Africa
«Un'altra Africa
è possibile, un'Africa
riconciliata con sé stessa»
(Aminata Traoré)
Un continente in guerra
di Andrea Riccardi
18 marzo
Si riuniscono per la prima volta, ad Addis Abeba, i 202 membri del neocostituito Parlamento panafricano, organo della Unione Africana, al quale sono attribuite per ora solo prerogative consultive, ma che a regime avrà pieni poteri legislativi. Si ripone grande fiducia in questa istituzione, e in generale in tutta la UA, che riunisce 53 Stati membri, per promuovere un modello di democrazia, di buon governo e di rispetto dei diritti umani indispensabile per fare uscire il continente dalla drammatica situazione di conflittualità permanente e di arretratezza economica in cui versa.
L'Africa è lontana
Ci fu un tempo in cui l'Africa era più vicina: tempo delle colonie, quando rappresentava la periferia della metropoli europea. Si può dire tutto sul colonialismo, ma non negare che, attraverso la letteratura, il cinema, le imprese, gli europei si sentissero più vicini a questo continente. L'Esposizione coloniale di Parigi, realizzata nel 1931 sotto la direzione del mitico maresciallo Hubert Lyautey, organizzatore del Marocco francese, ebbe ben otto milioni di visitatori. L'Africa faceva sognare con i suoi eroi europei, come il famoso tenente italiano Amedeo Guillet, di cui ha scritto Vittorio Dan Segre. Poi venne il tempo della decolonizzazione. Frantz Fanon, medico antillese prestato alla rivoluzione algerina, tuonava contro l'Occidente in nome di una rivoluzione dei dannati della terra. Il suo libro incandescente, intitolato appunto I dannati della terra, prefato nel 1961 da Jean-Paul Sartre, prevedeva un'inarrestabile rivoluzione dal Sud. Nel 1960 quattordici Stati erano arrivati all'indipendenza con 120 milioni di cittadini. L'Africa esisteva per il terzomondismo europeo, movimento di cristiani, laici, socialisti, che guardava con solidarietà al mondo decolonizzato. Per alcuni, nella guerra fredda tra capitalismo e comunismo, poteva venire dal Sud africano una terza via: forse l'Ujamaa di Julius Nyerere, forse il socialismo realizzato di Kwame Nkrumah, forse la 'civiltà dell'universale' di Léopold Senghor... Alcuni cattolici, dopo il Vaticano II, parlarono di una 'Terza Chiesa alle porte', alludendo a quella africana.
In realtà il continente - l'Africa subsahariana - aveva un grande valore nel mercato delle influenze: sovietici e occidentali corteggiavano regimi impresentabili. Paesi come la Somalia passavano da un campo all'altro. L'Africa aveva un valore strategico e politico. Lo si vede nell'impegno cospicuo della cooperazione internazionale, anche italiana. Sulla scia dell'indipendenza e in questo clima, si era sviluppato l'orgoglio dell'africanità. Il presidente poeta del Senegal, Senghor, un capo di Stato africano che abbandonò il potere e promosse la democrazia, affermava nel 1960: "L'Africa non arriverà a mani vuote all'incontro con i popoli". Sempre in quel mitico 1960, René Dumont, grande studioso dello sviluppo, lanciava un grido d'allarme: "L'Afrique est mal partie". Nazionalismo e socialismo avventuristico non avrebbero portato allo sviluppo, su cui invece i governi africani dovevano concentrarsi. Ci voleva un'Africa unita per negoziare fortemente con l'Europa. La storia africana è stata diversa.
Dopo il 1989 l'Africa è andata perdendo il valore geopolitico, valore aggiunto a una fiacca economia. Ha il 10% della popolazione mondiale, ma produce l'1% del PIL mondiale (escluso il Sudafrica). Il reddito medio africano è di 500 dollari, mentre quello mondiale è di circa 4900. La mortalità entro i primi cinque anni di vita si aggira intorno a 150 nati su 1000, ma in Sierra Leone raggiunge i 283. La scolarizzazione è spesso inferiore al 40%. In meno di mezzo secolo il panorama umano è cambiato: le città africane, che si reggono ancora in gran parte sull'impianto urbanistico coloniale, si sono ingolfate di immigrati con enormi periferie di bidonville. Gli anni Novanta sono stati duri. La comunità internazionale ha domandato la fine delle dittature e il raddrizzamento delle economie con lo smantellamento del socialismo e dello statalismo. Il romanziere ivoriano, Ahmadou Kouruma, scrive con ironia: "Bisogna fermare tutto, interrompere o sospendere, ridurre o diradare, tagliare o troncare, alleggerire o abbandonare, rinunciare o sacrificare, cessare o sloggiare. Smettere di sovvenzionare feste e danze. Ridurre il numero di insegnanti, infermieri, partorienti, nascituri, scuole, poliziotti, gendarmi e guardie presidenziali. Smettere di provvedere a riso, zucchero, latte per i neonati, cotone e garze per i feriti, compresse per i lebbrosi e gli affetti da malaria. Sacrificare la costruzione di scuole, strade, ponti, dighe, centri per la maternità".
Il linguaggio è paradossale, ma si percepisce il grande sacrificio. Molti sussurrano in Africa che, dopo tanti sacrifici, la situazione non è migliorata. Molte cose non sono cambiate. Ma è vero anche il contrario. Si sono dissolte alcune dittature bieche, come quella rossa di Menghistu Hailé Mariam in Etiopia o la cleptocrazia di Mobutu Sese Seko in Zaire.
C'è stata la grande transizione sudafricana dal regime dell'apartheid. C'è stata la pace in Mozambico nel 1992 dopo un milione di morti. Eppure quest'Africa riceve oggi meno attenzione dall'Europa. Non destano preoccupazione, nonostante le non poche guerre, l'incidenza terribile della pandemia dell'AIDS e le tante crisi. Quali i motivi di questo allontanamento tra Europa e Africa, che si consuma negli anni Novanta? L'Africa vale poco. Basta saper leggere alcune scarne cifre: l'Africa rappresenta l'1,8% del commercio mondiale e l'1% dell'investimento. E poi noi europei siamo cambiati: le nuove generazioni sono ormai distanti dall'avventura in Africa e dal senso di colpa verso le imprese coloniali. La denuncia della corruzione e dello sperpero, figure come Idi Amin o Jean-Bédel Bokassa, gettano ombre sui dirigenti africani. Si comincia a dire apertamente che gli africani sono i soli responsabili della loro crisi e della loro scarsa crescita. D'altra parte gli europei del 21° secolo non credono più di dover portare il 'fardello dell'uomo bianco'. Sono ormai anche gente dell'Est per la quale l'Africa è lontana. La fine della guerra fredda ha creato nuovi problemi in Europa.
Il naufragio delle speranze
L'Africa diventa lontana. Resta tuttavia il pungolo dell'immigrazione a ricordare agli europei che la crisi africana è ancora là, irrisolta. Oggi le nostre coste sono meta di tanti sbarchi di immigrati. Molti di loro trovano nel Mediterraneo la loro tomba. Forse non sapremo mai quanti hanno perso la loro vita durante le drammatiche traversate della speranza, dopo aver pagato il prezzo della navigazione. Non sapremo nemmeno quanti si sono incamminati dal loro paese, percorrendo strade insicure, talvolta piste del deserto. Non si potrà tenere il conto di tante vite umane perdute in questi viaggi della speranza. A Gibilterra c'è un cimitero per i poveri 'senza nome', trascinati a riva dal mare. E sono in aumento. Infatti, mentre l'Africa ha celebrato, nel luglio 2003, il suo grande vertice a Maputo in Mozambico, per avviarsi sulla strada dell'Unione, vi è un crollo di speranza in tante regioni di questo continente.
