AFRICA
(I, p. 730; App. I, p. 57; II, I, p. 67; III, I, p. 39; IV, I, p. 50)
Evoluzione del quadro politico. - La decolonizzazione dell'A. si è praticamente conclusa nel 1975-76 con l'indipendenza raggiunta dalle 5 colonie portoghesi (Guinea-Bissau, Mozambico, Capo Verde, São Tomé e Príncipe, Angola), a seguito del colpo di stato avvenuto in Portogallo il 25 aprile 1974. Nei due anni successivi il numero degli stati africani indipendenti salì a 51 con l'emancipazione di alcune piccole isole nell'Oceano Indiano: nel 1975 le isole Comore, meno Mayotte, proclamarono unilateralmente l'indipendenza dalla Francia, divenendo nel 1978 una repubblica federale islamica (Mayotte ha assunto nel 1976 il nuovo status di 'collettività territoriale' della Repubblica Francese); nel 1976 seguirono le isole Seicelle, già colonia britannica, che sono divenute una repubblica; nel 1977, infine, ottenne l'indipendenza il Territorio Francese degli Afar e degli Issa con il nome di Repubblica di Gibuti.
La Rhodesia, dove il governo bianco aveva proclamato unilateralmente l'indipendenza fin dal 1965 e si era costituito in repubblica nel 1970, dopo le sanzioni economiche decretate dall'ONU e una lunga guerriglia giunse attraverso complicate vicende istituzionali alla vera indipendenza nel 1980 con il nome di Zimbabwe e rientrò nel Commonwealth britannico; nella Camera dei rappresentanti un quinto dei seggi sono riservati alla minoranza bianca, che nel frattempo si è ridotta ad appena il 3% della popolazione.
Si può constatare che già nel 1980 la decolonizzazione politica dell'A. era virtualmente conclusa, anche se in alcuni casi l'indipendenza è riuscita a incidere solo superficialmente sulle strutture economiche e culturali. Nel 1990 ha ottenuto l'indipendenza anche la Namibia, in seguito alla risoluzione (1978) del Consiglio di Sicurezza dell'ONU e in esecuzione degli accordi sottoscritti a New York il 22 dic. 1988 da Angola, Cuba e Sudafrica. Nell'elezione dell'Assemblea costituente la maggioranza è stata ottenuta dalla SWAPO. Rimangono ancora aperti i problemi dei diritti politici alla maggioranza negra in Sudafrica sui quali peraltro il governo di Pretoria sta orientandosi in senso positivo.
Focolai di tensione persistono anche in altre parti dell'A., alimentando vari conflitti regionali, con la partecipazione palese od occulta di forze esterne (v. oltre, storia).
Evoluzione della toponomastica. - Il processo di decolonizzazione dei nomi di stato e di città è continuato anche dopo il 1975, interessando soprattutto gli stati di più recente indipendenza. Degli stati ha cambiato nome l'Alto Volta, che nel 1984 ha preso quello di Burkina Faso ("Terra degli uomini giusti"). Nel 1980 la Rhodesia ha assunto ufficialmente il nome di Zimbabwe, in ricordo di un'antica civiltà bantu. Il Territorio Francese degli Afar e degli Issa ha assunto con l'indipendenza il nome di Gibuti. Cambiamenti radicali sono avvenuti nello Zimbabwe, dove la capitale Salisbury ha preso il nome di Harare, nell'Angola, nelle Comore e nella Guinea Equatoriale, dove l'isola di Fernando Poo, già ribattezzata Macías Nguema, è ora Bioko, e l'isola di Annobón si chiama Pagalu.
Nuove capitali. - Nel processo di decolonizzazione rientra anche il trasferimento della capitale in posizione più centrale, sia in città preesistenti che in città di nuova formazione.
In Libia, dopo il bombardamento americano di Tripoli, il governo si è trasferito nel 1987 a El Giofra, nella regione della Sirte, a 300 km dal mare e a 650 km a sud di Tripoli, anche per la necessità di decongestionare la vecchia capitale e di procedere a un decentramento amministrativo.
La Guinea-Bissau ha trasferito, subito dopo l'indipendenza, la sua capitale da Medina do Boe, nell'interno, a Bissau, sulla costa. Le Comore hanno dovuto stabilire la loro capitale a Moroni, sull'isola di Njazidja (già Grande Comore), dopo la secessione di Mayotte, in cui si trovava il capoluogo coloniale.
La Tanzania ha trasferito, a partire dal 1973, le funzioni politiche da Dār es-Salām, sulla costa, a Dodoma, nella Provincia centrale, in posizione nodale per le comunicazioni.
La Nigeria ha in costruzione una nuova capitale in posizione centrale ad Abuja, per correggere l'eccentricità di Lagos e frenare il suo crescente congestionamento. Analogamente la Costa d'Avorio ha proclamato nel 1983 nuova capitale Yamoussoukro, che viene costruita ex novo nel centro del paese per sostituire l'affollata Abidjan.
Le organizzazioni interstatali. - Massima espressione politica dell'A. è l'Organizzazione per l'Unità Africana (OUA), fondata nel 1963 ad Addìs Abebà, dove tuttora ha sede la segreteria generale. A seguito dell'ingresso dei nuovi stati indipendenti e dell'uscita nel 1984 del Marocco (lo Zaire è rientrato nel 1986), dell'Organizzazione fanno ora parte 50 membri (fra cui la Repubblica Araba Democratica Saharawi non riconosciuta da tutti i membri). Rimangono fuori solo la Namibia, in attesa della carta costituzionale, e il Sudafrica, che l'Organizzazione ha più volte condannato per la sua politica razzista.
L'assemblea dei capi di stato e di governo si riunisce ogni anno; solo nel 1982 il vertice convocato a Tripoli non poté aver luogo per le divergenze dei paesi membri su quale fosse il governo legittimo del Ciad. Dopo il fallimento di quell'assemblea, le riunioni successive si sono tenute ad Addìs Abebà. Il risultato più tangibile di questa organizzazione è quello d'aver creato un dialogo oltre la barriera del Sahara fra l'A. Bianca e l'A. Nera, turbato peraltro dalla recente politica espansionistica della Libia. Facendosi garante dei confini ereditati dal sistema coloniale, l'OUA ha stabilizzato l'assetto politico-terri toriale dell'A., stroncando vari tentativi revisionisti. La principale forza di coesione dell'Organizzazione, divisa ancora al suo interno fra 'paesi moderati' e 'paesi progressisti', è stata finora la lotta per la decolonizzazione dell'A. australe, prima delle colonie portoghesi e della Rhodesia, poi della Namibia, nonché la condanna della politica razzista del Sudafrica.
Dopo la "Risoluzione sulle materie prime", adottata a Mogadiscio nel 1974, i problemi economici del continente sono stati affrontati nella Conferenza straordinaria di Lagos del 1980, in cui è stato approvato un piano ventennale di sviluppo (1981-2000), e nella Conferenza di Addìs Abebà del 1985, in cui è stato varato un piano quinquennale.
Dei raggruppamenti linguofoni formatisi dopo l'indipendenza, l'Organizzazione Comune Africana e Malgascia (OCAM), di espressione francese, si è sciolta nel 1985, in seguito al declino delle sue funzioni economiche assorbite dall'Associazione dei paesi Africani, Caraibici e del Pacifico (ACP) e dai raggruppamenti regionali. Le funzioni politiche sono state assunte fin dal 1974 dalla Conferenza franco-africana, a cui aderiscono una ventina di paesi, non solo francofoni. I paesi anglofoni discutono i loro problemi nelle conferenze annuali del Commonwealth, che nel 1979 si è riunito a Lusaka, con all'ordine del giorno la decolonizzazione dell'A. australe. Nel 1979 si è costituito un raggruppamento lusofono, che riunisce i rappresentanti delle 5 ex colonie portoghesi. Nella conferenza di Maputo del 1980 i capi di stato hanno sottoscritto un accordo generale di cooperazione economica. Al raggruppamento arabofono, che fa capo alla Lega Araba (con sede a Tunisi), hanno aderito nel 1974 la Somalia e nel 1977 Gibuti.
Tutti i paesi dell'A. Nera, a eccezione del Sudafrica, hanno sottoscritto nel 1975, assieme ad alcuni paesi dei Caraibi e del Pacifico, la Convenzione di Lomé con la CEE, assicurandosi così il libero accesso sui mercati comunitari dei loro prodotti, in franchigia doganale e senza restrizioni quantitative, e il godimento di una cassa di stabilizzazione delle loro esportazioni. La convenzione è stata rinnovata alle scadenze quinquennali nel 1979, nel 1984 e nel 1989. Con la CEE hanno accordi di libero scambio tutti i paesi dell'A. settentrionale, esclusa la Libia.
L'A. occidentale è all'avanguardia nella formazione di raggruppamenti regionali. Al Consiglio dell'Intesa (1959), alla Comunità Economica dell'Africa dell'Ovest (CEAO, 1973), di espressione francofona, si è sostituita la ben più importante Comunità Economica degli Stati dell'Africa Occidentale (CEDEAO, 1975), di cui fanno parte tutti i 16 stati della regione (9 francofoni, 5 anglofoni e 2 lusofoni), che si prefigge di realizzare entro il 1992 un vero mercato comune.
Nell'A. centrale è nato nel 1983 un organismo simile, ma meno efficiente, la Comunità Economica degli Stati dell'Africa Centrale (CEEAC), con la significativa assenza dell'Angola. Al suo interno sopravvive l'Unione Doganale ed Economica dell'Africa Centrale (UDEAC, 1964), includente il Camerun, il Gabon, il Congo, il Ciad e il Centrafrica.
Nell'A. orientale, dopo il fallimento della Comunità dell'Africa Orientale (EAC, 1967-77) fra Uganda, Kenya e Tanzania, non sono intervenute nuove aggregazioni.
Nell'A. meridionale è ancora in vigore l'Unione Doganale dell'Africa del Sud (SACU), istituita nel 1969 fra Sudafrica, Botswana, Lesotho e Swaziland, nonostante l'adesione del Botswana al "gruppo dei paesi di prima linea", che sostenevano in Namibia la lotta della SWAPO contro il Sudafrica. Dopo il conseguimento dell'indipendenza da parte delle colonie portoghesi e l'avvento di un governo nero nello Zimbabwe, le prospettive di cooperazione economica nel cono australe sono cambiate; nel 1980 si è costituita a Lusaka la Conferenza per il Coordinamento dello Sviluppo nell'Africa Meridionale (SADCC) con la partecipazione di Angola, Botswana, Lesotho, Malawi, Mozambico, Swaziland, Tanzania, Zambia e Zimbabwe al fine di promuovere l'integrazione dell'A. australe, isolando il Sudafrica. Sono stati approvati alcuni progetti nel settore delle comunicazioni e dei trasporti, ma la dipendenza di alcuni paesi dal Sudafrica rimane molto forte.
Situazione demografica. - La popolazione africana ha continuato a crescere a ritmo accelerato, salendo dai 413 milioni di abitanti del 1975 ai 613 milioni nel 1988 (secondo stime dell'Ufficio statistico delle Nazioni Unite), con un incremento di 200 milioni, pari al 48,4% e corrispondente quindi a un tasso medio annuo che non trova riscontro in nessun'altra parte del mondo. Attualmente la popolazione africana rappresenta l'11,9% di quella mondiale (contro il 10,5% del 1975). La sua densità è salita da 14 a 20 ab. per km2.
Il fenomeno è dovuto non tanto a un incremento della natalità, che anzi è in diminuzione in molti paesi, quanto alla riduzione della mortalità, specie di quella infantile, per effetto della rivoluzione sanitaria importata dall'estero, e al prolungamento della durata della vita media, che comunque rimane tuttora inferiore a quella delle altre parti del mondo. L'andamento demografico si presenta comunque abbastanza eterogeneo nelle varie regioni e nei diversi paesi.
La natalità, che ha un tasso medio annuo del 46‰ (media 1980-85), è massima nell'A. occidentale e orientale (49‰) dove alcuni paesi superano il tasso del 50‰, come il Niger, il Benin e il Kenya. Valori di poco inferiori si riscontrano nell'A. centrale (45‰), dove le condizioni ambientali e sanitarie e talune tradizioni tribali riducono la fertilità femminile, come accade soprattutto nel Gabon (35‰). Il miglioramento delle condizioni igieniche in quest'area rende prevedibile un'ulteriore crescita del tasso. Nell'A. meridionale le migliori condizioni di vita raggiunte dal Sudafrica si riflettono sul tasso regionale (40‰), nonostante gl'indici ancora elevati degli stati minori (50‰ nel Botswana). Nell'A. settentrionale il tasso di natalità è ormai sceso al 39‰, ma in Libia è attestato ancora sul 45,6‰.
Tassi molto inferiori, su livello europeo, presentano alcuni microstati insulari, come Capo Verde, Maurizio, Seicelle, in cui l'acculturazione europea è stata più rapida, prefigurando un itinerario che altri paesi dell'A. si apprestano a percorrere. La pianificazione familiare, promossa dal Ghana e dal Kenya, ha dato finora modesti risultati, per gli ostacoli opposti dalle tradizioni religiose e sociali del mondo tribale.
L'A. si caratterizza anche per un tasso di mortalità più elevato rispetto al resto del mondo, sintomo evidente di un persistente sottosviluppo e del ritardo accumulato nella diffusione della rivoluzione sanitaria. Il tasso medio annuo di mortalità si aggira intorno al 17‰, nonostante i grandi progressi ottenuti nella lotta contro le malattie epidemiche. L'ambiente tropicale, in particolare quello caldo umido, è ancora teatro di terribili infezioni, contro le quali l'organizzazione sanitaria dei giovani stati risulta inadeguata. Il numero dei medici e dei posti-letto ospedalieri è quasi dovunque al di sotto delle necessità. In questi ultimi anni in alcuni paesi dell'A. centro-orien tale sta dilagando un'epidemia di AIDS, che colpisce gli eserciti e le classi dirigenti, la cui maggior mobilità li espone al contagio e alla diffusione del male. Secondo i più aggiornati rapporti scientifici la percentuale della popolazione adulta colpita da AIDS si aggira fra il 10% e il 20% (17% in Zambia, dove l'infezione ha colpito oltre metà dell'esercito).
Il tasso di mortalità può essere assunto a tutti gli effetti come indicatore del sottosviluppo. Esso si aggira intorno al 19‰ nell'A. occidentale, scende al 18‰ nell'A. centrale e al 17‰ nell'A. orientale. I valori più elevati si segnalano ovviamente in paesi recentemente afflitti da rivoluzioni, guerre, siccità, come l'Angola, l'Etiopia, la Somalia, il Ciad. Molto più bassi sono gl'indici nell'A. meridionale (intorno al 14‰) grazie all'influenza del Sudafrica, e nell'A. settentrionale (intorno al 12‰) con valori minimi del 10,3‰ in Egitto. Sui valori minimi si trovano anche i microstati insulari e Gibuti.
L'indice di mortalità infantile (calcolato sui nati vivi), che in Europa si è ormai ridotto fra il 20 e il 10‰, in Africa si mantiene in media sopra il 100‰, con punte più che raddoppiate in alcuni paesi più disagiati (per es. la Guinea).
