, che ad un certo momento aveva persino creduto di poter trattare da pari a pari con l'imperatore e chiedergli una parte di territorio da stabilirvisi come alleato di Roma, fu finalmente dal proconsole Dolabella battuto e ucciso sul campo: e con la sua morte la ribellione cadde e si spense. La guerra, che aveva durato sette anni (dal 17 al 24 d. C.), e che era costata sacrifici non lievi, ebbe tuttavia utili conseguenze per la provincia: poiché, come avviene facilmente in casi consimili, essa servì a condurre più stabilmente e più efficacemente sotto il dominio romano terre e popolazioni rimaste fino ad allora in uno stato di semi-indipendenza, e a consigliare ai Romani una più salda difesa dei confini meridionali: deduzione di colonie militari, elevazione al grado di municipio o di colonia di città e centri indigeni, regolare opera di misurazione 'e di catasto di estesi territori nel retroterra della Piccola Sirte, allargamento da questa parte della linea fortificata di frontiera: furono questi altrettanti segni della rinnovata sicurezza del dominio romano nell'Africa, e insieme nuove basi per il più ampio e fecondo sviluppo di esso.
La rivolta di Tacfarina fu l'ultimo serio e vasto tentativo di insurrezione che i Romani ebbero a domare nella parte orientale della loro provincia, rimasta poi relativamente tranquilla, salvo sporadici e temporanei episodi, fino al sec. III.
Tra questi episodi uno interessa particolarmente la Tripolitania: nel 69 d. C., accesasi una discordia fra i cittadini di Oea e quelli di Leptis, i primi, minori di numero, invocarono l'aiuto dei Garamanti; i quali ben lieti dell'occasione propizia, invasero il fertile agro leptitano, saccheggiandolo fin sotto le mura della città. Il fatto provocò l'intervento del legato della legione Valerio Festo, che con rapida campagna sconfiss( e ricacciò i Garamanti, inseguendoli nella fuga ed obbligandoli poi a ur atteggiamento di più fedele soggezione all'impero (Tac., Hist., IV, 50)
Invece da allora più energiche cure richiese la parte occidentale dell'Africa, dai confini della Numidia fino all'Atlantico, e cioè 12 regione delle Mauretanie. Come già si è detto, nel 4o d. C. l'imperatore Caligola credette giunto il momento di por fine anche qual regno indipendente e di ridurre il territorio a provincia romana Il provvedimento ebbe per effetto di suscitare nella regione una rivolta, che trovò la sua esca non tanto nella naturale reazione de: partigiani dei principi spodestati, quanto nell'innato spirito di ribellione delle tribù, che ritennero giunto il momento opportuno per tentare la prova.
Fu a capo dell'insurrezione Edemone, un indigeno ellenizzato già schiavo alla corte del re Tolomeo : anche questa volta, come giù nella guerra contro Tacfarina, le truppe e i generali romani dovettero combattere e soffrire a lungo, data la natura ancor più selvaggia della regione, prima di restituire a questa la sua tranquillità e le operazioni militari diedero anche in questa occasione motivo a lontane spedizioni nelle zone meridionali, come quella di Svetonio Paolino, che attraversò la catena dell'Atlantico scendendo molto al di là di essa verso mezzogiorno, fino al fiume Ger (Guir; cfr. Plinio Nat. hist., V, I, II; Dio Cass. LX, 8 e 9). Né tuttavia la tranquillità raggiunta fu mai così sicura, come nella Numidia e nell'Africa pro-consolare: ché, da accenni degli storici e da indirette testimonianze di epigrafi, abbiamo memoria di ulteriori insurrezioni dei popola Mauri, più o meno vaste nella loro estensione e gravi nella loro durata e portata: il più largo e complesso sistema di fortificazioni di cui fu coperta la regione, è anch'esso una prova che questa richiedeva dagli occupanti una più energica e vigile opera di difesa.
Nondimeno, dal secondo o terzo decennio del secondo secolo, imperante Adriano, fino ai decenni corrispondenti del secolo successivo, si può dire corra il periodo più felice delle provincie africane: il periodo di maggiore tranquillità esterna, e insieme del più energico sviluppo economico e della maggiore prosperità agricola commerciale e culturale: i principi che più efficacemente contribuirono a tale stato di benessere furono Adriano, Commodo, Settimio Severo e Alessandro Severo: Traiano ne era stato, prima di loro, il più immediato preparatore, Gordiano III alla metà del sec. III tentò, ma con effimeri risultati, di prolungarlo, trattenendo il paese dalla decadenza, cui ormai fatalmente si avviava.
Invero i primi segni di un risveglio minaccioso delle tribù nomadi del mezzogiorno si erano avuti già al principio del sec. III, ma Settimio Severo, l'imperatore africano che la sua terra natale difese e fece oggetto di cure e di favori, aveva in tempo stornato il pericolo, respingendo lontano le tribù ribelli e saggiamente rafforzando le difese della frontiera: Alessandro Severo aveva seguito il suo esempio e continuato l'opera sua. Ma nell'anno 238, quasi cento anni precisi dalla morte di Adriano, un episodio doloroso di quelle lotte dinastiche, che furono tanta parte nella rovina dell'impero, avendo per campo le regioni centrali e più fertili delle provincie africane, mentre causava a queste danni materiali assai ingenti, aveva per conseguenza di indebolire pericolosamente la difesa militare della provincia, e quindi di dare nuove speranze di successo alle turbolente popolazioni indigene. Il proconsole della provincia, Gordiano, veniva a Tisdro acclamato imperatore: il legato della legione, Capelliano, gli si ribellava e gli marciava contro alla testa dell'esercito rimasto fedele al suo capo. Il regno del vecchio Gordiano ebbe effimera durata, ma, salito al trono il nipote, Gordiano III, questi prese vendetta di coloro che avevano osteggiato l'ascesa della sua famiglia: e la prima a subire tale vendetta fu la legione, che presidiava ormai da quasi tre secoli le provincie africane, la terza legione Augusta: essa fu disciolta, e i suoi soldati sbalzati dai limiti del deserto alle guarnigioni del Reno e del Danubio: le truppe ausiliarie rimasero sole a difendere la frontiera africana. E poiché insieme cause locali e cause generali indebolivano via via le forze dell'impero, non è a meravigliare se la frontiera stessa, e le terre comprese al di qua di questa, vedessero ormai compromessa la loro sicurezza. Le prime a sollevarsi furono le popolazioni delle regioni montagnose della Mauretania: tra la fine del secolo terzo e il principio del quarto, Massirniano e Diocleziano ebbero a combattere contro le tribù dei Quinquegentanei, abitanti il massiccio del Djurjura (Eutropio, IX, 23; Orosio, Hist., VII, 25 ecc.); poco dopo la metà dello stesso secolo, nel 363, gli Austuriani invadevano e saccheggiavano ripetutamente la Tripolitania (Ammiano Marc., XXVIII, 6).
Lo scisma religioso del Donatismo, che tenne divisi in fiera discordia per oltre un secolo i cristiani dell'Africa, avendo ripercussioni anche nel campo economico, l'usurpazione del tiranno Alessandro, proclamato imperatore contro Massenzio, il malgoverno o la rivalità dei Vicarii e dei Comites mandati a reggere la provincia, aggravarono sempre più lo stato di disordine e di anarchia della regione: e di tale stato approfittarono i capi delle tribù indigene per ricostituirsi via via in piccoli regni quasi indipendenti.
Regge uno di questi stati, nella seconda metà del sec. IV, Firmo, che un atto inconsulto del comes romano, in dissidio con l'imperatore, spinge alla rivolta: rapidamente maturano in questa e vi si fondono i germi di ribellione che, ancor più accentuati dallo scisma religioso, covano da tempo nell'animo delle popolazioni. Così a distanza di secoli si rinnovano, nella parte occidentale delle provincie africane, nella Mauretania, gli episodi delle guerre di Giugurta e di Tacfarina. L'imperatore, Valentiniano, manda nell'Africa il suo migliore generale, Teodosio, padre del futuro imperatore, Teodosio il Grande. Attraverso successive vicende, intessute di battaglie in campo aperto e di imboscate, così frequenti nella tattica dei popoli africani, di atti di forza e di patteggiamenti più o meno sinceri dalle due parti, di sottomissioni parziali di tribù e di tradimenti familiari, la guerra, che ci è particolareggiatamente narrata da Ammiano Marcellino (XXVIII, 5, 2 segg.), si prolunga per tre anni (375-378) e termina soltanto con la morte di Firmo. Dodici anni dopo troviamo tuttavia a capo del governo dell'Africa un fratello di lui, Gildone, che già prima aveva tenuto le parti di Roma; ma anch'egli, dopo qualche tempo, si ribella all'impero, e tende a costituirsi delle sue provincie uno stato indipendente: un altro fratello, armato da Roma, gli muove contro, e con l'aiuto del Cielo, dicono gli scrittori cristiani, ostili a Gildone donatista, lo vince. Così miseramente si chiude la vita romana dell'Africa, quando l'ultimo governatore, il comes Bonifacio, invoca, per gelosia contro Placidia, l'intervento dei Vandali: nel 427 questi passano il mare e scendono dalla Spagna nell'Africa. Invano tre anni dopo Bonifacio, ritornato in pace con l'imperatrice, cercherà di cacciarneli: i suoi tentativi saranno vani, e sarà lui invece che dovrà abbandonare la provincia> la quale resterà così da allora definitivamente perduta per Roma.
Occupazione militare. - La necessità di assicurare il pacifico sviluppo di queste provincie, sia dalle ribellioni delle popolazioni soggette sia dai fastidi delle tribù del mezzogiorno, obbligò i Romani a mantenere nell'Africa un saldo presidio militare, inquadrato e rafforzato da opere stabili di difesa.
Il nucleo della guarnigione fu costituito sin dagli ultimi tempi repubblicani, sin da quando cioè le legioni andarono a mano a mano acquistando il carattere di presidi territoriali, da una legione, la. terza Augusta, la quale tuttavia rimase nell'Africa con una costanza e una continuità, che non si verificano per nessuna o quasi nessuna delle altre legioni: all'infuori del breve periodo seguito alla rivolta di Capelliano, essa non abbandonò mai la sua sede, nemmeno per essere usata momentaneamente in spedizioni militari in altre regioni: onde, dalla metà del secondo secolo, essa venne ad essere costituita esclusivamente di elementi locali, cittadini romani delle città africane. Così d'altro lato, accanto alla terza legione, nessun'altra ne fu mai portata stabilmente nell'Africa: solo in via eccezionale, e sempre provvisoriamente, troviamo qui impiegati elementi distaccati da altre legioni.
La sua residenza fu dapprima a Teveste (Theveste, Tebessa), donde la sua azione difensiva poteva agevolmente irradiarsi sia verso occidente, sia verso oriente, proteggendo in egual misura e la Numidia e l'Africa proconsolare con la Tripolitania; al principio del secondo secolo invece, fatta ormai più tranquilla la regione retrostante alla Piccola Sirte, ed occorrendo al contrario guardare con più salda e vigile difesa gli sbocchi attraverso il massiccio dell'Aurès (Aurasius mons). per i quali le tribù del deserto potevano minacciare la sicurezza della Numidia centrale, la legione fu spostata verso occidente, e, dopo una sosta intermedia che non sappiamo se fosse a Mascula (Khenshela) o a Tamugadi (Thamugadi, Timgad), si fissò definitivamente a Lambesi, sulle pendici settentrionali dell'Aurès. Qui essa fu visitata nell'anno 128 d. C. dall'imperatore Adriano, e della visita è a noi rimasto ricordo in una base marmorea, che reca l'ordine del giorno di compiacimento emanato da Adriano alle truppe (Corpus inscr. lat., VIII, 18042); qui la legione si costruì un ampio accampamento, del quale rimangono cospicui avanzi, e vicino al quale venne a mano a mano formandosi un centro cittadino (v. LAMBESI).
La legione, pure spingendo in qualche caso i suoi distaccamenti nei lontani fortini avanzati di frontiera (troviamo memoria di alcuni di questi distaccamenti nei castelli di Bu Ngem, di Gheriat, di Gadames nel sud tripolitano), aveva come compito precipuo quello di costituire la guarnigione territoriale della provincia. La difesa mobile, disseminata lungo la linea del limes, ed operante qua e là, ove più urgente ne fosse il bisogno, era invece soprattutto formata dalle truppe ausiliarie, ali di cavalleria e coorti di fanteria, fornite tuttavia normalmente anche quest'ultime di un piccolo reparto di cavalieri (cohortes equitatae). Reclutate da principio un po' da ogni provincia dell'impero, come ci provano i loro nomi, anche queste truppe ausiliarie finirono nondimeno col tempo per essere arruolate sul posto, fra le popolazioni locali fedeli: unici elementi stranieri rimasero i Siriani, che Settimio Severo e i suoi immediati successori portarono anzi ancora più largamente nell'Africa, sia per gli stretti rapporti in cui questi imperatori furono con la Siria, sia perché l'esperienza aveva provato quale ottimo impiego potevano avere tali soldati, in gran parte abili tiratori d'arco, nelle guerre africane, in un paese cioè che con la Siria aveva tanti punti di somiglianza e contro un nemico che aveva come prima arma la sua straordinaria mobilità.
Accanto alle truppe regolari, legione e corpi ausiliari, che si calcola formassero complessivamente, fra tutte le provincie africane, un contingente di circa trentamila uomini, i testi ci testimoniano l'uso di milizie irregolari, simili alle nostre bande indigene, arruolate al momento del bisogno fra le tribù locali, per opera del funzionario romano che in mezzo ad esse, come commissario regionale, rappresentava il governo provinciale (praefectus gentis). il loro servizio durava quanto durava l'impresa per la quale erano state assoldate; dopo venivano congedate e la loro formazione disciolta.
A completare infine il quadro delle forze militari africane, conviene ricordare la piccola flotta (classis libyca). che aveva la sua base nel porto di Cesarea e che era incaricata della polizia del mare contro le molestie dei rari pirati che, ancora durante l'impero, infestavano talvolta le coste occidentali della Mauretania.
Come in Britannia e in Germania, come sull'Eufrate in Oriente, così anche nell'Africa l'impero aveva difeso la sua frontiera con un limes, cioè con un vasto complesso di opere fortificatorie. È incerto tuttavia se questo limes corresse, eguale e completo in tutte le sue parti, e con linea ininterrotta, lungo tutto il confine meridionale delle provincie africane, attraverso le regioni inospitali che vanno dalla Grande Sirte all'Atlantico, o se esso invece si limitasse soltanto a proteggere i punti strategicamente più deboli. L'esplorazione diretta del terreno non ha permesso di riconoscerne fino ad ora che alcuni tratti qua e là, e i testi scritti, che ce ne serbano memoria, sono di età troppo tarda, per potere da essi giudicare con sicurezza quali fossero l'andamento e l'aspetto della frontiera nell'età più antiche. Come è naturale, questa frontiera subì, attraverso i tempi, delle modificazioni, prima gradualmente ampliandosi, con 1' estendersi della dominazione e della colonizzazione romana, poi via via restringendosi, col decadere della forza e della potenza dell'impero.
Si può tuttavia affermare che nel periodo della sua maggiore ampiezza, corrispondente al periodo della maggiore floridezza dell'Africa, la frontiera doveva contenere e difendere tutte le terre che comunque erano suscettibili di essere messe in valore.
Si iniziava essa ad oriente sulla costa fra la Grande e la Piccola Sirte, a Leptis Magna, e, correndo lungo la cresta dell'altipiano tripolitano, ridiscendeva sul mare a Tacape: essa abbracciava così tutta la zona costiera della Tripolitania, spingendo tuttavia verso sud alcuni fortini avanzati a proteggere il traffico delle vie carovaniere.
Da Tacape, dirigendosi verso occidente, il limes approfittava della difesa naturale offerta dalle grandi paludi del sud tunisino (Chotts, shott) quindi piegava un po', verso N., ricollegandosi al massiccio dell'Aurès. Fino al principio del secondo secolo i Romani si erano tenuti a settentrione di questo massiccio montagnoso; fra il secondo e il terzo secolo invece essi lo valicarono, scendendo oltre verso mezzogiorno; tuttavia la mal domata resistenza delle popolazioni del luogo, e il favore che esse potevano dare ad un' eventuale penetrazione delle tribù del deserto attraverso le valli che tagliavano trasversalmente il gruppo montuoso, consigliarono i Romani a non sguarnirne la linea di difesa, che appoggiata soprattutto al campo di Lambesi, correva lungo le pendici settentrionali di esso; cosicché il gruppo stesso venne ad esser chiuso fra due linee fortificate, a N. e a S., e disseminato insieme di castelli e posti di osservazione lungo le valli trasversali. D'altronde era questo il caposaldo difensivo di tutta la regione più fertile e più popolata dell'Africa romana.
Al di là dell'Aurès, la frontiera, tenendo sempre verso N., raggiungeva a Zarai (Zraia) il confine fra la Numidia e la Mauretania. Nella Mauretania la natura del paese, più montagnoso e meno suscettibile di colonizzazione, e l'indole più ribelle delle popolazioni, consigliarono ai Romani un sistema di fortificazioni più complesso e più vario. Tale sistema seguiva altresì la configurazione della regione, tagliata longitudinalmente da catene di montagne parallele alla costa. Una prima linea di difesa era costituita dalle città fortificate del litorale; la seconda si stendeva nelle valli e lungo i fiumi che chiudevano a S. le catene e i massicci montuosi costieri, dei quali il più importante era quello del Mons Ferratus (Djurjura); la terza infine, la più esterna, saliva sul ciglio della seconda catena di monti e nei tempi più felici l'oltrepassava.
Da ultimo, all'estremo lembo occidentale dell'Africa romana, nella Mauretania Tingitana, il limes correva alla base della penisola, che si protende verso lo stretto di Gibilterra, tenendosi a S. della città di Volubilis e raggiungendo la costa dell'Atlantico a Sala; di qui una via, disseminata di città e centri fortificati, piegava verso N. lungo il mare fino a Tingi (Tangeri). Altre fortezze interne, isolate o congiunte fra loro, sorvegliavano inoltre, e quasi chiudevano da ogni parte, le selvagge e indomabili popolazioni del Rif.
Sviluppo economico. - Al riparo di così salde e vigili difese di uomini e di opere, le provincie africane poterono, mercé la tenace e sapiente colonizzazione romana, raggiungere in meno di tre secoli un grado di prosperità economica e di splendore civile, quali poche altre provincie dell'impero, anche di più antica costituzione, riuscirono a toccare.
La ricchezza dell'Africa fu particolarmente una ricchezza agricola. Il commercio, costituito in special modo dal traffico carovaniero che portava alla costa i prodotti del centro del continente: avorio, pelli, schiavi, belve per gli spettacoli dell'anfiteatro, forse anche polvere d'oro; gli altri prodotti del suolo, quali il marmo delle cave di Simitthu (Chemtou) in Numidia, le gemme delle Sirti, il sale, furono per la regione fonti secondarie di profitto, in confronto a quella che fu per essa la coltura dei campi. Non che questa fosse, specie per alcune zone, scevra di difficoltà per la natura del terreno e l'inclemenza delle stagioni, ma appunto l'abile e vigoroso sforzo romano, vincendo l'una e l'altra, poté rendere tale coltura altamente redditizia, sia per la prosperità della regione stessa sia per l'economia generale dell'impero.
I Cartaginesi, popolo eminentemente marinaro e mercantile, avevano messo in valore soltanto la parte di territorio retrostante a Cartagine, la più favorita dalla natura, e piccole porzioni attigue ai loro empori costieri; i Numidi più vicini alla costa, ammaestrati dai Cartaginesi, e sotto l'impulso degli ultimi loro re, soprattutto di Masinissa, avevano dirozzato i loro metodi agricoli e dato maggiore sviluppo all'agricoltura in confronto della pastorizia, da loro prima praticata: pur tuttavia i Romani, scendendo nell'Africa, si può dire si trovassero di fronte ad un paese, dove il problema era da affrontare in pieno. Cominciarono essi al tempo di C. Gracco col mandare dei coloni, cui assegnarono piccoli lotti di terreno, di quello che era di proprietà pubblica; ma i piccoli coloni non ressero: d'altronde per tutto l'ultimo, agitato periodo repubblicano l'opera di valorizzazione della provincia non fece alcun passo. Essa invece fu intrapresa con vigore e chiarezza di propositi soltanto da Cesare e da Augusto, e continuata poi con eguale vigoria dagli imperatori seguenti. Anche allora il sistema dei coloni, soprattutto costituiti da veterani, non fu abbandonato interamente: ma la sua applicazione fu limitata a quei punti, dove la maggiore e più rapida fertilità della terra consentiva lo sviluppo di piccole proprietà, cioè di solito in prossimità di centri già abitati, o dove, per la necessità della difesa, la colonia veniva ad assumere una funzione più militare e strategica che economica. Invece per la massima parte delle provincie africane, in specie per le zone meridionali e occidentali, dove soltanto una coltura estensiva, e quindi di non immediato rendimento, poteva essere utile, il sistema economico che rapidamente prevalse fu quello della grande proprietà, del latifondo. Scrive Plinio alla fine del sec. I d. C. (Nat. hist., XVIII, 35): Sex domini semissem Africae possidebant, cum interfecit eos Nero princeps. Avvenne infatti d'altro lato che, per confisca o per eredità o per acquisto, gl'imperatori assorbissero a poco a poco le grandi proprietà private, e divenissero se non gli unici, certo di gran lunga i maggiori proprietari dell'Africa.
Costituivano questi demani imperiali dei saltus, ed erano amministrati da funzionari (procuratores) di vario grado; quasi sempre essi erano affittati a un conductor, il quale a sua volta li frazionava e ne subaffittava a coloni le singole porzioni. I coloni erano tenuti alla cessione di una parte dei frutti, diversa a seconda del genere di questi, e alla prestazione annua di un certo numero di opere: i doveri del conductor e dei coloni, e i favori che essi potevano godere, soprattutto nel caso che essi mettessero in valore parti di terreno rimaste incolte e selvagge (ché i saltus avevano così grande estensione, da comprendere in sé non solo terre coltivate, ma anche zone selvose o paludose o, comunque, ancor vergini dall'opera dell'uomo), erano fissati in leggi generali, che il procurator della regione o del saltus adattava poi alle particolari condizioni di questo o di quella. Interessanti documenti epigrafici ci hanno conservato il testo, purtroppo frammentario, di alcune di queste leggi o editti procuratori, facendoci spesso menzione delle circostanze, che ne avevano motivato l'emanazione e la pubblicazione (Corpus Inscr. Lat., VIII, 25902; 25943; 26416; 10570). Poiché assai spesso, come si comprende, si dava il caso che l'affittuario generale cercasse di imporre ai coloni prestazioni più onerose, e che questi tentassero sottrarvisi con un reclamo, non sempre ascoltato, all'autorità dell'imperatore. D'altronde le condizioni di questi coloni, che erano dapprima, e dovevano essere, quelle di liberi lavoratori, con il mutare dello stato economico e politico della regione e con l'affievolirsi del potere del sovrano nelle provincie si aggravarono fino a trasformarsi quasi in quelle di una gente legata alla terra, che essa stessa coltivava di generazione in generazione, e di cui seguiva le sorti nei trapassi di proprietà: quasi una servitù della gleba.
Dai testi delle leggi, cui ora si è accennato, e dai passi degli scrittori, apprendiamo quali erano i prodotti principali dell'agricoltura africana. Cereali innanzi tutto; una terza parte, sembra, del grano che serviva ai bisogni della capitale era fornito dall'Africa: esso proveniva, oltre che dai demani imperiali, dai tributi che gli abitanti pagavano in natura. Dai centri di riscossione di questi tributi, nelle città e nei villaggi, il grano veniva avviato ai grandi magazzini dei porti di imbarco: Adrumeto, Rusicade (Philippeville), Muslubio, donde poi le flotte frumentarie lo portavano ad Ostia e a Pozzuoli. Speciali funzionari sorvegliavano e dirigevano questo servizio dell'annona, che era, per la tranquillità e la pace della capitale, coefficiente di primaria importanza. Dopo il grano, il prodotto più notevole dell'Africa era l'olio; la coltura dell'olivo, redditizia nelle regioni dove il suolo scarseggia di acqua, era stata diffusa particolarmente nella parte meridionale della provincia, nella Bizacena e nella Tripolitania: a proposito di quest'ultima regione sono note le testimonianze di Sparziano (Vita Sev., 23) e di Aurelio Vittore (de Caes., XLI, 19 seg.), intorno al tributo di olio offerto spontaneamente dai Tripolitani a Settimio Severo, divenuto poi obbligatorio e perpetuatosi fino al tempo di Costantino. E poi ancora possono ricordarsi il vino e i legumi; e tra le industrie che vivono della campagna in grande onore era l'allevamento delle api per la produzione del miele.
Vita e civiltà. - Se dalle fonti scritte apprendiamo i metodi della valorizzazione agraria romana dell'Africa, e i frutti che essa poté raggiungere, i monumenti e le rappresentazioni figurate ci pongono dinnanzi agli occhi e gli strumenti materiali di quella valorizzazione e la vita che essa diede e riuscì a svegliare nelle campagne.