Dopo le indipendenze nazionali, milioni di uomini e donne hanno creduto in un futuro migliore nei loro paesi; hanno sperato negli obiettivi prospettati in maniera retorica e populista; hanno vissuto gli ideali nazionalisti e panafricani. Sono nate opinioni pubbliche che prima non esistevano. Ma questo mondo, in larga parte, è naufragato. Sono naufragati i suoi sogni e le sue speranze. La fiducia nel proprio paese è ridotta. C'è una crisi di senso nazionale, dopo la stagione dell'orgoglio africano, nonostante l'Africa abbia compiuto passi in avanti in quarant'anni. Anche dal punto di vista dell'istruzione. La crescita culturale rende più consapevoli delle proprie energie. Oggi l'africano pensa al futuro in maniera più individuale che collettiva: specie i giovani. Il mondo si va globalizzando anche in Africa, nonostante il digital divide, con l'omogeneizzazione dei desideri. Quello che sembrava remoto oggi appare molto più vicino. L'Europa è più raggiungibile. È soprattutto il miraggio del benessere. Non importano allora i rischi, il duro viaggio da compiere, le difficoltà di inserimento. Soprattutto quando si è giovani o disperati, si rischia per andar via da un mondo che sembra crollare. Per questo l'emigrazione verso l'Europa è destinata ad assumere l'ampiezza di un fenomeno di massa, che riguarda centinaia di migliaia di persone. È una 'invasione pacifica'.
Ma che cosa c'è alle spalle di questi immigrati? Un continente che ha perso valore. Si potrebbe parlare della città africana e della sofferenza dei bambini e dei più giovani. Si contano, alla fine del 2002, circa 30 milioni di sieropositivi in Africa, oltre i due terzi di quelli che ci sono nel mondo. Si dovrebbe parlare delle classi dirigenti o delle ristrutturazioni economiche. Ma basta soffermarsi su un solo aspetto per avere un quadro allarmante: l'Africa delle guerre. Dalle indipendenze a oggi l'Africa ha avuto circa 40 guerre. A ciò vanno aggiunti i numerosi colpi di Stato militari (circa 90). Come quello del settembre 2003 in Guinea Bissau, l'ex colonia portoghese, o la ribellione nella Repubblica Centrafricana pochi mesi prima. Un aspetto degli scontri africani è la loro capacità di prolungarsi nel tempo anche in mancanza di ispiratori esterni. Sono conflitti che trovano risorse e motivazioni endogene fino a divenire quasi permanenti, anche se combattuti con armi leggere e con un numero limitato di armati.
Tante le spiegazioni che sono state avanzate sulla cronica instabilità africana. Una tesi definisce le guerre africane come il naturale prodotto dell'inconsistenza degli Stati emersi dalla decolonizzazione. Alcuni tra i grandi leader africani, come Nkrumah o Senghor, sostenevano la creazione di grandi federazioni. Altri, come l'ivoriano Félix Houphouët-Boigny o il kenyano Jomo Kenyatta, osservavano che Stati dalle dimensioni territoriali ridotte avrebbero avuto vita più facile. Tuttavia in Africa vi sono piccoli Stati di successo accanto a grandi Stati colmi di risorse ma in perenne crisi, e viceversa. Vi è un'altra tesi: la ragione delle guerre risiederebbe nell'enorme frammentazione etnica, senza eguali nel mondo. Le frontiere dividono le etnie in maniera arbitraria. Da qui l'origine interna dei conflitti. L'aspetto multietnico degli Stati è una norma africana: le eccezioni sono rarissime, come nel caso della Somalia. Non tutti gli Stati africani, però, hanno vissuto una guerra civile e tutti hanno aderito alla decisione dell'OUA (Organizzazione dell'unità africana) nel 1963 di non rimettere in discussione le frontiere della colonizzazione (rispettata fino a oggi salvo per il caso speciale dell'Eritrea).
Vi è poi un'ulteriore tesi, in voga negli anni Settanta e Ottanta. Le crisi africane deriverebbero dal cattivo sviluppo economico-sociale, provocato da élite corrotte sostenute dall'Occidente, che escludono intere fasce della popolazione dalla ricchezza. Sarebbe dunque la richiesta di miglioramenti economici a spingere alla guerra alcuni gruppi talvolta identificati dall'esterno in ragione della loro etnia. Tale opinione critica la tesi della guerra etnica e sostiene che esistono non le etnie, inventate sostanzialmente dai bianchi, ma solo gli interessi e il controllo delle risorse. Infine vi è un'altra linea di pensiero. Le crisi africane nascono dall'assenza di reali processi democratici. Senza democrazia lo Stato è minato in partenza. Senza democrazia la frammentazione etnica diviene esplosiva perché strumentalizzabile. Senza democrazia infine non può esservi sviluppo. È l'idea elaborata da Amartya Sen che vede nella libertà e nelle forme democratiche autoctone la condizione di ogni sviluppo.
La fine di uno Stato
Tutti gli Stati africani (con le eccezioni di Etiopia e Liberia) sono nati durante la guerra fredda e si trovano ad affrontare per la prima volta un contesto internazionale disordinato e un'economia globale affrancata da influenze e costrizioni politiche. Si chiede agli Stati africani di riformarsi secondo le regole democratiche; si impongono le privatizzazioni e il 'dimagrimento' del settore pubblico fino a indebolire Stati fragili. La preservazione dello Stato in Africa è pur sempre la strada migliore per mantenere la pace.
Emblematica è la fine dello Stato nazionale in Somalia che, dalla caduta del presidente Siad Barre, non esiste più. Nel 1992 la crisi somala è divenuta il banco di prova del 'nuovo ordine internazionale' del presidente americano George Bush senior. L'operazione Restore hope del dicembre 1992 avvenne sull'onda di una grande emozione. L'idea era di un 'intervento umanitario armato'. In visita ai marines sbarcati a Mogadiscio, Bush dichiarava: «Voi qui fate il lavoro di Dio, e lo fate bene». La Somalia voleva essere l'esempio di come a livello internazionale non sarebbero più state tollerate le violazioni dei diritti umani. Appena sei mesi furono sufficienti a far fallire l'operazione.
Gli esperti pensavano bastasse l'invio massiccio di truppe per riportare la calma per poi, con il tempo, ricostruire le strutture dello Stato (il nation building di cui si parla oggi a riguardo dell'Iraq). Mogadiscio divenne invece una trappola. La crisi aveva sue radici e non bastò disarmare qualche banda. Ciò che stupiva gli occidentali era che la popolazione civile tendeva a coprire le fazioni armate. All'inizio Restore hope ebbe un certo successo: alleviò le sofferenze di centinaia di migliaia di persone. Ma occorreva decidere anche una politica: disarmare militarmente le fazioni, ignorarle facendo leva sul proprio deterrente o negoziare con i 'signori della guerra' ? Una scelta non fu fatta: ogni contingente si comportò secondo le proprie abitudini. In pochi mesi i media occidentali cambiarono tono per descrivere la Somalia come un territorio di scaltri guerrieri dallo spirito clanico. Il passaggio dell'opinione pubblica dalla simpatia all'antipatia fu rapido. Nel giugno 1993 caddero 24 pakistani; nell'ottobre 18 rangers americani. Elicotteri USA bombardarono alcuni quartieri di Mogadiscio, provocando l'astio della popolazione. L'operazione si inabissò nelle polemiche. Entro il marzo 1994 tutti i militari USA, che un anno prima avevano sfiorato le 30.000 unità, vennero evacuati.
Mancanza di direzione politica e ignoranza della realtà locale, contraddizione tra mandato umanitario e intervento militare, provocazioni delle fazioni, complessità della situazione, polemiche: l'elenco può essere lungo. Tuttavia oggi si vedono le conseguenze del fallimento di Restore hope: la Somalia è senza Stato, abbandonata al suo destino di violenza e povertà. Si tratta di un modello di 'terra incognita', paradigma dell''abbandono' del continente. Oltre dieci anni di silenzio, rotto solo da sporadici allarmi umanitari o da drammatiche vicende, come nel 2003 l'uccisione della missionaria Annalena Tonelli. Le vicende somale assumono tuttavia anche un preoccupante significato. Il ritiro di Restore hope è divenuto un messaggio chiaro per l'opinione africana: è possibile far arretrare le grandi potenze e le guerre civili sono più forti di tutto. In un certo senso il fallimento della missione internazionale ha avuto in Africa un'eco pari alla sconfitta italiana di Adua.