Il tasso di accrescimento annuo, nel periodo 1980-85, si è aggirato in media intorno al 29‰, con i livelli più elevati nell'A. orientale e occidentale (31‰); esso scende al 27‰ nell'A. centrale, al 26‰ nell'A. settentrionale e al 25‰ nell'A. meridionale. Le differenze sono ancora più forti all'interno delle cinque regioni, in cui i tassi oscillano fra valori superiori al 35‰ e inferiori al 25‰.
La speranza di vita di un africano, ossia il numero di anni che in media si attende di vivere alla nascita, è in continua ascesa, ma supera i 50 anni solo in alcuni microstati insulari, nello Zimbabwe, nel Botswana e nel Sudafrica. In conseguenza dell'elevata natalità e del l'ancora modesta speranza di vita, la popolazione degli stati africani è caratterizzata da una struttura particolarmente giovane (fra il 40 e il 50% di minori sotto i 15 anni), mentre le classi senili (sopra i 65 anni) raramente superano il 3%.
Le istituzioni scolastiche non riescono a tenere il passo con l'incremento demografico. Nel 1980 il continente africano contava circa 27 milioni di bambini analfabeti, a cui peraltro bisogna aggiungere ben 156 milioni di analfabeti adulti, con un tasso medio di analfabetismo del 60,6% (UNESCO). Anche se il tasso è sceso di circa dieci punti nell'ultimo decennio, in realtà per effetto dell'esplosione demografica il numero degli analfabeti è aumentato e l'A. detiene oggi anche questo triste primato.
Le migrazioni sono in continuo aumento, sia quelle interne agli stati e fra paesi vicini sia quelle esterne al continente. I mutamenti politici e socio-economici conseguenti all'indipendenza hanno accresciuto la mobilità delle popolazioni africane che lasciano le campagne per inurbarsi. Altre correnti sono attratte dall'economia commerciale agricola e mineraria, nei paesi in cui tali attività sono più sviluppate. Le correnti intercontinentali si dirigono dall'A. settentrionale e occidentale verso l'Europa occidentale e dall'A. settentrionale verso i paesi petroliferi del Medio Oriente. I movimenti migratori, che riguardano soprattutto i giovani, in prevalenza di sesso maschile, interferiscono sull'andamento demografico e sulla composizione della popolazione.
Nell'A. australe grande polo delle migrazioni continua a essere il Sudafrica, dove però i flussi si sono affievoliti in seguito al deterioramento delle condizioni politiche ed economiche. In seguito alla crisi petrolifera, la Nigeria ha dovuto espellere nel 1983 circa 2 milioni d'immigrati clandestini, di cui oltre la metà originari del Ghana. Nell'A. settentrionale mèta di ingenti flussi è la Libia, che però ha espulso per motivi politici prima i lavoratori egiziani e poi quelli tunisini.
Ingenti flussi migratori sono dovuti anche alle siccità o alle vicende politiche che colpiscono a più riprese i diversi paesi africani. L'A. è il continente che presenta il maggior numero di rifugiati (quasi 3 milioni). Il paese che recentemente ha provocato il maggior esodo è stata l'Etiopia (Eritrei verso il Sudan, Somali verso la Somalia e Gibuti). Altre masse hanno lasciato il Ciad, l'Uganda, il Burundi (per sfuggire ai massacri etnici).
Sviluppo urbano. - Se si prescinde dall'A. settentrionale e da quella meridionale, la maggior parte della popolazione africana vive ancora in villaggi rurali, dove peraltro i flussi verso le città sono in continuo aumento. Negli ultimi vent'anni la popolazione urbana si è più che raddoppiata e oggi oltre un quarto degli africani vive nelle città, o meglio nelle immense periferie di baracche che sono proliferate attorno ai vecchi nuclei coloniali. Ciononostante l'A. è ancora la parte del mondo con il più basso indice di popolazione urbana.
Anche dopo il 1975 le città africane hanno continuato a proliferare, divenendo focolai di detribalizzazione e crogioli interetnici e interculturali, ponendo altresì gravi problemi urbanistici, economici e sociali. L'edilizia, i trasporti, i servizi sono i settori di più grave carenza delle aree urbane, dove scarseggiano i posti di lavoro regolari e la disoccupazione alimenta molte attività parassitarie e la criminalità.
Molte grandi città, le capitali in particolare, sono divenute paurosi agglomerati umani di genti rurali detribalizzate, sprovviste in gran parte di mezzi di sostentamento e con forti difficoltà a integrarsi nella vita urbana.
Basti pensare alle 'città milionarie', che, appena 3 nel 1960 (Il Cairo, Alessandria e Johannesburg), sono oggi oltre una dozzina. Di esse Il Cairo conta 6 milioni di ab. (che salgono a 13 milioni nell'agglomerato urbano); Alessandria d'Egitto, Kinshasa (Zaire), Abidjan (Costa d'Avorio), Casablanca (Marocco) hanno superato i 2 milioni di abitanti; Città del Capo e Johannesburg (Sudafrica), Algeri (Algeria), Lagos (Nigeria), Addìs Abebà (Etiopia), Dakar (Senegal), Accra (Ghana), Dār es-Salām (Tanzania), El Giza (Egitto), Nairobi (Kenya), Antananarivo (Madagascar) hanno superato il milione.
L'area di gran lunga più urbanizzata è l'A. meridionale, la cui popolazione urbana si aggira intorno alla metà del totale. Nel Sudafrica, dove l'indice è ormai vicino a livelli europei, ben 19 città hanno superato i 100.000 abitanti. Attorno a Johannesburg si è formata una conurbazione di circa 3 milioni di ab. (Pretoria-Witwatersrand-Vereeninging Area): nelle città gli europei sono tuttora protagonisti, poiché i negri sono relegati nei centri satelliti (townships) in condizioni di umiliante segregazione.
Notevole è anche l'urbanizzazione nell'A. settentrionale (quasi il 45%), specie in Tunisia, Egitto e Algeria. Lungo la valle e nel delta del Nilo si susseguono vaste aree urbane, fra cui emergono Il Cairo, uno degli agglomerati più grandi del mondo, Alessandria ed El Giza; una decina di nuove città sono state costruite nel deserto fra Il Cairo e Alessandria.
Nell'A. centrale, dove l'inurbamento è stato favorito dalle turbolenze politiche (Zaire) o dallo sviluppo economico (Congo e Gabon), la popolazione urbana ha già raggiunto il 30%, ma appare evidente il sovradimensionamento delle capitali e la carenza di una rete urbana articolata. Lo Zaire, per quanto annoveri una decina di grandi città, non possiede un vero e proprio sistema urbano, poiché i grandi centri sono periferici ed esercitano funzioni specializzate, minerarie o portuali.
Nell'A. occidentale, il cui gran numero di città è conseguenza del frazionamento politico, la popolazione urbana ha già superato il quarto. I tre quinti delle grandi città si trovano nella Nigeria, il paese più popolato di tutta l'A. e con la più vasta rete urbana. Il paese più urbanizzato è però la Costa d'Avorio (42%), che accentra ad Abidjan oltre un quarto della popolazione.
Il fenomeno è meno evidente in A. orientale, dove l'indice urbano ha appena superato il 20%. Ciò è dovuto da un lato al minore frazionamento politico, dall'altro alla politica di contenimento attuata in alcuni paesi (per es. la sedentarizzazione nella Tanzania e nel Madagascar) e al minore ammodernamento dell'economia. Nonostante alcuni episodi vistosi d'inurbamento (Addìs Abebà, Nairobi, Dār es-Salām, Antananarivo), l'attrazione delle città è stata minore. Se si prescinde dai microstati insulari, l'area più urbanizzata è quella della Zambia, in rapporto allo sfruttamento minerario.
Evoluzione delle attività economiche. - Il processo di decolonizzazione delle strutture economiche e dei rapporti commerciali con l'estero è continuato anche nell'ultimo decennio, con la ricerca di un nuovo assetto più conforme agl'interessi nazionali dei singoli paesi. Ma a ostacolare questo processo è stata la recessione economica mon diale conseguente alla crisi energetica, che dopo il 1979 ha prodotto un forte indebolimento della domanda (e quindi dei prezzi) delle materie prime sul mercato mondiale. A ciò deve aggiungersi la salita del corso del dollaro negli scambi valutari e la generale lievitazione dei tassi d'inflazione, che hanno aumentato il costo delle importazioni di manufatti e di derrate. Ne è conseguito per gli stati africani un generale indebitamento con l'estero che nel 1987 ha raggiunto i 1000 miliardi di dollari. Molti paesi hanno così dovuto rinunciare ad ambiziosi progetti, anche per effetto della contrazione degli aiuti internazionali, provocata anch'essa dalla sfavorevole congiuntura economica. Il prodotto interno lordo ha così diminuito il suo ritmo di crescita al disotto dei livelli demografici, tanto che alcuni paesi hanno registrato una contrazione secca del PIL pro capite. Particolarmente acuto è questo fenomeno nei paesi colpiti dalle siccità o dalle guerre civili, per l'impiego di gran parte del bilancio nell'acquisto di armamenti. Solo a partire del 1985 la situazione ha registrato miglioramenti, da cui rimangono esclusi peraltro i paesi esportatori di petrolio che continuano ad accusare minori entrate per l'eccesso di offerta mondiale che tiene basso il prezzo del petrolio al barile.
Nel quadro economico complessivo si sono comunque accentuati gli squilibri interni fra paesi ricchi di petrolio o di altre materie prime (Libia, Gabon) e quelli che, essendone privi, vengono attribuiti al cosiddetto 'Quarto Mondo' (paesi most seriously affected con PIL/ab. inferiore a poche centinaia di dollari), di cui oltre la metà è rappresentata dagli stati africani. Nonostante la crisi economica e politica da cui è afflitto, il Sudafrica rimane il paese africano più avanzato; esso ha irrobustito ulteriormente la sua economia collocandosi fra i paesi più ricchi e più industrializzati del mondo. Progressi significativi hanno compiuto i paesi dell'A. settentrionale (meno il Sudan); la Tunisia ha ormai superato la soglia dei 1000 dollari pro capite raddoppiando in un decennio il suo PIL; un incremento analogo, seppure su livelli più bassi, è stato conseguito dall'Egitto e dal Marocco. Su scala più limitata è anche da segnalare, nell'Oceano Indiano, l'isola di Maurizio, che ha pure superato la soglia dei 1000 dollari.
Esistono tuttavia anche paesi che hanno peggiorato la loro situazione, come la Zambia che, a causa dell'interruzione delle linee ferroviarie, per anni non è stata in grado di esportare il suo rame, incontrando poi grandi difficoltà a reinserirsi nel mercato mondiale.
Lo sviluppo economico dei paesi africani è peraltro frenato dall'esplosione demografica in atto, che tende a vanificare gli sforzi dei governi per migliorare la situazione alimentare, scolastica, sanitaria, e creare nuovi posti di lavoro.
Agricoltura. - L'economia africana è ancora fondamentalmente rurale tenuto conto che quasi i tre quarti della popolazione vivono ancora nei villaggi. Ma l'attività primaria è contrassegnata da limiti e contraddizioni, praticata com'è per stato di necessità anche in regioni con scarse attitudini agrarie e perché si avvale di strumenti e tecniche rudimentali, che richiedono un forte investimento umano in cambio di rendimenti modesti e aleatori. Accanto a una magra agricoltura tradizionale che stenta a evolversi e condanna la popolazione rurale alla fame e alla miseria, esiste tuttavia un'agricoltura moderna, che, pur avvalendosi di una migliore organizzazione che assicura alle aziende rendimenti discreti, è orientata fin dal periodo coloniale a produrre materie prime e derrate per l'esportazione, ignorando il fabbisogno alimentare interno. L'A. di conseguenza tende a registrare un crescente deficit nella bilancia alimentare, a seguito dei gravi oneri che comporta l'importazione di derrate. D'altra parte sta cambiando la stessa composizione delle colture alimentari per l'aumento delle superfici destinate al mais, al grano, al riso, anche a scapito delle colture tradizionali dell'orzo, del miglio, del sorgo e della manioca. Il mais si va diffondendo nei paesi del Golfo di Guinea e negli altopiani interlacustri, il grano nell'A. settentrionale, il riso nella valle del Nilo, nel delta del Niger, nel Madagascar. Le maggiori importazioni riguardano il grano di cui sono forti acquirenti i paesi arabi.
L'agricoltura commerciale, nonostante il sostegno della CEE, ha risentito sfavorevolmente della crisi che ha travagliato i mercati di consumo dei paesi industriali e per di più deve fronteggiare la crescente concorrenza dei produttori asiatici e latino-americani. L'enfatizzazione delle colture pregiate ha creato in alcuni paesi una forte dipendenza dal mercato mondiale, rendendoli particolarmente vulnerabili alle oscillazioni dei prezzi. Così il caffè rappresenta oltre la metà delle esportazioni di Burundi, Uganda, Etiopia e Ruanda, lo zucchero di canna di quelle di Maurizio; dalle arachidi dipendono Gambia e Senegal, dal cotone il Ciad e il Mali, dal tabacco il Malawi. Più fortunati sono quei paesi che possono fare affidamento su un'offerta differenziata di prodotti come il Camerun e la Costa d'Avorio (caffè e cacao), il Centrafrica e la Tanzania (caffè e cotone), il Kenya (caffè e tè); ma per la Somalia, il Lesotho e il Botswana non meno gravosa è la dipendenza dai prodotti dell'allevamento.
L'ampliamento delle aree irrigue in corso in vari paesi, sia con grandi opere di sbarramento dei corsi d'acqua e di creazione di laghi artificiali, sia con le microrealizzazioni imperniate sullo scavo di pozzi e la costruzione di cisterne, dischiude nuove prospettive d'incremento delle rese e delle produzioni agrarie nelle aree aride del Sahel e dell'A. settentrionale. Si è manifestato però il pericolo di salinizzazione della falda freatica e dei suoli, com'è accaduto in Egitto sia nella valle del Nilo, dopo l'invaso del lago Nasser, sia nella New Valley. I nuovi dissodamenti compensano a stento la perdita di superfici agricole per effetto dell'avanzata dei deserti.
Il settore zootecnico continua a segnare il passo, in attesa che la lotta intrapresa contro la mosca tsè tsè dia qualche risultato nella fascia tropicale umida e che nelle regioni aride siano realizzati i progetti irrigui. Gravi perdite, a causa della siccità, ha registrato il patrimonio zootecnico nelle regioni aride subsahariane e del Corno d'A. (ma anche nell'A. australe), mentre ha registrato qualche incremento negli altopiani interlacustri, specie in Tanzania. Alcuni paesi allevatori (Mali, Botswana, Swaziland, Kenya, Madagascar) hanno avviato l'esportazione di carni. L'abbinamento dell'allevamento all'agricoltura è l'obiettivo di molti piani di sviluppo, il cui conseguimento richiede però la soluzione di numerosi problemi quali l'introduzione nell'azienda dell'appezzamento foraggero e del silo per la conservazione dei foraggi, l'organizzazione della raccolta e la lavorazione del latte, la macellazione e la conservazione delle carni, i servizi veterinari.