I primi dobbiamo ricercarli particolarmente nella vasta rete stradale, che si distese su tutta la provincia, a collegare fra loro i punti più lontani, facilitando insieme il trasporto dei prodotti del suolo e lo spostamento delle truppe in caso di guerra, e nelle sapienti opere di regolarizzazione e utilizzazione delle acque. Ogni risorsa idrica, nella scarsezza che il paese ne offriva, venne al più possibile messa in valore: le acque piovane vennero raccolte in cisterne, la falda del sottosuolo cercata fino a grande profondità, le sorgenti captate e condotte ad alimentare lontano città e centri abitati, i torrenti sbarrati o deviati, sì che le loro piene invernali non si perdessero inutilmente nel mare.
Della prosperità delle campagne e dell'intensa e agiata vita che vi si conduceva ci fanno testimonianza sia le frequenti rovine di ville e di fattorie che vi si incontrano, sia la ricchezza stessa che queste ville ci rivelano, nelle comodità di cui erano fornite, nello splendore della decorazione, a pittura e musaico, che i proprietari vi profondevano. Non solo: in questi stessi musaici noi troviamo assai spesso riflessa la predilezione che quei proprietari terrieri sentivano per le loro dimore campestri e per le occupazioni di cui, soggiornando in esse, riempivano la loro giornata. Numerose e comuni sono nell'arte musiva africana, che sempre ha avuto un'impronta di sano realismo, queste rappresentazioni della vita rustica locale: dalla grande, monumentale villa del padrone, che ci appare simile ad un castello settecentesco, con alte torri a padiglione e parco fiorito all'intorno, ai fabbricati che ad essa erano annessi, per i coloni e per il bestiame da stalla e da cortile; dai lavori più significativi della coltura dei campi, l'aratura e la trebbiatura, agli svaghi preferiti dai signori: la caccia alla selvaggina e alle fiere, il piacevole conversare e filosofare all'ombra degli alberi.
È certo infatti che questa borghesia, romana in parte di origine, ma in gran parte formata da elementi indigeni romanizzati, alternava volentieri il soggiorno di campagna con quello della città, profondendo parimenti nell'uno come nell'altro il suo desiderio, non mai sfrenato tuttavia, di lusso e di agiatezza. Non si comprenderebbe altrimenti come, con la frequenza delle ville, si riscontri, soprattutto nelle zone agricole più produttive, un'eguale frequenza di centri urbani, tutti notevoli per la grandiosità e la bellezza dei loro edifici.
Lo sviluppo della vita municipale è d'altronde un altro aspetto ed un'altra manifestazione dell'alto grado di benessere e di civiltà, a cui i Romani avevano portato le provincie africane. Di fronte ai radi e modesti centri urbani, che l'Africa contava prima dell'occupazione romana, disseminati quasi tutti lungo la costa, dove erano nati dagli empori fondati dai Fenici, e pochi soltanto sparsi nell'interno, per opera degli ultimi re numidi indipendenti, stanno le numerose colonie e municipi romani, che, dove più dove meno dense, si distendono negli ultimi secoli dell'Impero per tutta l'Africa, dalla Sirte all'Atlantico. Tale densità è, come si è detto, in ragione diretta della fertilità del suolo: dove questa è minore, sì che solo è possibile una coltura largamente estensiva e la popolazione che può vivere della terra è di conseguenza minore, le città sono più scarse; dove invece il terreno è pingue, e si presta ad una valorizzazione vigorosa ed intensa, le città si susseguono le une alle altre vicinissime. In alcune regioni, come nelle valli del Bagradas (Megerda) e degli altri fiumi della Tunisia centrale e dell'Algeria orientale, si contano talvolta fino a sei e sette città su una superficie di 500 kmq., e sono in generale città, di cui la prosperità si rivela nella copia e nella bellezza e ricchezza delle costruzioni pubbliche e private: le prime quasi sempre dovute non tanto al mecenatismo di principi, quanto alla illuminata prodigalità di singoli cittadini, o all'ardita iniziativa del governo municipale. Quando il cristianesimo, diffusosi rapidamente e largamente nel paese, vi fonda la sua organizzazione gerarchica, esso trova la base di questa nell'ordinamento municipale, e di ogni città fa una sede episcopale; così che ai concili cartaginesi del secolo quarto e quinto, i vescovi convenuti dalle varie provincie africane ammontano a più di quattrocento (v. sotto).
Così copiosa e larga e profonda opera di civiltà, che Roma ebbe a compiere nell'Africa, non fu senza frutti per essa che la compì: frutti spirituali e culturali, ancor più preziosi dei frutti della terra, che, come si è visto, erano pur molti ed utili. L'Africa diede a Roma principi e magistrati, giureconsulti, filosofi e scrittori: ma soprattutto l'Africa fu per Roma e per l'Occidente la buona e vigorosa riserva della latinità nella lotta di questa contro l'Oriente, a cui la divisione dell'Impero ridonava un'unità politica indipendente, e che l'irrequieto spirito di ricerca e di disputa, risvegliato dalla diffusione del cristianesimo, faceva fiorire di eresie, di culti segreti e sincretistici, di nuove scuole filosofiche. Quando la chiesa di Roma sostiene contro le chiese di Oriente la sua disciplina, le sue formule, il suo primato soprattutto, è la chiesa africana che porge a lei il più valido sostegno, e dall'Africa, che, pur attraverso prove e scismi dolorosi, aveva testimoniato il suo attaccamento alla fede con l'eroismo dei martiri e la dottrina degli apologeti, si leva con S. Agostino la voce più alta e più sicura, che, affermando la funzione provvidenziale dell'Impero, riconsacra la gloria di questo dinnanzi alle coscienze fatte trepide dalla sventura, abbattutasi su Roma con il sacco dei Goti di Alarico; e tale riconsacrazione ha sì larga eco nel tempo, che si ripercuote e si tramanda, attraverso tutto il Medioevo, fino all'età moderna.
Alla vigilia ormai di cadere anch'essa sotto il dominio dei barbari, con questa voce di S. Agostino, l'Africa offre a Roma l'ultima testimonianza di soggezione e di gratitudine.
Esplorazione archeologica. - La completa noncuranza degli Arabi per le memorie del passato, e di un passato che per di più non era nemmeno il proprio, la povertà della loro vita e l'esiguità dei loro bisogni, la natura stessa del suolo sabbioso del deserto, concorsero ad assicurare la migliore conservazione dei monumenti romani nell'Africa. Questa è infatti una delle regioni dell'antico Impero, che più largo e fecondo campo ha offerto all'esplorazione archeologica. Fino al successivo, graduale ritorno delle provincie africane sotto il dominio delle potenze civili di Europa, tale esplorazione si limitò di necessità allo studio ed alla descrizione delle rovine sopra terra, da parte dei viaggiatori e degli esploratori che percorsero il paese. Fra essi si possono ricordare il medico italiano G. Pagni, che, dimorando in Tunisi tra il 1667 e il 1668, studiò i monumenti di Cartagine e ne riferì in alcune lettere a F. Redi (Lettere di G. Pagni, medico e archeologo pisano, a F. Redi, in ragguaglio di quanto vide in Tunisia, Firenze 1829); il Bruce, che viaggiò nell'Algeria e nella Tunisia sul finire del sec. XVIII (Playfair, Travels in the Footsteps of Bruce in Algeria and Tunis, Londra 1887); L. Settala e C. Borgia, cui pure dobbiamo notizie e disegni delle rovine di Cartagine (L. Settala, Ragguaglio del viaggio di un dilettante antiquario sorpreso dai corsari, Milano 1805; l'opera del Borgia è rimasta inedita); i fratelli Beechey (Proceedings of the expedition to explore the Northern Coast of Africa, Londra 18z8); il medico genovese P. Della Cella, che nel 1817 accompagnò la spedizione del Pascià di Tripoli contro il figlio ribelle in Cirenaica (Viaggio da Tripoli di Barberia alle frontiere dell'Egitto fatto nel 1817, 30 ed., Città di Castello 1912); H. Barth, cui spetta uno dei primi posti fra gli esploratori del continente africano (Wanderungen durch die Kiistenliinder des Mittelmeeres ausgefiihrt in d. J. 1845-1847, Berlino 1849; Reisen und Entdeckungen in Nord- und Central-Afrika in d. J. 1849-1855,5 voll . , Gotha 1857- I 858) ; H. Duveyrier (Exploration du Sahara: I. Les Touaregs du Nord, Parigi 1864) e molti altri.
Dalla metà del secolo scorso in poi si è iniziata invece l'opera metodica di scavo e di ricerca; invero i primi anni dell'occupazione francese in Algeria non furono per quest'opera tra i più attivi e fecondi; anzi esigenze belliche e una ancora non bene affermata coscienza del valore morale e scientifico delle antiche memorie fecero sì che queste avessero a subire in quel periodo non piccoli né sempre riparabili danni. Tutt'altro indirizzo, al contrario, prevalse più tardi, e l'opera fu intrapresa con larghezza di mezzi e serietà di propositi, prima in Algeria, poi, dopo il 1881, in Tunisia: il merito di essa va naturalmente per intero alla scienza francese, che d'altra parte dopo il 1912 ha esteso la sua attività anche all'ultimo lembo occidentale dell'Africa romana venuto in suo possesso, al Marocco.
Accanto ad essa si è posta, dal 1911 in poi, la scienza italiana per la parte che l'occupazione libica le ha assegnato.
La copia e l'importanza delle rovine messe in luce dall'esplorazione della regione, sono in relazione col vigoroso sviluppo che la regione stessa, come abbiamo visto, ebbe in antico. E mentre sparsi per le campagne si sono riconosciuti i resti, molte volte veramente cospicui, di ville, di fattorie, di cisterne, di opere di fortificazione, di sbarramenti di torrenti; lo scavo regolare condotto intorno ai centri urbani ha fatto risorgere dalle sabbie intere città sepolte. La più comunemente nota fra queste è Tamugadi (Timgad) nel S. dell'Algeria, soprannominata la Pompei africana; ma non meno notevoli per il valore scientifico delle scoperte, o mirabili per la pittoresca bellezza dell'insieme possono ricordarsi accanto ad essa: Cuicul (Gemila), Tubursico dei Numidi (Khamissa), Teveste (Tébessa), Lambesi (Lambèse), Tipasa ecc. in Algeria; Tugga (Dugga), Ammedara (Haidra), Sufetula (Sbeitla) in Tunisia; può ben stare alla pari del Colosseo, non per grandiosità certo, ma per conservazione, l'anfiteatro di Tisdro (el- Gem), pure in Tunisia; ben poca cosa invece sono le rovine di Cartagine, che molto hanno sofferto in ogni tempo per la vicinanza di Tunisi.
Accanto a questi ormai vecchi centri di rovine stanno sorgendo ed affermandosi vigorosamente in Tripolitania Leptis Magna t Sabratha, delle quali la prima potrà forse vantare tra non molto i primato tra le città romane risorte dell'Africa, soprattutto in grazio della grandiosità degli edifici e della mirabile conservazione che ad essi hanno assicurato le sabbie, che li hanno ricoperti per secoli. Mi non è solo l'aspetto monumentale quello che può darci un'idea precisa e completa dei risultati raggiunti dall'esplorazione archeologico dell'Africa, bensì anche la considerazione del numero e del valore dei materiali di ogni genere recuperati in virtù d'essa. Le iscrizioni latine, comprese nei volumi del Corpus dedicati all'Africa, ammontano fino ad oggi a 28.000: si debbono aggiungere ad esse le epigrafi greche e puniche, particolarmente numerose queste, specie in alcuni centri, come Cartagine. Quindici, tra musei e collezioni, pubbliche e private, dal museo del Bardo o museo Alaoui di Tunisi primo per copia e importanza di oggetti, ai minori sparsi nelle cittì o nei centri archeologici della Tunisia e dell'Algeria, contengono i materiali mobili, fra i quali il posto d'onore è tenuto dai prodotti dell'arte del musaico, un'arte che, per la fortuna e per la grande diffusione che ebbe in queste provincie, potrebbe dirsi prevalentemente africana. A queste raccolte debbono aggiungersi le due italiane di Tripoli e di Leptis, e quella di Volubilis nel Marocco, ancora in formazione e destinate a fortunato incremento. L'esplorazione archeologica, che del resto non può dirsi certo esaurita nemmeno nelle provincie centrali, si presenta oggi infatti più che mai degna di attenzione nelle due provincie estreme, di oriente e di occidente, dalle quali è lecito attendersi qualche accento nuovo; la rivelazione di qualche nuovo aspetto dell'antica vita romana dell'Africa.
Bise.: L. Miiller, Numismatique de l'ancienne Afrique, Copenaghen 1860-1862, voll. 2 e suppl.; Ch. Tissot e S. Reinach, Géographie comparée de la province romaine d'Afrique, Parigi 1884-88, voll. 2 e atlante; R. Z. Playfair, Thé Bibliography of the Barbary States, in R. Geogr. Soc. Suppl. Papers, Londra 1889; P. Gauckler, H. Saladin, R. Cagnat, Les Monuments historiques de la Tunisie (I, Les temples paiens; II, Les basiliques Chrétiennes; III, La Mosquée de Sidi Okba). Parigi 1898 segg.; A. C. Pallu de Lessert, Fastes des provinces africaines sous la domination romaine, Parigi 1896-1901, voli. 2; St. Gsell, Les monuments antiques de l'Algérie, I., Parigi 19o1; G. Boissier, L' Afrique romaine, 8a ed., Parigi 1912; R. Cagnat, L' armée romaine d'Afrique et l'occupation militaire de l'Afrique sous les Empereurs, 2. ed., Parigi 1912; St. Gsell, Histoire ancienne de l'Afrique du Nord, voli. 6 (in cont.), Parigi 1921-1927; Musées et Collections archéologiques de l'Algérie et de la Tunisie publiés sous la direction de M. R. de La Blanchère, Parigi 1890 e segg.; Corpus Inscriptionum Latinarum,VIII; S. Aurigemma, Notizie archeologiche sulla Tripolitania, in Notiziario arch. Min. colonie, I, PP• 35-64; P. Romanelli, Leptis Magna, Roma 1925; id., Bibliogr. archeol. ed artistica della Tripolitania, in Boll. R. Ist. arch. e storia dell'arte, I (1927). P. R.
3. AFRICA CRISTIANA. - Sotto questo titolo, benché amplissimo, storici e archeologi del cristianesimo sono d'accordo nel comprendere solo il periodo antico della storia cristiana, ed una porzione limitata del continente africano, ossia il territorio che corrisponde alla Dioecesis Africae di Diocleziano, aggiuntavi la Mauretania Tingitana (Marocco), da questo imperatore unita invece alla Spagna. Si rispettano così esigenze storiche evidenti, ché la chiesa egiziana e quelle le cui origini o vicende successive furono più o meno legate alle sorti del Patriarcato di Alessandria ebbero caratteri e svolgimento storico del tutto diversi.
Tale restrizione del significato del nome Africa appare dunque pienamente giustificata: anche se alcune ricerche recenti sembrano dare maggiore consistenza all'ipotesi che la primitiva evangelizzazione dell'Africa sia opera dell'Egitto, anziché di Roma, come la maggioranza dei competenti è disposta a credere, nonostante alcune obbiezioni. Sta però di fatto che la chiesa di Roma non si proclamò «madre» di quella di Cartagine che assai tardi, ed in testi il cui scopo non è altro se non quello di riaffermare il primato romano; mentre le leggende sulla fondazione apostolica delle chiese sono anch'esse tardive, e l'Africa le ignora.
Ma, se le sue origini giacciono avvolte nel mistero, il cristianesimo africano appare alla luce della storia già formato, con alcuni dei suoi caratteri distintivi, e avvolto dall'aureola del martirio, negli atti del processo fatto ad un gruppo di cristiani a Scilli, sotto Severo e Caracalla, essendo proconsole Vigellio Saturnino, XVI Kal. Aug. Praesente bis et Claudiano consulibus: il 17 luglio del 180.
L'uso della lingua latina e l'accenno ai libri et epistulae Pauli viri iusti sembrano alludere all'esistenza, già allora, di una versione latina del Nuovo Testamento; ed è opinione diffusa, tra le molte ipotesi intorno all'origine delle prime traduzioni latine della Bibbia, che l'esigenza di tali versioni sia stata sentita primamente in Africa. Fatto, questo, tanto più significativo, in quanto sino alla fine del sec. II o agli inizi del III la chiesa di Roma (scartata la inconsistente ipotesi che il Vangelo di Marco sia stato scritto originariamente in latino) usò come lingua liturgica e degli atti ufficiali il greco; mentre il latino sarebbe stato adottato per iniziativa di un pontefice africano (Vittore) o per lo meno solo in seguito alla prevalenza acquistata in seno alla chiesa di Roma dal gruppo degli emigrati africani. Cartagine ci dà invece in quel tempo, se non forse il primo, certo uno dei più importanti, fra gli scrittori cristiani latini: Quinto Settimio Fiorente Tertulliano. Nelle opere del quale non mancano passi che dimostrano la sua dipendenza da Clemente alessandrino; mentre egli si servì della confutazione delle eresie scritta in greco da S. Ireneo e stese in greco la prima redazione di almeno due opere (De spectaculis e De corona militis); altri scritti (l'Apologetico, la Passio delle Ss. Perpetua e Felicita, oltre gli Atti degli Scillitani), furono tradotti in questa lingua. Si è anche pensato da taluni che egli traducesse direttamente dal greco alcune citazioni bibliche, né tra le iscrizioni cristiane dell'Africa mancano quelle greche. Ma, se questa lingua era capita anche dall'uditorio di Apuleio, è eccessivo parlare, come pur si è fatto, di un «periodo greco»; al più si può supporre che gli emigrati orientali fossero numerosi, e frequenti i rapporti con l'Egitto: cose non improbabili in un porto di mare dell'importanza di Cartagine. Ma non vi è dubbio che agli scrittori cristiani dell'Africa, e a Tertulliano in prima linea, si deve la formazione del linguaggio ecclesiastico latino, di cui il Medioevo trasmise termini o significati fino alle lingue romanze. Citiamo parole di nuova coniazione o dal senso rinnovato, come compendiare, gratia, gratiositas, inreligiositas, sacramentum, saeculum, scandalizare, ultimare. E benché negli ultimi tempi si siano eliminate alcune evidenti esagerazioni, resta vero che il linguaggio e la sintassi degli scrittori e dei testi biblici o epigrafici africani hanno colorito assolutamente peculiare. E, si voglia attribuire sia ad un vescovo di Roma (Callisto) sia ad uno di Cartagine (Agrippino) l'«editto perentorio» combattuto nel De paenitentia tertullianeo, è opinione prevalente, benché discutibile, che anche la rinnovata prassi penitenziale, per cui con il sec. III si estende assai la concessione della riconciliazione ecclesiastica, abbia avuto origine in Africa. Ciò si accorderebbe da un lato con quanto sappiamo dell'influenza esercitata dall'Africa sul mondo cristiano occidentale; ma contrasta dall'altro con l'atteggiamento generale del cristianesimo africano che è, in complesso, affatto rigoristico e intransigente.
E, prima di tutto, nei riguardi dell'Impero. Dopo i martiri di Scilli, la Passio montanista (probabilissimamente tertullianea) di Perpetua e Felicita e, sulle orme di questi, una legione di martiri lancia fieramente la dichiarazione christianus sum in faccia ai magistrati imperiali: i quali, sia per scopi politici sia per un sentimento di umanità che li spinge a sottrarre gli accusati alla condanna inevitabile (o sia per entrambe le cause), cercano di indurli all'abiura e di strappar loro un atto di ossequio, anche solo esteriore, al culto ufficiale e all'imperatore divinizzato, manifestazione di lealismo e di rispetto dell'ordine costituito. Ma la resistenza della massa cristiana è, tutto sommato, invincibile. Trova le sue ragioni profonde in un fervore di aspettative escatologiche particolarmente vivo in questa regione (benché scarsamente, o per nulla, alimentato dalla lettura di apocrifi), che ci spiega per l'appunto il successo della predicazione montanista e l'adesione data ad essa anche da Tertulliano: preesistevano cioè in Africa le condizioni favorevoli alla diffusione di quel movimento. Non mancarono del resto altre predicazioni ereticali: lo gnosticismo trovò propagatori, combattuti da Tertulliano, Quintilla (De bapt., 1 e 17) ed Ermogene; particolarmente pericolosi i valentiniani. E, soprattutto, la chiesa marcionita ebbe un momento di vera potenza. Così che non mancarono né i dissensi teologici, né quelli disciplinari.
Ma, se la persecuzione deciana creò un cospicuo numero di lapsi e questi dopo l'abiura più o meno esplicita chiedevano o pretendevano, con l'aiuto dei confessori, di essere riammessi alla comunione, l'episcopato africano, già numeroso e agguerrito, seppe resistere ad ogni infrazione alla disciplina. Il voto di Tertulliano (De ieiun., 13) che si convocassero dei concili era stato soddisfatto da Agrippino; l'organizzazione ecclesiastica comprendeva già al suo tempo diaconi, presbiteri e vescovi (De fuga, r r); ma S. Cipriano, eccetto che per l'autorità personale e per l'importanza della città, non appare superiore ai suoi colleghi. Non avrebbe potuto del resto proclamarsi tale, senza contraddirsi: ché, nell'unità della chiesa cattolica, egli fu dell'autorità e dell'indipendenza dei vescovi assertore tenace, resistendo contro l'imposizione della prassi penitenziale romana, in nome di quella tradizionale dell'Africa, dove la riconciliazione degli apostati ed eretici era fatta dipendere dalla reiterazione del battesimo. Un cinquantennio più tardi, la persecuzione dioclezianea rendeva di nuovo d' attualità la questione dei lapsi e della loro riammissione. Malgrado episodi eroici di martirio, lo spettacolo offerto allora dal clero e dai fedeli dell'Africa è piuttosto sconfortante (v. p. es. gli Acta Munati Felicis, nei Gesta apud Zenophilum dell'Appendix ad Ottato di Milevi); ma non appena la persecuzione cessò, ad opera di Massenzio (Ottato, I, 18), le tendenze rigoristiche e l'opposizione al potere imperiale si manifestarono di nuovo. In questo stato di cose sono da cercare le origini e le cause profonde dello scisma donatista, che per più di un secolo doveva lacerare l'unità della chiesa africana. L'episcopato cattolico accettò invece la prassi penitenziale diffusa nel resto dell'Occidente, al concilio di Arles (314), convocato per iniziativa di Costantino. Il quale dopo la vittoria di ponte Milvio adottò la politica del predecessore e cercò d'ingraziarsi i cristiani, che erano in Africa la maggioranza o quasi.
La grande, rapida diffusione è infatti un'altra delle caratteristiche del cristianesimo in questa regione: e si rivela nel numero delle sedi episcopali, attestate in monumenti e documenti. Sotto Cipriano, un concilio del 256 raccolse 87 vescovi dei quali 4 della Tripolitania, 27 della Bizacene, 8 della Proconsolare, 13 della Numidia. Il concilio del 418 a Cartagine ne raccoglie (compresa la Mauretania Tingitana) da 205 a 214; quello dell'anno successivo, 217. Nel 335 si riuniscono a Cartagine 270 vescovi donatisti, e 310 a Bagai nel 394; l'anno precedente, da 55 a Zoo donatisti dissidenti (massimianisti) partecipano ad una riunione, e la conferenza di Cartagine del 411 riunisce 286 cattolici e 279 donatisti; infine, 466 vescovi non ariani si raccolgono ancora a Cartagine il i febbraio 484. Da Diocleziano in poi, troviamo già un principio di organizzazione delle provincie: vi è un episcopus prinzae sedis (o primae cathedrae) o primas, un decano, benché non in tutte le provincie. Più tardi, il vescovo di Cartagine diventa quasi un vero metropolita: il concilio d'Ippona (393) impone a tutte le chiese di seguirlo nel regolare la Pasqua, e l'autorità della sede è evidente quando un vescovo come Aurelio può rappresentare una parte di prim'ordine, pur avendo al suo fianco un collega dell'autorità e del prestigio di S. Agostino.