La rottura dell'unità statale
In molti casi, come nell'ultima fase di Mobutu in Zaire, ma anche in Liberia o nella Repubblica Centrafricana, dall'inizio degli anni Novanta in Africa si spezza quello speciale legame di comune interesse nazionale tra le autorità centrali e le élite locali. Attraverso tali relazioni clientelari, era stato fino ad allora possibile mantenere l'unità di molti Stati. Ma ora le risorse sono poche e non si possono più dividere. Le élite locali sono costrette ormai a trovarsi da sole i mezzi per sopravvivere e per mantenere il controllo del territorio. In molti paesi avviene un generale ripiegamento sull'etnia e sul territorio. Non vi sono più rendite che giungano dal centro, dalla capitale. Quindi nemmeno obblighi. Anche in paesi più stabili e ricchi avviene una rottura per mancanza di risorse.
È il recente caso della Costa d'Avorio. Dopo la morte di Houphouët nel 1993, il nuovo presidente Henri Konan Bedié si trova a gestire la fase nuova: la Francia diminuisce il suo impegno, l'economia è in fase recessiva a causa delle liberalizzazioni, mentre montano dalla base forti richieste di democratizzazione. Bedié deve dunque trovare il modo per ricomporre attorno alla sua leadership un nuovo 'patto' che includa i proprietari terrieri (vera spina dorsale dell'economia) ridotti in una situazione economica precaria dalla liberalizzazione dei prezzi dei prodotti agricoli di base (cacao e caffè). Lo Stato non ha più i mezzi per sussidiare questa parte essenziale dell'economia nazionale; anche i salari degli impiegati pubblici sono a rischio. Viene deciso di rompere il tacito contratto che legava la Costa d'Avorio agli immigrati e ai paesi limitrofi: accoglienza in cambio di manodopera. In base a tale scambio un terzo della popolazione locale è oggi di origine esterna.
La nuova parola d'ordine si basa sul rifiuto xenofobo degli stranieri e sull''autenticità ivoriana' (l'ivoirité). In questo modo si pensa di ridurre coloro che hanno diritto a una fetta della 'torta nazionale'. Le vittime di tale nuova politica sono i più deboli, gli immigrati e i lavoratori agricoli, in maggioranza di origine burkinabé e musulmana. Per difendersi, la gente musulmana del Nord si organizza attorno a un nuovo partito, diretto da Alassane Ouattara, uomo del FMI (Fondo monetario internazionale) ma anche ex primo ministro dei tempi di Houphouët. La situazione diviene tesa. A Natale del 1999 si ammutinano un paio di caserme nella capitale. È il primo colpo di Stato del paese. Ne consegue un periodo di instabilità di circa due anni fino all'elezione del presidente Laurent Gbagbo. Ma non viene rimessa in discussione l''autenticità ivoriana' che esclude gli immigrati (fino ad allora considerati alla stregua di cittadini). Questo provoca l'esplosione del settembre 2002. Una variegata alleanza di militari e civili si fa interprete del malcontento degli ivoriani di origine straniera e della gente del Nord a loro assimilati, organizza una secessione e tenta di attaccare la capitale.
Da quel momento, la Costa d'Avorio è divisa in due zone: il Sud sotto Gbagbo, il Nord - più povero e arido - controllato dai ribelli. A fine dicembre 2002 la Francia prende la decisione di convocare una conferenza di pace. Il negoziato di Marcoussis (presso Parigi) è un atto di coraggio politico. Sfocia in una conferenza di capi di Stato africani che ratifica l'intesa. L'accordo di Marcoussis porta a un governo di unità nazionale. Ma a tutt'oggi i soldati francesi o dei paesi dell'Africa occidentale si trovano ancora interposti fra le due forze in lotta che non hanno iniziato il processo di disarmo. Nell'aprile 2004 il governo di riconciliazione è entrato in un'altra crisi.
I signori della guerra
Altri paesi si inabissano drammaticamente senza che nessuno sia stato in grado di ricostruirli. Vi è il fenomeno preoccupante della categoria dei signori della guerra (warlordism). Li si vede in Liberia dalla fine del 1989. Si tratta di una manifestazione insurrezionale di origine urbana, che prolifera in aree dove gli 'esclusi' sono entrati in ribellione contro tutti e hanno utilizzato commerci illeciti. C'è una differenza tra i signori della guerra e altri ribelli: questi ultimi cercano di consolidare un territorio, di creare un embrione di Stato e un consenso. I warlords sono attirati dall'ambiente urbano e non si fermano a controllare il territorio: mirano alla ricchezza della capitale e vivono di saccheggi.
In Liberia il 24 dicembre 1989 un centinaio di ribelli di Charles Taylor dà inizio a una guerra destinata a insanguinare il paese per oltre 13 anni. Taylor è il prototipo del signore della guerra: funzionario accusato di corruzione, diviene capo incontestato di un esercito di giovani, capace di mettere a ferro e a fuoco intere regioni (in particolare contro i civili per seminare il terrore). Nel tempo riesce a creare un intreccio internazionale di interessi, senza mai preoccuparsi di fornire il suo partito di un programma politico né tanto meno rivoluzionario. Il suo unico obiettivo sembra il controllo delle fonti della ricchezza nazionale. Diviene il modello per tutte le future fazioni ribelli liberiane, ma anche per i conflitti in Sierra Leone e alla frontiera con la Guinea. Non interessano le simpatie delle popolazioni. Non si tratta di guerre rivoluzionarie, nazionaliste o tribali. I 250.000 morti della guerra in Liberia (su 3 milioni) e gli 80.000 della Sierra Leone, persone amputate, milioni di rifugiati, la distruzione di villaggi e regioni, lasciano sconcertati per le dimensioni del dramma.
Dalla fine degli anni Settanta, in Liberia e in Sierra Leone, strati di giovani si trovano espulsi dal sistema sociale urbano, scolastico e lavorativo, clanico e rurale. Progressivamente tra questi giovani crescono risentimenti che li rendono facile preda di capi senza scrupoli. Le guerre dell'Africa occidentale sono così combattute da giovani sradicati, 'fuori etnia', in lotta contro gli anziani dei clan. Lo stesso Taylor, come anche Foday Sankoh, il leader del RUF (Revolutionary united front) in Sierra Leone, morto nel luglio 2003, sono personaggi ambigui, senza legami etnici chiari. Viene meno il rispetto del diritto di età e degli anziani, ancorato nella tradizione africana. I giovani ribelli, esclusi, creano, nel segreto della foresta e lontano da tutti, un 'nuovo clan'. Il cercatore povero di diamanti della foresta (simile al garimpeiro brasiliano), il tagliatore di legno o il minatore di infimo grado non ha diritti, non può tornare indietro, non ha più famiglia, né clan o etnia, non ha un sistema di protezione che lo accolga. Tale processo non è diverso dalla formazione delle milizie mai-mai del Congo orientale. A questa massa giovanile disperata e senza legami, viene proposto un discorso grossolano e aggressivo per dimostrare che l'esclusione subita è frutto di un complotto, per incanalare la rabbia e rivolgerla verso il 'nemico' che si trova nei centri urbani.