La persistenza della monocoltura e la progressiva riduzione dei tempi destinati a maggese continuano a impoverire i suoli, al cui scarso ristoro provvede un modestissimo uso di fertilizzanti. I disboscamenti e il pascolo eccessivo contribuiscono ad accelerare il dissesto idrogeologico. La diversificazione colturale e il riorientamento produttivo in funzione del mercato interno è l'obiettivo di molte politiche agrarie. In questo quadro, particolare interesse assumono alcune nuove forme di organizzazione dell'agricoltura, come le aziende di tipo cooperativo del Kenya e del Ghana, le comunità di villaggio della Tanzania (ujamaa) e del Madagascar (fokonolona), le aziende statali della Guinea e del Benin.
In un'area come l'A., in cui la dieta alimentare è carente di proteine, grande importanza assume la pesca, che sta compiendo notevoli progressi, sia nelle acque interne che in quelle oceaniche (A. nord-occidentale e sud-occidentale). Nonostante l'estensione delle acque territoriali, che consente una migliore tutela delle risorse nazionali, la pesca è un'attività ancora piuttosto limitata e viene praticata in misura non trascurabile da flottiglie straniere autorizzate da specifici accordi. La quota di partecipazione dell'A. al pescato mondiale si aggira appena intorno al 3,3% (1985) ed è rappresentata soprattutto dal Sudafrica (con la Namibia il 28,7%) e dal Marocco (17,5%).
Risorse minerarie. - Grazie alla sua struttura geologica l'A. continua a collocarsi sulla scena mondiale come una delle maggiori aree di riserve di metalli preziosi, di combustibili e di minerali metallici, suscitando il tradizionale interesse delle potenze industriali ad assicurarsene lo sfruttamento e l'accaparramento. Un interesse che è altresì all'origine di molti tentativi di destabilizzazione politica dei giovani stati africani. D'altra parte, poiché il settore dei minerali è in costante balia delle fluttuazioni del mercato internazionale, in cui la formazione dei prezzi è sotto il controllo dei paesi importatori, ne consegue che i paesi esportatori che su tali risorse fanno maggiore affidamento, sono soggetti a un'instabilità economica non molto dissimile da quella dei paesi condizionati dalle monocolture agricole.
Il ruolo dell'A. quale fornitrice di minerali si evidenzia nelle quote di partecipazione alla produzione e al commercio mondiale di talune risorse. Si segnalano in primo luogo i diamanti e l'oro (oltre il 70%). Negli ultimi anni è emerso in tutta la sua importanza economica e strategica l'uranio, di cui l'A. fornisce oltre un terzo della produzione mondiale (Sudafrica, Namibia, Niger). Posti significativi nel mercato mondiale hanno il cobalto (oltre due terzi), il cromo (oltre due quinti), il manganese (oltre un terzo), i fosfati (un quarto), il rame e l'antimonio (oltre un quinto). Oggi circa la metà della produzione mineraria proviene dal Sudafrica, che ha recentemente avviato l'utilizzazione su larga scala dei giacimenti di carbone del Natal, e un terzo dallo Zaire e dalla Zambia. Coinvolti in maggiore o minore misura nelle attività minerarie sono quasi tutti i paesi, ma alcuni di essi hanno imperniato la propria economia sulla monostruttura mineraria: così dal petrolio dipendono la Nigeria (circa il 90%), la Libia (circa il 70%) e l'Egitto (47%); dal rame la Zambia (circa il 90%), dal minerale di ferro la Mauritania (circa l'80%), dall'uranio il Niger, dai fosfati il Togo e il Marocco, dai diamanti la Sierra Leone e anche il Sudafrica (oltre un quarto), che pur avendo un'economia industriale complessa è il maggior esportatore africano di minerali.
Grazie alla scoperta di estesi giacimenti d'idrocarburi, sia sul versante settentrionale del Sahara, sia nella fascia costiera del Golfo di Guinea, l'A. concorre oggi all'8% della produzione mondiale di petrolio. Nell'A. settentrionale massimo produttore è la Libia, dove una rete di oleodotti porta il greggio dai pozzi interni ai terminali del Mediterraneo (Marsa Brega, Ras Lanuf, Zuetina, ecc.). Dopo la riacquisizione del Sinai, grande produttore è divenuto anche l'Egitto, mentre l'Algeria ha avviato su larga scala l'esportazione di gas naturale (un gasdotto attraversa dal 1983 il Canale di Sicilia e alimenta la rete italiana). Nell'A. occidentale è emersa fin dagli anni Cinquanta la produzione della Nigeria, che ha da tempo superato quella della Libia, guadagnandosi il primato africano. I pozzi si trovano nel delta del Niger e nell'immediato off-shore e alimentano una serie di terminali (Bonny, Forcados, Escravos, ecc.). Notevoli risorse sono state scoperte in tutta la fascia costiera dal Senegal all'Angola e altri paesi hanno avviato l'esportazione e costruito raffinerie.
La crescita industriale. - Le risorse idroelettriche dell'A. sono state valutate dall'ONU a 190.000 MW (circa il 28% del potenziale mondiale), pari a una producibilità annua di circa 600 miliardi di kWh, ma la produzione attuale realizza poco più di un quarto di questo potenziale, concentrandosi in Sudafrica, in Egitto (diga di Assuan) e nella Zambia (diga di Kariba). Vari paesi non dispongono di risorse idriche adeguate e devono ricorrere alle centrali termoelettriche, importando il combustibile. In complesso la produzione di energia elettrica dell'A. rappresenta appena il 3% di quella mondiale e si concentra per la metà nel Sudafrica. Non c'è quindi da meravigliarsi se la disponibilità media pro capite sia di gran lunga più bassa rispetto a quella degli altri continenti.
Nonostante la ricca dotazione di minerali, di risorse energetiche, forestali e agricole l'A. continua a essere l'area meno industrializzata del mondo, a riprova del grande ritardo accumulato sulla via dello sviluppo. Le difficoltà che incontra l'industrializzazione sono innumerevoli e più gravi che in altre parti del Terzo Mondo. La base agricola è molto debole, le infrastrutture di comunicazione sono ancora inadeguate, la forza lavoro è impreparata e mancano le maestranze qualificate, i quadri tecnici e direttivi. L'ambiente socio-economico non è favorevole alla formazione dello spirito imprenditoriale, né all'accumulazione dei capitali. D'altra parte la domanda interna di manufatti è ancora molto bassa. A ciò si aggiungono le piccole dimensioni di molti stati, le carenze della rete distributiva, i progressi insignificanti dell'integrazione economica regionale, che rendono impossibile l'insediamento di imprese industriali capaci di operare in un regime di competitività rispetto ai manufatti d'importazione. Gli stati a cui compete di promuovere l'industrializzazione scarseggiano di mezzi finanziari e capacità organizzative e devono spesso rimettersi a iniziative straniere, non sempre corrispondenti agl'interessi nazionali.
Ciononostante il settore manifatturiero sta crescendo sia pur lentamente in tutti i paesi, passando dalla prima lavorazione dei prodotti agricoli, forestali o minerari a lavorazioni sempre più complesse. Accanto alle grandi imprese a capitale straniero, nazionale o misto, sta sorgendo un pulviscolo di piccole imprese africane, per lo più artigianali e di tipo tradizionale. Il processo di industrializzazione ha interessato soprattutto le industrie leggere, che richiedono minori investimenti e si giovano del basso costo del lavoro. Le industrie alimentari sono di gran lunga le più importanti accanto a quelle tessili, del vestiario, delle pelli. La lavorazione del legno è ancora poco praticata e si limita per lo più alle segherie. L'attività metallurgica si è estesa, nei paesi minerari, dalla raffinazione del rame alla lavorazione della bauxite e di altri minerali. Alcuni paesi hanno realizzato grandi impianti siderurgici, anche a ciclo completo (Sudafrica, Zimbabwe). La scoperta del petrolio e l'incremento della motorizzazione hanno permesso l'insediamento di alcune grandi raffinerie. Ci sono ormai 17 raffinerie nell'A. settentrionale (tra le quali 5 in Algeria, 4 in Libia e 4 in Egitto) e una ventina a sud del Sahara (3 nel Sudafrica, 2 nell'Angola), alcune delle quali esportano i propri prodotti.
L'industria chimica è ormai ben rappresentata nella produzione di fertilizzanti che avviene in un numero crescente di paesi nel quadro di progetti di sviluppo dell'agricoltura.
L'industria meccanica si limita a qualche fabbrica di montaggio di autoveicoli e di trattori, ma non manca qualche stabilimento per la produzione di cicli e motocicli. Il Sudafrica ha avviato una propria produzione automobilistica e aeronautica e produce vari apparecchi elettromeccanici. Molti paesi hanno avviato la produzione di cemento per il loro fabbisogno, emancipandosi dalle importazioni.
La politica di sostituzione delle importazioni e di incremento delle esportazioni di prodotti lavorati non ha dato finora i risultati sperati, tanto che alcuni paesi hanno dovuto ricorrere a misure protezionistiche. Se si prescinde dal Sudafrica, emergono per il loro apparato industriale più consistente e più articolato l'Egitto, l'Algeria, il Marocco e la Nigeria; discretamente attrezzati sono pure la Tunisia, il Kenya, la Zambia e la Costa d'Avorio.
Vie di comunicazione e mezzi di trasporto. - Le infrastrutture di comunicazione e di trasporto sono state oggetto dei maggiori investimenti e hanno registrato sensibili progressi, restando tuttavia in quasi tutti i paesi molto al di sotto delle esigenze.
Nel settore marittimo, dove sempre più stridente appare l'inadeguatezza dei porti, oltre al miglioramento delle attrezzature e dei fondali sono stati costruiti nuovi porti commerciali, come S. Pedro in Costa d'Avorio, nuovi terminali per minerali, come Cansado per il ferro in Mauritania, Richards Bay per il carbone in Sudafrica, Kamsar per la bauxite in Guinea, Kpémé per i fosfati in Togo, e soprattutto nuovi terminali petroliferi. Alcuni porti hanno attivato la localizzazione di importanti zone industriali, come Tema nel Ghana, Port Harcourt e Apapa in Nigeria, Matadi nello Zaire.
Il movimento commerciale marittimo fa capo a un gran numero di porti, di cui pochi però hanno un retroterra internazionale, ed è costituito per circa tre quarti da imbarchi, grazie soprattutto alla cospicua esportazione del petrolio e di altri minerali.
I porti che hanno il maggiore movimento sono alcuni scali petroliferi, che non di rado superano i 10 milioni di t, con alla testa Bonny in Nigeria, Sidra in Libia, Arzew in Algeria, e vari scali mineralieri, come Buchanan per il ferro in Liberia, Port Gentil in Gabon, Pointe-Noire in Congo, Cabinda in Angola, Richards Bay in Sudafrica. Massimi porti commerciali sono Dar el-Beida in Marocco (Casablanca), Alessandria d'Egitto, Durban e Saldanha Bay (presso Città del Capo) in Sudafrica. Alcuni porti servono vasti retroterra internazionali, come Dakar (Senegal), Abidjan (Costa d'Avorio), Accra (Ghana), Lobito (Angola), Maputo e Beira (Mozambico), Mombasa (Kenya).
Se si prescinde dalla Liberia, che grazie alla sua bandiera di comodo detiene il primato mondiale, le marine mercantili africane sono poco consistenti e i traffici marittimi sono affidati in larga misura a bandiere esterne. Si segnalano per la loro flotta, prevalentemente cisterniera, l'Algeria, la Libia e l'Egitto; consistenti sono anche le flotte del Sudafrica e della Nigeria.
La riapertura del Canale di Suez (giugno 1975) ha riportato sulla rotta del Mar Rosso un vivace movimento marittimo (17.541 navi per una stazza di 347 milioni di t nel 1987, con 257 milioni di t di merci transitate). A seguito dei lavori di approfondimento, dal 1982 possono transitare a pieno carico navi fino a 150.000 t di stazza. Dal 1977 l'itinerario del Canale è seguito anche da un oleodotto (SUMED) di 320 km, da Suez ad Alessandria.
Nel settore delle comunicazioni terrestri è proseguito lo sforzo per il miglioramento, il prolungamento e la costruzione ex novo di vie di penetrazione verso l'interno e per l'inserimento di vari tronchi, ereditati dalle amministrazioni coloniali, in sistemi nazionali, regionali o continentali.
La rete stradale africana è apparentemente molto estesa ma solo metà delle strade è percorribile in tutte le stagioni dell'anno. Dopo il completamento della Transahariana (da Algeri per Tamanrasset a Niamey, a Zinder), sono in corso di progettazione e di realizzazione altre ambiziose infrastrutture, quali la Transafricana da Lagos a Mombasa, la Transudanese da Dakar a N'Djamena, le strade costiere da Il Cairo a Nouakchott e da Nouakchott a Lagos, le Transafricane Tripoli-Windhoek e Il Cairo-Gaborone.
Il parco autoveicoli è in continuo aumento, essendo passato dai 6,5 milioni del 1974 agli 11,5 milioni del 1984 (1 ogni 43 ab.), di cui oltre un terzo appartiene però al Sudafrica (1 ogni 8 ab.). A fronte di pochi paesi con indici più elevati, quali la Libia (1 ogni 5 ab.) e alcuni microstati, in realtà la maggioranza dei paesi africani non è ancora entrata nella civiltà dell'auto privata: laddove esistono, gli autoveicoli sono, infatti, per lo più commerciali o di stato.
La rete ferroviaria ha raggiunto gli 88.000 km (7% della rete mondiale), ma anche in questo caso si concentra nel Sudafrica (24%) e nell'A. settentrionale (20%). Fra le opere più notevoli degli ultimi anni si segnalano l'apertura nel 1974 della Transcamerunese (654 km da Douala a Sahr), nel 1975 della Tazara (Tanzania-Zambia Railway, 1850 km da Dār es-Salām a Kapiri Mposhi) e più recentemente della Transgabonese (950 km da Libreville a Franceville) e nello Zaire della Kinshasa-Ilebo. Nel 1974 la Rhodesia (poi Zimbabwe) per rompere l'isolamento in cui si trovava si allacciò attraverso il Botswana alla rete sudafricana.
I progressi più vistosi sono stati realizzati nel settore delle comunicazioni aeree, che sono spesso le uniche vie possibili in aree di difficile accesso. In tutti i paesi sono stati potenziati e moltiplicati gli aeroporti e si sono intensificati i trasporti di passeggeri e merci, sulle rotte sia internazionali che interne. Nonostante la proliferazione delle compagnie nazionali, gran parte dei servizi internazionali, specie quelli intercontinentali, sono gestiti da compagnie straniere. Dopo lo scioglimento nel 1977 dell'East Africa Airways, l'unica compagnia interafricana è oggi l'Air Afrique, di cui fanno parte 9 paesi francofoni, con sede ad Abidjan.
Commercio e turismo. - Con la graduale scomparsa dell'agricoltura di sussistenza e l'irrobustimento dei flussi monetari, anche in A. il commercio interno sta sviluppandosi seppur condizionato dal basso potere d'acquisto delle masse rurali. Il commercio all'ingrosso è proiettato prevalentemente verso l'esterno, poiché tende a vendere prodotti d'importazione e a incettare prodotti per l'esportazione, spesso in stretto collegamento con le società straniere. I grandi commercianti, come pure i dettaglianti degli articoli di maggior pregio, continuano a essere in gran numero europei, levantini o indopachistani, a seconda del paese. I mercati all'aperto, su cui si fonda ancora il commercio al dettaglio, tendono a trasformarsi in mercati coperti e, con lo sviluppo delle comunicazioni, ad allargare il loro raggio di attrazione.