A differenza da quanto accadde in altre regioni, il cristianesimo in Africa conquistò anche le campagne; e si diffuse tra l'elemento indigeno, punico e berbero. Ciò spiega come in questo si reclutassero specialmente i seguaci del donatismo, che ebbe anche il carattere di un'insurrezione sociale e politica. Le sedizioni frequenti e le repressioni dell'autorità contribuirono poi, a loro volta, ad esasperare nei dissidenti il senso dell'ostilità ai poteri pubblici, e la convinzione di essere i «puri» che soli conservassero intatto l'ideale evangelico: per ciò in odio al mondo. Le vittime, anche quando si trattava in realtà piuttosto di suicidi, furon considerate come martiri. Ciò appare non solo da documenti letterari ma, fra lo sterminato numero delle iscrizioni africane (di particolare interesse quelle in musaico), dalle donatiste. Il Monceaux le ha classificate appunto in quattro gruppi: 1. - iscrizioni di evidente carattere donatista (tipica la formula Deo laudes cui i cattolici contrapposero il Deo gratias), 2. - o che risentono di principi donatisti; 3. - iscrizioni funerarie donatiste, e 4. - in lode di martiri della setta (notevole quella della monaca Robba, sorella di un vescovo intervenuto alla conferenza del 41 ) . Anche il culto dei martiri è di origine africana e fu in quella regione particolarmente diffuso. Attestato già in epoca antica, sopravvisse alle innovazioni liturgiche introdotte nel corso del sec. IV, quando alle celebrazioni primitive della Pasqua, della domenica, con l'agape e la lettura dei libri sacri (v. p. es. il celebre testo di Tertulliano, Apol., 39), e dell'Eucaristia (pane e vino: Tertull., Adv. Marc., III, 19) si aggiunsero nuove feste, come il Natale, l'Epifania (distinte al tempo di S. Agostino), l'Ascensione; ed in genere tutta quanta la liturgia si arricchì e si completò. Frequenti furono le basiliche erette in onore dei martiri, designate come memoria del tale o del tal altro; popolarissimo il culto reso ad alcuni, quali S. Cipriano o Perpetua e Felicita (attestato anche da un celebre musaico del sec. IV scoperto in una area cimiteriale presso Cartagine), comune l'uso di celebrare sulle tombe il refrigerium, trasformazione cristiana del banchetto funebre e dei parentalia del paganesimo, che S. Monnica, madre di S. Agostino, tentò di importare a Milano, incorrendo nella disapprovazione di S. Ambrogio (August., Conf., VI, 2): e che S. Agostino stesso combatté poi tenacemente.
E nel nome di Agostino si compendia la storia della chiesa africana. Il rigorismo donatista aveva qualche punto di contatto con l'ascetismo dei manichei, numerosissimi in Africa, e insinuatisi, per sfuggire alla persecuzione, in mezzo a tutti i gruppi cristiani. Manicheo fu lo stesso Agostino, e rimase finché (estate del 383) non si trasferì in Italia dove, a contatto priva con il neoplatonismo, poi con la teologia neoplatonizzante di S. Ambrogio e di Mario Vittorino, si operò la sua conversione. Ma l'Africa riconquistò ben presto il figlio perduto: se i primi anni dopo il ritorno (388) furono spesi nella polemica antimanichea, poco dopo l'ordinazione presbiterale (Ippona 391) cominciano gli accenni polemici, sviluppatisi in una controversia grandiosa, contro il donatismo; e si fanno giorno quei problemi della colpa e della redenzione, ai quali egli doveva dare poi una soluzione così caratteristica e ricca di risonanze. Ritornava così ad una concezione pessimistica per ciò che riguarda le capacità umane; e in armonia con la sua dottrina della grazia elaborava un'ecclesiologia che, con tutte le concessioni alle debolezze umane, è però una rivendicazione della santità e dell'indipendenza della Chiesa. La lunga controversia ariana, cui l'Africa s'era in complesso mantenuta estranea, si era aggirata anch'essa intorno agli stessi problemi, considerandoli da un altro punto di vista. S. Agostino li risolveva ora, non senza riconoscere il suo debito verso un altro africano, il donatista «indipendente» Ticonio. Negli ultimi anni della sua vita, oltre che con i pelagiani, egli ebbe a polemizzare con gli ariani: soprattutto con il vescovo goto Massimino, sbarcato a Cartagine nel 427 al seguito di Sigisvult mandato contro quel conte Bonifacio che attrasse sull'Africa l'invasione vandalica: e in Ippona assediata il grande vescovo moriva. Il dominio barbarico iniziava un'aspra persecuzione dei cristiani, sospesa sotto il re Guntamondo. Il vescovo Eugenio poteva tornare dall'esilio a Cartagine nel 487; ma dovette ripartirne poco dopo, per morire ad Albi nel 505. Tra i nuovi esiliati era Fulgenzio di Ruspe. Ma, ritornata la pace, sotto Ilderico, il vescovo Bonifacio non vedeva intorno a sé, a Cartagine, il 5 febbraio 525, se non 6o vescovi. Sennonché gli stessi fermenti che avevano agitato il cristianesimo africano riacquistarono allora attività; l'opposizione al potere politico e l'avversione all'eresia divennero astio contro l'invasore e nuovo amore per Roma cattolica. Sicché quando, con Giustiniano, l'Impero rimetteva piede in Africa ma vi portava anche la pretesa bizantina di fare della Chiesa uno strumento politico, la protesta degli africani fu continua, alta, solenne. Contro la condanna dei Tre Capitoli, Primasio di Adrumeto e Facondo di Ermiana impersonano, a fianco di papa Vigilia ed anche nei suoi momenti di debolezza, la resistenza di tutto l'Occidente. E nelle controversie cristologiche, l'episcopato africano fa sentire ancora la sua fiera protesta, contro l' "E>c25euG ydcr-rew; di Eraclio. Quando l'ex-patriarca di Costantinopoli, Pirro, sbarca a Cartagine, trova nell'abate Massimo chi lo confuta; ed il vescovo Vittore ne può dare notizia (16 luglio 646) a papa Teodoro, notificandogli insieme la propria elezione e protestando ancora una volta la sua fedeltà alla sede romana.
Appartengono in massima parte all'epoca bizantina le memorie cristiane della Libia, come le basiliche di Sabratha e di Leptis Magna. E in questa regione, i cui vescovi erano ancora al tempo di S. Agostino troppo poveri per partecipare ai concili dell'Africa vera e propria (can. 9 del concilio d'Ippona del 393 in Hefele-Leclercq, Histoire des Conciles, II, i, Parigi 1908, p. 86) nuclei cristiani sopravvissero anche durante l'epoca musulmana. È del sec. X-XI il sepolcreto di Engila presso Suani ben Aden, che attesta la permanenza in quell'epoca di formule e nomi che ci fanno pensare piuttosto all'epoca delle origini. E ancora qualche sprazzo di luce dà, nel sec. XI, la vecchia Cartagine: ma cinque soli vescovi sopravvivevano nel 1053 (Leone IX a Tommaso di Cartagine: cfr. Iaffè, Regesta Pontf., 2a ed., I, p. 546, n. 4304); al tempo di Gregorio VII erano ridotti a due, e mancava un terzo che potesse procedere alle consacrazioni (1076: Iaffè, op. cit., p. 618, n. 4994).
Con Innocenzo III incomincia invece l'opera missionaria al Marocco; e gli accenni all'Africa che troviamo nelle lettere di Onorio III (P. Pressutti, Regesta Honorii tertii, Roma 1895, II, nn. 4352, 5527, 5865 ecc.) e di Innocenza IV (Berger, Les Registres d'Innocent IV, I, Parigi 1884, nn. 2246, 2307, 2339, 2450, 2514) si riferiscono tutti per l'appunto all'opera dei missionari.
Tutt'altro che privi d'interesse, sia per sé stessi, sia per i simboli che recano (di tipo cristiano) sono infine alcuni monumenti giudaici, tra cui il famoso e assai discusso musaico della sinagoga di Naro (Hammàm-Lif).
Bibl.: Tra la congerie degli scritti ricordiamo la vecchia opera di S. Morcelli, Africa christiana, Brescia 1816 segg., voll. 3; e, in aggiunta alle opere indicate sotto gli articoli intorno a questioni e personaggi principali (come S. Agostino, il Donatismo, ecc.), H. Leclercq, L'Afrique chrétienne, Parigi 5904, voll. 2, e, insieme con F. Cabrol, in Dict. d'archéol. chrét. et de liturgie, I; Ch. Diehl, L'Afrique byzantine, Parigi 1896; A. Audollent, in Dict. d' histoire et de géogr. ecclés., I; P. J. Mesnage, L'Afrique chrétienne, Parigi 1912; id. L'évangélisation de l'Afrique, ivi 1955; P. Monceaux, Histoire littéraire de l'Afrique chrétienne, Parigi 1901 segg.; E. Buonaiuti, Il cristianesimo nell'Africa romana, Bari 5928. Per la Tripolitania, R. Bartoccini, Guida di Sabratha, Roma [5927]; id., Guida di Leptis, ivi [1927]; R. Paribeni, in Africa Italiana, I (gennaio 5927); P. Romanelli, in Rendiconti della Ponti f. Accad. di Archeologia, IV (5925-26). A. P.
4. MEDIOEVO ED ETÀ. MODERNA (429-1927) La storia moderna dell'Africa è quella di una continua sovrapposizione di popoli e di civiltà; ed è la storia dei suoi invasori e dominatori assai più che non quella delle sue popolazioni autoctone. Queste, con poche eccezioni, appaiono come materia grezza e inerte che si ravviva e affina solo per effetto d'influenze esterne e mercé l'infusione d'esterne energie costruttrici. Gli autoctoni africani, per la massima parte pastori e contadini, sembrano oppressi dalle preponderanti forze della natura e perpetuamente occupati a difendere la loro esistenza dalle sue mille insidie: dai cataclismi, dalle fiere, dall'aridità del suolo o dal prepotere della vegetazione. Le popolazioni africane vivono separate le une dalle altre, ciascuna chiusa entro una cerchia di deserti o di foreste, sui nativi altipiani o nelle native steppe; emigrano in massa, solo quando il suolo sul quale sono nate non è più sufficiente a sostentarle. Le loro vicende storiche sono determinate dalle necessità materiali dell'esistenza, dipendenti da quelle dell'agricoltura; l'attributo del loro capo è quello d'essere proprietario del suolo, colui che ha la facoltà di concederne il godimento agl' individui. Solo il diretto contatto con popoli immigrati e il diffondersi di idee venute dal di fuori suscitano, di tanto in tanto, fra talune popolazioni africane, qualche civiltà che le induce a costituire entità sociali o politiche. Ma sono civiltà e imperi effimeri che sorgono improvvisi, mandano un breve bagliore, e scompaiono senza lasciare traccia, appena affievolita la loro energia creatrice, perché non avevano radici nel suolo dell'Africa.
Fra le civiltà formatesi in tali condizioni le più notevoli furono quelle afro-cristiane e afro-islamiche che provocarono, a volta a volta l'affermarsi, in qualche parte del continente, della supremazia politica e dell'egemonia morale dei Berberi, dei Nubiani, degli Etiopi degli Arabi, dei Mandinghi, dei Songhai e dei Fula.
I due avvenimenti capitali della storia moderna dell'Africa sono la diffusione dell'Islamismo e la penetrazione europea. L'Islàm portato in Africa dai conquistatori, commercianti e missionari arabi, si propagò dapprima lentamente e difficilmente all'interno perché le popolazioni autoctone si dimostrarono refrattarie alla sua teologia, e ostili al suo caratteristico ordinamento sociale: talchè, non l'accettarono o, costrette ad accettarlo, lo snaturarono. Minor opposizioni trovò l'islamismo fra le popolazioni, già civili, del settentrione; ma anche queste sebbene si siano poi dimostrate ancora più ortodosse che molte altre, si foggiarono una religione loro propria, nella quale affiorano le dottrine e le pratiche più antiche che appunto l'Islam si era proposto di proscrivere. Così le pratiche della magia, il larvato culto dei santi, dànno all'islamismo settentrionale un aspetto suo proprio: come in quelle regioni la sopravvivenza di antiche costumanze e di cerimonie del paganesimo tendeva ad alterare il cristianesimo e a imprimere a taluno dei suoi riti un carattere speciale.
La penetrazione europea ha, in primo luogo, rimosso gli ostacoli che impedivano i contatti fra i popoli africani, ignari non solo d'altri continenti, ma perfino dei limitrofi territori abitati da popoli affini. L'europeo, aprendo strade nelle steppe attraverso le foreste, risalendo il corso dei fiumi, navigando i laghi e valicando i monti, ricongiungendo infine lontanissime regioni con la ferrovia e col telegrafo, ha rivelato l'Africa agli Africani e fa nascere in essi, a poco a poco, il senso delle affinità etniche, precorritore forse di quello delle loro nazionalità. E così, sebbene l'Africa opponga alla nostra civiltà la medesima caparbia resistenza che oppose a quella islamica, rifiutando d'accoglierne e assimilarne lo spirito e accettandone solo le forme, non dovremo stupirci se il contatto con gli Europei, come già quello coi musulmani, provocherà forse, un giorno, una fioritura di vita africana.
Vandali e Bizantini. - Le incalzanti ondate barbariche che travolsero l'impero romano giunsero fino all'Africa settentrionale e la sommersero. Diciotto anni dopo aver preso e saccheggiato Roma, i Vandali di Genserico passarono nelle provincie romane dell'Africa, compiendovi fiere stragi e immani rovine (429). Durante il terzo mese dell'assedio d'Ippona moriva il vescovo di quella città, Sant'Agostino (28 agosto 430). Come era solito avvenire nell'impero bizantino, le discordie interne avevano preparato la via all'invasione straniera. Nell'Africa settentrionale, l'eresia ariana e lo scisma donatista avevano diviso e armato le popolazioni le une contro le altre. Oltreché di un movimento a carattere strettamente religioso, affiorano anche, nello scisma donatista, le note di un vero moto nazionalista di quella razza berbera, che nemmeno i romani erano riusciti ad assimilare. Il regno dei Vandali ariani durò cent'anni; nel 534 furono cacciati da Belisario. Ma le devastazioni che accompagnarono la riconquista non furono minori di quelle della conquista nemica. Ad esse anzi s'aggiunse la persecuzione degli ariani (533-536). Negli stessi anni, missioni religiose bizantine compirono l'evangelizzazione della Nubia, alla quale s'interessò personalmente l'imperatrice Teodora, e della Tripolitania. In Egitto si diffondeva sempre più, come in altre parti dell'Impero d'Oriente, l'eresia monofisita alla quale, intorno al 600, aderivano circa sei milioni di fedeli, mentre a quella ortodossa e ufficiale ne aderivano solo duecentomila.
Per quanto spiritualmente e politicamente gravi, le condizioni interne dell'Egitto non pare influissero sulle sue condizioni economiche, poiché i suoi porti, e soprattutto quello d'Alessandria, continuarono ad essere, fino al settimo secolo, i maggiori mercati del mondo antico. Si concentravano ad Alessandria, per essere riesportati a Bisanzio e in tutto il Mediterraneo, non solo i prodotti dell'Egitto, ma anche quelli dell'Etiopia e di alcune parti interne dell'Africa che convergevano ad Adulis, quelli delle coste d'Arabia e quelli del medio ed estremo Oriente, che la marina mercantile bizantina andava a raccogliere a Ceylon. Ma la prosperità d'Alessandria, e con essa quella delle finitime regioni africane, volgeva oramai al tramonto. Nella primavera del 609, Eraclio, figlio dell'esarca d'Africa, salpò dalla Cirenaica alla volta di Bisanzio per capitanare la rivolta contro l'imperatore Foca, già vittoriosa in Egitto e latente nella capitale. Eraclio riuscì nell'impresa e fu proclamato imperatore; ma il suo regno doveva essere fatale soprattutto per l'Egitto. Cosroe II di Persia, anziché deporre le armi impugnate fin dal 603 contro Foca, continuò la guerra contro il suo successore. Presa e saccheggiata Gerusalemme nel 615, l'esercito persiano s'impadronì dell'Egitto. La dominazione persiana terminò nel 627, quando il corpo d'occupazione fu richiamato in difesa della Persia contrattaccata da Eraclio. Questi, quando ebbe maturato l'ardito proposito di assalire il nemico nel proprio paese, per costringerlo ad abbandonare le lontane conquiste, mosse da Bisanzio il lunedì di Pasqua del 622, l'anno stesso nel quale si compì inosservato, nella lontana, barbara e mal nota Arabia, un avvenimento che doveva mutare la storia del mondo: l'Ègira di Maometto. Così, proprio mentre s'iniziava la campagna che doveva liberare l'Egitto dallo straniero, principiò la rigenerazione e l'ascesa del popolo destinato a sottomettere non solo 1'Egitto, ma tutta l'Africa settentrionale, aprendo un nuovo periodo della sua storia che dura tuttora. Eraclio rioccupò l'Egitto fra il 628 e il 629, ma gli fece sentire subito gli effetti della sua incauta politica religiosa, sferrando una spietata persecuzione contro i copti monofisiti, che durò dieci anni e che, esacerbando l'odio delle popolazioni contro Bisanzio, facilitò la via agli invasori arabi.
Arabi e Berberi. — Questi, appena compiuta l'occupazione della Palestina, diressero in Egitto un piccolo nerbo di cavalieri al comando di `Amr ibn al`As, che nel gennaio 640 sconfisse a Pelusium (al-Faràmah) il generale bizantino Aretio, sfortunato difensore di Gerusalemme rifugiatosi in Egitto; nel luglio lo batté ancora a Eliopoli; nel settembre iniziò l'assedio della fortezza di Babilonia, che capitolò il 9 aprile 641. Nel novembre di quello stesso anno capitolò anche Alessandria, e il 17 settembre 642 le ultime truppe bizantine, ai termini della resa d'Alessandria, evacuarono per sempre l'Egitto, che da quel giorno divenne provincia del califfato. Dall'Egitto gli Arabi cercarono subito di estendere il loro dominio nel resto dell'Africa settentrionale, ma vi impiegarono 70 anni, costretti a superare la valida resistenza dei presidi bizantini e quella fierissima della popolazione berbera che, non appena vinta, tornava a ribellarsi. Le prime operazioni militari degli Arabi ebbero carattere di razzie, dirette da `Abd Allàh ibn Sa`d ibn Abi Sarh, ed ebbero luogo fra il 642 e il 647, anno nel quale gl'invasori scon-fissero a Sbeitla (antica Suffétula) il patrizio Gregorio: ma, dopo la vittoria, se ne tornarono in Egitto. Riapparvero in Tunisia nel 669, comandati da `Oqbah ibn Nàfi`, fondarono la città di Kairuan (al-Qairawàn) e si spinsero fino al Marocco. Ma, al ritorno, essi furono sorpresi e sconfitti a Biskra (683) dai Berberi comandati da] loro principe Koseila. Nel 689, furono di nuovo respinti dalla KThi¬nah, regina dei Berberi. La spedizione definitiva degli Arabi ebbe luogo nel 708, al comando di Miisà ibn Nusair che sottomise infine i Berberi. Nel 711, gli Arabi comandati da Tàriq passarono in Spagna. Terminate le guerre di conquista, l'Ifriqiyah (Tunisia) e il Maghreb (Marocco) pareva che si andassero a poco a poco, riassettando sotto il dominio dei nuovi padroni. Ma ben presto, invece, i Berberi rialzarono la testa. Dal 740 al 788 si svolse con varia fortuna l'insurrezione khàrigita, che, con pretesto religioso non fu altro che un'ultima riaffermazione nazionalista. Finalmente. nell'801 , il califfo Hàrún ar-Rashid nominò governatore di Kairuan Ibràhírn ibn al-Aghlab, concedendogli ampia autonomia, mentre a] Marocco s'impossessavano del potere altre dinastie indipendenti dal califfato.
I Berberi, dunque, che fin dai primi del sec. VIII avevano cominciato a convertirsi alla religione degli Arabi, non ne sopportarono la dominazione politica; onde, nei primi secoli dopo l'invasione, la storia dell'Africa settentrionale è caratterizzata dal continuo sorgere di dinastie indigene e dalle loro lotte per conquistare e mantenere l'indipendenza dal califfato. Berbere infatti furono le dinastie Midràrita, Rostemita, Zirita, Hammàdita, quelle dei Beni Khazran, degli Almoravidi e degli Almohadi, che, alternatesi con altre di sangue arabo, ma indipendenti anch'esse, regnarono nel Maghreb e nell'Ifríqiyah fra 1'802 e il 1269. Più celebri quelle degli Almoravidi e degli Almohadi. Alla metà del sec. Xl perfino i Berberi delle regioni interne del Marocco avevano gii assimilato a tal segno l'islamismo, che poterono verificarsi fra loro quei fenomeni di fanatismo collettivo, non ignoti ad altre religioni, ma che sembrano essere in special modo caratteristici di quella musulmana. Nel 1033, Yahyà ibn Ibràhím, uno dei capi della tribù dei Sanhàgiah, nomadi dal volto velato, donde discendono gli odierni Tuàreg, recatosi in pellegrinaggio alla Mecca, s rese ivi conto della propria ignoranza delle cose religiose. Tornate in patria, si fece perciò accompagnare da un dotto e pio personaggio, `Abd Allàh ibn Yàsin, affinché istruisse i suoi compaesani, che si trovavano nelle medesime condizioni. I due missionari tuttavia, anziché dedicarsi alla predicazione, preferirono dare ess stessi l'esempio di una vita ascetica e si ritirarono in un isolotto alla foce del fiume Senegal. Presto li raggiunsero molti discepoli e, non appena li giudicarono abbastanza numerosi e ardenti Yahyà ibn Ibràhírn e `Abd Allàh ibn Yàsin passarono dalle parole ai fatti, decisi a imporre l'islamismo ai pagani del sud e a riformare i costumi dei musulmani del nord con la forza delle armi (1042) Questi fanatici, detti al-murabitfin, donde Almoravidi, intrapreserc nel 1056 la conquista del Marocco, che terminarono nel 1077 con la presa di Tangeri, e nel 1086 passarono la prima volta in Spagna Cent'anni dopo il loro sorgere, gli Almoravidi furono spodestati in modo analogo a quello in cui essi stessi avevano cacciato da' trono i loro predecessori.
Muhammad ibn `Abd Allàh, detto Ibn Tiimart, che avevi studiato teologia in Oriente fra il 1105 e il 1111, tornato nell'Ifriqiyah sua patria, cominciò a predicare a Tripoli guadagnandosi quale discepolo `Abd al-Mu'min ibn `Abd Allàh, giovane d: vivace ingegno. Costui, alleato al maestro e seguito da numerosi seguaci, noti in Europa col nome di Almohadi (al-muwahhidill). s. ribellò nel 1124 agli Almoravidi e, con la presa di Fez nel 1146 li cacciò dal trono, fondando una nuova dinastia che si mantenne al potere fino al 1269 e che per la prima e unica volta compì l'unificazione politica dell'Africa settentrionale. La rifioritura berbere durò 250 anni, al termine dei quali questa indomita razza fu sommersa, a poco a poco, da una seconda e definitiva invasione araba La prima invasione aveva avuto carattere militare, compiuta da guerrieri che avevano occupato le città, e consolidata da funzionari che avevano assunto l'amministrazione del paese. Trascurabile l'influenza demografica. I vinti accettarono la religione e le leggi dei vincitori ma non mischiarono il proprio col loro sangue, né con essi spartironc le terre. Ben altro avvenne nel 1051 e negli anni seguenti. Alla fine del sec. X gli `Abbàsidi, per liberare la Siria dalle turbolente e semi selvagge tribù dei Beni Hilàl e Beni Sulaim, le deportarono in massa nell'Alto Egitto, sulla riva destra del Nilo. Nel 1051, al-Mustansir, califfo fatmita d’Egitto, per liberarsene alla sua volta e punire al tempo stesso l'emiro di Kairuan, al-Mu'izz ibn Bàdis che gli si era ribellato, fece passare il Nilo ai Beni Hilàl e poscia si Beni Sulaim e questi allora, con furia devastatrice, invasero e occuparono l'Africa settentrionale, dalle frontiere d'Egitto all'Atlantico.