Dall'inizio dei combattimenti, i ribelli di Taylor avanzano verso Monrovia, accolti con iniziale simpatia da popolazioni che non amano il governo dittatoriale del presidente Samuel K. Doe, un ex sergente maggiore al potere con un golpe nel 1980, che aveva sostenuto la liberazione dei nativi della Liberia dalla minoranza afroamericana, che rappresenta il 5% della popolazione. Ma i ribelli si macchiano presto di atrocità contro i civili. Doe stesso ordina il massacro delle etnie della zona investita dai ribelli, per punirle dell'iniziale sostegno offerto ai tayloristi. In pochi mesi la guerra liberiana si trasforma in una serie infinita di massacri. Lo Stato si sfascia sotto i colpi delle milizie. La guerra prosegue anche dopo l'intervento delle truppe nigeriane inviate dall'ECOWAS (Economic community of West African States), l'organismo che riunisce i paesi dell'Africa occidentale, sbarcate a Monrovia nell'agosto del 1990. Più che svolgere la sua azione di peacekeeping, l'ECOWAS si accaparra il commercio del porto libero di Monrovia. La guerra liberiana produce negli anni almeno otto fazioni armate maggiori, ciascuna con i suoi alleati esterni, protagoniste dei vari tentativi falliti di accordi di pace dal 1990 al 1997. Alla fine del 1996, dopo l'ennesimo fallimento di dialogo che provoca il terrore a Monrovia, Taylor si convince che non può vincere senza la neutralità nigeriana. Accetta di disarmare la maggior parte dei suoi uomini in cambio della realizzazione di elezioni a cui può partecipare. Il voto del 1997 lo vede stravincere. I liberiani, stanchi di guerra, hanno votato per chi prometteva la pace. I suoi slogan elettorali minacciavano una ripresa della guerra nel caso fosse stato sconfitto.
Giunto al potere, Taylor non abbandona la sua veste di signore della guerra: sostiene all'esterno i combattenti del RUF che stanno mettendo a ferro e fuoco la Sierra Leone. Per questo diviene la bestia nera dell'Occidente, in particolare della Gran Bretagna. Diciottomila soldati inglesi e caschi blu rimettono faticosamente ordine in Sierra Leone tra il 1999 e il 2001, sconfiggendo il RUF. Ma ormai tutti vogliono la testa di Taylor che viene incriminato dalla corte penale internazionale speciale per la Sierra Leone. All'inizio del 2000 un nuovo gruppo di ribelli attacca la Liberia con l'obiettivo di cacciare Taylor con le armi. Si tratta del LURD (Liberians united for reconciliation and democracy), sostenuto dalla Guinea Conakry che Taylor ha tentato di destabilizzare nel 1999. Ne fanno parte i tanti scontenti del periodo precedente ma anche gli ex seguaci del presidente Doe. Alla fine del 2002 il LURD penetra fino ai sobborghi di Monrovia.
Nel marzo 2003, l'ECOWAS chiama a colloqui di pace ad Accra. Taylor, ormai senza spazio politico, abbandona Monrovia, sotto la pressione internazionale. Inizia una nuova fase nella vita della Liberia, ma siamo solo ai primi e incerti passi dopo tanta sofferenza e distruzioni.
La grande guerra d'Africa
La Liberia, primo paese africano a conquistare l'indipendenza, con l'appoggio degli Stati Uniti, è distrutto nelle strutture e dagli odi. Ma altri paesi africani sono distrutti, come il Congo-Zaire, che pure, fin dalla sofferta indipendenza all'inizio degli anni Sessanta, si imponeva per le sue ricchezze.
Nel 1994 il genocidio in Ruanda aprì una fase di instabilità nell'area dei Grandi Laghi, aggiungendosi alle note tensioni burundesi, alle guerriglie in atto in Uganda del Nord e in Sudan meridionale, e alla guerra dell'Angola in corso da quasi venti anni. L'anello debole si è rivelato lo Zaire di Mobutu. Le sue ricchezze minerarie erano famose, la sua dirigenza nota per la corruzione. Il presidente aveva fatto del paese il centro della resistenza occidentale contro l'afro-marxismo in vigore in Angola, in Mozambico e anche nel vicino Congo Brazzaville. Lo Zaire era anche apprezzato per la sua 'autenticità africana'. All'inizio degli anni Novanta però la popolazione era ormai in uno stato di povertà estrema. Il sistema si era totalmente logorato e il governo centrale non aveva più il controllo del territorio, a parte la capitale Kinshasa e pochi altri centri. Le proteste popolari erano divenute vere e proprie jacqueries, con la distruzione di impianti e officine. L'approvvigionamento dei beni di consumo, in particolare alimentari, non veniva più assicurato. Per sopravvivere i funzionari dello Stato e i militari vendevano i beni pubblici. L'insicurezza regnava ovunque e le forze dell'ordine invece di difendere i cittadini li sottoponevano a estorsione.
Mobutu nell'aprile del 1990 aveva dichiarato la fine del partito unico e promesso riforme politiche, risolte in una lunga serie di dispute tra un'infinità di nuovi soggetti politici. In questa situazione si innestarono episodi di violenza, tra cui la pulizia etnica dello Shaba nell'agosto 1992. Mobutu, abile a far imputridire le situazioni, manovrava allo scopo di impantanare le riforme. Tuttavia, durante la Conferenza nazionale, anche l'opposizione non era riuscita a creare un'alternativa unitaria. Su questo Zaire esausto, nel 1994, si scaricò l'immane flusso di oltre un milione di rifugiati ruandesi hutu in fuga dall'avanzata dei tutsi del FPR (Front patriotique rwandais). Nelle regioni orientali del Kivu, l'arrivo dei profughi fece saltare un precario equilibrio etnico. In particolare al Nord si stabilì una partita a quattro tra le milizie autoctone, le bande armate hutu, i gruppi di autodifesa tutsi banyamulenge e l'esercito zairese, la cui caratteristica era vendersi al miglior offerente. Tra il 1995 e il 1996, molte decine di migliaia di tutsi banyamulenge - originari dell'area - videro le loro terre confiscate, furono uccisi o dovettero fuggire in Ruanda. Ci furono 70.000 vittime. Il nuovo governo ruandese invocò la protezione delle popolazioni minacciate. Iniziò così la 'grande guerra d'Africa', quando nell'agosto 1996 alcune migliaia di ruandesi entrarono in Zaire: miravano a occupare la zona orientale dello Zaire e, se possibile, a creare una zona cuscinetto oltre frontiera. Ma il governo ruandese di Kigali era anche interessato alle enormi ricchezze minerarie dell'area.
Durante la prima parte della guerra, nella 'ribellione' vi erano pochissimi zairesi, tra cui Laurent Desiré Kabila, un ex maoista ribelle degli anni Sessanta. La loro entrata in scena fu progressiva, perché era Kigali a dirigere le operazioni. Si provocò la fuga verso ovest di circa un milione di rifugiati hutu. Circa 600.000 vennero accerchiati dalle truppe dell'Alleanza e rimandati in Ruanda. Di circa mezzo milione si persero quasi del tutto le tracce. Quando i ruandesi entrarono a Goma, il conflitto si era trasformato in una guerra di liberazione, come dichiarò Kabila. Tutti i congolesi che si opponevano a Mobutu furono chiamati ad aderirvi. Subito a Goma si riversarono migliaia di giovani reclute, chiamate kadogo, cioè "bambini-soldati". Il coinvolgimento dell'Angola, paese storicamente nemico di Mobutu, seguito da altri paesi africani tra cui la Namibia e lo Zimbabwe, contribuì a spostare il centro politico di gravità verso Kabila, che entrò a Kinshasa nel maggio 1997. Mobutu fuggì e dopo sette mesi di guerra nacque la Repubblica democratica del Congo. Tuttavia l'Alleanza non resse alla prova della vittoria: nel luglio 1998 Kabila chiese pubblicamente agli eserciti alleati ruandese e ugandese di ritirarsi dal paese. La richiesta fu respinta e scoppiò una grande guerra a cui parteciparono sei Stati. Dopo mesi di sanguinosi combattimenti, il fronte si stabilizzò su una linea che divideva il paese all'incirca a metà. Kabila era sostenuto dall'Angola e dallo Zimbabwe. Gran parte delle regioni orientali era nelle mani dei ruandesi. Nel novembre 1998 un'altra sedizione vide la luce al Nord. Sostenuta dall'Uganda, la nuova ribellione composta da ex mobutisti occupò la zona a nord dell'Equatore. Il Congo si trovò così spezzato in tre parti e tale situazione durò fino all'accordo di Pretoria del 2002.