Come nel passato, il commercio estero svolge un ruolo trainante per quasi tutte le economie, in quanto è dalle esportazioni di materie prime e prodotti tropicali che dipende sostanzialmente la possibilità di approvvigionamento sul mercato internazionale. Esso continua perciò a condizionare le politiche di sviluppo di quasi tutti i paesi africani. Molte cose stanno tuttavia cambiando, in un quadro assai differenziato di tendenze evolutive che rispecchiano i diversi orientamenti ideologici e le diverse strategie economiche adottate da ciascun paese. L'instabilità politica e le vicende internazionali si riflettono in brusche variazioni quantitative e qualitative delle voci merceologiche e delle stesse aree di provenienza e di destinazione delle merci.
Nell'ultimo decennio tutti gli stati africani hanno accusato gli effetti della crisi energetica e della recessione economica dei paesi industriali, che hanno ridotto la domanda di materie prime e di derrate tropicali. Iniziano comunque a farsi sentire i primi benefici di alcune unioni doganali ed economiche regionali (CEDEAO, CEEAC, ecc.), come pure dei meccanismi di stabilizzazione del commercio estero messi in opera dalla Convenzione di Lomé a partire dal 1975 (Stabex, Sysmin) per i paesi dell'A. Nera. Grazie alle esportazioni di petrolio e di materie prime, il tasso di copertura delle importazioni è complessivamente positivo, ma molti paesi accusano ancora forti disavanzi nella bilancia commerciale (Burkina, Gambia e Benin non riescono per es. a coprire neanche un terzo delle importazioni). Le bilance commerciali dei paesi africani presentano peraltro andamenti molto incostanti che costringono i governi a ricorrere a forti indebitamenti per pareggiare la bilancia valutaria. La composizione merceologica delle esportazioni rivela ancora carattere mono od oligostrutturale, dipendendo, come si è visto, da uno o pochi prodotti.
I rapporti con l'Europa, dominati dalla CEE, sono diminuiti d'intensità a causa della minore presenza, nelle loro rispettive ex colonie, della Francia, del Regno Unito e del Belgio, non sempre compensati dall'incremento degli scambi con la Germania Federale, l'Italia e i Paesi Bassi. Grandi progressi hanno fatto gli scambi con il Giappone e gli Stati Uniti, mentre sono ancora modesti quelli con l'Unione Sovietica, la Cina e i paesi del Blocco orientale.
Le risorse turistiche africane, pur vaste, sono assai eterogeneamente valorizzate e sono condizionate dalle vicende politiche. Il movimento turistico è molto attivo nei paesi mediterranei, specie in Egitto, Tunisia e Marocco. Nell'A. Nera il paese di gran lunga preferito è il Sudafrica, seguito dal Kenya e dallo Zimbabwe, che hanno ereditato dalle amministrazioni bianche cospicue attrezzature ricettive. In espansione appaiono anche alcuni paesi di maggiore stabilità politica ed economica, come il Senegal e la Costa d'Avorio. Sul turismo si fonda l'economia delle Seicelle. L'incremento dei flussi turistici, che dal punto di vista monetario offrono un decisivo supporto alla bilancia dei pagamenti di alcuni paesi, comportano tuttavia anche l'introduzione di modelli culturali estranei e un conseguente declino di molti valori tradizionali delle società africane.
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Storia. − Avviata nel secondo dopoguerra, approdata a una svolta nel 1960 (noto appunto come l''anno dell'Africa'), la decolonizzazione si è pressoché conclusa alla fine degli anni Settanta. La politica africana, di conseguenza, si è spostata dalla prospettiva della lotta anticoloniale per concentrarsi sugli assetti interni, pur nell'ambito dell'interdipendenza che è il prodotto del colonialismo. Anche in sede storiografica si tende a dare maggiore rilievo alla dialettica fra le forze che animano le varie società e che l'unità obbligata del periodo di affermazione del nazionalismo aveva temporaneamente occultato o compresso. Per effetto della decolonizzazione, si sono formati stati deboli e vulnerabili, la cui stabilità è resa incerta dalle frontiere controverse, dalla mancanza di una chiara coscienza nazionale e dal carattere provvisorio delle istituzioni inaugurate al momento dell'indipendenza. La tendenza prevalente è all'autoritarismo: i cambi di governo sono scanditi dall'uso della violenza. Con poche eccezioni, il livello di sviluppo economico è basso. Le stesse classi dirigenti, alle quali si deve la direzione del movimento di emancipazione, restano largamente dipendenti in termini politici, economici e persino psicologici o culturali.
I limiti dell'indipendenza africana sono apparsi con maggiore evidenza perché l'ultima fase della decolonizzazione, la cosiddetta 'seconda decolonizzazione', sembrava aver fatto tesoro dell'esperienza precedente puntando a un'indipendenza che non si fermasse alle soglie della sovranità ma cercasse di trasformare in profondità le strutture sociali. Questo era soprattutto il programma dei movimenti di liberazione delle colonie portoghesi, pervenute all'indipendenza fra il 1974 e il 1975 dopo la caduta del regime autoritario a Lisbona, e in genere dei paesi dell'A. australe, la regione rimasta fuori dalla decolonizzazione degli anni Sessanta. Gli stati che si sono costituiti in Angola e Mozambico hanno faticato a tradurre in pratica i principi di cui i partiti-eserciti di liberazione erano portatori. Alle difficoltà di ordine politico ed economico si sono aggiunti gli effetti della guerra scatenata da formazioni spalleggiate dal Sudafrica, interessato, per tutelare la sua saldezza di ultimo baluardo del 'potere bianco', a impedire la stabilizzazione e il successo degli esperimenti ispirati alla rivoluzione africana. Nel clima della 'seconda decolonizzazione', in compenso, un'ondata di radicalizzazione ha investito tutto il continente. In alcuni paesi i militari − già protagonisti negli anni precedenti di una serie di colpi di stato contro i governi civili formatisi con l'indipendenza − hanno sposato la causa del socialismo e della rivoluzione (Etiopia, Congo, Madagascar, ecc.). Rispetto allo schema, ideologicamente più indeterminato, del 'socialismo africano' degli anni Sessanta, il riferimento, ufficialmente, è diventato il socialismo nella versione marxista-leninista. Le potenzialità dell'opzione socialista, peraltro, nelle condizioni di arretratezza, anche sociale, d'instabilità e di dipendenza in cui versano gli stati africani, erano più politiche che economiche, e il progressivo disimpegno dell'Unione Sovietica nella seconda metà degli anni Ottanta ha ulteriormente ridotto le possibilità di riuscita.
Una specie di coronamento della decolonizzazione può essere considerata l'indipendenza di Zimbabwe (Rhodesia). La lunga guerra di liberazione portò a una trattativa sotto l'egida dell'ex potenza coloniale, la Gran Bretagna, che riassunse i pieni poteri in modo da accompagnare il territorio all'indipendenza sotto un governo che fosse espressione della maggioranza della popolazione (1980). I bianchi, che avevano cercato di monopolizzare il potere sull'esempio del vicino Sudafrica, dovettero accontentarsi di un ruolo minoritario. È arrivata all'indipendenza anche la Namibia (1990), che il Sudafrica trattava alla stregua di una colonia. A parte il caso anomalo del Sudafrica (che formalmente è uno stato indipendente ma in cui la maggioranza africana è vittima di una politica di discriminazione e segregazione razziale che configura una negazione di diritti a livello di nazionalità), non ci sono più in A. situazioni coloniali in senso proprio. Restano però le istanze dei popoli a cui la decolonizzazione non ha concesso sbocchi.
L'autodeterminazione in A. è stata concepita e attuata stato per stato. Il nazionalismo africano, malgrado l'influenza che a suo tempo ebbero ideologie universalizzanti come il panafricanismo e la negritudine, si è assestato sulla base dello spazio territoriale − spesso artificioso − stabilito dal colonialismo. Temendo una corsa generale verso una seconda spartizione, i governi africani − e per essi l'Organizzazione dell'Unità Africana (OUA) − hanno rinunciato a cercare soluzioni più rispondenti ai caratteri storici, etnici e culturali. Si spiega così la scarsa udienza che ha avuto in A. la lotta di liberazione dell'Eritrea, ritenuta parte di uno stato indipendente (l'Etiopia). L'OUA si è sempre opposta alle guerre di secessione (Katanga, Biafra) e ai tentativi più o meno violenti di rimodellare la mappa geopolitica del continente in vista di una maggiore coincidenza fra statualità e nazionalità (per es., la rivendicazione della Somalia di riunire i territori abitati da somali). L'OUA ha invece riconosciuto il diritto alla sua individualità dell'ex Sahara Spagnolo, che nel 1976 si è autoproclamato Repubblica Araba Democratica Saharawi (RADS): nel 1982 la RADS è stata ammessa come 51° membro dell'Organizzazione, benché essa non eserciti effettivamente poteri sovrani; per reazione il Marocco, che ha annesso il Sahara Occidentale quando la Spagna l'ha lasciato, si è ritirato dall'OUA. L'OUA si è adoperata per evitare conflitti interafricani e comunque per gestire in ambito africano le crisi del continente scongiurando interventi esterni.
Con l'affermazione degli stati nazionali, tuttavia, anche in A. sono aumentate le occasioni di rivalità e di scontro fra i poli che nutrono ambizioni di egemonia o di espansione (Sudafrica, Nigeria, Libia, ecc.). Una causa continua di tensione è stata la politica − e l'esistenza stessa − del Sudafrica, che contraddice con il suo razzismo istituzionalizzato a difesa dei bianchi gl'ideali dell'indipendenza africana. Il governo sudafricano ha alternato le aggressioni o le manovre destabilizzanti nella sua 'periferia' ad aperture distensive nei confronti degli stati, detti 'del fronte', che circondano il territorio dello stato razzista. Un accordo di buon vicinato fu firmato dal Sudafrica con il Mozambico nel 1984. Con l'Angola, nel cui territorio le truppe sudafricane sono ripetutamente entrate dopo il 1975 e dove dall'indipendenza si trovano truppe cubane a sostegno del governo del Movimento Popolare di Liberazione dell'Angola (MPLA), un accordo mirato alla cessazione di ogni ostilità, all'indipendenza della Namibia e al ritiro delle truppe cubane è stato concluso nel 1988 con la mediazione degli Stati Uniti.
Altri conflitti, già ricordati, riguardano le rivendicazioni delle nazioni o subnazioni in lotta contro o entro stati africani (Eritrea, Sahara). Un focolaio pressoché permanente di guerra è stato il Corno d'Africa, dove la rivoluzione in Etiopia (1974), invece di risolvere i problemi nazionali che avevano tormentato l'impero di Hāyla Sellāsē, ha finito per creare una situazione di effervescenza e di aspettativa in cui si sono inserite anche le richieste delle popolazioni scontente della loro condizione. Oltre all'intensificazione della guerriglia in Eritrea, in corso senza interruzioni dal 1962, una vera e propria guerra si sviluppò in Ogaden (1977-78) con l'invasione del territorio etiopico, nominalmente al fianco degl'irredentisti, da parte dell'esercito regolare dello stato somalo. Le grandi potenze furono sollecitate a intervenire dagli attori locali con uno spettacolare rovesciamento delle alleanze: la Somalia fu abbandonata dall'URSS e si avvicinò agli Stati Uniti, che incoraggiarono l'iniziativa somala salvo ritrarsi davanti alle dimensioni dell'aggressione e all'evidente contrarietà dell'A. nel suo complesso; l'Etiopia ruppe con gli Stati Uniti, a cui la legava un trattato di cooperazione militare che risaliva al 1953, e fu assistita in modo massiccio dall'Unione Sovietica e da Cuba, che fra la fine del 1977 e l'inizio del 1978 inviò fino a 30.000 soldati consentendo alle forze armate di Addìs Abebà di respingere l'offensiva somala e recuperare il pieno controllo dell'Ogaden.
Interventi incrociati hanno caratterizzato anche il conflitto nel Ciad: iniziato come una guerra civile, il conflitto ha visto nel 1983 l'intervento di un corpo di spedizione francese in soccorso del governo centrale e contro l'appoggio offerto dalla Libia alle forze dell'ex presidente Goukouni Oueddei. Nel 1987 l'esercito ciadiano ebbe ragione degli oppositori e della Libia avviando un processo di riconciliazione a livello interno e internazionale. Un breve conflitto è scoppiato nel dicembre 1985 fra Burkina Faso e Mali per il possesso di una fascia di territorio sul confine.
L'A. sarebbe tenuta − addirittura a norma della Carta dell'Organizzazione dell'Unità Africana − al non allineamento. Ancora nel 1986 la massima assise del movimento, la Conferenza dei capi di stato e di governo, si è tenuta in una città africana, a Harare, capitale di Zimbabwe. Più di altri continenti l'A. ha preservato la sua autonomia sul piano degli obblighi della guerra fredda. Ciò nonostante, molti stati hanno mantenuto e mantengono rapporti anche di tipo militare con le ex potenze coloniali, le grandi potenze hanno avuto in uso basi e ci sono stati numerosi interventi armati. Proprio nel periodo in cui l'A. ha riaffermato i propri diritti con il completamento della decolonizzazione, le interferenze delle superpotenze si sono moltiplicate: in Angola, in Etiopia, in Ciad, ecc. Il non allineamento non si è rivelato una clausola di salvaguardia sufficiente. D'altra parte, l'unanime condanna della politica di apartheid non ha impedito prima l'egemonia regionale del Sudafrica attraverso i suoi alleati e poi, fra il 1984 e il 1988, un patteggiamento che ha in qualche modo normalizzato le relazioni con il Sudafrica.
Anche per mettere a frutto le istituzioni della cooperazione inter africana e affrontare quello che rimane il problema più grave del continente − il sottosviluppo − l'OUA ha approvato nel 1980 a Lagos un Piano d'azione per lo sviluppo economico dell'A. da valere per il periodo compreso tra il 1980 e il 2000. Esso si basa sulle linee complementari di uno sviluppo insieme autosufficiente e collettivo, che stimoli la domanda interna e privilegi i fattori endogeni dello sviluppo. Il Piano si limita ovviamente a indicare degli obiettivi e a formulare delle raccomandazioni, perché sono i singoli governi che hanno la responsabilità ultima. Premessa principale e irrinunciabile è il raggiungimento di un livello di produzione alimentare sufficiente a sfamare tutti gli africani, mentre in tema industriale si fissa l'obiettivo dell'1,4% della produzione industriale del mondo entro il 1990 e del 2% entro il 2000. Uno degli strumenti proposti è la cooperazione partendo da accordi fra paesi confinanti o gravitanti nella stessa regione, con il traguardo della formazione di un Mercato comune africano e finalmente di una Comunità economica africana per la fine del secolo. Anche senza inseguire un'inverosimile autarchia, la logica era di 'slegare' le economie delle nazioni africane dall'eccessiva dipendenza dal mercato mondiale per ritrovare un maggiore equilibrio.