Marocco e Tunisia. - Dopo questo avvenimento, l'Africa settentrionale si rinchiuse, per così dire, in sé stessa. Separata dal suo centro naturale, questa parte del mondo islamico svolse una politica e si costituì un'economia sua propria. Onde, mentre i correligionari d'Oriente guerreggiavano coi cristiani, i sovrani del Marocco e di Tunisi intrattenevano con essi relazioni politiche e commerciali, soprattutto con gli stati italiani. Federico II di Sicilia mantenne cordialissimi rapporti coi principi musulmani del litorale mediterraneo; Corradino, segnatamente col sultano Baibars d'Egitto. Tunisi pagò regolare tributo alla corte di Sicilia, fino all'avvento di Carlo d'Angiò. I pacifici scambi commerciali fra l'Africa e l'Italia, garantiti e disciplinati da una lunga serie di trattati, furono solo poche volte interrotti nel corso di cinque secoli. Fra il 1146 e il I154, Ruggero II di. Sicilia, mercé la flotta che s'era costituita e che era comandata da Giorgio d'Antiochia, occupò successivamente Tripoli e Tunisi. Ma tali conquiste furono poi abbandonate, fra il 1155 e il 1160, da Guglielmo I. Nel 1270 Carlo d'Angiò, nell'interesse della corona di Sicilia, e per ricuperare il tributo di Tunisi, persuase San Luigi re di Francia a iniziare con un'incursione in Tunisia la sua seconda crociata, dalla quale egli solo trasse vantaggio, mercé la conclusione di un favorevole trattato. Nel 1355 Filippo Doria, non provocato, assalì di sorpresa, prese e saccheggiò Tripoli. Nel 1390 una spedizione franco-genovese, al comando del duca di Borbone e di Giovanni Centurione, compì un'incursione su Tunisi. Dei lunghi periodi di pace profittarono Pisa, Genova, Venezia e Firenze, per svolgere un'intensa e regolare attività commerciale, soprattutto col Marocco e con Tunisi. Nel 1133 il principe hamm.àdita Yabyà ibn al `Aziz inviò un'ambasceria a Pisa per concludervi un trattato, rinnovato nel 1166 e nel 1186, grazie al quale i Pisani ebbero libertà di commercio nei porti di Ceuta, Orano, Bugia, Tunisi e Al merla. Con trattato del 1264, rinnovato nel 1366, essi ottennero di poter mantenere consoli permanenti a Tunisi e a Bugia. Fra il 1153 e il 1164, Genova si procurò analoghi privilegi commerciali nel Marocco, a Tunisi e a Tripoli. Dal 1230 in poi esercitò il cabotaggio fra il Marocco e l'Egitto. Nel 1425 Ambrogio Spinola, inviato a Tunisi da Filippo Maria Visconti, rinnovò i trattati, e così fecero, nel 1444, Zaccaria Spinola e, nel 1465, Antonio Grimaldi. I Fiorentini, che nel sec. XII commerciavano in Africa sotto l'egida dei Pisani, ottennero nel 1252 da A130. `Abd Allah al-Mustansir I di Tunisi privilegi propri, che furono rinnovati nel 1423 dall'ambasceria di Neri Fioravanti, nel 1445 da Baldinaccio degli Erri, nel 1481 da Giovanni Strozzi. Venezia, mercé un trattato del 1230 con l'Egitto, ottenne l'uso di due fondachi in Alessandria e concluse altri trattati con Tunisi, segnatamente nel 1251 e nel 1317, e con Tripoli ove manteneva consoli residenti. Oltre ai rapporti commerciali, fino al sec. XV si mantennero vivi anche quelli religiosi fra l'Africa settentrionale e l'Italia. Nel 1053 poté riunirsi, come si è visto, un sinodo africano, al quale parteciparono 5 vescovi che erano in relazione con Roma. Nel 1077 Gregorio VII, con notevole, benché diplomatica, larghezza di vedute, scrisse ad an-Nàsir, principe marocchino: «pur sotto diverse forme, noi e voi adoriamo il medesimo Dio unico». Nel 1114 ad al- Qal'ah esisteva ancora una comunità cristiana coi suoi sacerdoti. Nel 1246 fu istituita una sede episcopale a Fez e nel 1419 un'altra a Ceuta. Onorio III, nel 1226, dettò speciali regole per i religiosi francescani e domenicani addetti agli oratori dei commercianti italiani, e tanto Innocenza III quanto Gregorio IX e Innocenzo IV ebbero rapporti epistolari e diplomatici coi principi musulmani dell'Africa settentrionale.
L'Egitto dal 749 al 1496. - Ben diversa da quella dell'Ifríqiyah, tormentata da guerre e invasioni, fu la storia dell'Egitto, dacché fu tolto dagli Arabi ai Bizantini. Esso fino all'868 rimase provincia del califfato; poi, resosi di fatto indipendente, si mantenne tale fino al 1517, governato da un seguito di dinastie, sotto alcune delle quali ebbe periodi di grande splendore e potenza. Unico ostacolo che lungamente impedì l'estendersi del potere politico dell'Egitto in regioni che ne dipendono geograficamente fu quello offerto dal tenace sopravvivere del cristianesimo nell'Alto Nilo. Non altrimenti, 1' essere rimasta fedele al cristianesimo, introdottovi verso il IV secolo, permise anche all'Abissinia di mantenersi sempre indipendente, opponendo un argine insuperabile al dilagare dell'Islam. Appena conquistato l'Egitto, gli Arabi cercarono di sottomettere la Nubia, nel 642 e poi ancora dieci anni dopo. Ma dovettero rispettare l'indipendenza del regno negro cristiano di Dongola, costituitosi fin dal 450, accontentandosi d'imporgli un tributo annuo di 36 schiavi che i Nubiani pagarono più o meno regolarmente per 600 anni. Dal 1235 la chiesa cristiana di Nubia fu abbandonata a sé stessa da Cirillo, patriarca copto d'Alessandria; e da quel tempo i Nubiani, riuscite vane le pratiche che avevano avviate col gesuita Francesco Alvarez, che nel 1525 si trovava in Abissinia, perché fossero loro inviati sacerdoti, dimenticarono la fede dalla quale avevano tratto la forza di resistenza all'Islam, e si convertirono. L' Egitto si rese indipendente dal califfato per opera dei suoi governatori Abmad ibn Tùlùn e Mubammed alIkhshid, ma le dinastie da costoro rispettivamente fondate regnarono pochi anni, poiché nel 969 furono soppiantate da quella dei Fàtimiti di Kairuan. La nuova dinastia fondò l'attuale città di Cairo, nonché l'università al-Azhar, che è tuttora uno dei maggiori centri intellettuali dell'Islam. Regnando al-Mustalí, i crociati, presa Gerusalemme, attaccarono l'Egitto, che fu debolmente difeso dai suoi sovrani e poté resistere e salvarsi solo mercé l'aiuto di truppe venute in suo soccorso da Aleppo al comando del curdo Shirkùh. Questi poi, in compenso, fu nominato ministro del califfo. A Shirktih succedette, nel medesimo ufficio, il nipote Yùsuf Sarab ad-din ibn Ayyfib, il Saladino dei cristiani. Resosi nel 1169 sovrano d'Egitto e fondata la dinastia Ayyùbita che durò fino al 1250, egli, che già da tempo fronteggiava bravamente i crociati, li sconfisse nel 1187 a Flittin, abbattendo il regno cristiano di Gerusalemme. I suoi successori proseguirono la lotta, che fu aspra specialmente nella V Crociata, durante la quale Jean de Brienne occupò Damietta, e nella VII comandata da S. Luigi re di Francia che, dopo la battaglia di Flriskiùr (1250), fu fatto prigioniero dagli Egiziani e liberato solo mercé il pagamento di un forte riscatto. Tuttavia, nei periodi di tregua, le relazioni fra l'Egitto e il mondo riprendevano il corso normale. Il sultano al-'VIalik al-eAdil, nel 1208, aveva concesso privilegi commerciali prima ai Veneziani, poi ai Pisani, rinnovati nel 1215 e nel 1238. Il 1219 S. Francesco d'Assisi fu ammesso a predicare al cospetto del sultano al-Man al-Kàmil; nel 1245 il sultano al-Malik as-Sàlib scrisse ad Innocenzo IV per esprimere il rincrescimento di non potersi intrattenere coi religiosi inviati alla sua corte, non comprendendone il linguaggio. Alla dinastia ayyùbita, terminata con l'assassinio del sultano Tiíràn Shàh avvenuto il 2 maggio 1250, succedette, dopo il breve regno d'una delle rarissime sovrane musulmane, Shagiarat ad-durr, vedova del penultimo ayyabita, la prima dinastia dei Mamalucchi cosidetti Babri, ossia del fiume. Costituivano costoro la guardia scelta dei sultani ayyùbiti, ed erano schiavi d'origine turca. La prima dinastia mamalucca s' impersona nel grande sovrano az-Zàhir Rukn ad-din Baibars al-Bunduqdàrí, il «Bendocquedar» di Marco Polo (1260-1277) che estese il regno d'Egitto dalla quarta cataratta del Nilo al fiume Piramo, ebbe vassalle le città sante di Mecca e Medina, alleato il sovrano dello Yemen e amico quello d' Abissinia. Nel 1279 il suo terzogenito Qalàwún, salito al trono, fondò alla sua volta una dinastia; e il suo successore, Nàsir ad-din Mobammed, portò l'Egitto all'apice della prosperità e della cultura. Nel 1387, per opera del sultano Barqùq (1382-1399), s'impossessarono del potere i Mamalucchi circassi che ebbero ventitré sultani, il più notevole dei quali fu al-Ashraf Saif ed-din Qà'it Bey (1468-1496).
Imperi Mali e Songhai. - Gli avvenimenti che si andarono svolgendo nell'Africa settentrionale in seguito alla conquista musulmana ebbero un lento, ma profondo e durevole contraccolpo nell'Africa centrale e occidentale. Al costituirsi dei regni berbero-arabi del settentrione, corrisponde quello di possenti e ben organizzati imperi negri nell'Africa media; mentre al sovvertimento della prima civiltà araba nel settentrione, per opera degli invasori del sec. XI, corrisponde, a suo tempo, lo sciogliersi di quegli imperi, e un successivo lungo periodo di guerre e d'anarchia. La sistematica diffusione dell'islamismo nelle regioni dell'Africa centrale fu opera dei Berberi che avevano adottato la nuova fede e se ne erano fatti missionari nei centri politici e commerciali del Siidàn, legati ad essi da antichi e tradizionali rapporti. Lo stato indigeno più importante dell'epoca fu quello detto di Gana (Ghànah) che si stendeva lungo le sponde occidentali del Niger e ove, fin dalla seconda metà del sec. X, esistevano, secondo la testimonianza contemporanea del geografo arabo Ibn Flawqal, moschee per i forestieri. Nel 1077 missionari musulmani del nord fondarono Timbuctu, destinato a diventare centro di propaganda religiosa e intellettuale islamica. Contemporaneamente furono convertiti all'islamismo la maggior parte dei sovrani degli stati in Africa, fra l'attuale Dàrfùr e l'Atlantico: Dia Kussai, sedicesimo sovrano della prima dinastia (io I o) dell'impero Songhai, Abù Dardai re del Tekrúr, Kossoi re di Gào, Hàmi ibn Gialli sultano del Bornù. Ma questi stati indigeni, oltre a risentire le conseguenze degli avvenimenti svoltisi nella parte settentrionale del continente, mercé l'imposizione di una nuova fede, ne sperimentarono altresì il contraccolpo politico. L'invasione araba dell'Egitto determinò un vasto movimento di popoli, da oriente a occidente, come da un mare in tempesta si propagano rincorrendosi e accavallandosi le onde. Nell'attuale Uadai, l'immigrazione di tribù berbere scese dal Fezzàn e l'introduzione dell'islamismo determinarono l'ascesa del regno del Kànem che, sotto il suo secondo sovrano musulmano Diinama ibn Fjami (1098-1150), acquistò grande potenza militare e poscia, unito al Bornù, regnando Diínama Dibbalàmi (1221-1259), finì per abbracciare la regione compresa fra il Nilo, il Niger e il Fezzàn, protraendosi a sud del Ciad. Nella seconda metà del sec.XI il lievito musulmano determina una effervescenza grande di popoli e l'apparire di condottieri: donde la costituzione di vasti imperi militarmente e amministrativamente bene organizzati, nei quali si sviluppa anche una notevole attività economica. Tali sono l'impero Mali che, regnando Kontur Miisà, si estese dall'Adràr all'Atlantico, e l'impero Songhai, che gli succedette, tanto vasto che le carovane impiegavano sei mesi ad attraversarlo. I Mandinghi, che dovevano costituire l'impero Mali, sorgono nel 1076. In tale anno, il loro sovrano Abù Bekr ibn 'Omar impone a quello di Gana la religione musulmana; nel 1230 ritornano ad invadere l'antico impero di Gana, lo distruggono e in sua vece ne costituiscono uno proprio, al quale danno per capitale la città di Niani, imponendole il nome di Mali. Il nuovo stato s'ingrandisce con l'aggiunta di numerosi regni vassalli, fra i quali, nel 1362, quello Songhai, retto allora dal trentesimo sovrano della dinastia Dia, regnante fino dal 700. Ma alla metà del sec. XIV, l'impero Mali aveva già raggiunto il proprio apogeo; e appunto il Songhai doveva dargli il tracollo e succedergli. Nel 1355 alla dinastia Dia si era sostituita quella Sunni (1355-1492) che ebbe 18 sovrani, il più celebre dei quali, Sunn 'Ali (1464-1493), si rese indipendente e nel 1469 conquistò Timbuctu, provocando con ciò il disfacimento dell'impero Mali e l'ascesa del Songhai.
Morto Sunn 'Ali, uno dei suoi generali, Askiyà Mohammed, usurpò il potere al figlio di questo Sunni Barro, fondando la dinastia degli Askiyà (1494-1591). Askiyà Mohammed consolidò e ingrandì il nuovo impero, che in breve divenne il più potente e si dimostrò il meglio organizzato che sia mai esistito nella media Africa. Nel 1497, dopo avere compiuto con grande seguito e magnificenza il pellegrinaggio alla Mecca, Askiyà Mohammed soggiornò al Cairo, ove si fece dare l'investitura dell'impero Songhai dallo pseudo eabbàside al-Mutawakkil. Durante questo viaggio entrò anche in rapporto col poligrafo as-Suyati che gli fece concepire il disegno di promuovere la diffusione della cultura islamica nei suoi stati. Infatti, tornato in patria, Askiyà. Mohammed vi accolse nel 1502 il riformatore marocchino al-Maghili che fondò scuole di diritto a Gào (Gàghò). Ultimo, e forse più noto rappresentante della cultura songhai, fu `Abd ar-Rahmàn Sa`di el-Tombukti (1596-1656), autore di una storia del Sadàn. Riprese le armi, Askiyà Mohammed sottomise nel 1499 la regione Mossi, dal 1501 al 1513 guerreggiò nel Mali, fra il 1514 e il 1519 nelle regioni dello Ciad. Raggiunto il proprio assetto politico, l'impero Songhai fu diviso nei quattro vice reami di Dandi (Ciad), Bancu (fra Gào e il Tuat), Balma (Timbuctu-Tegazza), Kurmina (regione Mali), e in parecchi governatorati, fra cui quelli di Genné, Banduk e Kala. I sovrani Askiyà istituirono un esercito permanente, unificarono i pesi e le misure in tutto quanto l'impero, intrapresero grandiose opere pubbliche per canalizzare le acque del Niger ed estendere le coltivazioni, mercé un sistema d'irrigazione in regioni oggidì desertiche, e organizzarono efficacemente il commercio, che si svolse florido, soprattutto col Marocco, donde penetrarono fino a Genné le conterie veneziane. Nel 1470 l'italiano Benedetto Dei fu a Timbuctu e vi trovò tessuti lombardi, esportati dalla casa Portinari. Opposero invincibile resistenza all'egemonia songhai, soprattutto perché avversi e refrattari all'islamismo, solo le popolazioni Fula del Fata Tòro e i regni di Nagadugu e del Yatenga nella regione Mossi, che seppero mantenersi indipendenti fin dai sec. XI e XII. Gli Haussa e i Fula della regione Nioro furono sconfitti nel 1512 dai Songhai e perdettero il loro capo Tenguella; ma, condotti dal successore di questo, Koli, loro eroe nazionale, emigrarono in massa nell'alta Gambia ove, uniti a tribù mandinghe, conquistarono il Fata senegalese che divenne rocca del paganesimo. Tra la fine del sec. XV e i primi decenni del sec. XVI, ebbero luogo due avvenimenti di capitale importanza per la storia dell'Africa: la scoperta dell'America e la conquista turca.
La conquista turca e la scoperta dell'America. - Il 24 agosto 1516 Qànsiih al-Gli-ari, sultano d'Egitto, fu sconfitto e ucciso dai Turchi a Marg Dàbiq a N. di Aleppo; e, il 26 gennaio 1517 il sultano ottomano Selim I entrò vincitore al Cairo. L'anno stesso occupò Suàkin e Massaua, rispettando solo l'indipendenza di Amara Dunkas (1505-1534), re del Sennàr; e nel 1518, alleatosi al corsaro Khair ed-din Barbarossa, col quale Andrea Doria combatté tante volte, s'impadronì d'Algeri. Il 16 agosto 1551 Sinàn Pascià, ammiraglio di Solimano il Magnifico, vincendo la strenua difesa di Gaspare di Villiers, tolse Tripoli ai cavalieri di Malta. Nel 1574 lo stesso ammiraglio prese Tunisi, eroicamente difesa dal generale milanese Serbelloni, al quale Don Giovanni d'Austria aveva affidato la piazza, nella speranza di cogliere altri frutti della vittoria di Lepanto e d' impedire ai Turchi di costituirsi nuove basi navali sulle coste dell'Africa. Dopo questa conquista, le regioni litoranee del continente, dal Mar Rosso all'Algeria, divennero provincie vassalle dell'Impero Ottomano, e perciò chiuse e ostili a qualsiasi penetrazione europea. Rimasero senza durevole effetto i ripetuti tentativi fatti dalla Spagna, fra il 1535 e il 1574, per impadronirsene; sicchè infine anch'essa desistette dall'impresa, conservando solo Orano e Melilla.
All'Europa si apriva invece, nella medesima epoca, ben più vasto campo. Dopo la scoperta dell'America e la circumnavigazione di Vasco da Gama, gli Europei cominciarono a frequentare le coste occidentali e orientali dell'Africa e a stabilirvisi: primi fra tutti, i Portoghesi, intenti com' erano a procurarsi basi di rifornimento per le loro navi dirette alle Indie. Dopo di essi, gli Spagnuoli, che videro nell'Africa una inesauribile riserva di mano d'opera per le loro colonie americane, delle quali avevano distrutto la popolazione indigena. Infine, costituitesi le compagnie privilegiate di commercio, gli Olandesi, i Francesi e gl'Inglesi assegnarono loro, fra gli altri, il campo d'attività africano. Sulla traccia degli ardimentosi navigatori normanni che avevano scoperto le Canarie e riconosciuto alcuni punti della costa occidentale dell'Africa, i Portoghesi, regnando re Enrico che fu detto il Navigatore, intrapresero alla metà del sec. XV frequenti spedizioni marittime, alle quali spesso seguì lo stabilimento di fattorie sul litorale africano. Nel 1446 raggiunsero le foci del Senegal; nel 1471, la Costa d'Oro, ove fondarono la fattoria di Sào Jorge da Mina (Elmina); nel 1432 il Congo; nel 1485, penetrarono nell'interno fino al Benin. Nel 1489 Pedro de Covilham fu inviato ambasciatore del re del Portogallo in Etiopia, famosa nel Medioevo come regno cristiano del cosiddetto Prete Gianni, e rappresentata nel 1439 al concilio di Firenze da una missione del Negus Zar'à Yà`qab. Nel 1498 Vasco da Gama, doppiato il Capo di Buona Speranza, scoprì il Mozambico, Sofala e Zanzibar e sbarcò a Mombasa che, insieme con Mogadiscio e Quiloa, furono poi stabilmente occupate fra il 1505 e il 1508. Dalla costa, nel 1560, il portoghese Barreto penetrò fino allo Zambesi, mentre il gesuita Gonsalvo da Silveira raggiunse Feira, capitale del regno di Monomotapa, ove patì il martirio il 18 marzo 1561. A tali occupazioni seguirono quelle di Fernando Poo, Sào Thomé e Principe, del golfo di Guinea, di Lagos, della costa del Dahomey e della Costa d'Avorio. Negli anni 152o, 1527 e 1541 i Portoghesi intervennero con successive spedizioni militari in Abissinia, chiamati in soccorso prima dal Negus Davide III, poi dal suo successore Claudios, per difendere il regno contro i musulmani Galla che lo stringevano e attaccavano da ogni lato. Nel 1542, Don Cristoforo da Gama, figlio del celebre navigatore, combattendo in Abissinia, fu fatto prigioniero ed ebbe mozzato il capo dai musulmani. Nel 1597, i Portoghesi fondarono la colonia dell'Angola che tuttora conservano. Ma la loro espansione già era ostacolata dal sorgere di potenti rivali, nonché da rovesci militari, fra i quali notevole quello toccato nel 1578 al re Don Sebastiano ad Ald.zar Quivir (al-Qasr al-Kabir) nel Marocco, ove perì lo stesso sovrano.
Rivali del Portogallo furono l'Inghilterra, l'Olanda e la Francia, che cominciarono a rivolgere l'attenzione all'Africa sulla fine del sec. XVI. Fin dal 1562 Sierra Leone e la Gambia erano state saltuariamente toccate da navigatori inglesi, dediti alla tratta degli schiavi destinati alle colonie spagnuole d'America. Carlo V aveva, nel 1517, riconosciuto ai Fiamminghi il monopolio di questo commercio; ma nel 1588 la regina Elisabetta concedette le regie patenti alla prima compagnia inglese costituitasi per esercitare il traffico africano. Le patenti furono rinnovate nel 1618 da Giacomo I e nel 1631 da Carlo I; nel 1660 sorsero le prime fattorie inglesi a Sierra Leone. Anche gli Olandesi frequentarono dapprima le coste africane per la tratta degli schiavi, mostrandovisi la prima volta nel 1595. Ma, poco dopo, s'impossessarono delle fattorie portoghesi: nel 1621 tolsero loro quella del Senegal; nel 1637 Elmina; nel 1645 S. Elena, facendone una stazione di rifornimento per il naviglio della compagnia delle Indie Orientali.
Dalla metà del sec. XVII le potenze europee rivaleggiano nell'acquistare possedimenti in Africa. L'Association des marchands de Dieppe et de Rouen stabilisce nel 1620 una fattoria nel Senegal; nel 1642 il Richelieu costituisce una compagnia per il commercio col Madagascar; nel 1677 i Francesi tolgono la Senegambia agli Olandesi, ai quali nel 1668 gl'Inglesi avevano preso la Costa d'Oro. Ma l'avvenimento più importante di questo periodo, per le sue durevoli conseguenze, fu la fondazione della Colonia del Capo. Sulla fine del 1647 una nave della Compagnia delle Indie, la Haarlem, naufragò a Table Bay e gli ufficiali di essa, ricondotti in Olanda l'anno seguente, segnalarono i maggiori vantaggi che presentava il Capo, come scalo di navigazione, in confronto di S. Elena. Riconosciute giuste le loro osservazioni, furono spedite al Capo tre navi, al comando di Giovanni van Riebeek che, nell'aprile del 1652, prese possesso di Table Bay fondandovi una colonia che nel 1699 aveva 1142 abitanti bianchi e 1147 schiavi, importati regolarmente dal Madagascar. Per lungo tempo 1' occupazione olandese fu ristretta alla costa; ma, infine, il governatore Simone van der Stel incoraggiò l'esplorazione nell'interno. Tra il 1685 e il 1689 i coloni si spinsero fino al Namaqualand e alla baia di Delagoa. Mentre gli Europei riuscivano, a poco a poco, ad insinuarsi qua e là in Africa, ponendo le basi della loro futura occupazione di tutto quanto il continente, riuscirono vani i loro tentativi per guadagnare sia pur solo influenza in Abissinia. Quell'antico regno cristiano, dopo il sollecitato intervento portoghese, s'era rinchiuso in sé stesso, retto fino ai giorni nostri da molteplici sovrani indigeni che seppero mantenerne l'indipendenza, tanto politica quanto religiosa. Riusciti infruttuosi i ripetuti tentativi per sottomettere l'Abissinia con le armi, i musulmani cercarono d' introdurvi pacificamente la loro fede; e a tal fine fra l'altro si recò nel 1430 nel Harrar, in missione religiosa, Ibrahim Abú Zarbai. Ma raccolse pochi frutti. Nel 1603 i gesuiti, appoggiati per fini politici dalla corte di Francia, tentarono di fare abiurare il monofisismo agli Abissini, facendo loro accettare il cattolicesimo. Padre Pietro Paez riuscì nel 1622 a convertire il negus Susennios, che tuttavia nel 1632 ristabilì le dottrine e i riti monofisiti. Alle missioni religiose la Francia volle poi fare seguire ambascerie diplomatiche in Abissinia. Luigi XIV vi inviò M. Lenoir du Roule, ma questi fu assassinato nel 1705 al Sennàr, prima che avesse potuto varcare i confini etiopici.