Si stima che questa guerra sia costata oltre tre milioni di morti (anche civili). Tutta l'Africa centrale ne è stata travolta e si è impoverita. Secondo il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (WFP, World food programme), su un totale di 55 milioni di abitanti del Congo, circa 16 milioni vivrebbero in stato di insicurezza alimentare e due milioni in stato di denutrizione. Senza contare i rifugiati ruandesi, nel paese vi sarebbero oltre 2 milioni di sfollati interni e 250.000 congolesi fuori frontiera. A causa del flusso di sfollati, Kinshasa conta oggi oltre 6 milioni di abitanti.
Nel febbraio 1999 Kabila aprì un débat national con l'opposizione e i ribelli. A luglio a Lusaka avvenne la firma del cessate il fuoco tra Repubblica democratica del Congo, Namibia, Ruanda, Uganda, Zimbabwe e Angola. Kabila ottenne ciò che voleva: trattare con i paesi esteri e procrastinare un eventuale accordo con i ribelli interni, considerati dei fantocci. La guerra proseguì. Sorse anzi un ulteriore problema: la rottura dei rapporti tra Uganda e Ruanda che si diedero battaglia nella città di Kisangani. Da quel momento la guerra del Congo assunse un aspetto ancora più paradossale. Lo stesso movimento ribelle vicino al Ruanda, l'RCD (Rassemblement congolais pour la démocratie), iniziò un processo di frammentazione che lo avrebbe spaccato in tre tronconi. In realtà Ruanda e Uganda non stavano combattendo la stessa guerra: il primo mirava a occupare il territorio per evitare il ritorno degli hutu considerati complici del genocidio del 1994, mentre per il secondo il conflitto era volto ad affermare la propria influenza nell'area. La guerra continuò tra alterne vicende fino al gennaio 2001 quando, in un attentato dagli oscuri contorni, Kabila fu assassinato dalla sua guardia nel palazzo presidenziale.
Gli succedette il figlio Joseph. La comunità internazionale spinse per un nuovo round di negoziati. Il Sudafrica ne prese l'iniziativa: questa volta tutti i protagonisti furono riuniti attorno allo stesso tavolo: paesi belligeranti, movimenti di ribellione, governo di Kinshasa. Dopo oltre un anno di incontri, l'accordo finale fu firmato a Pretoria nel dicembre 2002. Fu formato un governo di transizione con Joseph Kabila presidente e i capi dei ribelli vicepresidenti. Le truppe straniere iniziarono un lento ritiro. Tuttavia la fine della grande guerra d'Africa ha lasciato il posto a nuove guerre interne, come nel caso dell'Ituri, la zona a nord-est del paese. Sono conflitti minori, ma non meno devastanti, che solo parzialmente raggiungono le prime pagine dei giornali. Il recente intervento francese e delle Nazioni Unite a Bunia, capoluogo dell'Ituri, fa sperare in un consolidamento della pace. Esiste ancora un grave problema di equilibri etnico-politici da riformare nelle due regioni del Kivu.
Un nuovo pensiero euroafricano
È necessario insistere su questi quattro casi di conflitti africani di cui si parla poco e su cui è davvero difficile orientarsi: Somalia, la fine dello Stato; Costa d'Avorio, lo Stato minacciato di partizione; Liberia, la terra dei signori della guerra; Congo, la guerra tra Stati e tra etnie. Si potrebbe anche parlare dell'Uganda, paese forte e sviluppato, ma che non riesce a domare la guerriglia del Nord, quella del LRA (Lord's resistance army), un movimento fondamentalista cristiano, che è stato appoggiato da Khartoum. È complicato trarre da tante storie di guerre africane una conclusione definitiva. L'atrocità di tali guerre non deve portare alla rassegnazione e all'afropessimismo, a pensare cioè che in Africa si può fare poco o niente. Le guerre in altre zone del mondo (come in Medio Oriente o nei Balcani) non hanno impedito alla comunità internazionale di tentare delle risposte, magari ancora incomplete. Purtroppo la percezione che si ha dell'Africa in Occidente, e in Europa in particolare, spesso giunge a conclusioni sconsolanti. In Occidente si è ridotta la 'simpatia' per quel mondo non così lontano. Ma in realtà l'Africa, malgrado le sue sofferenze e crisi, si muove. Diversi paesi si sono incamminati verso la democrazia e ne sono esempio il Benin, il Sudafrica (che ha festeggiato i dieci anni dalla fine dell'apartheid), il Mozambico (dove, dopo la pacificazione del 1992, la democrazia ha superato il primo decennio di vita), il Senegal, il Mali, il Ghana e altri. Nonostante tutto, in Africa è avvenuta la spinta democratica della 'terza ondata', come scriveva Samuel P. Huntington. Progressivamente si è fatto largo tra le élite il sentimento che non è più possibile accettare alternanze di governo se non per via democratica: i recenti colpi di Stato sono stati tutti rifiutati e i loro protagonisti isolati. La stessa storia recente della Costa d'Avorio dimostra che la pratica dei golpe non paga. I parlamenti africani iniziano a funzionare in numerosi paesi e su questo sarebbe molto utile un ruolo di partnership con le assemblee europee.
La democrazia è 'simpatica' agli africani che la percepiscono in modo simile al nostro. L'Africa progredisce verso forme di coordinamento e di unità, controcorrente rispetto all'attuale idea della crisi del multilateralismo. Vuole seguire l'Unione Europea e questo vuol dire molto: gli Statuti della nuova Unione Africana si ispirano a quelli europei ed è addirittura previsto un Consiglio di sicurezza dell'Unione Africana sul modello ONU. Si è visto, per esempio, quale sia stato il dignitoso e indipendente atteggiamento dei tre Stati africani del Consiglio di sicurezza durante la disputa all'ONU per la guerra in Iraq, con tentativi di mediazione e senza cedere alle forti pressioni degli uni e degli altri. Le giovani generazioni africane sono desiderose di futuro e guardano fuori dai loro paesi con grande curiosità culturale: in un certo senso sono già culturalmente globalizzate, complice la lingua. Gli interventi umanitari e militari per la pace (quali in Costa d'Avorio, Liberia, Congo ecc.) sono in genere ben visti e sostenuti dalle popolazioni civili (come non avviene altrove). Probabilmente l'Africa sarà il primo continente ad avere una forza di pace militare mista. Ciò è stato percepito dalle stesse potenze occidentali che - e deve essere sottolineato perché avviene in un contesto non facile - sulle recenti crisi africane hanno saputo agire di concerto, come si è visto con l'accordo tra Francia, Gran Bretagna e USA sulle crisi ivoriana e liberiana.
L'Unione Africana ha anche messo in campo l'iniziativa del NEPAD (New partnership for Africa's development), che mira a un rapporto paritario tra paesi meno sviluppati e paesi industrializzati ma che soprattutto si basa sulla verifica vicendevole tra Stati africani. È forte il sentimento di interesse per un nuovo legame, un nuovo rapporto globale tra Africa e Europa, come non era mai avvenuto nei decenni precedenti. Non c'è odio e risentimento, per ora; l'Africa lotta solo per non essere esclusa. Quindi si può fare realisticamente molto, anche se ci vuole una gran quantità di cose. Tra cui soprattutto - come scriveva Senghor - un nuovo pensiero euroafricano, perché paradossalmente Africa ed Europa (come mostra l'emigrazione) sono mondi non troppo distanti ma con un destino comune: un pensiero e uno stile che coinvolgano anche le classi dirigenti africane in una partnership con quelle europee.