L'A. nel contempo è sotto la pressione degli organismi finanziari internazionali, che subordinano i programmi di aiuto a un aggiustamento economico nella direzione opposta: smantellamento dei settori statali non produttivi, cambi delle monete più realistici, riduzione delle spese sociali, ecc. Per tentare una sintesi dei due approcci − in una combinazione di riforme interne e di un supplemento pur condizionale di aiuto dall'esterno − nel maggio 1986 l'ONU ha dedicato alla crisi dello sviluppo dell'A. una sessione speciale dell'Assemblea generale. Gli stati africani si sono impegnati a risanare le proprie economie in cambio di un rinnovato sforzo dei paesi donatori. Analoghi propositi sono nello Schema africano alternativo elaborato dalla Commissione economica per l'A. dell'ONU nel 1988 e adottato dai governi africani il 10 aprile 1989. Ma finora i risultati sono stati scarsi. Colpita di continuo da carestie disastrose (periodi di siccità si sono verificati nel Sahel fra il 1968 e il 1973 e poi ancora dopo il 1984; così anche in Etiopia in periodi quasi identici, mentre negli anni Ottanta l'emergenza ha investito tutta l'A. australe e il Mozambico in particolare), con un debito estero valutato nel 1989 in 150-200 miliardi di dollari, con un tasso d'incremento demografico che sfiora il 3% annuo e una crescita del PIL di appena lo 0,4% all'anno, l'A. non sembra in grado di tenere il passo con la crescita anche degli altri continenti del sottosviluppo. I paesi a rischio alimentare selezionati dalla FAO sono 34 sui 50 membri effettivi dell'OUA. Neppure la cooperazione internazionale basta a sopperire alle carenze di fondo. Tutti i paesi africani sono associati alla CEE entro lo schema della Convenzione di Lomé. Anche l'Italia ha scelto l'A. come terreno privilegiato della sua politica di cooperazione, con una preferenza per la Somalia e l'Etiopia, in virtù dei rapporti storici e culturali.
Bibl.: R. H. Jackson, C. G. Rosberg, Personal rule in Black Africa: prince, autocrat, tyrant, Berkeley 1982; C. Young, Ideology and development in Africa, New Haven 1982; African independence. The first twenty-five years, a cura di G. M. Carter, P. O'Meara, Bloomington 1985; J. D. Fage, Storia dell'Africa, Torino 1985; P. Anyang Nyongo, Popular struggle for democracy in Africa, Londra 1987; R. Austen, African economic history: international development and external dependency, ivi 1987; G. Calchi Novati, L'Africa, Roma 1987; B. Davidson, L'Africa nel mondo contemporaneo, Torino 1987; Stato e potere in Africa, in Politica Internazionale, 2-3, 1987; L'Afrique: incertitudes et espoir, in Politique étrangère, 3, 1988; A. T. Hazoumé, E. G. Hazoumé, Afrique, un avenir en sursis, Parigi 1988; J. Ngandjeu, L'Afrique contre son indépendance économique?, ivi 1988; Politics and society in contemporary Africa, Londra 1988; Decolonization and African independence: the transfers of power, 1960-1980, a cura di P. Gifford, W. R. Louis, New Haven 1988; J. D. Hargreaves, Decolonization in Africa, Londra 1988.
Lingue. − Il crescente interesse per l'A. ha fatto sì che negli ultimi anni siano molto aumentati i dati disponibili su molte delle sue lingue, sulla loro storia, e sulle letterature tradizionali e moderne che in esse si esprimono.
Risulta fino a ora confermata, almeno nelle sue grandi linee, la suddivisione delle più di mille lingue parlate in A. nelle cinque grandi famiglie già individuate nei lavori di J.H. Greenberg: 1) il niger-kordofaniano, diviso in varie sottofamiglie diffuse lungo la costa occidentale e, con le lingue bantu, in tutto il cono centro-meridionale dell'A.; 2) l'afroasiatico, diviso anch'esso in più sottofamiglie lungo la fascia settentrionale e orientale del continente, di cui fanno parte alcune delle lingue più parlate in A.; 3) il nilo-sahariano, incuneato tra le prime due lungo un arco che va dal Mali alla Tanzania, che comprende oggi solo poche lingue con un numero rilevante di parlanti; 4) il khoisan, costituito essenzialmente dalle lingue dei Boscimani e degli Ottentotti, parlate in tutto da non più di 200.000 persone (stima 1980) nell'estremo Sud dell'A.; 5) l'austronesiano, rappresentato in A. dal solo malgascio giunto in Madagascar forse già nel 4° secolo d. C. dal lontanissimo arcipelago indonesiano.
In alcune regioni come la Nigeria orientale e il Camerun, o l'Etiopia sud-occidentale il numero di lingue diverse sale vertiginosamente, mentre altrove anche territori vastissimi come l'A. settentrionale arabofona e cospicue porzioni dell'area bantu sono in realtà dei continuum di dialetti senza fratture rilevanti. Il multilinguismo è però la media, al punto che più del 50% della popolazione dell'A. subsahariana è almeno bilingue e possiede repertori linguistici spesso complessi. Tra di essi il più diffuso comprende almeno tre livelli: a) una varietà locale usata, p. es., all'interno della famiglia, e che è la più soggetta a estinguersi con lo sviluppo dell'urbanizzazione; b) una varietà di maggiore circolazione usata nel quartiere o, in zone rurali, nel villaggio; c) una lingua veicolare per parlare nei mercati, al lavoro o, comunque, in un ambito più vasto, la quale si è di solito diffusa inizialmente attraverso canali quali il commercio, le forze armate o la religione. Facilmente vi si aggiunge d) una quarta lingua che può essere quella usata nell'amministrazione, nella scuola, nei tribunali, ecc. Per quest'ultimo livello solo cinque paesi multilingui dell'A. subsahariana hanno scelto come lingua ufficiale una di quelle locali (politica di endoglossia), mentre gli altri hanno mantenuto anche dopo l'indipendenza l'uso della vecchia lingua coloniale (politica di esoglossia).
In numerose lingue dell'A. vi sono letterature tradizionali molto ricche, che spesso hanno già portato alla formazione di vere e proprie lingue letterarie rimaste però legate a usi solo orali. La loro fissazione scritta è accompagnata da problemi cospicui, aggravati dalle difficoltà economiche e politiche che attanagliano molti paesi africani e che ostacolano la produzione dei dizionari e dei materiali stampati indispensabili per diffonderne l'uso scritto e la forte standardizzazione che le società moderne richiedono. La stessa scelta di un sistema di scrittura può diventare spinosissima, come in Etiopia quella tra scrittura amarica, voluta dal governo centrale, e scrittura latina adottata da vari movimenti indipendentistici (oromo, afar e sidamo). In diverse zone dell'A. occidentale sono stati proposti sistemi unitari di trascrizione per più lingue quali l'alfabeto africano dell'International African Institute o le sue modificazioni, ma non sono pochi i casi in cui alla possibilità di usare un sistema unitario è stato preferito un sistema diverso per sottolineare la propria diversità e autonomia etnica.
L'assenza di fonti storiche scritte per parti cospicue dell'A. fa sì che dati come la distribuzione delle 'isole' di lingue minoritarie e i flussi di prestiti linguistici possano fornire indicazioni altrimenti insostituibili sulla storia di intere regioni. Per questo negli ultimi anni è molto aumentato l'interesse per le varietà parlate da gruppi marginali e di scarsissima consistenza numerica (p. es., i cacciatori-raccoglitori dell'A. orientale) che, oltre ormai a essere spesso minacciate di estinzione sono in molti casi gli ultimi residui di lingue e gruppi linguistici in passato molto più diffusi.
Bibl.: Manuali di linguistica africana: Die Sprachen Afrikas, a cura di B. Heine, Th. C. Schadeberg, E. Wolff, Amburgo 1981; Lexicon der Afrikanistik, a cura di H. Jungraithmayr, W. J.G. Möhlig, Berlino 1983. Sulla classificazione: J.H. Greenberg, The languages of Africa, Bloomington 1963. Si vedano inoltre le riviste Afrikanistische Arbeitspapiere dell'Istituto di Africanistica di Colonia; Journal of African languages and linguistics (Dordrecht); Afrika und Übersee (Berlino) e Sprache und Geschichte in Afrika (Amburgo).
Letteratura. - Letteratura anglofona dell'Africa occidentale e orientale. - I primi scritti di autori africani in lingua inglese risalgono alla fine del Settecento, ma solo intorno alla seconda metà del Novecento si verifica il passaggio repentino da una letteratura imitativa o fortemente influenzata dai modelli europei a forme di espressione originali e di tale livello artistico da imporsi all'attenzione della critica, dell'editoria e del pubblico internazionale. Il conferimento del premio Nobel al nigeriano W. Soyinka nel 1986 ha assunto, come ha affermato lo stesso scrittore, il valore simbolico del riconoscimento dell'importanza dell'intera letteratura africana, del resto già sancita dalla corposa bibliografia (gli studi su autori quali Soyinka e C. Achebe superano il migliaio), dal numero di traduzioni in altre lingue e dalla sua presenza nei programmi delle università e delle scuole di gran parte del mondo.
La letteratura afroinglese segue sviluppi e itinerari linguistici e artistici peculiari nelle diverse zone dell'A. in relazione alle differenze di carattere storico, linguistico e geografico e al tipo di interazione o di conflitto tra le culture autoctone e quella dei colonizzatori. Nell'A. occidentale, dove la penetrazione inglese non è stata accompagnata da consistenti movimenti migratori, non si sono, per esempio, generati i sentimenti di rigetto linguistico e culturale assai diffusi invece nell'A. orientale, dove gli Inglesi, dovendo difendere interessi e privilegi di un gran numero di immigrati, sono stati riluttanti a concedere l'autonomia politica ed economica. Ancora diverso è il caso del Sudafrica (v. sudafricana, Repubblica, in questa Appendice), dove i bianchi detengono il potere assoluto e la letteratura è contrassegnata dalla questione cruciale della segregazione razziale.
Nell'A. occidentale gli sviluppi più interessanti si sono avuti in Nigeria e Ghana, ma anche Gambia, Sierra Leone e Liberia mostrano notevoli potenzialità. In Nigeria, a partire dal 1940, si hanno i primi importanti segni di una fioritura letteraria con la produzione di opere di carattere popolare scritte in un inglese disinvolto e colorito, note col nome di Onitsha chapbooks, dal mercato ibo in cui venivano vendute.
Alcune di queste opere raggiungono tirature così elevate da catalizzare l'interesse anche di scrittori di talento come il prolifico e versatile C. Ekwensi, che debutta nel mondo delle lettere con una novella intitolata When love whispers (1947) per poi affermarsi come uno dei più attenti cronisti dei rapidi e traumatici cambiamenti della società nigeriana con People of the City (1954), Jagua Nana (1961) e numerosi altri romanzi. Sono gli anni in cui uno degli scrittori più interessanti e controversi, A. Tutuola, si accinge a far rivivere il genio narrativo africano in quell'idioma personale e fortemente espressivo (Yoruba-English, come lo definisce in una intervista a M. Cappuzzo e G. G. Castorina, Ibadan, gennaio 1989), che dovette lasciare quantomeno perplessi non pochi puristi, se il romanzo The wild hunter in the bush of the ghosts, presentato a un editore londinese nel 1948, non fu preso in considerazione, ed è stato riscoperto e pubblicato solo nel 1982. È di questo geniale scrittore il primo romanzo africano che si impone all'attenzione del mondo, The palm-wine drinkard, and his dead palm-wine tapster in the deads' town (1952; trad. it., 1961): racconto che attinge alle straordinarie risorse della tradizione orale e del folklore yoruba in cui il protagonista, il bevitore del vino di palma, si reca nel regno della morte alla ricerca del suo spillatore. L'istituzione di collegi universitari a Ibadan e Accra, nel 1948, segna una svolta nella letteratura, che a partire dagli anni Cinquanta avrà come centri di propulsione le università che sorgeranno via via in tutto il continente, diventando vivaio di giovani intellettuali incoraggiati dal nascere di periodici, centri culturali e iniziative editoriali. Rappresentante insigne degli scrittori non più formati esclusivamente nelle università euroamericane è C. Achebe, laureatosi a Ibadan nel 1953. I suoi primi romanzi, Things fall apart (1958) e No longer at ease (1960), presentano la disintegrazione della cultura di un villaggio ibo nell'impatto con i colonizzatori e il disagio che ne consegue, ed esprimono l'ideologia che permea tutta la prima fase della letteratura africana anglofona: l'affermazione di un'originaria filosofia africana di grande profondità, valore e bellezza, di una poesia e di un'arte che i colonizzatori si rivelano incapaci di comprendere.
Negli anni immediatamente successivi all'indipendenza l'attenzione degli scrittori si sposta in modo sempre più deciso dalla denuncia dei mali del colonialismo verso le potenzialità tragiche insite nella stessa natura delle istituzioni che definiscono la tipica comunità africana. Esempi significativi di questa nuova tendenza sono Arrow of God (1964) di Achebe, che mette sotto accusa il cattivo uso del potere, e One man, one matchet (1964) di T. M. Aluko, in cui l'impegno di un leader africano è vanificato da un demagogo locale e dall'inefficienza dei suoi funzionari. L'intellettuale avverte in modo sempre più pressante come suo compito quello di denunciare che non si è raggiunta un'indipendenza reale in quanto il governo è passato a una classe di africani che, in cambio di privilegi, garantisce l'egemonia delle potenze euroamericane. È questo un motivo dominante di molti romanzi degli anni Sessanta, da The interpreters (1965; trad. it., 1979) di Soyinka, in cui dalle vicende di sei intellettuali africani emergono episodi di corruzione, arrivismo, bassezza morale e soprattutto l'inadeguatezza della classe dirigente nigeriana, a A Man of the people (1966; trad. it., 1978) di Achebe, che riflette con amarezza sul malgoverno, la facilità con cui l'opinione pubblica viene manipolata, i contrasti tra opulenza e indigenza in una megalopoli come Lagos alla vigilia del colpo di stato militare del 1966. I problemi dell'uomo comune, la crisi dei valori tradizionali trovano espressione in The voice (1964; trad. it., 1987) di G. Okara, The concubine (1966) di E. Amadi, Efuru (1966) di F. Nwapa, che tocca con grande sensibilità il tema della fertilità come misura del successo e del valore della persona in una comunità africana tradizionale.
Gli scrittori degli altri paesi dell'A. occidentale trattano prevalentemente i problemi legati alla difficoltà di comprendere e di adattarsi ai valori di una società in rapido cambiamento, al dualismo culturale e ai conflitti generazionali.
A questo riguardo vanno citati The African (1960) e The second round (1965), rispettivamente di W. Conton e L. Peters, entrambi gambiani, e The Gab boys (1967) del ghanese C. Doudu. Il realismo sociale trova vigorosa espressione con The beautyful ones are not yet born (1968), di A. K. Armah, inquietante studio delle vicende di un uomo comune nella terra moralmente desolata e fisicamente degradata della moderna Accra; il titolo, che riprende uno slogan ortograficamente scorretto dal retro di un autobus, lascia aperta una speranza per il futuro.