La media Africa nei sec. XVI e XVII. — Nei secoli in cui gli Europei tentavano le coste dell'Africa, nell'interno si svolgevano notevoli avvenimenti. I grandi imperi unitari o confederati, sorti nei secoli XIV e XV, crollavano, e in loro vece si costituivano stati con territorio meno esteso e composizione etnica più omogenea. Una sfortunata guerra col Marocco fu causa dello sfacelo dell'impero Songhai. Nel 1545 sorse una contesa fra il Marocco e il Songhai circa il possesso delle saline di Tegazza, che, prolungatasi a lungo con alternative di temporanei accordi e incidenti militari di frontiera, fu infine troncata dal sultano del Marocco Ahmed el-Manstair, mercé l'invasione del Songhai, iniziata nel 1590 da un esercito al comando di Giùdar Pascià, che pare fosse uno spagnuolo rinnegato. Nel febbraio 1591 ebbe luogo a Tundibi presso Timbuctu una battaglia decisiva fra i marocchini e l'esercito songhai comandato da re Askiyà Isbaq II. In seguito al terrore provocato fra le sue truppe dalle armi da fuoco del nemico, ad esse ignote, il re fu sconfitto e fuggì nel Borma, ove morì a Gurna l'anno seguente. Nel 1595 la conquista del Songhai fu compiuta e i Marocchini si posero a governarlo regolarmente. Dal 1613, peraltro, la metropoli si disinteressò del lontano possedimento, che cadde in mano a governatori rapaci, spesso in guerra fra di loro: sicché, nel 1660, la dominazione marocchina nel Sùdan ebbe termine. Venuta meno l'egemonia songhai col disfacimento dell'impero edificato dagli Askiya, acquistò importanza il Borma, che aveva conservato la sua estensione territoriale e la sua antica dinastia. Alla fine del sec. XVI si costituì il regno dell'Ascianti che ebbe in Chumenchu il suo primo sovrano a noi conosciuto (1600-1630) e che, alla fine del sec. XVII, raggiunse l'apogeo, regnando l'eroe nazionale Osei Tutu (1695-1731). Nella stessa epoca si costituirono nella media Africa parecchi altri stati, alcuni pagani, altri suscitati dal soffio animatore dell'Islam che, pur lentamente e faticosamente, si andava sempre più diffondendo. Nei secoli XV e XVI l'opera missionaria più attiva fu svolta dalla confraternita degli al-Qadiriyyah, soprattutto nelle regioni dell'Alto Nilo e lungo le coste occidentali. Fra il 1528 e il 1543 fu convertita all'islamismo la Nubia. Il Darfùr, convertito durante il regno di Suleiman Solog (1596-1636), ebbe nel sec. XVII un periodo di splendore. Altri stati importanti furono quelli del Benin, nel quale l'influenza portoghese sviluppò forme d'arte assai notevoli e il regno di Sennàr, che sotto la dinastia Femg si estese dalla terza cataratta del Nilo fino a Fazogli e da Suàkin al Nilo Bianco. Nel 1612 fu fondato da `Abd el-Karim il regno del Uadai; nel 1625 quello del Dahomey, che ebbe, il 1650, un notevole sovrano, Adahunzu I.
L'Egitto dal 1798 al 1841. - Dalla penetrazione europea che, sebbene limitata alla costa, si andava svolgendo sistematicamente fin dai secoli XVI e XVII nell'Africa occidentale e meridionale, era rimasto fino allora immune il settentrione. Toccò a Bonaparte di rompere l'incanto, iniziando nel 1798 quella lenta presa di possesso europea dell'Africa musulmana che doveva essere compiuta poi dagli stessi Francesi nel 1912, mercé l'imposizione del protettorato al Marocco. Il 20 maggio 1798 il generale Bonaparte salpò da Tolone alla volta dell'Egitto, a capo di una spedizione militare della quale facevano parte, tra gli altri, i generali italiani Caffarelli, Andreossi, Reynieri, Frianti, Ramponi e Dugna. Lo accompagnavano altresì 122 scienziati. Si legge nel Memoriale di S. Elena che «lo scopo principale della spedizione francese in Oriente era d'abbassare la potenza inglese. Dal Nilo doveva partire un'esercito alla conquista dell'India. L'Egitto doveva sostituire S. Dorningo e le Antille, tolte dall'Inghilterra alla Francia. Mercé il possesso d'Alessandria, aggiunto a quello di Corfù, di Malta e dei porti d'Italia, il Mediterraneo sarebbe divenuto un lago francese». Bonaparte sbarca ad Alessandria il 3 luglio 1798 e il giorno seguente occupa la città, il 21 sconfigge i Mamalucchi alle Piramidi, il 27 entra in Cairo. Ma, il io agosto, l'ammiraglio inglese Nelson distrugge la flotta francese nella rada di Abuqir, tagliando così le comunicazioni dell'esercito di Bonaparte con la Francia e imprigionandolo in Egitto. Bonaparte tuttavia cerca di dare assetto alla sua conquista. Il 21 agosto fonda l'Istituto d'Egitto, chiamando a farne parte anche gli scienziati italiani Andreossi, Caffarelli, Neri e Ventura; predispone i lavori per il taglio dell'istmo di Suez, già decretato dal governo francese. Il 12 ottobre, insurrezione al Cairo, domata con fatica; subito dopo, dichiarazione di guerra da parte della Turchia. Ai primi di gennaio 1799 Bonaparte, per parare la minaccia, prende l'offensiva contro i Turchi invadendo la Siria, mentre le sue truppe rimaste in Egitto occupano Esna, Luxor, 'Aswàn e el-Qoseir. Terminata senza decisivi risultati la campagna di Siria, Bonaparte ritorna al Cairo il 14 maggio 1799, seguito dall'esercito turco che i Francesi respingono ad Alatiqir. Ma oramai la spedizione d'Egitto aveva fallito lo scopo; onde Bonaparte, imbarcatosi di nascosto il 12 agosto 1799 con 7 soli compagni, partì per la Francia. Kléber, successore di Bonaparte al comando delle truppe in Egitto, respinse una seconda invasione turca, ma fu assassinato da un siriano il 14 giugno 1800. L' anno seguente i Turchi, alleati degl'Inglesi, tornarono la terza volta per invadere l'Egitto, e questa volta riuscirono nell'impresa, battendo i Francesi a Canopo e costringendoli a capitolare al Cairo e ad Alessandria. I resti della loro spedizione furono rimpatriati dagl'Inglesi nel 1801.
La partenza dei Francesi restituì l'Egitto all'Impero Ottomano, ma lo ripiombò nell'anarchia, contrastandosene il governo la Porta e i Mamalucchi. Questi avevano subìto gravi perdite nelle campagne contro i Francesi, mentre i Turchi avevano in Egitto un esercito pressoché intatto che, fra l'altro, comprendeva un corpo scelto di quattromila Albanesi. Faceva parte dell'ufficialità di questo ultimo un giovane animoso e ambizioso, Mohammed 'Ali, nativo di Cavala, il quale, sembrandogli favorevoli le circostanze per farsi strada, si unì ai capi dei Mamalucchi `Othman Bardisi e Mobammed Alfi, e insieme con essi e i loro seguaci attaccò, sconfisse e uccise il comandante dell'esercito turco Khosrew Pascià. Di fronte a tali avvenimenti, la Porta, come era solita, s'affrettò a riconoscere il fatto compiuto, cioè la supremazia in Egitto dei Mamalucchi e di Mohammed 'Ali. Ma costui, disdegnando di condividere il potere, convocò il 10 marzo 1811 i Mamalucchi ad un banchetto, e fece proditoriamente massacrare i 48o intervenuti, salvo uno che scampò. Perfino l'Oriente stupì di così grande e perfida strage. Mobammed `Ali, rimasto solo al potere, non tardò a dare prova di lontane vedute politiche. Fra il 1820 e il 1822, conquistò Dongola, il Sennàr e il Kordoan. Nel 183o fu fondata Khartfim, che divenne sede delle nuove provincie aggiunte all'Egitto. Poco dopo sorse Cassala e furono presi in affitto dalla Turchia i porti di Suakin e Massaua. Nel 1841, la Porta eresse l'Egitto a vice-reame, concedendone l'investitura ereditaria a Mobammed 'Ali e ai successori. La Turchia cominciava così a spogliarsi dei suoi possedimenti africani, e quelli ch'essa non abbandonava le furono tolti a poco a poco.
Gli stati barbareschi. - Già nel periodo fra il 1659 e il 1753 Tunisi e Algeri, mercé incessanti lotte e ribellioni, erano riuscite a rendersi, se non di diritto, almeno di fatto indipendenti dalla Turchia. Le due città, talvolta unite, ma più spesso in lotta fra di loro, avevano peraltro in comune l'essere covo di pirati che infestavano il Mediterraneo, attirandosi le rappresaglie or di questa or di quella potenza europea. La vita interna dei due stati fu travagliata da una serie ininterrotta di disordini. Ad Algeri, fra il 1659 e il 1830 si succedettero quattro capi militari di nomina temporanea detti Aghi. e ventisette principi eletti a vita (Bey); di essi, diciotto morirono assassinati e quattro furono deposti. A Tunisi, il governo ebbe relativamente maggiore stabilità. La conseguita indipendenza di Tunisi e di Algeri, che insieme con Tripoli erano noti col nome di stati barbareschi, nonché l'attività svolta nel Mediterraneo dalla loro marina, rese necessario alle potenze europee di stringere con essi trattati, soprattutto per premunirsi contro gli attacchi del loro naviglio e la cattura dei connazionali, il cui prezzo di riscatto costituiva la maggior fonte di rendita dei pirati. Senonché la malafede dei principi barbareschi, la loro ingordigia e inadempienza dei patti, dettero continuo motivo a nuove guerre che si ricollegano a quelle nelle quali gl'Italiani s'erano tanto distinti nei secoli antecedenti. Lunga è la serie dei bombardamenti di Tripoli, di Biserta e d'Algeri compiuti dai Francesi, dagli Spagnoli, dagli Inglesi, dai Veneziani, dai Piemontesi. Nell'ottobre del 1815 i pirati di Tunisi riuscirono a catturare in Sardegna 150 persone: ma questa fu l'ultima loro impresa del genere. Se ne commosse il congresso di Vienna che decise di sopprimere la schiavitù nel Mediterraneo: onde l'Inghilterra, l'anno seguente, inviò una sua squadra al comando di lord Exmouth a fare una dimostrazione sulle coste barbaresche. Nel 1819 una squadra francese e una inglese riapparvero su quelle coste per intimarvi l'abolizione della corsa, decisa dal congresso di Aquisgrana. Nel 1825 un incidente diplomatico provocò l'invio di una squadra sarda a Tripoli, al comando di Francesco Sivori, che bombardò la città e ottenne le desiderate riparazioni.
Ben più gravi furono le conseguenze d'un altro incidente diplomatico sorto fra il bey d'Algeri e la Francia. La quale perciò, anziché bombardare la città, colse l'occasione per occupare definitivamente tutta quanta l'Algeria. Il 25 maggio 1830 salpò da Tolone una spedizione militare francese che prese Algeri il 5 luglio; seguì per 15 anni un seguito di campagne svoltesi con varia fortuna, in alcune delle quali la Francia pose in campo fino a 74.000 uomini, al comando dei suoi migliori generali, quali Savary, Bugeaud, Lamoricière, Changarnier, il duca d'Aumale. Nel 1833 la resistenza araba trovò un capo in Abd el-Kader (`Abd al-Q5dir), che il 28 giugno 1835 vinse i francesi alla Macta; ma ne fu sconfitto il 6 luglio a Tafna e nel 1840 a Medea. Il 14 agosto 1844 il sultano del Marocco 'Abd er-Rahmsn, venuto in aiuto ad Abd el-Kader, fu sconfitto anche esso ad Isly; e infine, nel 1847, Abd el-Kader si arrese alla Francia.
Le spedizioni francesi in Egitto e in Algeria mutarono profondamente il carattere dell'espansione europea in Africa. Gli acquisti coloniali dal sec. XV al XVIII avevano avuto prevalente scopo economico, ed interessato principalmente coloro che li facevano, influendo solo in modo indiretto sulle relazioni internazionali delle potenze. Dall'inizio del sec. XIX, invece, l'Europa s'impossessa dell'Africa soprattutto per fini sociali e politici, onde essa diventa uno degli elementi costitutivi della vita europea e della politica mondiale. Da allora l'esplorazione del continente africano si fa sempre più celere; la fondazione di colonie sempre più frequente, anche là dove prima si annidava fiera barbarie. La storia dell'Africa, fino allora frammentaria e slegata, acquista oramai unità, pur perdendo il carattere proprio e diventando corollario di quella europea.
L'Africa meridionale. - L'Inghilterra, che già aveva occupato la Colonia del Capo nel 1795, e nel 1802 aveva dovuto restituirla all'Olanda in seguito alla pace di Amiens, se ne impossessò definitivamente nel 1806, ma non poté stabilire la sua supremazia né sugli indigeni, né sulla popolazione discendente dai coloni olandesi, detta boera, se non dopo lunghe lotte che durarono fino al 1902. Dal 1811 al 1858 gl' Inglesi dovettero respingere invasioni e domare ribellioni dei Cafri, ma intanto nel 1824 estesero i loro possedimenti fino al Natal. Nel 1835 si trovarono di fronte a nuovi problemi; poiché quell'anno to.000 Boeri, insofferenti del dominio inglese, traversarono il fiume Orange e poscia il Vaal fondando gli stati indipendenti dell'Orange e del Transvaal, riconosciuti dall'Inghilterra rispettivamente nel 1852 e nel 1854. Durante tutta la seconda metà del secolo si svolse nell'Africa meridionale una duplice lotta degli indigeni coi bianchi e di questi fra loro. I Boeri dovettero combattere i Matabele nel 1837, gli Zulu nel 1838. Gl'Inglesi, che fin dal 1823 avevano avuto a che fare con gli Zulu, retti allora dal loro famoso capo Chaka, nel 1879 intrapresero una definitiva campagna contro di essi, durante la quale fu ucciso il principe Napoleone Eugenio. Nel 1880 si mossero contro i Basuto. Ma, per quanto lunghe e micidiali, tali guerre avevano carattere e scopo di assestamento coloniale, mentre quelle coi Boeri furono avvenimenti internazionali, che poco mancò non avessero gravi ripercussioni in Europa. La prima guerra coi Boeri, svoltasi dal dicembre 1880 al febbraio 1881, fu sfortunata per gl'Inglesi. La seconda, conseguenza di lunghi attriti fra l'Orange sotto la presidenza dello Steyn e il Transvaal sotto quella del Kriiger, segretamente appoggiati dalla Germania, il cui antagonismo mondiale con l'Inghilterra si andava sempre più delineando, si svolse dall'ottobre 1899 al 31 maggio 1902. Fu guerra ostinata, difficile e sanguinosa, agli inizi sfavorevole agli Inglesi che subirono rovesci a Magersfontein e a Colenso, ma in ultimo vittoriosa per essi. Mentre faticosamente consolidava la propria egemonia nell'Africa meridionale, l'Inghilterra svolse nel resto del continente un piano metodico, che consisteva nella graduale estensione verso l'interno delle sue colonie costiere e nell'acquisto di possedimenti nuovi nelle regioni strategicamente ed economicamente più importanti. Dal 1803 al 1864 diresse cinque spedizioni nell' Ascianti, nel 1874 s'impossessò di Kumasi, capitale di quel reame; nel 1896 ne depose l'ultimo sovrano Kweku Dua III, detto Perempe. Nel 1868 una spedizione punitiva in Abissinia terminò con la sconfitta di re Teodoro II a Magdala (io aprile), in seguito alla quale questi si suicidò. Nel 1884 la Costa dei Somali e la Nigeria settentrionale furono posti sotto protettorato inglese; nel 1886, la Nigeria meridionale; nel 1890, il sultanato di Zanzibar; nel 1894, l'Uganda. Nel 1898 l'Inghilterra sottomise il Benin. Ma, per quanto riguarda la politica mondiale, più ancora che l'estensione delle colonie africane, ebbe importanza l'intervento inglese in Egitto.
L'Egitto e l'Inghilterra. - Morto nel 1849 Mohammed 'Ali, viceré d'Egitto, gli erano successi il figlio Ibrahim che regnò 4 mesi, il nipote 'Abbas che morì nel 1854, il figlio Sa`id. Durante questo ultimo regno l'ingegnere francese Ferdinando di Lesseps ottenne la concessione di tagliare l'istmo di Suez, e nel Sudàn egiziano si andò sviluppando sempre più, soprattutto per opera del negriero Zubeir, la caccia e il commercio degli schiavi. Nel 1863 a Sa'id succedette figlio d'Ibrahim, principe famoso per il fasto e la prodigalità. Quando salì al trono, il debito pubblico ammontava a 75.000.000 di lire oro; quando fu deposto, esso era cresciuto a 2.629.609.500. Durante il suo governo, nel 1869, fu inaugurato con memorabile solennità il canale di Suez, intervenendo alle feste l'imperatrice Eugenia di Francia, l'imperatore Francesco Giuseppe d'Austria, nonché principi e squadre di tutte le potenze. L'apertura del canale attraverso l'istmo di Suez restituì all'Egitto l'importanza internazionale che aveva avuta fin dall'antichità e che la scoperta della nuova via per le Indie aveva diminuita: quella cioè di porta di comunicazione fra l'Europa e l'Oriente. Perciò l'Inghilterra, che aveva vitale interesse di potere dominare e difendere la via più breve verso l'India, la Nuova Zelanda e l'Australia, doveva sorvegliare sempre più attentamente l'Egitto. Altra conseguenza dell'apertura del canale di Suez fu quella di determinare l'inizio dell'espansione coloniale italiana. Infatti, nell'intento di assicurare una base di rifornimento alle navi italiane transitanti per il Mar Rosso, l'11 marzo del 1870 l'ingegnere Giuseppe Sapeto acquistò dai capi indigeni locali la baia di Assab, dalla quale si sperava pure di potere intraprendere la penetrazione commerciale nell'Abissinia. Le condizioni finanziarie dell'Egitto si andarono sempre più aggravando, sicché nel 1878 fu nominata una commissione internazionale d'inchiesta che, fra gli altri provvedimenti, consigliò e ottenne quello del licenziamento di una parte degli ufficiali dell'esercito egiziano. Da ciò ebbe inizio un periodo di gravi agitazioni. Il 30 giugno 1879, Isrnà` II fu deposto e gli succedette l'impopolare Tewiq, appoggiato dalla Francia. Il 17 febbraio 1881 gli ufficiali licenziati, con a capo il colonnello Ahmed `Urbi (Arabi Pascià), pubblicarono, contro l'intromissione europea negli affari egiziani, un manifesto che fu seguito da moti xenofobi. Avendo Francia e Italia declinato l'invito dell'Inghilterra di intervenire in Egitto, questa agì da sola: fra luglio e settembre bombardò Alessandria, sbarcò a Porto Said, vinse la debole resistenza dell'esercito egiziano a Tell el-Kebir e occupò il Cairo.
Intanto, erano maturati gravi avvenimenti nel Stían. Nel 1870 Samuel Baker, al servizio del vicerè aveva conquistato una vasta regione nell'Alto Nilo, aggiunta al Stian col nome di Provincia dell'Equatoria, a capo della quale il governo egiziano pose il generale inglese Gordon. Questi, nel 1873, chiamò quale collaboratore, fra gli altri, l'italiano Romolo Gessi. Ma gli sforzi dei funzionari europei per dare al Siian un retto ordinamento s'infrangevano contro gli ostacoli loro opposti dai funzionari egiziani, rapaci e venali, che favorivano l'oppressione degli indigeni per arricchirsi mercé il commercio dell'avorio e degli schiavi. Fra gli altri, il negriero Zubeir, fra il 1873 e il 1875, aveva per conto proprio conquistato il D5rfiír desolando quella regione. Il figlio di costui, Suleimàn Zubeir, continuò il lucroso commercio paterno. Ma infine Gordon incaricò Romolo Gessi di fare cessare l'inumana tratta e questi, dopo un'epica spedizione attraverso regioni pressoché inesplorate, riuscì nel 1879 a catturare Suleimàn Zubeir e a fucilarlo. Ma era troppo tardi per poter ridare fiducia alle popolazioni indigene, oramai pronte a sollevarsi, appena se ne fosse presentata l'occasione. Nel luglio 1881 certo Mohammed Ahmed, nato nel 1848 presso Dongola, si proclamò Mandi, cioè il riformatore annunziato da Maometto, e cominciò a predicare la guerra santa contro i cristiani. La propaganda, svolta fra popolazioni già pronte ad ascoltarla, ottenne immediato successo e determinò una rivolta d'inaudita violenza che, alimentata da straordinari successi militari, si estese a tutto il Stienn con incredibile rapidità. Nel gennaio 1883 i ribelli sudanesi, noti col nome di Dervisci, erano riusciti ad impossessarsi di 21.000 fucili e 19 cannoni, tolti alle sopraffatte guarnigioni egiziane, ed avevano preso el-Obeyyid. Nel novembre sconfissero una spedizione inglese comandata dal generale Hicks. Nel 1884 i ribelli, al comando di eOthrnMa Digna, minacciarono due volte Swakin. L'Inghilterra, in tali difficili congiunture, non disponendo di forze militari sufficienti, tentò di porre un argine all' avanzata dei Dervisci su Cassala (Kàsarà), Cheren e Massaua, opponendo loro gli Abissini. Pertanto concesse all'Etiopia il libero transito per il porto di Massaua sotto la protezione britannica e le cedette la regione dei Bogos. Nel novembre, re Giovanni III liberò la guarnigione egiziana di Gallabat assediata dai Dervisci, e pochi mesi dopo un esercito abissino, al comando di Ras Alula, mosse alla riconquista di Cassala che era stata presa da Othrnà-n Digna.
L'Eritrea. - Proprio mentre si svolgevano nell'attuale Eritrea questi avvenimenti, il governo italiano, col doppio obbiettivo d'ingrandire la piccola colonia di Assab e di prestare eventualmente aiuto all'Inghilterra, sperando di riceverne compensi altrove, decise di occupare Massaua. E ciò fu fatto, il . febbraio 1885. Sennonché, mentre la spedizione italiana, salpata da Napoli, era in viaggio, il 26 gennaio Khartiim fu presa d'assalto dai Dervisci che trucidarono il suo eroico difensore Gordon. Giunte 48 ore dopo l'eccidio, le cannoniere d'avanguardia di una spedizione inglese di soccorso tornarono indietro e tosto cominciò la ritirata anche delle truppe. Il 22 giugno 1885 morì il Mandi, al quale succedette, col titolo di suo vicario (Khalifah), uno dei suoi più fidi luogotenenti, ‘Abd Allàh atTaWishi, dopo di che i Dervisci si mantennero relativamente tranquilli, intenti ad ordinare il vasto impero che avevano conquistato. Non così gli Abissini che, irritati per la occupazione italiana di Massaua che li privava del tanto agognato libero accesso al mare, assalirono con forze assai superiori un battaglione italiano a Dogali il 26 gennaio 1887 e dopo sanguinoso combattimento lo annientarono. Una forte spedizione militare italiana mosse, l'anno dopo, contro il negus Giovanni. Gli Abissini, senza aver combattuto, si ritirarono nei loro altipiani e l'anno seguente Giovanni III fu vinto e ucciso a Metemma dai Dervisci. Gli succedette Menelik II re dello Scioa, che, appena salito al trono, concluse ad Uccialli un trattato con l'Italia, mercé il quale le affidava le relazioni estere del suo impero. Iniziatosi con ciò un periodo di buoni rapporti con l'Abissinia, l'Italia provvide all' assetto e all' ingrandimento dei suoi possedimenti africani. Nel 1889 stesso ottenne dal sultano dello Zanzibar la cessione in affitto del litorale del Benadir e prese sotto il suo protettorato i sultanati di Obbia e dei Migiurtini; in Eritrea, occupò Cheren e Asmara. Nel 1891 stipulò accordi con l'Inghilterra per determinare la propria sfera d'influenza nel retroterra della sua nuova colonia della Somalia, assicurandosi un vasto campo d'espansione lungo le frontiere meridionali e occidentali dell'Abissinia e ottenendo inoltre la facoltà d'occupare provvisoriamente Cassala, qualora ciò fosse necessario per la difesa dell'Eritrea dai Dervisci, che infatti la minacciavano. Di tale clausola l'Italia si valse nel 1894, dopo un seguito di vittoriose operazioni contro i fanatici del Siian, sconfitti due volte ad Agordat ed a Tucruf, sobborgo di Cassala.
La pace con l'Etiopia fu di breve durata; Menelik ben presto dimostrò di non volere mantenere fede al trattato d'Uccialli, contestandone la clausola che implicava protettorato dell'Italia sull'Abissinia. Dopo un periodo d'infelici destreggiamenti politici, allorché l'Italia iniziò con successo le ostilità contro Ras Mangascià governatore del Tigré, l'Abissinia intera sorse in armi e respinse le truppe italiane in una gran battaglia, combattuta in disgraziate condizioni presso Adua, il IO marzo 1896. Pochi mesi dopo, l'Inghilterra, che già si preparava a riconquistare il Stian, iniziò dall'Egitto l'avanzata spingendosi fino a Dongola; l'anno seguente avanzò ancora, e il 2 settembre 1898 riconquistò Khartiím. Sconfitti definitivamente gli ultimi seguaci del Mandi, l'Inghilterra ricollegò il Stian all'Egitto, sul quale il suo dominio, consolidato da lord Cromer e lord Kitchener, sebbene dichiarato provvisorio, sembrava oramai definitivo; la Francia sola, che sempre l'aveva visto malvolentieri, lo contrastava ancora.