Purtroppo l'Europa sembra abbandonare l'Africa al suo destino. Al G8 di Genova sono state fatte delle promesse non mantenute. Le recenti notizie che vedono crollare l'aiuto pubblico italiano allo sviluppo allo 0,16% del PIL non sono incoraggianti. Malgrado le iniziative africane, le politiche globali non paiono ancora in grado di includere l'Africa nei piani di sviluppo. Anzi: si impongono piani di ristrutturazione pesanti per tutti, dimenticando che indebolire lo Stato in Africa rappresenta un grave pericolo. Lo Stato in Africa per anni ha rappresentato il maggior datore di lavoro e l'unico fornitore di servizi, il riferimento dell'identità e il quadro della convivenza. Non possiamo illuderci che questa situazione non abbia a che fare con le guerre. Come si è visto, i conflitti africani degli anni Novanta si sono contraddistinti per una forte frammentazione. Sono tornate in auge le etnie e ora sorgono su un tessuto civile indebolito anche le sette religiose. Ne consegue un immediato pericolo per gli africani e per i loro vicini. Anche noi europei non siamo immuni da ciò che accade poco distante dalle nostre frontiere. La situazione dell'Africa pone gravi sfide alla nostra società e alla nostra cultura europea. Un nuovo pensiero euroafricano è il modo per l'Europa di uscire dalla sua autoreferenzialità e aprirsi a una nuova visione e a una nuova ambizione nel mondo. Sappiamo che ogni politica basata sull'esclusione e sull'autoreferenzialità è destinata al fallimento; che il principio di interdipendenza che lega i popoli e i continenti deve essere considerato come un'immensa opportunità nel mondo globale contemporaneo. Sappiamo anche che la crescente disuguaglianza attirerà nuove esplosioni e influenzerà la vita di tutti. Anche in questo senso va tenuto conto che l'Europa e l'Africa hanno lo stesso destino e che l'Africa è il banco di prova della nostra civiltà, rappresenta il grande Sud dell'Europa. Questa deve ritrovare l'ambizione di avere un'idea sul mondo capace di comunicare il tesoro di coabitazione, pace, dialogo e saggezza che negli ultimi 50 anni ha elaborato con la storia dell'integrazione comunitaria. L'Africa è la nostra vicina, è un confine meridionale che abbiamo troppo dimenticato. Nei suoi confronti abbiamo un debito storico che è necessario rammentare, anche perché l'Africa fa parte del nostro futuro.
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Il lungo corso della decolonizzazione
Nel 1945 gli imperi coloniali erano arrivati a comprendere quasi tutta l'Africa; vent'anni dopo la maggior parte del continente (eccettuati i territori portoghesi) aveva raggiunto l'indipendenza. Un'inversione così rapida e totale di un processo di colonizzazione che era andato affermandosi lungo un arco di tempo più che secolare pone di fronte a due possibili spiegazioni. In base alla prima, gli Stati imperiali decisero che le colonie non erano più convenienti e preferirono smembrare i propri imperi. In base alla seconda, furono le popolazioni delle colonie a sbarazzarsi del dominio imperiale o comunque a rendere il suo protrarsi talmente difficoltoso e problematico che gli Stati colonizzatori preferirono cedere loro l'esercizio del potere politico. Nella realtà dei fatti, nessuna di queste due spiegazioni è in grado di reggersi da sola: è più verosimile una loro combinazione.
Il punto di svolta per tutti gli Stati europei, eccettuato il Portogallo, si ebbe tra il 1949 e il 1960 e fu determinato dal concorso in contemporanea di eventi che si svolsero nelle colonie e di situazioni in cui si trovarono a versare gli Stati colonizzatori. Da una parte il rapido diffondersi di movimenti nazionalisti nei paesi africani sollevò in Europa questioni concernenti sia la convenienza sia la moralità di una loro repressione: gli anni Cinquanta videro la nascita in Gran Bretagna e in Francia di potenti movimenti antimperialisti che per la prima volta misero in discussione la colonizzazione come fatto in sé. Tanto più la decolonizzazione s'impose come un problema urgente, quanto più la guerra da cui gli alleati occidentali erano usciti vittoriosi si era caratterizzata come una lotta combattuta contro la tirannide e a sostegno dei diritti dei popoli oppressi.
Dall'altra parte, l'importanza economica delle colonie per i loro possessori declinò rapidamente, all'incirca a partire dal 1951, a mano a mano che la ricostruzione europea procedeva con successo e che il prezzo dei prodotti di esportazione coloniali andava calando. L'Europa non aveva più bisogno di mantenere sulle colonie lo stesso grado di controllo che aveva esercitato in passato; al contrario cominciò a farsi sentire il prevedibile peso del sostegno economico ai territori coloniali.
Il risultato della combinazione di questi fattori fu che all'inizio degli anni Sessanta tutte le principali potenze coloniali adottarono una politica di decolonizzazione che prevedeva il trasferimento del potere a tutte le colonie, da attuare in tempi brevi e senza le molte riserve espresse in passato sulla loro capacità di amministrare efficientemente i propri affari. La decolonizzazione può dunque essere spiegata, entro certi limiti, con un mutamento radicale nell'atteggiamento degli europei. Tuttavia il momento in cui tale mutamento è avvenuto e la velocità con cui si è attuato sono stati condizionati in ultima analisi dal grado di resistenza che le potenze coloniali hanno incontrato nei rispettivi possedimenti. La composizione dei fattori che determinarono il corso degli eventi fu diversa da caso a caso. Alla fine la decolonizzazione ebbe luogo principalmente perché gli Stati imperiali decisero che, tutto sommato, per il futuro avrebbero potuto ottenere di più lasciando le rispettive colonie da amici piuttosto che da nemici, per quanto molte di esse fossero impreparate all'indipendenza.
Il panafricanismo
Sul nazionalismo africano un'influenza determinante fu esercitata a suo tempo dall'ideologia del panafricanismo. Nato alla fine del 19° secolo come manifestazione di solidarietà tra la popolazione di origine africana trapiantata nel Nuovo Mondo, il panafricanismo si trasformò nel corso del secolo successivo, con l'inizio del processo di decolonizzazione dell'Africa, in movimento tendente a realizzare l'unità politica del continente africano. Tra gli obiettivi intorno ai quali si coagulò originariamente l'ideologia africanista, i più significativi erano la riabilitazione delle civiltà africane, la restaurazione della dignità dell'uomo di colore e la celebrazione del ritorno alla madrepatria da cui era partita la diaspora. L'africanismo trasse beneficio da ogni nuova scoperta delle entità che erano state alla base dello sviluppo culturale dell'Africa nella storia, in termini di strutture sia religiose sia sociopolitiche, così come dall'esperienza comune a quasi tutta l'Africa della spoliazione coloniale.
Questi convincimenti consentirono agli intellettuali e ai leader politici che vi aderirono di trascurare ogni elemento di diversità e di conflitto tra le popolazioni africane. L'esperienza aveva insegnato loro, spesso amaramente, che ciò che li univa indissolubilmente, il colore della pelle, era molto più importante nel mondo che conoscevano di tutto ciò che poteva dividerli. Questo significato dell'africanismo, come scudo e come speranza per i perseguitati, si sarebbe conservato al di là di ogni scoraggiamento o sconfitta e il concetto politico di africanismo avrebbe preso corpo come cornice delle agitazioni politiche e faro di un futuro libero.
Tra i precursori del movimento viene generalmente ricordato Henry Sylvester Williams, un avvocato di Trinidad che dedicò gran parte della sua vita a sensibilizzare l'opinione pubblica mondiale contro lo sfruttamento dei neri da parte dei coloni boeri e inglesi in Africa australe. Williams organizzò un incontro a Londra nel 1900 che servì da modello a una serie di convegni che tra il 1919 e il 1945 sancirono l'affermazione del panafricanismo. L'indirizzo conclusivo del meeting di Londra fu scritto da uno storico afroamericano, destinato a diventare una delle figure carismatiche del movimento, William Burghardt Du Bois, e si apriva con un brano diventato celebre: «Il problema del ventesimo secolo è il problema del colore, la questione di quanto le differenze di razza […] diventeranno la base per negare a oltre la metà del mondo il diritto di condividere, fino al limite delle loro capacità, le opportunità e i privilegi della civiltà moderna».