Nell'A. orientale la letteratura in lingua inglese si sviluppa qualche anno più tardi che in A. occidentale, dopo che Tanzania, Uganda e Kenya hanno raggiunto l'indipendenza.
Il primo grande romanzo estafricano è Weep not child (1964) del kenyano Ngugi Wa Thiong'o, che presenta il tema della lotta di liberazione dei Mau Mau da un punto di vista africano. Insieme a The river between, pubblicato nel 1965 ma scritto molto prima, e A grain of wheat (1967; trad. it., 1978), mette a fuoco, con una tecnica narrativa sempre più matura, i contrasti religiosi, sociali e razziali che permangono dopo l'indipendenza e il difficile cammino verso una società giusta e libera. Return to the shadows (1969) dell'ugandese R. Serumaga è permeato da un profondo pessimismo per il futuro dell'Africa. Il romanzo tanzano degli anni Sessanta è rappresentato da Dying in the sun (1968) di P. Palangyo, che s'impernia sul travagliato rapporto di un figlio con il padre morente in un'arida zona interna della Tanzania, e da Village in uhuru (1969) di G. Ruhumbika sui problemi dei mutamenti sociali legati all'indipendenza (uhuru) e sulla difficoltà di costruire una nuova nazione.
La letteratura anglofona del Malawi annovera tra i romanzi più significativi No easy task (1966) di A. Kachingwe, imperniato sui drammatici avvenimenti che precedono l'indipendenza di una colonia britannica, e Jingala (1969) di L. Kayira, sul conflitto di aspirazioni e speranze tra genitori e figli. On trial for my country (1966) dello zimbabwano S. Samkange è un interessante romanzo sulla penetrazione europea nell'A. meridionale, che, utilizzando documenti storici, mette sotto accusa i metodi e le presunte giustificazioni del colonialismo. Nella narrativa zambiana si segnalano No bride price (1967) di D. Rubadiri, sul maturare in un personaggio della consapevolezza che molti problemi che affliggono l'A. moderna si ricollegano a un troppo rapido abbandono dei valori tradizionali, e A point of no return (1968) di F. Mulikita.
A partire dagli anni Settanta la nota dominante del romanzo africano è la disillusione. Il succedersi di colpi di stato militari, di guerre civili, di dittature sanguinarie, l'uccisione, l'arresto o l'esilio di non pochi scrittori spostano l'attenzione da un passato più o meno idealizzato ai problemi del presente e alla ricerca di soluzioni o di correttivi alle aberrazioni dei regimi postcoloniali.
Alcuni autori tacciono per lungo tempo, come Tutuola, che riprende a scrivere solo negli anni Ottanta, quando pubblica, tra l'altro, Pauper, brawler and slanderer (1987); come Achebe, che torna al romanzo dopo un silenzio di oltre un decennio con Anthills of the savannah (1987), dove presenta uno stato africano moderno in cui alcuni giovani sono catapultati in posti di responsabilità per i quali si rivelano inadeguati. I due anni di carcere (1967-69) e l'esilio volontario fino al 1975 segnano una svolta nella produzione di Soyinka, ma non ne intaccano la prodigiosa creatività. Oltre ai lavori teatrali, alle poesie, ai saggi, di cui si parlerà più avanti, dà alle stampe un diario di prigione, The man died (1972; trad. it., 1986), un romanzo, Season of anomy (1973; trad. it., 1981), in cui presenta un'A. desolata nella morsa di una élite priva di valori, e la bella biografia, Aké: the years of childhood (1981), in cui con delicato lirismo tratteggia gli eventi che hanno modellato il suo carattere e segnato la sua giovinezza. Tra i romanzi sulla guerra civile nigeriana meritano attenzione Sunset in Biafra (1973) di E. Amadi, e The last duty (1976) di I. Okpewho che, come il precedente Victims (1970), rappresenta l'orientamento più attuale della narrativa africana che sottace i problemi del colonialismo per concentrarsi sulla realtà politico-sociale. Una visione originale di questa realtà caratterizza i romanzi di K. Omotoso da The edifice (1971), sul matrimonio tra un africano e una bianca, la quale gradualmente perde la sua dignità accettando umiliazioni e vessazioni inaudite dal marito, a Just before dawn (1988), che presenta in modo provocatorio gli ultimi cento anni di storia nigeriana. La difficoltà di mantenersi integri in un mondo dominato dal materialismo è il tema di My Mercedes is bigger than yours (1975), e The scapegoat (1984) di N. Nwankwo, storie popolate da pìcari moderni, per i quali denaro e sesso costituiscono le aspirazioni più forti. In Eroes (1986) F. Iyayi critica la comoda filosofia liberale che, di fatto, si traduce in connivenza con il potere. B. Okri, in Flowers and shadows (1980) e in Incidents at the shrine (1986), mette a fuoco le ingiustizie sociali ed economiche di una società competitiva. The second class citizen (1974; trad. it., 1987), The brideprice (1976), The slave girl (1977), The joys of motherhood (1979) di B. Emecheta, e One is enough (1981) e Women are different (1986) di F. Nwapa, presentano una donna africana diversa dagli stereotipi e dalle idealizzazioni di molta letteratura. I traumi che l'irruento processo di modernizzazione provoca sia nelle donne sia negli uomini vengono analizzati con consapevolezza e sensibilità in The stillborn (1985) di Z. Alcali.
A partire dagli anni Settanta, anche la letteratura del Ghana è più attenta alle questioni politico-sociali. I nuovi romanzi di Armah sono venati di pessimismo più acuto: Fragments (1970) è una fervida denuncia delle insidie della società consumistica, Why are we so blest? (1972) e Two thousand seasons (1973) si soffermano sulle spoliazioni e vessazioni subite dagli africani e sulla disgregazione dei valori tradizionali per opera dei bianchi; The healers (1978), prendendo le mosse dalla distruzione dell'impero ashanti, propugna la necessità di una maggiore solidarietà tra gli africani. Importanti romanzi di denuncia sono Hurricane of dust (1988) di A. Djoleto e Search sweet country (1986) di B. Kojo Laing. Sulla condizione femminile nel periodo postcoloniale si sofferma A. A. Aidoo in Our sister Killjoy (1977), in cui impiega con successo le tecniche della tradizione orale, mescolando prosa e versi, episodi immaginari, critica sociale e riflessione politica. Nel panorama del romanzo dell'A. occidentale si distingue anche il gambiano E. Dibba con Chaff on the wind (1986), sul motivo della città che trasforma e rovina anche i migliori.
Il romanzo più significativo della recente narrativa estafricana è Petals of blood (1977; trad. it., 1979) in cui Ngugi, con una prosa tagliente e fortemente evocativa della tradizione orale, dà un vivido e acuto resoconto della realtà kenyana contemporanea e mette a fuoco la molteplicità di forme in cui i regimi postcoloniali hanno tradito gli ideali della rivoluzione e le aspettative dell'indipendenza. Il radicalismo che caratterizza il romanzo kenyano è presente anche in Voices in the dark (1970) di L. Kibera (1941-1983), Kill me quick (1973), Going down river road (1976) e The cockroach dance (1979) di M. Mwangi, lucide testimonianze dello squallore e della violenza delle metropoli africane; The other woman (1976) e The island of tears (1980) di G. Ogot, incentrati sui problemi della donna estafricana; Master and servant (1979) di D. Mulwa.
In Somalia N. Farah esplora con grande profondità psicologica il tema della dittatura nei romanzi Sweet and sour milk (1979), Sardines (1981) e Close Sesame (1983). La narrativa zimbabwana ha tra i suoi più interessanti esponenti C. Mungoshi, che in Waiting for the rain (1975) analizza le valenze politiche, culturali e psicologiche delle tensioni e delle aspirazioni di una famiglia rurale; e W. Katiyo, che in A son of the soil (1976), attraverso la storia di una famiglia, tratteggia il passaggio traumatico da una comunità tradizionale a un regime poliziesco e repressivo; e T. Dangarembga, che in Nervous condition (1988) mette a fuoco la doppia alienazione della donna africana di fronte ai modelli autoctoni e a quelli euroamericani.
Mentre il romanzo si rifà a un genere letterario spiccatamente europeo (anche se, come sostiene Achebe, poiché la sua essenza è narrativa, è riconducibile alla tradizione autoctona), la produzione drammatica ha profonde radici nel fertile suolo dell'attività teatrale, nei vernacoli e nelle lingue dell'A., e si caratterizza per l'energia, la carica simbolica di elementi non verbali, come il suono dei tamburi, la danza, il mimo, il canto. Si tratta, quindi, di un teatro che può attuarsi pienamente solo nelle rappresentazioni con attori e registi africani.
Significativamente Soyinka ha sempre palesato preoccupazione e insoddisfazione per le messe in scena euroamericane. Né possono le didascalie e le indicazioni di scena dei testi suggerire il dinamismo e la forza espressiva che costituiscono l'anima più profonda del teatro africano. È questo uno dei motivi per cui molte opere rimangono inedite o giungono alla pubblicazione molto dopo la messa in scena, come This is our chance e Jewels of the shrine di J. E. Henshau, che hanno dovuto attendere un ventennio prima di essere messe a stampa. La produzione di Soyinka, che come drammaturgo esprime le sue doti migliori, esemplifica l'evoluzione del teatro africano verso un impegno politico sempre più deciso: A dance of the forests, rappresentata nel 1960 dalla compagnia di Soyinka nel corso delle celebrazioni per l'indipendenza nigeriana, contiene in embrione l'intero universo soyinkiano: la mitologia, la cosmologia, il folklore, i riti degli yoruba, insieme alla consapevolezza dei limiti ideologici della 'negritudine'. Le opere successive rivelano più apertamente la preoccupazione per il futuro dell'A.: Kongi's harvest (1967) sottolinea la vanità del potere, Madmen and specialists (1971) è un'epitome della trasformazione degli esponenti delle élites africane in tiranni sanguinari e crudeli; Death and king's horseman (1975) prende spunto, come sottolinea Soyinka, da un episodio di incompatibilità culturale − la sensibilità 'elefantiaca' di un ufficiale distrettuale che interviene in un rituale provocando una tragedia − per mettere a fuoco un conflitto metafisico che esplode nel protagonista ma che riguarda l'intera comunità yoruba (trad. it., Teatro, 2 voll., 1979-80). L'attenzione ai problemi sociali è presente anche negli adattamenti soyinkiani, come The Bacchae of Euripides (1973) e Opera Wanyosi (1981), basato su J. Gay e B. Brecht, e assume autentici toni propagandistici a partire dagli anni Ottanta in Rice unlimited (1980), sui profitti legati alla importazione e alla distribuzione del riso, Priority projects (1983), A play of giants (1984), coraggiosissimo attacco ai dittatori africani. J. P. Clark in Song of goat (1961), The raft (1964) e Ozidi (1966) affronta temi più tradizionali.
Il teatro più recente tende a sostituire l'archetipo dell'eroe protagonista con la collettività investita di funzione rivoluzionaria. Questa tendenza è particolarmente viva nell'opera di O. Rotimi, che si caratterizza anche per l'uso intensivo del pidgin, di espressioni idiomatiche, proverbi e altri elementi della tradizione orale, tanto da costituire, come sottolinea B. Sowande (intervista con G.G. Castorina, L'Aquila, maggio 1985), un modello molto importante di sincretismo degli idiomi indigeni con quelli occidentali.
La produzione più significativa di Rotimi include: Kurunmi (1969), poderoso dramma storico; The Gods are not to blame (1971), felice adattamento del mito di Edipo; Holding talks (1979), satira sul dispendio di energie in discussioni e razionalizzazioni anche quando è necessario agire; Hopes of the living dead (1985). I travagli e le esperienze dell'uomo comune sono presentati con molto realismo dalla versatile Z. Zofola, in The disturbed peace of Christians (1971) e Old wines are tasty (1981), mentre F. Osofisan si segnala per la competenza di uomo di teatro e per la chiarezza ideologica dei suoi numerosi lavori. Tra i più giovani autori nigeriani spicca Sowande con i drammi della raccolta Farewell to Babylon (1979), con Circus for Freedom Square, rappresentato nel 1985 a L'Aquila, e Tornadoes full of dreams (1989), sulla rivoluzione francese e le sue attinenze con la storia africana.
Le tematiche dominanti del teatro del Ghana sono presenti in Sons and daughters (1964), sui conflitti generazionali, e Through a film darkly (1970), sui problemi delle relazioni interrazziali, entrambi di J. De Graft (1924-1978). In The dilemma of a ghost (1965) e Anowa (1970), A. A. Aidoo affronta il problema delle tensioni e dei conflitti della vita coniugale. Anche E. Sutherland tratta con originalità i rapporti nell'ambito familiare in Edufa (1967), Foriwa (1967), The marriage of Anansewa (1975).
Nel teatro della Sierra Leone, un autore di sicuro talento è R. S. Easmon, che in Dear parent and ogre (1964) e The new patriots (1965) denuncia la corruzione che degrada i nuovi regimi.
Nell'A. orientale la ricca produzione in lingue autoctone, soprattutto in swahili, costituisce il sostrato di una fiorente produzione teatrale in lingua inglese che sin dagli inizi degli anni Sessanta offre drammi quali The scar della kenyana R. Njau, rappresentato nel 1960 al Festival Teatrale dell'Uganda, in cui la protagonista si batte per l'emancipazione delle giovani di un villaggio rurale da vincoli e pratiche del passato. I drammi di Ngugi, più che per le loro qualità artistiche, sono importanti per la passione politica e la forza intellettuale dell'autore.
The black hermit, rappresentato nel 1962 in occasione dell'indipendenza dell'Uganda e pubblicato nel 1968, è un primo esempio della sua estetica funzionale. La sfiducia nei nuovi regimi africani si traduce in critiche sempre più caustiche e taglienti in This time tomorrow (1970), sul destino di quanti, sradicati dalla terra dal governo coloniale, rimangono ammassati nelle baraccopoli ai margini delle città nell'indifferenza del nuovo governo, e in The trial of Dedan Kimati (del 1977, scritto in collaborazione) sul mitico eroe della rivoluzione anticoloniale. I temi del conflitto culturale e generazionale, della corruzione e dell'emarginazione sono trattati efficacemente da F. Imbuga in The married bachelor (1973) e Betrayal in the City (1976), e da K. Watene in The haunting past (1973), The broken pot (1973), sull'alcolismo indotto dal disadattamento, e in My son for my freedom (1973), tragedia di un leader dei Mau Mau, il cui figlio innamorato di una cristiana si converte e viene ucciso dai rivoluzionari.
Il teatro ugandese si caratterizza per il sapiente impiego delle forme e dei materiali della tradizione; si possono citare al riguardo The elephants di R. Serumaga, sul destino di un intellettuale in un mondo di violenza politica, e The burdens (1972) di J. Ruganda.
Interessanti esperienze teatrali hanno luogo anche in A. meridionale, dove operano compagnie che si spostano di villaggio in villaggio recitando anche all'aperto, come avveniva nel teatro tradizionale. Tra le opere di maggior rilievo: The rainmaker (1975) del malawiano S. Chimonbo, e Black Mamba (1973) dello zambiano K. Kasoma.