La penetrazione francese. - Per darne prova, tre mesi prima che l'esercito inglese riconquistasse Khartum, una colonna militare agli ordini del maggiore J.-B. Marchand, partita dal Congo, era comparsa a Fascioda (Fashùdah) sull'Alto Nilo, quasi per contrastarne un'ulteriore avanzata. Grandemente si commosse l'Europa, temendo che dalle rivalità coloniali potesse nascere una guerra fra l'Inghilterra e la Francia; l'incidente di Fascioda valse invece a provocare un'intesa fra quei due stati, mercè la quale essi determinarono i limiti dei rispettivi imperi africani. All'Inghilterra toccò la vallata del Nilo, alla Francia il Uadai, il Kànem, il Tibesti. Pagò le spese dell'accordo la Turchia che fin dal 1836, in seguito alla conquista francese dell'Algeria, aveva ripreso il dominio diretto sulla Tripolitania deponendone l'ultimo principe indipendente 'Ali Bey Qaram-anli, e che vantava diritti sulle regioni interne, geograficamente ed economicamente connesse alla Libia. Specialmente notevole lo sviluppo africano della Francia. Questa nazione, nella seconda metà del sec. XIX, si era creato un vasto e organico impero coloniale nel NO. del continente. Già Napoleone III, dando prova di una larga e geniale concezione della politica coloniale, aveva esteso nel 1856 l'antica colonia del Senegal, mercè campagne comandate dal generale Faidherbe, e aveva concluso nel 1861 trattati con re Meppon di Porto Novo sulle coste del Dahorney, nel 1862 coi Tuareg di Gadames, nel 1868 con la regina Ranavalona II del Madagascar, riannodando così le relazioni col governo Hova, interrotte fin dal 1822. Nel 1863, poi, l'imperatore aveva dettato nuove norme di politica indigena e nel 1865 s'era recato egli stesso in Algeria. Ma la guerra con la Prussia del 1870-71 aveva sospeso l'espansione coloniale francese, ripresa solo dieci anni dopo, principalmente per rialzare il prestigio militare e politico della nazione. Nel 1881 la Francia proclamò il proprio protettorato su Tunisi, iniziando poco dopo una serie di brillanti operazioni militari nell'Africa occidentale e centrale. Nel 1883 i Francesi raggiunsero Bamako sul Niger, nel 1892 presero Segu e conquistarono il Dahomey deponendone il re Behanzin; nel dicembre 1893 occuparono Timbuctu. Due anni dopo la Francia, in seguito alla violazione da parte del governo Hova di un nuovo trattato del 1885, dichiarò la guerra al Madagascar e il 3o settembre 1895, dopo breve campagna, occupò Tananarivo. Mercé le operazioni militari svolte nella media Africa, la Francia non solo poté crearsi un vasto impero coloniale, ma raggiunse l'effetto, storicamente e socialmente assai importante, di pacificare le regioni dell'Africa media e occidentale che, per opera di alcuni fanatici e crudelissimi avventurieri e negrieri indigeni, erano piombate da cent'anni in uno stato di perpetua anarchia e guerra.
L'Africa centrale nel XIX secolo. - Sul finire del sec. XVIII, decaduta la razza songhai, si ebbe, nelle regioni ove essa aveva saputo costituire e organizzare un impero, grande mistione di popoli e formazione di effimeri regni, frutto di rapide conquiste, scomparsi insieme con chi li aveva fondati. Anche quest'ultima effervescenza delle razze autoctone africane fu diretta conseguenza del diffondersi dell'islamismo, come tale era stato il loro precedente risveglio, tre secoli prima. Circa il 1770, i Tuareg del nord scesero sulle sponde del Niger e s'impossessarono di Timbuctu; mentre gli Hausa, i Bambara e altri popoli ancora pagani guerreggiavano fra di loro, essi costituirono regni nell'Adamaua, nella regione Mossi, a Gòber, a Segu. Nel sec. XIX, l'egemonia fra i popoli dell'Africa media e occidentale passa ai Fula, intelligente razza di pastori che non aveva avuto fino allora importanza storica. La sua sede principale era negli altipiani del Fitta Giallon; ma essa viveva disseminata e senza coesione politica anche nel Stian centrale, nel BAgTrmi e nel Bornó. Musulmani osservanti e pii risposero con entusiasmo all'appello di un sant'uomo della loro razza, `Othm5n Danfodio, che, reduce dalla Mecca, nel 1802 accese il loro fervore religioso, incitandoli alla guerra santa contro i pagani. Dopo di che, i Fula si costituirono un vasto impero. Morto `Othman Danfodio nel 1816, le sue conquiste furono ripartite fra i suoi due figli: `Abd AllTh col regno di Gando e Mobammed Bello con quello di Sókoto, che poi per cinquant'anni ebbe un certo splendore e fu centro di studi. Timbuctu e la regione circostante, conquistate nel 1827 dal luogotenente di e0thrn5n Danfodio, Abmad Lebbo, rimasero ai suoi figliuoli. Poco dopo il movimento d'ascesa determinato dagli avvenimenti del principio del secolo, la razza fula sembra già precipitare verso la decadenza quando, nel 1841, si ridesta invece di nuovo, per opera d'un altro fanatico, el-Ingg 'Omar (1797-1865). Questi, recatosi anch'egli alla Mecca nel 1827 e subita ivi l'influenza dei Wahhàbiti, incitò alla sua volta i Fula ad una nuova guerra santa che, svoltasi terribile e sterminatrice soprattutto nelle regioni dell'alto Niger e del Senegal, contro i Mandinghi di Bambuk e i Barnbara di Segu, culminò nel 1855 con la presa di Timbuctu. Erano gli anni nei quali i Francesi avevano cominciato ad estendere all'interno le colonie costiere. Infatti le loro prime spedizioni si svolsero contro Sheikh Abmad, figlio di Fpgg 'Omar, che regnava a Segu, e contro il suo nipote TigidnI, che regnava nel Macina. Vinti e sottomessi costoro, i Francesi si trovarono successivamente di fronte l'avventuriero Samory (1846-1900) che nel 1881 aveva messo a ferro e fuoco il Sticran e che fu da essi raggiunto e sconfitto nel 1897; ed il negriero Rabàh che devastava le regioni dello Chari e che fu da essi sconfitto nel combattimento di Kussuri. Liberate le regioni dell'Africa centrale da questi ostacoli, la Francia si pose con successo a pacificarle e organizzarle.
Altre formazioni politiche intanto apparivano in questa parte mediana dell'Africa. Fra gli antichi possedimenti costieri inglesi e francesi sull'Atlantico era andato costituendosi, fin dal 1822, uno stato di speciale natura. In quell'anno, sotto gli auspici della American Colonisation Society, erano sbarcati alla foce del fiume Messurado un certo numero di schiavi negri americani liberati, che, stabilitisi nella regione circostante, avevano imposto ad essa il nome di Liberia. Il 26 luglio 1847 i negri immigrati si dettero una costituzione e si proclamarono indipendenti; nel 1848 elessero presidente J. Jenkins Roberts che seppe organizzare il nuovo stato su solide basi. Nel 1876, sotto gli auspici di re Leopoldo II del Belgio, si costituì un'Associazione internazionale africana, allo scopo di coordinare l'esplorazione della parte centrale del continente. Tale Associazione, fattisi cedere dagli indigeni vasti territori nel bacino del Congo e del Niadi Kwilu, fu poi riconosciuta nel 1885 dalle potenze quale Stato Indipendente del Congo. Fra il 1886 e il 1894 questo stato, svolgendo azione simile a quella francese a N. e a O. del proprio territorio, combatté e vinse i negrieri arabi Sefu, Rashid e Munié Mohara, liberando le popolazioni del Nyagwe, Kasongo e Manyema dall'incubo delle loro spietate razzìe. Ultima potenza a costituir colonie in Africa fu la Germania, che nel 1883 proclamò il protettorato sulla regione fra il Capo Frio e l'Orange, nel 1884 sul Togo e il Camerun. Nel 1885 subentrò nei diritti acquisiti dal dottor Peters nel sultanato di Zanzibar, che tuttavia essa cedette nel 1890 all'Inghilterra. Nel 1889 estese i propri possedimenti nella regione del Tanganica. L'esistenza della colonia nell'Africa sud-occidentale fu travagliata, poiché i Tedeschi, nel 1893, dovettero combattere contro gli Ottentotti, nel 1903 contro i Bondelzwaarts, e sostenere fra il 1904 e il 1908 una sanguinosa guerra contro gli Herrero.
Fondamentale importanza ha per l'Africa e per i suoi rapporti con l'Europa il sec. XIX. Azioni e reazioni scambievoli si svolgono fra i due continenti. In Africa al lievito musulmano si sostituisce quello europeo, tanto più energico e operoso. In Europa le necessità della colonizzazione dell'Africa fanno sorgere schiere di africanisti, esploratori, conquistatori, organizzatori, missionari: Livingstone, Stanley, Gessi, Serpa-Pinto, Bottego, Nachtigal, Schweinfurth, Gordon, Kitchener, Cecil Rhodes, Faidherbe, Gallieni, Cromer, ecc., e pongono nuovi problemi che la scienza europea si affatica a risolvere. Si studiano i popoli africani, le loro lingue e religioni, i loro usi e costumi, la loro storia e preistoria. Per cui l'Europeo, dopo averli vinti e soggiogati, conoscendoli meglio, cerca di assecondarne il progresso e intravede la possibilità di farsene dei collaboratori. Il sec. XIX, che aveva visto ai suoi albori i popoli africani ammessi nel consorzio umano, mercé l'abolizione della schiavitù deliberata dall'Inghilterra nel 1807, dalla Francia nel 1815, dal Portogallo nel 1830, si chiude col riconoscimento del loro diritto alla libertà di coscienza, alla proprietà, alla conservazione dello statuto personale, affermato dalla conferenza di Berlino nel 1885, da quella di Bruxelles nel 1890. La spartizione dell'Africa, compiutasi mercé un lungo seguito di campagne militari e un grande numero di cessioni territoriali fatte dagli indigeni in seguito a convenzioni con gli stati europei, si delinea nella seconda metà del sec. XIX. La Francia tende ad allargare il possesso dell'Algeria ad O. ed a E. a ricongiungerlo con le antiche colonie sulle coste dell'Atlantico. L'Inghilterra occupa l'Egitto e tende a ricongiungerlo con la colonia del Capo, assicurandosi al tempo stesso buon tratto dei litorali della media Africa sui due oceani. Il Portogallo conserva le proprie colonie dell'Angola e del Mozambico. Nelle regioni centrali si costituisce uno stato indipendente sotto gli auspici del Belgio. L'Italia tende al litorale africano oltre il mar di Sicilia, e si costituisce una colonia nel NE., fra il Mar Rosso e l'Oceano Indiano, dalla quale possa estendere la propria influenza sull'Abissinia. La Germania, infine, occupa i territori rimasti nel SO. e nel NE.
Secolo XIX: progressi francesi a NO. - Durante il primo ventennio del sec. XX, le potenze europee portarono a compimento la spartizione dell'Africa, consolidarono i loro possedimenti, e alla fine della guerra mondiale alcune di esse adottarono nuovi metodi di politica coloniale. La Francia, fra il 1908 e il 1909, movendo da S. a N., estende i propri possedimenti dell'Africa occidentale, conquistando la cosidetta Mauritania e l'Adràr, e si pone metodicamente all'opera per realizzare i suoi antichi disegni sul Marocco. Aveva già ottenuto dall'Inghilterra e dall'Italia il riconoscimento dei suoi speciali interessi nell'impero sceriffano, per il quale si era riunita ad Algeciras, nel 1906, una conferenza europea, allo scopo di mettervi ordine. Per cui, fra il 1908 e il 1911, ecco la Francia intervenire apertamente negli affari del Marocco. L'ultimo ostacolo alla sua graduale penetrazione fu opposto dalla Germania, che rifece alla Francia ciò che questa aveva fatto all'Inghilterra a Fascioda, inviando una nave ad Agadir nel 1911, quasi per contrastarle il passo. Come s'era accordata, tredici anni prima, l'Inghilterra con la Francia, così questa s'accordò in fine con la Germania cedendole, in compenso della libertà d'azione al Marocco, vasti territori al Congo. Dopo di che, il 3 marzo 1912, dopo una campagna non scevra di difficoltà contro il sultano di Fez, il generale Liautey occupò la capitale, e la Francia proclamò il proprio protettorato sull'ultimo impero musulmano dell'Africa rimasto ancora indipendente (v. MAROCCO). Il 2'7 novembre di quello stesso anno la Spagna, alla sua volta, assunse il protettorato di qualche provincia del Marocco settentrionale; Tangeri fu sottoposto a regime internazionale. Dopo la guerra mondiale il protettorato francese e spagnolo nel Marocco corsero seri pericoli in seguito alla grave insurrezione degli anni 1925-26, che fu tuttavia domata (V. ABD EL-KRIM).
La Libia. - Mentre la Francia portava a compimento il suo grandioso piano d'espansione coloniale nell'Africa occidentale, l'Italia aspettava che si presentasse un'occasione favorevole per assicurarsi un possedimento sull'opposta sponda mediterranea, riconosciuto necessario fin dai primordi della sua unità, per ragioni strategiche, nonché per esigenze demografiche e di espansione economica. Non rimanevano altro che la Tripolitania e la Cirenaica. Ma chi appetiva regioni appartenenti alla Turchia doveva affrettarsi ad impadronirsene, prima che il nuovo assetto dell'Impero Ottomano, in seguito alla instaurazione del regime costituzionale avvenuta nel 1908, rendesse l'impresa inopportuna e pericolosa. L'Austria s'era annessa la Bosnia e l'Erzegovina, fino allora occupate solo militarmente; Francia e Germania si contrastavano il Marocco; e tali avvenimenti, insieme col fondato sospetto d'essere preceduta dalla Germania, persuasero l'Italia ad agire. Il 29 settembre 1911, dichiarazione di guerra alla Turchia; il 5 ottobre, occupazione di Tripoli; il 20 di Bengasi. A queste prime azioni seguì una campagna comandata dal generale Caneva contro i presidi turchi della Tripolitania e della Cirenaica, ai quali s'erano uniti gl'indigeni. Il 5 novembre, un decreto reale pose la Libia sotto la piena e intera sovranità dell'Italia; ma la pace con la Turchia fu firmata solo il 18 ottobre 1912, a Ouchy. E pur tuttavia la guerra non cessò nelle due regioni. Il . marzo 1914 un'ardita spedizione raggiunse Murztík nel lontano Fezzà.n. In Cirenaica la resistenza turco-araba trovò un insperato aiuto nella potente confraternita senussita, che per circa 6o anni aveva impersonato nell'Africa settentrionale la tendenza intransigente e riformatrice dell'Islam, affermatasi in Arabia sulla fine del sec. XVIII. Peraltro nella seconda metà del sec. XIX la Senussia era degenerata in un'organizzazione politica, preoccupata solo di monopolizzare l'attività economica della Cirenaica e di alcune regioni sahariane. Dal Gebel el-Akhdar cirenaico la Senussia aveva, a poco a poco, esteso la propria influenza nel Fezzàn, nel Borcu, nel Uadai, ma da queste regioni interne era stata cacciata con le armi dai Francesi fra il 1907 e il 1910. Lo sbarco degli Italiani in Cirenaica coincise pertanto col ritorno dei Senussiti dal Sud al Nord: donde la loro unione coi Turchi, per opporsi all'Italia. Dopo una prolungata e insidiosa campagna contro il nuovo agguerrito nemico, svoltasi fra il 1913 e il 1917, parvero possibili e opportuni pacifici accordi, che furono infatti stretti fra l'Italia e i capi senussiti; ma fu pace resa effimera dalla inadempienza dei patti da parte dei contraenti indigeni. Nel 1915, come era accaduto al tempo della conquista francese dell'Algeria, ebbe luogo una generale insurrezione in Tripolitania, che fu poi domata alla fine della guerra mondiale.
Il Sud-Africa e l'Egitto. - Dall'inizio dell'attuale secolo due avvenimenti caratterizzano la politica inglese in Africa: l'autonomia gradatamente concessa alle colonie sud-africane e il riconoscimento dell'indipendenza dell'Egitto. Nel 1906 1' Inghilterra accordò un governo responsabile al Transvaal, l'anno seguente all'Orange. Nel 1910 fu proclamata l'Unione Sud-africana. Il nuovo stato partecipò con truppe proprie alla guerra mondiale e, nel 1917, il suo Primo ministro fu chiamato a far parte del gabinetto imperiale, costituitosi a Londra per provvedere al governo e alla difesa dell'Impero Britannico. Nel 1926 la conferenza imperiale di Londra sciolse gli ultimi vincoli di dipendenza dell'Unione Sud-Africana dalla metropoli; per cui essa è ora membro autonomo dell'unione di nazioni britanniche, sulla quale regna il re d'Inghilterra. L'Egitto fin dal 1907, aveva cominciato a dare segni d'irrequietudine e d'insofferenza del dominio inglese; né ebbe durevoli risultati l'azione pacificatrice tentata fra il 1911 e il 1914 da lord Kitchener. Scoppiata la guerra mondiale e minacciato l'Egitto dalle truppe turche e tedesche che ne tentarono l'invasione dal Sinai, il 18 dicembre 1911 l'Inghilterra proclamò il proprio protettorato e depose il khedivc `Abbàs Hilmì II, fondatamente sospettato di connivenza con la Turchia. Intanto, nel Dàrftir si era ribellato il sultano 'Alì Dinàr ma fu sconfitto dagli Inglesi a el - asher nel maggio 1916. Ne] 1917 salì al trono d'Egitto re Fu'àd, figlio del khedive Ismà'il. Appena terminata la guerra europea, il 13 novembre 1918, Zaghliii pascià, statista egiziano, chiese al rappresentante inglese in Egitto sir Reginald Wingate, l'abolizione del protettorato. La richiesta rimase senza risposta. Ed allora, si verificarono in Cairo e Alessandria gravi disordini. L'Inghilterra fece arrestare e deportare Zaghlú pascià; ma poi, il 17 marzo 1920, abolì il protettorato sull'Egitto e nel 1922 ne riconobbe l'indipendenza.
I nuovi problemi africani e la guerra mondiale. - Mentre in Egittc si svolgevano gli avvenimenti ora accennati, l'Inghilterra attuava metodicamente un vasto piano di valorizzazione economica de' Sndàn, mercé grandiose opere pubbliche, intese a regolare le innondazioni del Nilo e a ripartirne meglio le acque. Vaste, desolate e inospitali regioni sono state così meravigliosamente fertilizzate Ove erano deserti di sabbia, ora verdeggiano sconfinati campi d rigogliosa vegetazione. Nell'Africa orientale le ferrovie s'internano sempre più, e hanno raggiunto le sorgenti del Nilo, sessant'ann dopo la loro scoperta. Le pendici del Kilimangiaro sono coltivate intensivamente. Nel Congo, nella Nigeria, nell'Africa del Sud s aprono miniere, si sperimentano ognora nuove colture. L'europeo non si contenta più, come per il passato, di raccogliere solo i prodotti naturali delle colonie africane, bensì ne stimola esso stesso la fertilità e la raddoppia. Ma la valorizzazione dell'Africa fa sorgere poderosi problemi, nuovi finora alla vita africana. La coltura di regioni ove il clima non consente il lavoro all'europeo, la coltivazioni delle miniere, le grandiose opere pubbliche, hanno reso necessari la creazione, l'organizzazione e la disciplina della mano d'opera indigena. Infatti, scossa dagli Europei l'apatica inerzia delle popolazioni africane; nati in esse, dal contatto con la nostra civiltà, desideri e bisogni che solo il denaro può soddisfare; a poco a poco si sono venuti trasformando i loro ordinamenti sociali e la loro vita economica. Si sono formate correnti migratorie dalle regioni povere a quelle ove il lavoro abbonda: dall'Angola e dal Mozambico portoghese alle regioni minerarie dell'Unione Sud-Africana; dalle regioni ancora incolte del Congo, verso il Katanga. In altre colonie, ove la mano d'opera locale è insufficiente, l'europeo l'attrae da oltre mare: nel Kenia, affluiscono lavoratori indiani. Così le razze africane si, mischiano fra loro o con elementi estranei. Il pastore e il contadino abbandonano la terra che loro apparteneva collettivamente o individualmente per farsi operai, la massa operaia si agglomera e si organizza, acquista la consapevolezza della sua potenza, mercanteggia l'opera propria che comprende essere necessaria. Così, nel sec. XX, accanto alla storia politica sorge in Africa una storia economica e si va delineando la questione sociale. Anche in Africa la guerra del 1914-1918 ebbe profonde ripercussioni e, come per l'Europa, segnò l'inizio di una nuova epoca. Dai possedimenti e dai protettorati africani, le potenze europee trassero ingenti quantità di viveri e di materie prime, nonché denaro, mano d'opera e combattenti. In quegli anni fortunosi, 1' Eritrea e la Somalia bastarono a sé stesse e fornirono all'esercito della metropoli ragguardevole quantità di alimenti. All'Inghilterra perfino i capi indigeni della lontana Nigeria offrirono vistosi aiuti pecuniari. Alla Francia la Tunisia, l'Algeria e il Marocco soli fornirono 262.500 combattenti, dei quali 80.000 morirono sul campo. Altrettanti, se non più, ne fornirono i possedimenti dell'Africa occidentale ed equatoriale; e oltre ai soldati, un ingente numero d'operai per le officine metropolitane. Uniti, gli eserciti coloniali dell'Inghilterra, della Francia e del Belgio conquistarono poi le colonie africane della Germania. L'Africa occidentale tedesca oppose breve, ma forte resistenza alle truppe dell'Unione Sud-Africana, poiché nel 1914 si unirono ai Tedeschi 11.000 ribelli boeri, comandati dal ten. colonnello Maritz che riuscì a respingere il nemico a Zandfontein. Nel febbraio 1915 la campagna fu ripresa dal generale Luigi Botha, che vinse i Tedeschi nel marzo a Riet e a Pforte, e il I° luglio a Otavi. Più lunga e difficile fu la campagna delle truppe inglesi, belghe e portoghesi nell'Africa orientale tedesca, che durò altrettanto quanto la guerra combattuta in Europa. Nel 1915 gli scontri più importanti ebbero luogo nella regione del Kilimangiaro e sul Victoria Nyanza; nel 1916 la campagna fu proseguita dal generale Smuts, al quale succedette l'anno seguente il Van Deventer. Nel 1918 quella parte delle truppe tedesche ch'era fino allora sfuggita alla cattura e che resisteva ancora, s'era avviata ad invadere la Rhodesia, quando l'armistizio generale pose fine alle operazioni. Il Togo e il Camerun furono conquistati da truppe indigene inglesi e francesi. Intorno alla sorte delle ex-colonie tedesche deliberò la conferenza di Parigi che le ripartì fra talune delle potenze alleate, col mandato di governarne la popolazione, finché fosse in grado di reggersi da sé. Ciò in omaggio al principio, parimenti affermato da quel congresso, che è dovere della civiltà assicurare il benessere e il progresso delle razze inferiori. L'Africa occidentale tedesca fu affidata all'Unione Sud-Africana, il Togo e il Camerun furono ripartiti fra la Francia e l'Inghilterra, l'Africa orientale tedesca fra l'Inghilterra e il Belgio. Il nuovo metodo d'amministrazione coloniale, cosiddetto dei mandati, porta nella storia dell'Africa un nuovo elemento, capace d'influire profondamente sui suoi ulteriori sviluppi. Poiché esso, in nome d'un principio etico, deve anteporre gli interessi delle popolazioni indigene a quello delle nazioni colonizzatrici, così implicitamente comporta che, d'ora innanzi, la colonizzazione risolva i problemi inerenti ai rapporti di razze diverse fra di loro, anziché, come per il passato, quelli fra uno stato e un territorio che gli appartenga, al fine esclusivo di trarne una qualsiasi utilità. Applicando il sistema dei mandati, l'Europa in Africa crea nuove nazioni la cui storia, che ora s'inizia, sarà quella dell'Africa futura. Se non che le nazioni più mature nell'opera colonizzatrice erano già state predisposte dall'esperienza a questi nuovi metodi di governo delle colonie. Già Francia e Inghilterra nei loro possedimenti africani, s' erano date a ricostruire ciò che nel primo, irriflessivo impeto della conquista avevano distrutto. In gran parte delle loro colonie hanno rimesso sul trono i sovrani indigeni spodestati, restaurandone l'autorità, hanno concesso agli indigeni di reggersi secondo le norme del loro diritto e delle loro consuetudini, rinunciando a farne una massa inerte e ostile di sudditi imperfettamente assimilati: tutto ciò, al fine di mantenere le società indigene nel loro naturale ambiente sociale e politico, nel quale solo possono spontaneamente migliorarsi e progredire. Infatti, nelle colonie, nei protettorati, nei territori a mandato inglese, del Kenia, Uganda, Tanganica, Nigeria, Camerun, Togo, Costa d'Oro; in quelli francesi dell'Africa occidentale; in quelli belgi del Ruanda e Urundi, si delinea oggidì una nuova vita, assecondata nei suoi sviluppi, anziché essere compressa dagli Europei. D'altra parte, l'Unione Sud-Africana, l'Abissinia e l'Egitto hanno seggi nella Società delle Nazioni, accanto a quelli delle potenze europee. Per cui l'Africa si avvia nel sec. XX a vivere una vita propria, anziché, come finora, una vita riflessa. In Africa comincia dunque a svolgersi una storia veramente africana, che non sarà più solo parte di quella dei suoi conquistatori e dominatori.