Durante il convegno di Parigi del 1921 fu rivolta una petizione ai partecipanti alla Conferenza della pace per chiedere l'applicazione all'Africa del principio dell'autodeterminazione dei popoli. A Londra nel 1921 fu elaborata una Dichiarazione al mondo in cui si proclamava «l'assoluta uguaglianza delle razze dal punto di vista fisico, politico e sociale». I congressi di Londra (1923) e di New York (1927) videro la partecipazione di un numero di delegati sempre maggiore; a essi fece seguito la costituzione a Londra dell'International African service bureau (1937), quindi della Pan African federation (1944), organismi in cui si formarono molti dei futuri politici nazionalisti africani. L'ultimo dei congressi panafricani, che si tenne a Manchester, in Gran Bretagna, nell'ottobre 1945 e vide la presenza di 90 delegati più altri partecipanti, si spostò su un terreno completamente nuovo: esso portò il panafricanismo dalla diaspora nera al continente d'origine. Du Bois era presente, come lo erano alcuni eminenti attivisti dei Caraibi, ma c'erano anche leader politici dell'Africa, compresi alcuni che dovevano diventare presidenti di repubbliche indipendenti: Kwame Nkrumah della Costa d'Oro (Ghana dopo il 1956), Jomo Kenyatta del Kenya e Julius Nyerere della Tanzania. Nel congresso di Manchester emersero per la prima volta l'esigenza dell'indipendenza dai regimi coloniali e il nazionalismo: «Siamo determinati a essere liberi - affermarono i delegati - se il mondo occidentale è ancora determinato a governare il genere umano con la forza, allora gli africani, come ultima risorsa, potranno essere costretti ad appellarsi alla forza nell'impresa di conseguire la libertà».
A partire dal 1957-58, con l'avvio del processo di decolonizzazione dell'Africa a sud del Sahara, il panafricanismo, inteso come cammino verso l'unificazione politica delle nuove entità statali indipendenti, sembrò avere una concreta attuazione pratica. Accra divenne centro della attività panafricana ospitando, per iniziativa di Nkrumah, la prima conferenza degli Stati africani indipendenti (aprile 1958) e la prima conferenza dei popoli africani (dicembre 1958), dalle quali furono lanciate le richieste dell'indipendenza immediata e della costituzione degli Stati Uniti d'Africa.
L'ideale panafricano ispirò la nascita di raggruppamenti regionali, alcuni dei quali ebbero però breve durata per l'immediato insorgere di sentimenti nazionalistici o di particolarismi tribali. Inoltre nel continente si manifestarono divisioni circa la linea da seguire nei confronti dei paesi occidentali e delle ex potenze coloniali: ai paesi 'riformisti', riuniti nel gruppo di Brazzaville, si contrapposero quelli 'rivoluzionari' del gruppo di Casablanca; tale contrapposizione sembrò superata con la nascita, il 25 maggio 1963 ad Addis Abeba, dell'OUA (Organizzazione dell'unità africana). La nuova organizzazione trovò un elemento di coesione nella condanna di ogni tipo di colonialismo, impegnandosi per accelerare l'acquisizione dell'indipendenza da parte dei territori ancora soggetti alla dominazione portoghese. Posizioni unitarie furono espresse anche nel condannare i paesi che praticavano una politica di aperta discriminazione razziale (Rhodesia e Sudafrica). Vincolata strettamente per principio al rispetto della sovranità e alla non-ingerenza negli affari interni delle nazioni, in ossequio alla lotta di decolonizzazione e alla necessità di evitare indebolimenti dei fragili Stati africani, l'OUA mostrò minore coesione quando dovette affrontare le dispute confinarie tra Stati o le numerose guerre civili che laceravano il continente, riconoscendo di fatto e di diritto l'intangibilità delle frontiere ereditate dalla colonizzazione.
I tempi dell'indipendenza
Il 1960 è stato chiamato l''anno dell'Africa'; nel corso di esso infatti ben 17 paesi ebbero accesso all'indipendenza, a conclusione di processi politico-costituzionali diversi, in taluni casi lungamente maturati con la responsabile partecipazione e la consapevole pressione delle popolazioni, o almeno delle élite locali; in altri casi affrettati per rispondere alle istanze anticolonialiste ormai dominanti, o venuti a compimento per l'applicazione di uno stesso iter a territori di differente sviluppo politico.
Rispettivamente il 1° gennaio e il 27 aprile fu proclamata l'indipendenza di due territori retti in amministrazione fiduciaria dalla Francia: il Camerun, che dal 1957 godeva dell'autonomia interna, e il Togo, autonomo dal 1956; il 30 giugno quella del Congo già belga, a conclusione di una evoluzione politico-costituzionale accelerata a partire dal 1959; il 26 giugno divenne indipendente la Somalia già britannica e il 1° luglio, in anticipo rispetto al previsto termine dell'amministrazione fiduciaria che era stata affidata dall'ONU all'Italia, quella già italiana; la Nigeria nacque il 1° ottobre, dopo un complesso travaglio costituzionale, quale Stato federale. In varie date fra il giugno e il novembre, in base alla possibilità aperta da una modifica della Costituzione della Comunità francese, divennero indipendenti le repubbliche già autonome in seno alla Comunità (Madagascar, Dahomey, Niger, Alto Volta, Costa d'Avorio, Ciad, Repubblica Centrafricana, Congo, Gabon, Senegal, Mali, Mauritania).
Il processo di decolonizzazione andò ulteriormente affermandosi nel corso degli anni Sessanta: il 27 aprile 1961 divenne indipendente la Sierra Leone e il 9 dicembre il Tanganica, già amministrazione fiduciaria della Gran Bretagna; dal territorio del Ruanda-Urundi, in amministrazione fiduciaria belga, nacquero il 1° luglio 1962 il Ruanda e il Burundi. La proclamazione dell'indipendenza dell'Algeria (3 luglio) segnò la vittoria politica di un movimento nazionalista che aveva scelto, dal novembre 1954, la via della lotta armata conquistando progressivamente un'estesa adesione popolare. Sempre secondo lo schema di evoluzione politico-costituzionale propria dei territori dipendenti dalla Gran Bretagna, ma con maggiore travaglio per le particolari situazioni locali, giunsero all'indipendenza l'Uganda (9 ottobre 1962) e il Kenya (12 dicembre 1963). Ancor più difficile la decolonizzazione dei territori che dal 1953 costituivano la Federazione dell'Africa centrale (concepita come strumento per il predominio della minoranza bianca) e della quale perciò i leader africani chiedevano la dissoluzione. Il Nyasaland divenne indipendente il 6 luglio 1964 con il nome di Malawi; il 24 ottobre fu la volta della Rhodesia del Nord, che assunse il nome di Zambia. Nella Rhodesia meridionale il governo locale rifiutò ogni concessione politica alla maggioranza nera, contrastando gli stessi orientamenti della madrepatria, sino a proclamare unilateralmente, l'11 novembre 1965, l'indipendenza, ovviamente non riconosciuta dalla comunità internazionale. La decolonizzazione proseguì negli anni Sessanta nei restanti territori britannici: il Gambia accedeva all'indipendenza il 18 febbraio 1965, il Botswana il 30 settembre 1966, il Leshoto il 4 ottobre, Maurizio il 12 marzo 1968, lo Swaziland il 6 settembre 1968; nello stesso anno conseguiva l'indipendenza la Guinea Equatoriale.
Nei territori portoghesi i movimenti nazionalisti avevano iniziato la guerra armata il cui epilogo vittorioso si avrà molto più tardi, grazie anche alla svolta politica verificatasi in Portogallo nel 1974. L'indipendenza della Guinea Bissau fu proclamata unilateralmente il 24 settembre 1973 e riconosciuta il 10 settembre 1974; quella del Mozambico il 25 giugno 1975; quella delle isole del Capo Verde il 5 luglio 1975; quella di São Tomé e Principe il 12 luglio 1975 e quella dell'Angola l'11 novembre 1975. Nello stesso 1975 la Spagna si ritirò dal Sahara occidentale, favorendone la concordata spartizione fra il Marocco e la Mauritania, mentre le isole Comore raggiungevano l'indipendenza il 6 luglio 1975, seguite dalle isole Seychelles il 28 giugno 1976.