La poesia vanta in A. un'antichissima tradizione orale, ma il fiorire della poesia in lingua inglese coincide con il nascere, a partire dal 1957, di periodici culturali e letterari come The Horn e Black Orpheus in Nigeria, Transitions in Uganda e Ghana, Okyeame in Ghana, che favoriscono gli esordi di poeti come G. Okara, Ch. Okigbo (1932-1967), J. P. Clark, P. Ndu (1940-1978), Soyinka, K. Brew, K. Awoonor, L. Peters.
Questi periodici, insieme a Zuka e Busara in Kenya, Darlite e Umma in Tanzania, Odi in Malawi, per citare i più noti, hanno contribuito notevolmente a emancipare i poeti dall'editoria straniera, interessata soprattutto al romanzo, e a dare impulso a una produzione poetica vitale e variegata nei temi e nelle forme.
I versi di Okara, tra i primi ad apparire sulle pagine di Black Orpheus, ma pubblicati in volume solo un trentennio dopo (The fisherman invocation, 1978, vincitore del prestigioso Commonwealth Prize), sono pervasi dal senso della perdita di un equilibrio culturale millenario in uno stile che si ispira al vernacolo, alle sue metafore, ai suoi ritmi e ai suoi moduli espressivi. La maggior parte dei poeti dell'A. occidentale, pur impiegando temi tradizionali, espressioni e forme linguistiche vernacolari, a volte traslate letteralmente in inglese, non respinge le influenze stilistiche europee: ciò è particolarmente evidente in Soyinka, Okigbo e nei versi, a volte un po' troppo descrittivi, di J. P. Clark.
La raccolta Labyrinths (1971), che include molte delle poesie di Okigbo, caduto durante la guerra nigeriana, è una testimonianza dell'accentuarsi dell'impegno politico che caratterizza la poesia africana dopo l'euforia dei primi momenti dell'indipendenza. Idanre and other poems (1967) è un esempio del linguaggio denso e ricco di connotazioni con cui Soyinka esplora i misteri della vita. Più programmaticamente volti all'affermazione delle caratteristiche della poesia tradizionale africana sono i ghanesi Brew, A. Okai e soprattutto Awoonor, che in Rediscovery and other poems (1964) e nelle raccolte successive trasforma i canti ewes in musicalissimi versi inglesi. I numerosi volumi di Okai contengono poesie strutturate per la recitazione ad alta voce. Influenze europee sono evidenti in Ebony dust (1963) del liberiano B. Moore e in Satellites (1967) del gambiano Peters, che usa le strutture del verso inglese nelle sue poesie sulla precarietà fisica e spirituale della vita moderna.
La letteratura estafricana degli anni Sessanta vede l'affermarsi di una grandissima figura di poeta, l'ugandese O. p'Bitek (1931-1982), il cui impegno nella valorizzazione della letteratura tradizionale africana ha come primi esiti alcune opere in luo. Una di queste, tradotta in inglese dallo stesso poeta con il titolo di Song of Lawino e pubblicata nel 1966 prima della versione originale, che aveva avuto solo circolazione locale, ha riscosso un immediato successo internazionale. Si tratta di un possente monologo drammatico, in un inglese felicemente arricchito dell'impulso creativo e degli effetti ritmici dell'originale, in cui col pretesto di ridicolizzare quel tipo di donne africane che imitano goffamente gli atteggiamenti delle donne europee e coloro che ne sono affascinati, il poeta, acuto studioso di antropologia sociale, ironizza sottilmente sui costumi della civiltà occidentale, ma anche su schemi e tabù della civiltà africana. Il successo di Song of Lawino incoraggia una fioritura di opere in lingua inglese in tutta l'A. orientale, fertilizzando quello che un altro poeta ugandese, T. Lo Liyong, aveva descritto come un deserto letterario nella poesia East Africa, O East Africa I lament thy literary barrenness (pubblicata in Transitions, 19, 1965): un giudizio che, come sottolinea lo stesso p'Bitek, teneva conto solo della poesia in inglese. Direttamente influenzato da p'Bitek, sia nelle forme sia nelle tematiche, è The orphan (1968) di O. Oculi.
La concezione mistica della poesia intrinseca nella cultura africana, la sua stessa essenza di espressione letteraria più vicina alla creatività popolare, la sua tradizionale funzione di accompagnamento quotidiano della vita dei singoli e della collettività, contribuiscono a dare alla produzione poetica orizzonti molto ampi in cui c'è spazio anche per lo sfogo lirico individuale. Ma la tendenza dominante degli anni Settanta rispecchia il realismo sociale delle altre forme letterarie. Significativa è la posizione di Soyinka, che nella raccolta A shuttle in the cript (1971) dà forma ai sentimenti di delusione, rabbia e speranza che accompagnano la sua partecipazione alla guerra civile, la sua detenzione e il suo rilascio. E parimenti emblematica è la voce ammonitrice di Achebe nella raccolta Beware soul brother (1971). Anche un poeta moderato come J. P. Clark scrive versi di grande vigore contro la corruzione e la dissoluzione della cultura tradizionale (State of the Union, 1985).
I giovani poeti nigeriani si caratterizzano per il loro impegno nella ridefinizione del ruolo e della funzione della poesia. In The poet lied (1980) e in A handle for the flutist (1986), O. Ofeimun assegna alla poesia il compito di far trionfare la verità, di annunciare una nuova era in cui non ci sia posto per dittatori, profittatori, mercenari. N. Osundare in The eye of the earth (1986) prende le mosse dalla celebrazione delle bellezze della natura e delle tradizioni rurali per stigmatizzare l'ideologia politica ed economica dominante, che mette in forse la stessa esistenza del mondo. Petals of thought di F. Fatoba, petali di pensiero che richiamano i petali di sangue del romanzo di Ngugi, condensa emozioni profonde in riflessione politica. Nel Ghana l'attenzione sociale contrassegna le raccolte Beneath the jazz and brass (1975) di De Graft, The house by the sea (1978) di Awoonor, che prende il titolo dall'antico forte sul mare di Accra, il carcere in cui il poeta era stato tenuto dal governo militare, Elegy for the revolution (1980), e Earthchild (1985) di K. Anyidoho, Someone talking to sometime (1985) di A. A. Aidoo. Katchikali (1971) del gambiano Peters, che riflette su ciò che sta accadendo dei valori tradizionali dell'A. prendendo spunto dalla dissacrazione di un luogo di culto da parte dei turisti, rappresenta un momento di transizione verso le poesie più impegnate dell'ultima sezione della raccolta Selected poetry (1981). In Sierra Leone S. Cheney-Coker si rivela osservatore caustico della realtà contemporanea in Concerto for an exile (1973) e The graveyard also has teeth (1980).
Nell'A. orientale l'impegno politico appare anche più accentuato: Song of Ocol (1970), in cui p'Bitek sferza la condiscendenza culturale del protagonista, prototipo dell'africano occidentalizzato, incarna il convincimento che se l'ideologia della negritude presenta delle incrinature, maggiormente fallace è la fede nella whitetude, per usare il titolo di un'incisiva poesia di un altro poeta ugandese, A. S. Bukenya. Tra i poeti ugandesi, atipica in un certo senso è la produzione di R. Ntiru, che in Tensions (1971) si avvicina a T. S. Eliot e W. B. Yeats, poeti molto presenti nella lirica dell'A. occidentale dei primi anni dell'indipendenza. La disillusione causata dai colpi di stato, dalla corruzione e dalla violenza politica permea le poesie di molti kenyani come J. Kariara e J. Angira, che si distingue per gli agili dolenti versi di Silent voices (1971).
La riflessione sulle condizioni dell'A. dopo oltre un decennio di indipendenza domina anche la poesia del Malawi, rappresentata soprattutto da Rubadiri, F. Chipasula e da J. Mapanje, probabilmente incarcerato per la pubblicazione di Of chameleonts and gods (1981).
Uno dei tratti più interessanti della letteratura africana, a partire dagli anni Settanta, è stato l'affermarsi di una critica emancipata dai criteri, dagli interessi e dai canoni euroamericani; basti pensare a opere come Homecoming: essays on African and Caribbean literature, culture and politics (1972) di Ngugi, Africa's cultural revolution (1973) di p'Bitek, Breast of the earth: a study of African culture and literature (1973) di Awoonor, Morning yet on creation day (1975) di Achebe, Mith, litera ture and the African world (1976) di Soyinka, The popular culture of East Africa (1979) di Lo Liyong, Towards the decolonization of African literature (1980) di Chinweizu e altri, Writers in politics (1981) di Ngugi, Hopes and impediments (1988) di Achebe, cui si aggiungono numerosi lavori di ricerca e di raccolta di canti tradizionali, di poesie e di racconti.
Questa intensa attività critica ha determinato una significativa valorizzazione della cultura orale, dei vernacoli e delle forme artistiche autoctone, cui ha fatto riscontro una sempre più massiccia africanizzazione dei programmi scolastici e dei curricula universitari, che ha avuto in p'Bitek e Ngugi i primi e più decisi sostenitori. È in questo contesto che matura la decisione di Ngugi di usare, a partire dal 1977, come mezzo di espressione artistica solo la sua lingua madre, il kikuyu, scelta che per le sue valenze rivoluzionarie gli costa un anno di carcere, la perdita del posto all'università di Nairobi e l'esilio. Nel saggio Decolonising the mind (1986), Ngugi afferma che per un'autentica decolonizzazione della mente del popolo africano non c'è altra strada che l'abbandono delle lingue europee.
Nell'A. occidentale il problema della decolonizzazione della cultura è affrontato in modo radicale da pochi scrittori, tra i quali Chinweizu, autore di Decolonising the African mind (1987), che richiama il saggio di Ngugi. La maggioranza degli scrittori di questa parte dell'A., pur impegnata nella rivalutazione della cultura tradizionale e della dignità dei vernacoli, del pidgin e del krio, non si chiude alle influenze esterne. Soyinka, per esempio, rispondendo in un'intervista (a G. G. Castorina, Seminario sul teatro africano, L'Aquila, 1985), afferma di essere contrario solo all'imperialismo culturale, tanto che nella sua università ha tenuto corsi sul teatro di altri paesi, dalla commedia dell'arte al nō giapponese, in relazione a quello africano. Gli aspetti positivi dell'uso dell'inglese sono indicati da molti; ancora Soyinka sostiene che l'inglese gli consente di raggiungere lettori delle parti più remote del mondo, con i quali non potrebbe comunicare impiegando lo yoruba o altre lingue africane. Achebe, in varie occasioni, ha sottolineato l'importanza dell'inglese. Per Okara scrivere nelle lingue indigene ridurrebbe il numero dei lettori e non contribuirebbe all'unità africana. Okai sostiene che le lingue indigene debbono essere usate nelle scuole e nella letteratura insieme all'inglese, il cui uso è storicamente necessario. Anche un radicale come Ofeimun auspica la traduzione in inglese delle opere in vernacolo, e viceversa. Questo dibattito ha comunque portato a un maggiore apprezzamento delle opere in lingue autoctone e nelle varie forme di inglese africanizzato, che ha assunto dignità letteraria nelle opere di molti scrittori westafricani e raggiunge le masse più popolari grazie alla televisione e agli altri media. Significativo è l'esempio di Rotimi, che ha adattato un dramma yoruba in pidgin (Grip Am) ed è impegnato nella realizzazione di un dizionario Nigerian Pidgin English, che considera un serio contributo all'esigenza cruciale dello scrittore di comunicare innanzitutto con il proprio popolo.
La ricerca di un'identità della letteratura africana è evidente nella rivalutazione che ha interessato quelle opere letterarie più attente agli aspetti autoctoni della cultura, nella crescente fortuna critica della short story, il racconto, considerato la forma più vicina alla sensibilità narrativa africana, che ha avuto tra i suoi cultori Soyinka, Achebe, Ekwensi, A. A. Aidoo, Wa Thiong'o, G. Ogot, Mungoshi, e molti altri autori come Okri, il nigeriano A. Maja-Pearce, l'ugandese B. Kimenye, i kenyani L. Kibera e S. Kahiga, il tanzano A. Gurnah, lo zimbabwano D. Marechera (1952-1987), che ne hanno esaltato le potenzialità e le peculiarità tecniche, formali e narratologiche. Il fervore di iniziative, di festival, di premi letterari, di associazioni come la Pan African Writers Association promossa da Okai, fiere librarie, il 'diluvio' di autori emergenti documentato, oltre che dai volumi di singoli autori, da sempre più numerose antologie di poesie, di racconti e di drammi, testimoniano una letteratura afroinglese in pieno rigoglio, malgrado i non pochi problemi, come il costo proibitivo dei libri, ancora pubblicati per la maggior parte da case editrici euroamericane, la censura, l'esilio o il carcere che ancora ostacolano o soffocano la libera espressione degli scrittori africani.
Bibl.: M. Banham, African theatre today, Londra 1976; L. Nkosi, Tasks and masks, themes and styles of African literature, ivi 1981; M. Etherton, The development of African drama, ivi 1982; H. Zell, H. Silver, A new reader's guide to African literature, ivi 1983; E. D. Jones, E. Palmer, M. Jones, Women in African literature today, ivi 1987; L. S. Klein, African literatures, Harpeden 1988; G. Moore, U. Beier, Modern African poetry, Londra 1988; I. Okpewho, The heritage of African poetry, Harlow 1988; C. Achebe, C. L. Innes, African short stories, Oxford 1989; C. Amuta, The theory of African literature, Londra 1989.
Letteratura francofona. - Un panorama anche sommario della letteratura francofona dell'A. Nera dovrà necessariamente considerare autori e opere che, distribuiti su un territorio estremamente esteso, offrono fisionomie e istanze difficilmente riconducibili a un denominatore culturale comune, dal momento che si propongono come espressione di culture a lungo represse o comunque mortificate dall'imposizione più o meno programmata delle culture europee, in un quadrante geografico che ingloba in pratica l'intera A. centrosettentrionale gravitante sull'Atlantico, eccetto il Magreb (Algeria, Tunisia e Marocco): vale a dire tutti gli stati dell'ex Afrique Occidentale Française (Costa d'Avorio; Benin, già Dahomey; Guinea; Burkina Faso, già Alto Volta; Mauritania, Mali, Niger e Senegal), quelli dell'ex Afrique Equatoriale Française (Repubblica Popolare del Congo, Repubblica Centroafricana e Ciad), il Togo e il Camerun; lo Zaire (ex Congo Belga, già Repubblica Democratica del Congo), il Ruanda e il Burundi. La vicinanza geografica e le vicende storiche autorizzano inoltre l'inserimento del Madagascar, che pure, com'è noto, non è assimilabile per morfologia e per etnia al continente africano.
Il conferimento del Prix Goncourt 1921 a Batouala, il primo romanzo dello scrittore guineano R. Maran, e soprattutto il clamore che un simile, prestigioso riconoscimento suscitò in Europa e nella stessa A., segna l'inizio ufficiale della lunga e difficile lotta − già sporadicamente in atto nel decennio precedente − ingaggiata da alcuni intellettuali africani per denunciare i catastrofici effetti provocati nel territorio e nell'economia del continente nero dal colonialismo europeo, e per rivendicare l'autonomia e la piena dignità delle culture africane autoctone, la cui identità risultava ancora misconosciuta o deformata dal ''colore locale'' di cui erano intrisi i resoconti giornalistici, diari e memorie di esploratori, missionari o semplici turisti, venuti più o meno intrinsecamente in contatto con i numerosi e gravi problemi inerenti al territorio e alle popolazioni locali.