BIBL.: Leone Africano, Descrittione dell'Africa et delle cose notabili che quivi sono, nella collezione del Ramusio, Venezia 1613; 0. Dapper, Description de l'Afrique, trad. fr., Amsterdam 1686; E. Mercier, Histoire de l'Afrique septentrionale, Parigi 1880-1890; C. Diehl, L' Afrique byzantine, Parigi 5896; H. C. Morris, History of colonization, New York 1900; P. Leroy Beaulieu, De la colonisation chez les peuples modernes, Parigi 1873; H. Dehérain, Études sur l'Afrique, Parigi 1904-1909; G. BrueI, Bibliographie de l'Afrique Équatoriale Francaise, Parigi 1914; J. Darcy, L' Équilibre africain au XX siécle, Parigi 190o; G. Mondaini, Storia coloniale dell'epoca contemporanea. La colonizzazione inglese, Firenze 1916; G. Hardy, Vue générale de l'histoire d' Afrique, Parigi 1922; H. H. Johnston, Storia della colonizzazione dell'Africa, trad. ital., Torino 1925; M. Delafosse, Les civilisations négro - africaines, Parigi 1925; P. Silva, Il Mediterraneo dall'unità di Roma all'unità d' Italia, Milano 1927.
5. POLITICA DEGLI STATI EUROPEI IN AFRICA. - L'occupazione dell'Africa, rapidamente e tumultuariamente compiuta dalle potenze europee negli ultimi decenni del sec. XIX, anziché avere fine in sé stessa, non fu che un mezzo indiretto per risolvere problemi nazionali e internazionali prettamente europei. L'espansione italiana e francese nel continente fu determinata in gran parte da ragioni di politica interna, quella inglese dalla necessità di mantenere l'egemonia mondiale, quella tedesca dal desiderio d'acquistarla. Durante il periodo nel quale l'azione politica consisteva nell'assicurare il cosiddetto equilibrio europeo, l'Africa serviva da contrappeso, poiché ogni acquisto ivi fatto da una potenza comportava la concessione di un compenso alle altre. Ne conseguì che, in parecchi paesi, raggiunto lo scopo occasionale per cui le conquiste africane erano state compiute, queste divenivano impopolari, così come diventa peso ingombrante e inutile uno strumento, quando abbia compiuto il proprio ufficio.
Se non che le occupazioni europee in Africa, una volta iniziate, si allargarono per virtù intrinseca, cioè per un logico, ma spesso impreveduto concatenarsi di cause ed effetti e in seguito allo sviluppo naturale e spontaneo di situazioni talvolta inconsideratamente create. Le necessità della difesa militare dei possedimenti costieri costringevano le singole amministrazioni locali ad estendere l'occupazione all'interno, l'acquisto di un punto strategico portava di conseguenza quello d'un altro, poi di un altro più lontano. La penetrazione all'interno poneva a contatto gli europei con gl'indigeni e dal contatto nascevano conflitti che trascinavano gl'invasori ancor più addentro, oppure convenzioni, mercé le quali gl'indigeni cedevano vasti territori, che bisognava pur occupare e difendere alla loro volta.
Accompagnava e spesso precedeva l'azione statale quella delle società scientifiche che organizzavano spedizioni esploratrici dell'interno del continente, e quella delle missioni religiose; la bandiera nazionale seguiva i pionieri. In tal modo l'Europa si trovò padrona dell'Africa, senza aver voluto deliberatamente impadronirsene, e solo a fatti compiuti cominciò a concretare una politica propriamente africana, al fine d'ordinare le proprie conquiste.
Nei secoli XVI, XVII e XVIII il Portogallo, l'Olanda, la Francia e l'Inghilterra occuparono qualche località sulle coste dell'Africa, prevalentemente per ragioni economiche e strategiche. Il Richelieu e il Colbert, costituendo grandi compagnie coloniali privilegiate, assegnarono loro anche il compito politico di estendere l'influenza francese; ma, essendo esse creazioni artificiali, corrisposero solo in parte alle speranze in loro riposte e, per quanto riguarda l'Africa, svolsero un'azione insignificante ed effimera. Ma fu la Francia quella che iniziò la spartizione europea dell'Africa dopo il 1870, non già perché l'economia nazionale sentisse il bisogno di nuovi campi d'espansione, bensì per riconquistare nella politica mondiale, mercé la creazione di un vasto impero coloniale, la posizione che temeva d'aver perduto in seguito all'infausta guerra con la Prussia.
Quarant'anni prima Carlo X e Luigi Filippo avevano conquistato l'Algeria, non perché lo richiedesse l'espansione demografica francese, bensì per consolidare la monarchia mercé il prestigio dei successi militari. Rapidamente, con azione metodica ben concepita e valorosamente attuata, la Francia scese dall'Algeria al Sahara e dalle coste dell'Atlantico raggiunse il Ciad. Senonché questa vasta espansione francese parve all'Inghilterra andare oltre il suo scopo iniziale, onde se ne allarmò e ne prese infine esempio, abbandonando la politica di disinteresse coloniale, del cosiddetto laissez faire, che aveva più o meno seguita da qualche decennio. Dal 1880 al 1899, infatti, la politica mondiale fu dominata dalla rivalità franco-inglese che si andava manifestando in Africa. In quegli anni ad ogni avanzata francese corrispondeva un'avanzata inglese; gli agenti politici, gli esploratori, i missionari dell'una e dell'altra nazione facevano a gara per giungere primi nelle più importanti regioni interne per piantarvi la loro bandiera e concludere trattati di cessione territoriale con gl'indigeni; fra la Nigeria e il Ciad più volte le truppe inglesi e francesi per poco non vennero a conflitto fra di loro. La corsa alle regioni dell'Alto Nilo, compiuta da Lord Kitchener da una parte e dal maggiore Marchand dall'altra, segnò il punto culminante di questo stato di cose, al quale pose fine l'oculata prudenza del ministro Delcassé, mercé gli accordi franco-inglesi del 1898 e 1899.
Nel 1894 la Germania, che già da dieci anni aveva alla sua volta fatto acquisti territoriali in Africa, trattò con la Francia la delimitazione dei suoi possedimenti nel Camerun, e le cedette, sebbene a malincuore, una regione che, dalla sua forma, fu detta bec de canard, nel precipuo intento di amicarsela e d'unirsi ad essa, almeno sul terreno coloniale, contro 1' Inghilterra. Intanto anche le colonie inglesi si erano venute estendendo per accrescimento spontaneo e, in alcuni casi, oltre il desiderio del governo metropolitano. Così nell'Africa meridionale, mentre i governatori della Colonia del Capo giudicarono, fin dal 1848, utile e necessario annettere i territori del N. occupati dai Boeri, il governo di Londra li sconfessò nel 1852, riconoscendo l'indipendenza del Transvaal e dell'Orange, e ponendo in tal modo un argine all'ingrandimento dei possedimenti inglesi, al quale erano allora avversi il parlamento e l'opinione pubblica. Ma non valgono gli atti di volontà ad ostacolare il fatale e necessario svolgersi delle situazioni economiche. Infatti ben presto si costituì pressoché spontaneamente fra lo Zambesi e le repubbliche boere una nuova colonia inglese che dal suo organizzatore Cecil Rhodes fu detta Rhodesia. Il rapido sviluppo di tale possedimento, nonché la sua posizione geografica fecero concepire all'Inghilterra il disegno di ricongiungere il Sfidàn anglo-egiziano alla Colonia del Capo, onde, per effettuarlo, essa dovette adoperarsi per vincere la rivalità tedesca nella media Africa, come aveva dovuto affrontare più a N. quella francese. La Germania che aveva occupato nel 1885 un tratto di costa sul litorale dell'Atlantico e poscia ottenuto concessioni territoriali dal Sultano di Zanzibar, progettava di congiungere i propri possedimenti mercé la conquista della cosiddetta Mittel-Afrika, che avrebbe dovuto tagliare in senso orizzontale la catena dei possedimenti inglesi fra il Siiddn e il Capo di Buona Speranza. L'Inghilterra si premunì contro tale pericolo mercé accordi con Lobenguela capo dei Matabele, ai sensi dei quali questi non avrebbe dovuto cedere territori ai tedeschi, e mercé una convenzione di delimitazione di sfere d'influenza nell'Africa orientale, conclusa con la Germania nel 1891.
Pochi anni prima della Germania, anche l'Italia aveva piantato la bandiera in Africa, occupando Assab e poscia Massaua. Il Governo italiano sperava di «trovare nel Mar Rosso le chiavi del Mediterraneo» cioè, mercé il giuoco dei compensi che si faceva allora in Africa, di ottenere, in premio dell'aiuto che si proponeva di porgere all'Inghilterra impegnata nella rivolta mandista, il consenso d'occupare Tripoli, sua antica, vera e unica aspirazione coloniale. Tale piano non riuscì, onde l'Italia rivolse i suoi sforzi a dominare l'Abissinia, ostacolata dalla Francia che sperava di costringerla ad uscire dalla Triplice, dimostrandole che solo mercé il suo appoggio avrebbe potuto realizzare il piano d' espansione coloniale. La Germania invece appoggiava l'Italia per mantenersela alleata, ma solo formalmente, perché proprio allora cercava di avvicinarsi alla Francia (1894) per avvantaggiarsi della rivalità di questa con 1' Inghilterra. Quando scoppiò la guerra anglo-boera (1899), Guglielmo II spedì un amichevole telegramma al presidente del Transvaal Kriiger, e tanto la Germania quanto la Francia influirono sull' opinione pubblica europea in senso avverso agli Inglesi.
Al principio del sec. XX alcune fra le principali questioni politiche africane trovarono infine una definitiva e pacifica soluzione. Mercé una serie d'accordi, la Francia riconobbe i preponderanti interessi dell'Inghilterra in, Egitto e dell'Italia in Tripolitania, e così 1' Italia come l'Inghilterra, riconobbero quelli francesi al Marocco. A tali accordi non partecipò la Germania, la quale, alla vigilia dell'imposizione del protettorato francese al Marocco, chiese compensi e n'ebbe la restituzione del cosidetto bec de canard al Congo, ceduto così malvolentieri nel 1894. In seguito alla guerra mondiale la Germania perdette tutti quanti i suoi possedimenti africani.
Compiuto l'assetto territoriale dell'Africa mercé la ripartizione dei mandati, sorse il problema dell'ordinamento interno dell'Africa, oramai tutta quanta dominata dall'Europa e venne a coincidere con la necessità di risolvere anche quello della ricostruzione economica delle potenze alleate, che erano altresì le maggiori Potenze coloniali. Queste cominciarono pertanto a svolgere una politica africana propriamente detta. Fino allora le colonie d'Africa erano state considerate più o meno terre di conquista, cosicché la metropoli le aveva tenute giuridicamente assoggettate governandole direttamente, senza consentire agli indigeni di partecipare in alcun modo alla loro amministrazione; dopo la guerra, comprendendo che solo gl'indigeni possono efficacemente valorizzare la massima parte dell'Africa, le potenze coloniali mutarono atteggiamento verso di essi. La Francia, che nel 1917 aveva fatto l'inventario delle risorse che potevano trarsi dal suo vasto impero coloniale, adottò risolutamente la politica di collaborazione amministrativa ed economica indigena. L'Inghilterra poi, che già da gran tempo aveva concesso alle proprie colonie ampia autonomia amministrativa, non solo in questi ultimi anni ha concesso a tutti quanti i suoi possedimenti africani assemblee legislative chiamando a farne parte gl'indigeni, ma inoltre è andata sempre più estendendo il sistema del governo indiretto, che consiste nel lasciare liberi gl'indigeni di governarsi da sè, sottoponendoli solo alla vigilanza dell'autorità inglese.
L'odierna politica africana delle maggiori potenze coloniali non consiste pertanto più, come per il passato, nel tenere gl'indigeni sottomessi e mantenerli estranei, o solo formalmente partecipi dell'amministrazione delle colonie, bensì nello svolgimento d'un'opera intesa ad educarli, a provocare e stimolare l'evoluzione della loro civiltà, secondo le sue insite tendenze, e non secondo un indirizzo ad essa artificialmente imposto. È una politica che mira a risvegliare le latenti energie di civiltà arretrate o stagnanti per creare nuovi popoli che forse un giorno faranno sentire la loro influenza nella storia del mondo.
BIBL.: J. Chailley-Bert, Dix années de politique coloniale, Parigi 19o2; G. Hanotaux, Le partage de l' Afrique: Fachoda, Parigi 1909; A. Zimmermann, Geschichte der deutschen Kolonialpolitik, Berlino 1914; F. Crispi, Questioni internazionali, Roma 1913; H. Hauser, La guerre européenne et le probléme colonial, Parigi 1915; E. D. Morel, Africa and the Peace of Europe, Manchester 1917; F. S. Caroselli, L' Affrica nella guerra e nella pace d'Europa, Milano 1918; G. E. Cory, The rise of South Africa, Londra 1913; P. Monteil, Quelques feuillets de l'histoire coloniale: Les rivalités internationales, 1924; F. Lugard, The Dual Mandate in British Tropical Africa, Londra 1923. A. M. d. M.
6. MISSIONI. - Si è accennato, più sopra, alla persistenza di alcuni nuclei cristiani nel sec. XI, sotto i pontificati di Leone IX e di Gregorio VII: ma queste misere vestigia non erano che le ultime reliquie di una religione che l'Islamismo, durante vari secoli di dominio, era riuscito a sradicare dal cuore degli indigeni. E si è anche accennato ai tentativi di evangelizzazione compiuti per l'impulso di pontefici quali Innocenzo III e Onorio III; ma erano tempi in cui si può dire che sulle spiaggie di Barberia il cristianesimo era professato soltanto dagli schiavi, che i corsari musulmani andavano razziando durante le loro incursioni sulle coste del Mediterraneo, per riversarli, poi, sui mercati di carne umana di Tunisi e di Algeri.
Oltre l'Egitto e l'Africa romana, anche l'Abissinia ebbe, come sarà detto (v. ETIOPIA), nei primi secoli cristiani una evangelizzazione. Se qui però ogni vita cristiana non ebbe a spegnersi nei secoli successivi, il dogma e la morale vi subirono così profonde alterazioni da perdere quasi ogni virtù ed ogni efficacia sugli animi di coloro che a parole, e per lo più solo apparentemente, vi faceano professione di cristianesimo.
Per ritrovare la rinascenza cristiana dell'Africa bisogna discendere fino ai nostri tempi.
Per verità nel sec. XV, all'epoca delle grandi scoperte e delle grandi navigazioni, i re di Spagna riguardo alle Canarie, e i re di Portogallo, per le coste occidentali e orientali dell'Africa, di cui si erano impossessati, cercarono, per mezzo di religiosi che si accompagnavano a quelle spedizioni, di far conoscere anche il cristianesimo, e di indurre gli indigeni ad abbracciarlo. Non si può dire però che siano sempre riusciti a far opera persuasiva e duratura. Astraendo da alcuni casi particolari, le notizie che si hanno di quella tumultuaria evangelizzazione sono così vaghe e imprecise da non meritare grande attendibilità. Di più si deve aggiungere che, anche dove si poté fare opera di penetrazione reale, l'azione religiosa restò così subordinata e sopraffatta dalla politica, da doverne risentire tutti i contraccolpi e le deplorevoli conseguenze.
Solo di questi ultimi tempi l'Africa intera, dopo essersi spogliata a poco a poco della triste fama di continente tenebroso, ha potuto essere percorsa non solo da esploratori e da geografi, ma anche da missionari, ed è stata sottoposta ad un vero lavoro di dissodamento religioso e morale. Numerose società, ordini e congregazioni, sotto la direzione della Santa Sede, hanno affrontato l'immane impresa e la conducono avanti pazientemente, perseverantemente e con unità d'intenti e di direttive, consci delle difficoltà e degli ostacoli gravissimi da affrontare e dei sacrifici eroici da sostenere. Per quanto finora la sproporzione tra ciò che è stato fatto e ciò che resta a fare sia enorme, tutto lascia credere che il progredire dell'opera acquisterà fra non molto un ritmo più accelerato, e la semente sparsa fra tante lacrime fruttificherà.
Parallelamente all'azione della Chiesa, e in certi casi prevenendola e sorpassandola, compirono opera di penetrazione anche numerose società missionarie protestanti, le quali, particolarmente sostenute da abbondanza di mezzi materiali, e inoltre avvalorate, per un lungo periodo di tempo e a esclusione di altri, dall'appoggio delle autorità politiche, riuscirono in molti paesi a stabilirsi salda mente e a ottenere coi numerosi aderenti una notevole prevalenza sopra l'opera stessa dei missionari cattolici.
Volendosi avere un'idea meno vaga di questa vasta e svariata opera missionaria che si viene svolgendo in Africa, conviene tener conto in primo luogo delle condizioni politiche in cui si trova il vasto continente. Per quanto l'azione politica e coloniale siano tutt'altra cosa da quella svolta dai missionari, e per quanto la Chiesa abbia avuto sempre cura di mantenere l'opera sua indipendente e al di sopra di ogni competizione utilitaria, tuttavia, anche per non avere contrarie le autorità politiche e perché queste negli eventuali bisogni possano porgere aiuto e protezione ai suoi missionari, non manca di accondiscendere alle loro domande, e di prevenirne i desideri, quando lo possa senza nuocere all'interesse spirituale dei popoli da evangelizzare. Ora, una tra le più manifeste aspirazioni delle potenze coloniali, specialmente dell'Africa, è quell'i di avere, nei propri territori, missionari della loro stessa nazione.
In questo fa eccezione la sola Inghilterra, e ciò non tanto perché essa si disinteressi della nazionalità di coloro che lavorano nelle sue colonie, quanto perché, essendo queste estesissime, ed essendo limitato il numero dei missionari di nazionalità inglese, mal potrebbe provvedere agl' immensi bisogni di tanti popoli e all'immane lavoro che la loro evangelizzazione richiede, se mettesse restrizioni siffatte nell'accettazione dei missionari.
Si può quindi ritenere come fatto generale che, nelle colonie africane, 1' eclettismo nella nazionalità dei missionari non si riscontra che in quelle soggette all' Inghilterra; mentre nelle francesi i missionari sono in generale francesi, in quelle soggette al Belgio i missionari sono belgi, in quelle portoghesi sono portoghesi, in quelle italiane sono italiani e in quelle spagnuole sono spagnuoli.
Ciò posto, aggiungiamo qui l'elenco delle varie missioni cattoliche sparse nell'Africa, e precisamente nelle diverse zone e settori politici in cui essa è presentemente divisa.
Già è stato accennato all'Abissinia e alle missioni che là si trovano. L'Algeria, le Canarie e le isole portoghesi dell'Atlantico, Madera e le Azzorre (v. PORTOGALLO), dove sono da tempo istituite diocesi regolari, non si possono in alcun modo considerare come luoghi di missione. Anche l'Angola e il Mozambico e le isole del Capo Verde, dove esiste da tempo la gerarchia regolare, dovrebbero esulare dall'argomento trattato in questo articolo, se si dovesse tener conto più della forma che della sostanza.
Dividiamo pertanto l'Africa in: a) Stati indipendenti; b) Possedimenti francesi; c) Possedimenti inglesi; d) Possedimenti belgi; e) Possedimenti portoghesi; f) Possedimenti spagnuoli; g) Possedimenti italiani.
Tra gli stati indipendenti, oltre l'Abissinia, di cui si è parlato, vanno ricordati l'Egitto e la repubblica di Liberia. La zona internazionalizzata del Marocco, per essere così ristretta, e d'altronde per essere stata ecclesiasticamente riunita alla circoscrizione del Marocco spagnuolo, non abbisogna qui di una menzione speciale.
Quanto alla Liberia, essa è stata costituita nel 1903 in Prefettura apostolica con residenza a Monrovia e affidata ai padri della Società delle missioni africane di Lione. Nel 1925 contava, sopra un milione e mezzo di abitanti, quasi 4.000 cattolici, tra cui più di 600 catecumeni, di fronte a quasi 35.000 protestanti.
L'Egitto ha una organizzazione missionaria più complessa. Oltre ad essere, in seguito all'adozione di un regime di grande tolleranza religiosa, aperto ai cristiani di ogni tendenza, ed oltre all'essere colà stabiliti da molto tempo, insieme alle comunità copte e grecomelkite, che vi hanno i rispettivi patriarchi, parecchi cristiani appartenenti ai riti orientali, l'Egitto è da alcuni secoli campo dell'attività dei padri della Custodia di Terra Santa, ed è stato diviso in questi ultimi tempi in tre vicariati apostolici: quello del canale di Suez, quello dell'Alto Egitto e quello del delta del Nilo. Dei tre vicariati, i primi due sono affidati ai Francescani, il terzo alla Società delle missioni africane di Lione. In essi si contano poco più di 100.000 cattolici di rito romano, a cui vanno aggiunti i fedeli dei riti orientali uniti con Roma e soggetti ai rispettivi loro prelati. Altra forma di attività missionaria è esercitata colà anche da alcuni religiosi francescani e gesuiti, che si adoperano per ricondurre all'unità i copto-monofisiti.
Quanto ai Possedimenti francesi - si dovrà fare lo stesso per i possedimenti inglesi - s'impone una suddivisione voluta dalla vastità dei territori e dai diversi settori dove le missioni si svolgono. Tali possedimenti sono distinti politicamente in: Algeria e territori del S., Tunisia, Marocco, Africa Occidentale Francese, Africa Equatoriale Francese, Madagascar, Réunion, Somalia Francese.
Siccome l'Algeria è ormai considerata come un prolungamento della Francia e il regime di missione si estende soltanto ai territori del S. (v. ALGERIA), e siccome la stessa Tunisia è ecclesiasticamente aggregata all'archidiocesi di Cartagine (v. CARTAGINE), ridotta fin dalla sua fondazione al regime comune, non resta a dire che delle altre colonie e protettorati.
Nel Marocco francese venne, nel 1923, costituito il vicariato apostolico di Rabat, staccandone il territorio da quello dell'antico vicariato del Marocco. Esso è affidato ai Frati Minori francesi, che vi contano 70.00o cattolici di fronte a più di 100.000 dissidenti, non compresi i musulmani e neppure gli ebrei, i quali ultimi assommano a 107.552 (censimento 1926).
Nelle otto colonie che costituiscono l'Africa Occidentale Francese sono distribuite ben 9 circoscrizioni ecclesiastiche le quali complessivamente annoverano 150.000 cattolici con 20.000 cate cumeni. Di tali circoscrizioni due, un vicariato e una prefettura apostolica, abbracciano la Senegambia, il Senegal e la Mauretania, e sono affidate alla congregazione dello Spirito Santo. Contano più di 26.000 cattolici, fra cui 600 catecumeni, e circa 5.000 dissidenti. L'opera missionaria vi dura dal 1863, ma vi è assai ostacolata dall'elemento musulmano abbastanza numeroso. La residenza del vescovo e il centro dell'attività missionaria è Dakar.
La Guinea francese, affidata anch'essa ai padri della congregazione dello Spirito Santo, costituisce dal 1920 un vicariato apostolico, e conta circa 22.000 fedeli, di cui più di 4.000 catecumeni. La residenza del vicario è nella capitale stessa della colonia. Il Sticlà'n francese e il Volta superiore erano, fino al 1928, ripartiti tra i due vicariati apostolici organizzati nel 1921 e denominati dalla loro residenza principale Bamako e Uagadugu, vicariati affidati ai padri Bianchi o Missionari d'Africa fondati dal card. Lavigerie. Nel 1928 però parte dei due territori, il tratto cioè circoscritto a mezzogiorno dalla Costa d'Avorio, a occidente dal corso del Bagoe, uno degli affluenti del Bani, a settentrione dallo stesso Bani e ad oriente dal Volta Nero, venne staccato per formare una nuova prefettura apostolica, che dal nome del capoluogo fu detta di Bobo-Diulasso e venne affidata alla Società delle missioni africane di Lione. Dapprima i due vicariati contavano ciascuno circa cinquemila cattolici. Anche là, come in altre parti dell'Africa occidentale, la preoccupazione del terreno fatta dai musulmani è ostacolo formidabile alla predicazione evangelica.
Nella Costa d'Avorio si hanno un vicariato e una prefettura apostolica, affidati entrambi alla Società delle missioni africane di Lione. Il vicariato, che ha la sua principale residenza a Grand Bassam e abbraccia il sud della Colonia, conta circa 40.000 fedeli, di cui però una buona metà sono semplici catecumeni. La prefettura è quella di Korogho, che ha come centro dell'attività missionaria Sinematiali, e conta un numero assai limitato di fedeli, sorpassante di poco, nel 1926, le due migliaia.
Il vicariato del Dahomey abbraccia l'intera colonia, ed è pure affidato alle missioni africane di Lione che vi contano quasi 30.000 fedeli, di cui 5.000 sono catecumeni.
Quanto alla colonia del Niger, essa non ha missioni speciali, ma è ripartita fra i territori affidati ai due vicari del Dahomey e della Nigeria occidentale, e al prefetto della Nigeria orientale.
Allo stesso settore appartiene il Togo, di cui una parte è stata assegnata dalla Società delle nazioni come mandato alla Francia, e che, fin da quando era colonia tedesca, era stato eretto in vicariato. Il vicariato, il quale ha come principale residenza Lome, conta 35.000 fedeli, ed è ora affidato ai padri delle Missioni africane di Lione, succeduti durante la guerra ai padri della Società del Verbo divino, che dovettero essere richiamati per ragioni politiche.