Limiti della decolonizzazione
All'indomani della decolonizzazione, praticamente conclusa alla fine degli anni Settanta, la politica africana si spostò dalla prospettiva della lotta anticoloniale per concentrarsi sugli assetti interni. L'ideale di solidarietà e di unità dell'Africa - importante fattore ideologico nella lotta anticolonialista - non trovò invero, salvo pochi casi, concreta attuazione nel processo di decolonizzazione: l'indipendenza fu conseguita conservando il quadro della spartizione coloniale.
Assunta con l'indipendenza la diretta e piena responsabilità del proprio destino, i paesi africani si trovarono di fronte a molteplici problemi, alla cui base vi erano le loro condizioni di sottosviluppo, derivate da un insieme di fattori essenzialmente connessi alla stessa vicenda della dominazione coloniale. Questi problemi hanno messo i paesi africani nelle condizioni di dipendere dall'aiuto finanziario e tecnico esterno (delle ex nazioni colonizzatrici o di altri Stati), ma questi aiuti, inseriti in un sistema economico rispondente agli interessi dei paesi industrializzati, non sono riusciti ad avviare il progresso dell'Africa. Alla valutazione ottimistica della politica degli aiuti e, in generale, di tutto il rapporto fra i paesi ricchi e l'Africa, se ne contrappone dunque una critica, secondo la quale il sistema occidentale riesce a esercitare, attraverso i meccanismi dell'economia mondiale e in particolare attraverso gli aiuti, un'ingerenza e un controllo - il cosiddetto neocolonialismo - sui paesi in via di sviluppo e specialmente su quelli africani.
Con queste difficoltà si sono intrecciate quelle connesse alla tradizione, anche remota, del mondo africano e alle conseguenze del periodo coloniale. I nuovi Stati dell'Africa sono nati dal processo di decolonizzazione senza rispondenza con un sentimento di identità nazionale diffuso nell'intera popolazione. La 'costruzione della nazione' ha incontrato molteplici resistenze in quasi tutti i paesi: eterogeneità della composizione etnica e conseguenti rivalità tribali e regionali; contrapposizione fra popolazioni delle regioni costiere e quelle delle zone interne; diversità di religioni; pluralità di lingue, ostacolo per la gestione delle comunicazioni sociali (il che ha generalmente portato all'adozione come ufficiale della lingua dell'ex colonizzatore); presenza di minoranze non africane, asiatiche o europee. Di fronte a queste difficoltà il gioco delle forze politiche e sociali si è svolto secondo linee e sviluppi in parte simili, in parte diversi nei vari paesi.
Per effetto della decolonizzazione, si sono formati Stati deboli e vulnerabili, la cui stabilità è resa incerta dalle frontiere controverse, dalla mancanza di una chiara coscienza nazionale e dal carattere provvisorio delle istituzioni inaugurate al momento dell'indipendenza. All'interno delle varie nazioni è prevalsa la tendenza all'autoritarismo, in realtà politico-costituzionali caratterizzate dall'esistenza di un partito unico, al quale si è giunti di solito per una graduale evoluzione dal sistema pluripartitico, ereditato al momento dell'indipendenza dal modello del colonizzatore, attraverso la fase del bipartitismo. Il partito unico - che in molti Stati prevale di fatto sugli altri organi costituzionali - ha trovato giustificazione nella necessità di evitare l'espressione, attraverso più partiti, di tendenze centrifughe e particolaristiche, ostacolo alla integrazione nazionale e allo sviluppo economico-sociale.
I limiti dell'indipendenza africana sono apparsi con maggior evidenza perché l'ultima fase della decolonizzazione, la cosiddetta 'seconda decolonizzazione', sembrava aver fatto tesoro dell'esperienza precedente puntando a un'indipendenza che non si fermasse alle soglie della sovranità ma cercasse di trasformare in profondità le strutture sociali. Questo era soprattutto il programma dei movimenti di liberazione delle colonie portoghesi, pervenute all'indipendenza dopo la caduta del regime salazarista, le quali faticarono non poco, per cause interne e soprattutto esterne, a tradurre in pratica i principi di cui i partiti-eserciti di liberazione erano portatori.
La crisi del modello dello Stato nazionale
L'autodeterminazione in Africa è stata concepita e attuata Stato per Stato sulla base dello spazio territoriale, spesso artificioso, stabilito dal colonialismo. Temendo una corsa generale verso una seconda spartizione, i governi africani e per essi l'OUA hanno rinunciato a cercare soluzioni più rispondenti ai caratteri storici, etnici e culturali. Si spiega così la scarsa udienza che ha avuto in Africa, per esempio, la lotta di liberazione dell'Eritrea, ritenuta parte di uno Stato indipendente, l'Etiopia. L'OUA si è sempre opposta alle guerre di secessione e ai tentativi più o meno violenti di rimodellare la mappa geopolitica del continente in vista di una maggiore coincidenza fra statualità e nazionalità.
Nell'ultimo decennio del Novecento la carta politica dell'Africa non ha più presentato quella nutrita serie di variazioni - con il cambiamento dei nomi di Stati e di città e con il trasferimento di molte capitali - che aveva accompagnato tutta la fase della decolonizzazione. Ma questo non ha affatto significato che il continente abbia raggiunto un periodo di stabilizzazione politica: anche il volgere del secolo 20° è stato costellato da una cospicua serie di cambiamenti, spesso cruenti, dei governi, nonché di scontri di fazioni, di lotte tribali. Alcuni di questi conflitti, come quello che ha opposto le etnie hutu e tutsi nel Ruanda e nel Burundi, hanno varcato la soglia del genocidio.
La caratteristica più vistosa dell'evoluzione politica del continente africano sembra comunque essere stata una sorta di regressione a forme preterritoriali, premoderne, dell'esercizio del potere politico. Che gli Stati africani, ricalcati sul modello nazionale tipico dello Stato europeo, presentassero una rimarchevole debolezza strutturale proprio negli aspetti fondativi (tradizione, legittimità della sovranità, lealtà della cittadinanza, coerenza di popolazione e territorio) era chiaro prima ancora che si completasse il processo di decolonizzazione. La prima fase di vita indipendente, corrispondente alla prima generazione di leader, vide comunque gli Stati africani adattarsi, talvolta anche con apparente successo, al modello europeo. Ma la scomparsa delle figure carismatiche di prima generazione, il fallimento dei processi di sviluppo economico e sociopolitico, la persistenza di forme di identità estranee alla concezione moderna dello Stato e una conflittualità interna niente affatto sopita hanno evidenziato la difficoltà del tentativo di esportare in Africa (in particolare nell'Africa nera) il modello dello Stato-nazione. Nel corso degli anni Novanta una serie di eventi tragici ha esplicitato la crisi. In molti casi l'elemento venuto più rapidamente meno è stato proprio il confine territoriale, al quale peraltro quasi mai, in Africa, si è potuto assegnare un valore affine a quello che ha avuto in Europa: esso appare ormai completamente travolto da dinamiche politiche che vedono lo strumento principale non nell'organizzazione del territorio, ma in quella della popolazione, secondo un modello tipico della realtà etnica e tribale risalente ai secoli precedenti l'intromissione europea in Africa.
Attraversato da flussi di ogni genere, di persone (nomadi, migranti, profughi, guerriglieri) come di beni, in forme lecite o più spesso illecite, il confine in Africa sembra aver perduto le sue funzioni e la sua riconoscibilità, mentre poteri sempre più autonomi dallo Stato territoriale cercano di garantirsi un accesso al mercato mondiale, spesso sostenuti in questo tentativo da interessi del tutto esterni al continente.