Ecco in riassunto lo stato delle missioni cattoliche del Marocco francese e delle colonie dell'Africa Occidentale Francese, compreso il Togo:
Fatta eccezione del Ciad, che dipende dalla missione stabilita nell'Ubanghi-Sciari, pur facendo parte del territorio assegnato già al vicariato di Kharṭūm, nelle colonie dell'Africa Equatoriale Francese esistono quattro missioni organizzate. Così nell'Ubanghi Sciari è, sin dal 1909, istituita una prefettura avente come centro d'azione il capoluogo della colonia. Conta circa 7000 fedeli, di cui circa la metà però sono catecumeni. La missione del Gabon, iniziata nel 1842 e affidata, come quella dell'Ubanghi, del Congo centrale e del Camerun propriamente detto, ai padri della congregazione dello Spirito Santo, conta 20.500 fedeli e più di 3500 catecumeni.
Nel Congo centrale sono stabiliti due vicariati. Il primo è denominato da Brazzaville, principale residenza, e residenza pure delle autorità civili, a cui è affidato il governo dell'intiera Africa Equatoriale; l'altro è chiamato vicariato di Loango. Questo conta circa 20.000 fedeli, compresi numerosi catecumeni; l'altro ne contava nel 1927 quasi il doppio.
Quanto al Camerun, è stato diviso in tre circoscrizioni ecclesiastiche, di cui una abbraccia la sezione assegnata come mandato all'Inghilterra, e le altre due si ripartiscono il territorio francese. Di queste la più a NO. è chiamata Fumban ed è assegnata a una congregazione fondata a S. Quintino in Francia e detta dei Sacerdoti del S. Cuore. La missione è in pieno progresso e conta circa 28.000 fedeli. L'altra missione conserva il nome di Camerun e, se le conversioni in massa continueranno, ben presto sarà convertita interamente al cristianesimo. Forse in nessun'altra contrada dell'Africa le missioni, tanto cattoliche quanto protestanti, videro spiegarsi dinnanzi più promettente e più ricca messe.
Anche di questo settore i dati statistici relativi alle missioni cattoliche possono così riassumersi:
Il Madagascar, ch'ebbe una prima evangelizzazione appena dopo la sua scoperta per opera dei Portoghesi, fu, all'epoca del primo tentativo di colonizzazione francese, dal 1642 al 1674, campo di apostolato di alcuni sacerdoti della Missione, mandati colà da S. Vincenzo; ma in seguito l'isola rimase pressoché abbandonata e la predicazione evangelica e l'organizzazione ecclesiastica non vi fu ripresa efficacemente che nel secolo scorso, soprattutto dopoché fu istituito il vicariato apostolico del Madagascar e affidato alla Compagnia di Gesù. Se il primo periodo non fu il più propizio per l'opera dell'apostolato a causa delle guerre sostenute dagli indigeni contro la Francia, dopoché questa si fu impadronita dell'isola, ed ebbe imposto in qualche modo la pace, anche le istituzioni ecclesiastiche si moltiplicarono, e i cattolici divennero numerosi. Oggi trovansi nell'isola sei vicariati apostolici, di cui alcuni fiorentissimi. Sono essi quelli di Tananariva e di Fianarantsoa, amministrati dai Gesuiti, quello di Fort-Dauphin ritornato sotto la direzione dei Lazzaristi, quello di Antsirabé affidato ai missionarî della Salette e quelli di Diego Suarez e di Mayunga, a cui è unita pure l'amministrazione della prefettura delle Isole Comore e di Nossi Bé, che sono amministrati dai padri della congregazione dello Spirito Santo. Di queste circoscrizioni ecclesiastiche aggiungiamo qui alcuni dati statistici:
Quanto a La Réunion benché dipendente dalla S. Congregazione di Propaganda Fide, è fin dal 1840 organizzata come diocesi regolare, la quale prende nome dalla città principale dell'isola, St. Denis, e conta, sopra una popolazione totale di circa 187.000 ab., ben 176.642 cattolici e 9140 dissidenti. La diocesi è affidata ai padri della congregazione dello Spirito Santo, ed è soggetta immediatamente alla Santa Sede.
Resterebbe a parlare della Costa di Somalia, ma vi si accennerà a suo luogo sotto questa voce.
Possedimenti inglesi. - Nei riguardi delle missioni, l'Africa inglese può esser divisa come segue:
1. Sūdān Anglo-Egiziano, Somalia Inglese, Nyasaland, Swaziland. Isole: Maurizio, S. Elena, Ascensione, Tristan da Cunha, Seicelle e adiacenze;
2. Africa occidentale (West-Africa): Nigeria, Gambia, Costa d'Oro, Ascianti, Territorî settentrionali, Sierra Leone;
3. Africa orientale (British East-Africa): Kenya, Uganda e Zanzibar;
4. Africa meridionale (South-Africa): Basutoland, Bechuanaland Pr., Rhodesia merid., Rhodesia sett.;
5. Unione Sud-Africana (Union of South-Africa): Colonia del Capo, Natal, Transvaal, Orange;
6. Mandati: Territorio del Tanganica, Africa del SO., Camerun, Togo.
Africa. - Tra i paesi che sono elencati nella prima categoria, della sola isola di Tristan da Cunha, che si trova sperduta nell'Atlantico meridionale e non conta che un centinaio di abitanti, manca un'esplicita menzione nell'elenco dei paesi oggetto delle cure di Propaganda Fide; mentre le isole di Ascensione e di S. Elena figurano tra le stazioni residenziali dipendenti dalla prefettura del distretto centrale della Colonia del Capo. Delle altre contrade, l'isola Maurizio e le Seicelle sono organizzate come due diocesi, che prendono il nome di Port-Louis e di Port-Victoria e che, affidate ai padri della congregazione dello Spirito Santo la prima, e ai cappuccini l'altra, datano rispettivamente dal 1847 e dal 1880. A Maurizio, sopra una popolazione di 398.000 ab., si contano 117.500 cattolici e 150.000 dissidenti; mentre alle Seicelle e isole adiacenti, sopra una popolazione di poco superiore ai 25.000 ab., i cattolici vi sono in numero di 22.700.
Il protettorato della Somalia Inglese, almeno nominalmente, dipende dal vicariato di Aden; mentre nel Sūdān Anglo-Egiziano sono organizzati due vicariati e una prefettura, affidati ai Figli del S. Cuore di Verona, che vi continuano le tradizioni di zelo del loro fondatore Daniele Comboni (1881), il ben noto missionario italiano che cercò di diffondere il cristianesimo tra le popolazioni della Nubia superiore e del bacino del Fiume Bianco. I due vicariati sono quelli di Kharṭūm e del Baḥr el-Ghazāl. La prefettura, staccata nell'anno 1927 da quella del Nilo Equatoriale (v. uganda), ha preso il nome di Baḥr el-Gebel. I missionarî fanno assegnamento sopra circa 12.000 fedeli, distribuiti tra le varie stazioni delle tre circoscrizioni ecclesiastiche. Non mancano, specialmente nel vicariato di Kharṭūm, i dissidenti.
Nel Nyasaland sono stabiliti due vicariati: quello del Niassa tenuto dai padri Bianchi, che vi hanno come residenza principale Kakebere e contano, compresi i catecumeni, circa 35.000 fedeli in confronto di 49.000 dissidenti; l'altro vicariato è quello dello Scirè, situato più a mezzogiorno e affidato alla Compagnia di Maria fondata dal B. Monfort.
I missionarî, che hanno la loro residenza principale presso Blantyre, fanno assegnamento sopra circa 38.000 fedeli, compresi 17.000 catecumeni, contro 26.500 dissidenti.
Allo Swaziland attendono i Serviti, che, dal 1923 stabilitisi a Bremersdorp, hanno circa 1500 fedeli di fronte a 6000 dissidenti.
Nell'Africa occidentale, la Gambia fa parte del vicariato della Senegambia, a cui fu sopra accennato; mentre la Sierra Leone, costituisce un vicariato con residenza principale a Freetown, tenuto dai padri della congregazione dello Spirito Santo. Essi vi contano quasi 10.000 fedeli in confronto di 20.000 dissidenti.
La Costa d'Oro, compresi l'Ascianti, i Territorî settentrionali e quella parte del Togo che l'Inghilterra ebbe come mandato, è ripartita fra tre circoscrizioni missionarie, i due vicariati della Costa d'Oro e del Volta Inferiore e la prefettura di Navarro. Questa, denominata dalla principale residenza, si estende più particolarmente ai territorî settentrionali ed è affidata ai padri Bianchi, mentre i due vicariati, con le rispettive loro residenze principali di Cape Coast e di Quetta, sono amministrati dalla Società delle missioni africane di Lione che nel 1927 vi contava più di 65.000 fedeli nella Costa d'Oro, di fronte a 165.000 dissidenti, e più di 20.000 fedeli nel Volta inferiore di fronte a 15.000 dissidenti.
Di gran lunga più importante fra le colonie inglesi dell'Africa occidentale è la Nigeria, che ha una superficie di 870.000 kmq., e conta una popolazione che nel 1921 era calcolata a 18.070.608. Ecclesiasticamente la Nigeria è divisa in tre vicariati: Costa di Benin, Nigeria settentrionale e Nigeria meridionale, e una prefettura, che è chiamata Nigeria orientale con residenza principale a Shemdam, ed è amministrata insieme con i vicariati della Costa di Benin e della Nigeria occidentale dalle Missioni africane di Lione. Il terzo vicariato, quello della Nigeria meridionale, appartiene invece ai padri della congregazione dello Spirito Santo. Contermine con la Nigeria meridionale e orientale è pure quella striscia del territorio del Camerun che fu, come mandato, assegnata all'Inghilterra, e forma la prefettura di Buea. Di questa hanno cura i preti inglesi delle missioni di Mill Hill. Ecco di queste ultime missioni alcuni dati statistici:
L'Africa Orientale inglese costituita dal Kenya, dall'Uganda e dallo Zanzibar, ha da vario tempo ottenuto una larga organizzazione missionaria e soprattutto l'Uganda ha oramai una storia ecclesiastica oltremodo gloriosa. Il 6 giugno 1920 quella chiesa vide 22 dei suoi figli, primizia di eroi, ricevere gli onori degli altari e dalla suprema autorità confermato loro il titolo di martiri, guadagnatosi affrontando con coraggio e costanza, che ricorda quella dei primi confessori della fede, una morte dolorosissima, il 3 giugno 1886.
Attualmente nell'Uganda, che dà il nome all'importante vicariato affidato ai padri Bianchi e conta, sopra una popolazione totale di 3.148.000, 262.560 cattolici e 43.000 catecumeni, contro 160.000 dissidenti, si trovano pure a N. una prefettura apostolica denominata dal Nilo Equatoriale, e a oriente un vicariato chiamato dal Nilo Superiore. Mentre la prefettura è affidata ai Figli del S. Cuore di Verona e conta, tra una popolazione di circa mezzo milione, 16.000 cattolici e quasi 15.000 catecumeni di fronte a circa 5.000 dissidenti; il vicariato è lavorato dai missionarî di Mill Hill, i quali, fra quasi 1.500.000 di abitanti e di fronte a 50.000 dissidenti, contano 62.000 cattolici e 36.000 catecumeni.
Contermine, verso oriente, dell'Uganda è la colonia del Kenya, la quale è ripartita tra il vicariato dello Zanzibar, la prefettura di Kavirondo, estesa alla provincia di questo nome, e le due circoscrizioni di Nyeri e di Meru, situate rispettivamente a SO. e a NE. del monte che dà il nome alla colonia. Mentre il vicariato di Nyeri e la prefettura di Meru sono amministrati dai missionarî della Consolata di Torino e quella di Kavirondo da missionarî di Mill Hill, il vicariato di Zanzibar, che si estende inoltre alla Costa dello Zanzibar, all'isola omonima e a quella di Pemba, è in mano dei padri della congregazione dello Spirito Santo. Ecco alcuni dati statistici relativi a queste quattro circoscrizioni:
Dei paesi della cosiddetta Africa meridionale il solo Bechuanaland, su cui si estende il desolato deserto di Kalahari, non ha missioni proprie e il vasto territorio entra in diversa misura a estendere le missioni circostanti, quali la Zambesia, il Kimberley e la prefettura di Windhoek. Invece il Basutoland forma a sé un vicariato che ha per residenza principale il centro indigeno di Boma e che fin dall'origine (1894) fu affidato agli Oblati di Maria Immacolata, che vi contano più di 50.000 fedeli, tra cui circa 10.000 catecumeni, in confronto di 80.000 dissidenti.
La Rhodesia, o, come più comunemente ricorre nella nomenclatura ecclesiastica, la Zambesia, è ripartita in tre circoscrizioni ecclesiastiche. Il territorio che si incunea tra il Nyasaland e il Congo Belga forma in gran parte il vicariato che prende nome dal lago di Bangueolo ed è affidato ai padri Bianchi. Invece tutta la restante Zambesia è divisa in due prefetture separate tra loro dal corso dello Zambese. La prefettura a N. del fiume, che ha come residenza principale Brokenhill ed è di recente istituzione (1927), su una popolazione di circa mezzo milione, conta poco più di 5000 fedeli in confronto di 33.000 dissidenti. L'altra, istituita nel 1879 e avente come residenza principale Salisbury, conta, sopra una popolazione totale di circa 900.020 abitanti, più di 27.000 fedeli in confronto di 60.000 dissidenti.
La prevalenza dell'elemento protestante che si nota in parecchie delle colonie inglesi dell'Africa, se non è dovuta più al favoritismo delle attuali autorità politiche, va però considerata come l'effetto naturale della intransigenza delle autorità coloniali di un tempo. Ciò vale particolarmente per i paesi dell'Unione Sud-Africana dove la prima colonizzazione fu opera di Olandesi, in altri tempi, più forse degli altri protestanti, animati da odio feroce contro tutto ciò che sapesse di cattolicismo. Quando la Chiesa fu in grado di poter inviare i suoi missionarî in quelle parti dell'Africa, il terreno era cosi preoccupato, che non senza grandi sforzi e con frutto assai scarso si riuscì ad aprire la via al cattolicismo. Per quanto le missioni vi si siano sviluppate e moltiplicate, i fedeli che vi appartengono rimangono sempre in grande minoranza di fronte agli aderenti delle missioni protestanti.
Dei quattro paesi dell'Unione Sud-Africana, il Capo di Buona Speranza conta tre vicariati e una prefettura. Dei vicariati uno è quello del fiume Orange e due quelli dei distretti occidentale e orientale del Capo; la prefettura abbraccia il distretto centrale. Il Natal conta tre circoscrizioni ecclesiastiche, i due vicariati di Natal e di Mariannhill e la prefettura di Eshowe nello Zululand. Il Transvaal conta il vicariato del Transvaal e le due prefetture di Lydenburg e del Transvaal settentrionale; mentre lo stato libero dell'Orange conta col vicariato di Kimberley, di cui fa parte Bloemfontein, residenza del delegato apostolico, la prefettura di Kroonstad. La prefettura di Gariep si estende, invece, a parecchie contee centrali, di cui alcune situate entro i confini della Colonia del Capo e altre nello stato libero dell'Orange. Ecco alcuni dati statistici di queste missioni:
Confinante coll'Unione Sud-Africana è l'Africa del SO., già colonia tedesca e ora uno dei mandati toccati all'Inghilterra. Di questa contrada e del territorio del Tanganica resta a parlare per completare gli accenni fatti alle missioni poste nell'Africa inglese.
Nell'Africa del SO. si contano presentemente due sole missioni non del tutto insufficienti, data la scarsità della popolazione. La più settentrionale, ossia il vicariato di Windhoek, già chiamato della Cimbebasia meridionale, è affidata agli Oblati di Maria Immacolata fin dal 1892, i quali vi contano, compresi i catecumeni, quasi 6000 fedeli di fronte a 18.000 dissidenti. L'altra missione invece abbraccia il Gran Namaqualand, e ha come residenza principale Hierachabis. Essa è semplice prefettura, affidata agli Oblati di S. Francesco di Sales, e conta, sopra una popolazione totale di 40.000 abitanti, 4200 fedeli di fronte a 15.000 dissidenti.
Assai più importante, sotto ogni aspetto, è il Territorio del Tanganica, come si suole designare l'antica colonia tedesca dell'Africa Orientale, passata oramai, ad eccezione dei due soli territorî del Ruanda e dell'Urundi, sotto l'amministrazione inglese.
Le congregazioni religiose che operano in questo tratto importantissimo dell'Africa sono:
a) quella dei padri Bianchi a cui furono affidati i vicariati del lago Victoria, di Tabora e del Tanganica, la parte cioè posta a occidente;
b) la congregazione dello Spirito Santo, che occupa i vicariati del Kilimangiaro e di Bagamoyo;
c) i Cappuccini svizzeri che amministrano il vicariato di Dar as-Salām;
d-e) i Benedettini di S. Odilia e i missionarî della Consolata a cui sono rispettivamente affidate l'abbazia nullius di Lindi e la prefettura di Iringa, cioè le parti SE. e centrale. Se qui la concorrenza protestante è meno soverchiante, il terreno vi è stato invece lungamente lavorato dall'influenza islamica, potentissima specialmente al tempo della tratta degli schiavi. I negrieri erano tutti musulmani, ed erano o musulmani o aderenti all'islamismo tutti coloro che entravano in quella fitta rete di loschi interessi, che il turpe commercio stendeva dovunque fra quelle misere popolazioni.
Possedimenti belgi. - Assai più omogeneo è il lavoro missionario che si compie in quella vastissima colonia che formava già lo stato indipendente del Congo, ora chiamata Congo belga. Da quando Stanley ebbe richiamato l'attenzione del mondo degli affari sull'immenso bacino del fiume Congo, che occupa il cuore dell'Africa e ne costituisce una delle regioni più favorite dalla natura; e da quando il re del Belgio, Leopoldo II, si fece iniziatore, promotore e patrono di varie imprese commerciali, colonizzatrici e, diciamo pure, umanitarie, la Chiesa accolse l'invito di inviare colà missionarî; e i padri Bianchi del card. Lavigerie furono i primi a giungervi attraversando il territorio del Tanganica e stabilendosi sulle coste occidentali del lago omonimo. Dieci anni dopo, nel 1888, giungevano dalla parte opposta i padri di Scheut, che fondarono il vicariato del Congo indipendente, da cui, dopo varî smembramenti, si formò il vicariato di Léopoldville che può dirsi la chiesa matrice delle circoscrizioni ecclesiastiche del Congo belga. Oramai tali circoscrizioni ecclesiastiche assommano a 20, disseminate nelle varie provincie della ricca colonia, e affidate alle cure di missionarî tutti di nazionalità belga, benché appartenenti a ben 16 diverse congregazioni religiose. Di queste circoscrizioni 10 sono vicariati e 10 prefetture. Tra i vicariati sono compresi anche quelli del Ruanda e dell'Urundi, che si dividono il territorio già parte dell'Africa orientale tedesca e ormai politicamente affidato come mandato al Belgio.
Il prospetto statistico supplisca a una descrizione più particolareggiata, non consentita dai limiti dell'articolo.
Possedimenti portoghesi. - I Portoghesi sono i primi colonizzatori dell'Africa nell'evo moderno. All'epoca dei famosi peripli che copersero di gloria la marina del Portogallo, le coste dell'Africa e l'isola stessa del Madagascar colle isole minori circostanti furono possesso della patria di Vasco da Gama. Purtroppo, data l'immensa estensione del territorio, a cui si aggiungevano vasti possedimenti in India, nell'Indonesia e nell'America meridionale, e data la popolazione assai limitata della nazione occupante, il dominio dovette essere limitato agli scali lungo la costa, che rimanevano, d'altronde, mal difesi contro la ferocia del selvaggio, provocata non di rado dalla crudeltà e dalla morale senza scrupoli degli inumani colonizaatori. A indebolire ancora più questa potenza coloniale sopravvennero ben presto le competizioni d'altre nazioni, quali la Francia, l'Olanda e l'Inghilterra, e così il Portogallo dovette restringere il suo effettivo dominìo all'Angola, al Mozambico, alle isole del Capo Verde, alla Guinea portoghese, e alle due isole del golfo di Guinea, San Tomaso e Principe. In tali contrade la predicazione evangelica venne fatta quasi contemporaneamente alla prima occupazione; anzi vi è stata fin dal sec. XVI costituita la gerarchia ecclesiastica nella sua forma regolare, il che fa già supporre una condizione religiosa diversa da quella che era ed è propria delle altre parti dell'Africa, comprese le stesse colonie portoghesi d'oggi. Anche queste infatti, e particolarmente l'Angola, se ebbero nel primo tempo un periodo di prosperità religiosa e contarono parecchie centinaia di migliaia di fedeli, sono ora ridotte per la trascuranza in cui furono lasciate e per l'insufficienza di un clero animato da vero spirito apostolico, presso a poco alla condizione comune. Che se, in questi ultimi tempi, vi si nota un risveglio di attività religiosa, lo si deve specialmente nell'Africa occidentale all'istituzione di alcune missioni che rendono possibile, anche nelle regioni più eccentriche e più lontane dalla residenza del vescovo, l'assistenza religiosa dei cristiani e dei neofiti. Ecco del resto, fatta astrazione dalle Azzorre e da Madera, che possono dirsi interamente cattoliche e che possono considerarsi come un prolungamento della madre patria, lo stato religioso di quelle colonie.
Possedimenti spagnuoli. - Se si prescinde dalle Canarie, che sono interamente cattoliche e dove furono erette due diocesi, quella delle Canarie con residenza a Las Palmas, e quella di Tenerife con residenza a San Cristóbal della Laguna (la cui giurisdizione si estende anche al Sahara occidentale), i possessi spagnuoli retti a missione sono il Marocco spagnuolo e la Guinea spagnuola. Il vicariato del Marocco, che ha per residenza Tangeri ed estende la sua autorità, oltreché alle antiche colonie penitenziarie dette Presidios, al protettorato spagnuolo e alla zona internazionalizzata di Tangeri, conta una popolazione complessiva di 1.080.000 abitanti tra cui i cattolici ammontano a circa 50.000.
La Guinea spagnuola costituisce il vicariato di Fernando Poo e si estende, oltreché al piccolo territorio che ha propriamente il nome di Rio Muni o Guinea spagnuola, alle isole di Fernando Poo, Annobón, Corisco e alle due Elobey piccola e grande: abbraccia quindi una superficie complessiva di 28.000 kmq. e conta poco più di 160.000 abitanti, dei quali la popolazione cattolica raggiunge i 26.000, e ad un migliaio assommano i dissidenti. La residenza è a Santa Isabel e la missione è affidata alla congregazione dei Figli del Cuore Immacolato di Maria.
Possedimenti italiani. - L'Italia è rimasta ultima in questa ripartizione che dell'Africa hanno fatto le nazioni europee. I suoi possedimenti comprendono la Libia, divisa in Tripolitania e Cirenaica, l'Eritrea, che fece già parte integrante dell'Abissinia, e la Somalia Italiana. Le quattro colonie costituiscono ora quattro circoscrizioni ecclesiastiche, di cui le prime due sono amministrate dai Francescani, l'Eritrea è affidata ai Cappuccini e la Somalia può considerarsi fino a nuove disposizioni, inclusa nel vicariato apostolico di Mogadiscio affidato dal 1925 ai missionari della Consolata di Torino.
Mentre nell'Eritrea la popolazione è prevalentemente cristiana, ma aderente all'eresia monofisita, nelle altre tre colonie la popolazione indigena è musulmana per la quasi totale maggioranza. A differenza della Libia, nella Somalia Italiana l'elemento europeo è assai limitato di numero - nel 1921 era di circa 660 persone - e perciò anche l'opera dei missionarî vi è particolarmente ristretta e difficile.
Comunque, ecco alcuni dati statistici di data recente:
Le missioni protestanti sono ben lungi dall'avere una unità di indirizzo da paragonarsi a quella delle missioni cattoliche. Organizzate da varie società indipendenti tra loro e per lo più professanti dottrine diverse, difficilmente si prestano a un computo e a una valutazione precisa. Il solo punto in cui convengono, ed ove si trovano concordi con tutte le chiese scismatiche d'Oriente, è la loro indipendenza assoluta dall'autorità del Romano Pontefice.
Comunque, le missioni protestanti, stando alle tavole statistiche del World Missionary Atlas (New York 1925) contano in Africa un complesso di 2.629.437 aderenti, dei quali però i battezzati ammonterebbero soltanto a 1.830.583.
A differenza delle altre confessioni protestanti, la Chiesa Anglicana ha organizzato in Africa 26 diocesi, di cui 14 formano la provincia ecclesiastica del South Africa di cui è metropoli Capetown.
Le altre 12 sono considerate come vescovadi indipendenti, ed ecco i relativi dati:
Se questi dati possono giovare per formarsi un'idea della diocesi dell'Africa e dell'organizzazione ecclesiastica degli Anglicani non bastano a fornire notizia del movimento protestante in quel continente. A questo scopo gioverà spigolare alcuni dati statistici dalle tavole premesse al sopracitato World Missionary Atlas.