Favorita all'estero dai radicali rivolgimenti politici e ideologici avvenuti in Europa nel primo ventennio del Novecento, aiutata in modo determinante dall'incremento dell'istruzione e, più contingentemente, dalla partecipazione diretta di truppe africane (i famosi ''tiratori senegalesi'') sui diversi fronti del primo conflitto mondiale, la nuova presa di coscienza non poteva non imprimere una svolta decisiva all'espressione letteraria africana in lingua francese: che, dopo la pubblicazione di Pigments di L. G. Damas (1937) e del Cahier d'un retour au pays natal di A. Césaire (1939), trova la sua più alta espressione nelle prime raccolte liriche di L. S. Senghor.
La risonanza ben presto acquisita dai tre artisti africani − cui si dovranno aggiungere almeno J. Rabemananjara (Dieux malgaches, 1947; Antsa, 1948; Lamba, 1956; Antidote, 1961; Ordalies, 1972) e J.-J. Rabearivelo (Presque songes, 1934; Traduit de la nuit, 1935; Chants pour Abéone, 1936) − pone in termini perentori al mondo occidentale lo spinoso problema dei rapporti tra colonizzazione e culture autoctone. Ed è così che attorno al manifesto programmatico Légitime défense (1932) e soprattutto alle riviste Revue du monde noir e L'étudiant noir (fondata a Parigi nel 1934 proprio da Senghor, Césaire e Damas) nasce e si sviluppa, nell'ambito peraltro di una generale rivalutazione delle civiltà extraeuropee, il concetto di negritudine, inteso come recupero dei valori specifici − sociali e politici, ma soprattutto culturali − delle comunità nere dell'A., praticamente soffocate dalle prevaricazioni di un colonialismo di stampo tradizionale, quasi del tutto incapace di riconoscerne legittimità e ricchezza.
Nell'immediato secondo dopoguerra la negritudine trova un autorevole e convincente banditore in J. P. Sartre, che nella prefazione (significativamente intitolata Orphée noir) all'Anthologie de la nouvelle poésie nègre et malgache de langue française curata da Senghor (1948) ribadisce perentoriamente, e in termini di vera e propria poetica, il diritto all'emancipazione della cultura africana in quanto espressione originale e irripetibile di un gruppo etnico politicamente succube ma culturalmente vitalissimo, finalmente avviato al recupero delle proprie radici.
Tre importanti convegni (Parigi, 1956; Roma, 1959; Niamey, 1967) sanciscono da un lato presenza e peso della cultura africana nel mondo contemporaneo, dall'altro evidenziano l'esistenza di voci dissenzienti che andranno via via acquistando maggior vigore e che saranno le protagoniste del convegno-festival di Algeri (1969): dove il concetto di negritudine verrà bollato come passatista, del tutto inadeguato a una retta comprensione del mondo moderno, conducendo "a vedere negro quando bisogna invece veder giusto". Ci si comincia inoltre a chiedere se la letteratura africana, per raggiungere una vera e assoluta indipendenza, debba continuare a esprimersi in francese o se debba continuare a trarre ispirazione dall'ancora vitale tradizione orale della cultura indigena, respingendo o comunque limitando al massimo le ingerenze delle varie colonizzazioni culturali extra africane.
Gli anni Sessanta e Settanta conoscono infatti una letteratura di nuova ispirazione, che prende le distanze dall'ideologia propugnata e difesa da Senghor: i temi del conflitto delle culture e della ricerca dell'identità cedono a poco a poco il passo alla satira sociopolitica e all'analisi disincantata dei mutamenti occorsi nell'arco del primo cinquantennio di legittime rivendicazioni, di entusiastiche ricerche, di felici recuperi, di accesi dibattiti. E se il congolese G. Tchicaya U Tam'Si (n. 1931), che può essere considerato il più grande poeta africano, esita tra impegno e riflusso, privilegiando lirismo e onirismo all'interno di una passionalità politica maturata nel corso della lotta per l'indipendenza vissuta a fianco di P. Lumumba (Le mauvais sang, 1955; Feu de brousse, 1957; A triche-coeur, 1958; Epitome, 1962; Le ventre, 1964; Arc musical, 1970; La veste d'intérieur, 1977); se il malgascio F. Ranaivo (n. 1914) attinge temi e ispirazione alla tradizione del suo paese, incarnando il prototipo dei meticci culturali di cui parla Senghor (L'ombre et le vent, 1947; Mes chansons de toujours, 1955; Le retour au berçail, 1962), decisamente più affrancati appaiono D. Diop (Coups de pilon, 1956), L. Diakhaté (Primordiale du sixième jour, 1963; Nigérianes, 1974), P. Kayo (Himnes et sagesse, 1970; Paroles intimes, 1972), Malik Fall (Reliefs, 1964), B. B. Dadié (Afrique débout, 1950; La ronde des jours, 1956; Hommes de tous les continents, 1967); B. Diop (Leurres et lueurs, 1960); M. N'Debeka (Soleils neufs, 1969; L'oseille, les citrons, 1975).
Soprattutto in Guinea e nel Congo, la poesia persegue un impegno politico decisamente sconosciuto alla visione sostanzialmente idilliaca che Senghor e gli altri poeti della negritudine avevano dato e continuavano a dare della loro terra. Le diverse raccolte del congolese P. Dakeyo (n. 1948) − da Les barbelés du matin (1973) a Le cri pluriel (1976), da Chant d'accusation (1976) a Soweto, soleils fusillés (1977), a J'appartiens au grand jour (1980) − esprimono un impegno appassionato per gli oppressi e gli sfruttati; e nell'Anthologie de la poésie camérounaise (1982) propone una suddivisione della produzione lirica africana in cinque momenti: parola e saggezza, amore e felicità, natura e società, tradizione e progresso, colonizzazione, indipendenza e libertà. Originario del Burkina Faso, F. P. Titinga (n. 1943) privilegia il versante etnologico, sforzandosi di recuperare un patrimonio culturale quasi completamente cancellato (Quand s'envolent les grues couronnées, 1976; Ainsi on a assassiné tous le Mossé, 1979; Poèmes pour l'Angola, 1983, Grand prix de l'Afrique noire); mentre il mauriziano E. J. Maunick (n. 1931) esprime nelle sue raccolte (Ces oiseaux de sang, 1954; Les manèges de la mer, 1964; Ensoleillé vif, 1976; En mémoire du mémorable, 1979; Saut dans l'arc-en-ciel, 1985) la complessa situazione esistenziale del metèque, del sangue misto esiliato permanente in Europa, calandola in un linguaggio scabro, essenziale, fortemente mescidato di dialetto creolo.
A. M. Wade, senegalese (n. 1934), è il cantore di un futuro radioso, nel quale un'A. nuova e libera è utopisticamente immaginata a perno del mondo; il centroafricano Pierre (Makombo) Bamboté (n. 1932) recupera eroi della tradizione in figure dell'attualità (Chant funèbre pour un héros d'Afrique, 1962; Les deux oiseaux de l'Oubangui, 1968); J. B.Tati-Lutard (n. 1938), nelle sillogi poetiche Les racines congolaises (1968), L'envers du soleil (1970), Les normes du temps (1974), Les feux de la planète (1977), Le dialogue des plateaux (1982) rapporta la realtà congolese uscita dalla conquista dell'indipendenza con l'idealizzazione che di quel traguardo politici e scrittori avevano costruito nei giorni della lotta.
Il palcoscenico della poesia appare tuttora dominato dalle figure ormai internazionali di Senghor, Césaire, Rabemananjara e Damas.
Senghor, che nel 1973 ha pubblicato Lettres d'hivernage (trad. it., 1977) e nel 1979 Elégies majeures, ottenendo i premi Cino Del Duca (1978) e Dante Alighieri (1979), ha rinunciato nel 1983 − l'anno stesso della sua ammissione all'Académie française − all'alta carica di presidente del Senegal, che rivestiva dal 1960, per vivere quello che egli stesso ha definito "un ritiro poetico e grammaticale".
Eletto deputato nel 1946, l'anno seguente, per i tragici avvenimenti dell'insurrezione e della conseguente repressione militare, Rabemananjara è imprigionato, e solo dieci anni dopo, liberato dietro cauzione, potrà tornare a Parigi, dove aveva frequentato gli studi superiori e vissuto le entusiasmanti esperienze di Présence africaine e L'étudiant noir accanto a Senghor, Diop e Césaire; e potrà rientrare in patria solo dopo la concessione dell'indipendenza (1960). Damas, che morirà a Washington nel 1978, aveva espresso il dolore dell'esiliato e le storture della colonizzazione nelle raccolte Graffiti (1952), Black label (1960) e Névralgies (1966), fornendo inoltre un primo, articolato e informato panorama della lirica africana in lingua francese nell'antologia Poètes d'expression française (1957).
Ma la statura e il carisma di questi letterati non sembra abbiano scoraggiato le nuove leve; sicché, anche se la poesia ha momentaneamente perduto la posizione eminente che occupava nel periodo della lotta per l'indipendenza, non pochi sono i poeti più giovani che meritano menzione anche in un panorama forzatamente ristretto come questo che si sta tracciando: e pensiamo a E. Belinga (Les prophéthies de Joal ed Equinoxes, 1976), B. Zadi-Zaourou (Fer de lance, 1975), Th. Obenga (Stèles pour l'avenir, 1978), I. Sall (La génération spontanée, 1975), M. Traoré Diop (Mon Dieu est noir, 1976), K. Nazuji (Redire les mots anciens, 1977), D. Oussou-Essui (Le temps des hymnes, 1973), Ngandu-Nkashama (Crépuscule équinoxial, 1975), W. Syad (Harmoniques, cantiques, 1976; Naufragés du destin, 1977), J. Anouma (Les matins blafards, 1976), V.-J. (Vumbi Yoka) Mudimbé (Déchirures, 1971; Entretailles, 1973; Les fuseaux parfois, 1974), M. Mamadou Modibi A liou (Sur les chemins de la Sa'jira, 1979), V. Tadjo (Latérite, 1979), L. Akin (Chant pour Manou, 1983), E. Prudencio (Violence de la race, 1982), D. Negoïe-Ngala (Les Mandouanes, 1981), P. Akakpo Typamm (Rythmes et cadences, 1979), F. D'Almeida (Traduit du pluriel, 1980), Y. E. Dogbe (Le divin amour, 1979), Fatho-Amoy (Chaque aurore est une chance, 1981), J.-E. Mpodol (Flammes, 1981), E. Meyomesse (Complainte noire, 1981), J.-M. Adiaffi (D'éclairs et de foudre, 1980).
A partire dai primi anni Cinquanta la narrativa, che aveva trovato due felici e rilevanti affermazioni in Batouala e in Karim (1935) di O. Socé, anch'egli aggregato all'Etudiant noir, ma che era restata in secondo piano durante la fertilissima stagione della lirica indipendentista, recupera ampiamente terreno; e vedono così la luce una serie di opere che testimoniano con la violenza dei fatti o con la deformazione ironica di situazioni e personaggi la dissoluzione in atto di un sistema politico superato e vessatorio.
M. Beti (pseud. di Alexandre Biyidi, n. 1932), congolese naturalizzato francese nel 1976, ha rappresentato violenze e storture causate nel seno delle piccole comunità indigene dalla forzata imposizione della cosiddetta civiltà occidentale (Ville cruelle, 1954; Mission terminée, 1957) e dell'altrettanto forzata (e fallita) cristianizzazione del Camerun (Le pauvre Christ de Bomba, 1956; Le roi miraculé, 1958), passando poi a denunciare l'ottusità politica e l'arrivismo dei nuovi padroni di un'A. alla disperata ricerca d'una propria identità (Main basse sur le Cameroun, 1972; Remember Ruben, 1974; Perpétue ou l'habitude du malheur, 1974; La ruine presque cocasse d'un polichinelle, 1979; Les deux mères de Guillaume Ismaël Dzewatama, futur camionneur, 1982; La revanche de Guillaume Dzewatama, 1984). Nei romanzi Les cancrelats, La main sèche (1980), nei racconti delle raccolte Les méduses ou les orties de la mer (1982) e Les phalènes (1984), il congolese G. Tchicaya U Tam'Si trasferisce il lirismo onirico delle sue poesie, per tracciare un suggestivo ritratto del Congo in epoca coloniale. Particolarmente sensibile ai valori della tradizione e ai problemi socio-culturali dell'A. moderna si mostra il camerunese Ph.-L. Onibède (n. 1930), conosciuto con lo pseudonimo Réné Philombé; intraprendente giornalista − oltre a due quotidiani locali, ha fondato la rivista Cameroun littéraire e l'Associazione poeti e scrittori camerunesi −, ha esordito con un pamphlet (La passerelle divine, 1959), cui ha affiancato liriche (Choc, antichoc, 1978), romanzi (Sola, ma chérie, 1966; Un sorcier blanc à Zangali, 1969) e racconti (Lettres de ma cambouse, 1964; Histories queue-de-chat, 1971).
Gustosa ma feroce satira della mediocrità tronfia e supponente degli immigrati europei sono Une vie de boy (1956) e Le vieux nègre et la médaille (1956; rist. nel 1972) di F. Oyono, anch'egli camerunese (n. 1929); che in Chemin d'Europe (1960) ha descritto sagacemente la picaresca carriera di un seminarista nero perso nelle ambiguità del vecchio continente. Più socialmente impegnati, i romanzi del senegalese S. Ousmani (n. 1923) denunciano apertamente e spesso con accesa virulenza le aberrazioni del colonialismo, evidenziando il portato sociologico (O pays, mon beau peuple, 1957; Les bouts de bois de Dieu, 1960), premendo il pedale satirico (Xala, 1973) o fondendo abilmente ed efficacemente realismo e favola (Le docker noir, 1956; L'Harmattan, 1964; Le dernier de l'empire, 1981).
Parallelamente alla contestazione del sistema coloniale e all'aspirazione verso l'indipendenza politica e culturale nasce e si sviluppa il bisogno di recuperare le proprie radici e di riconoscersi in alcuni eroi della tradizione storica o popolare; ed è questo l'impulso che sta alla base del proliferare di narrazioni a sfondo storico e di saghe (talvolta al limite del feuilleton, come quelle del prolifico togolese F. Couchoro, 1900-1968) che conoscono una grande fortuna di pubblico: come Soundjata ou l'épopée mandingue (1960) del senegalese D. T. Niane (n. 1932), o La légende de M'Pfoumous Ma Mazono (1954) del congolese J. Malonga (n. 1907), o Crépuscule des temps anciens: chronique du Bwamu (1962) di N. Boni, scrittore e uomo politico del Burkina Faso (n. 1921); o Les contes e Les nouveaux contes d'Amadou Koumba (1947 e 1958) del senegalese B. Diop (n. 1906).
Agli inizi degli anni Sessanta il problema che più strettamente coinvolge gli scrittori delle generazioni più giovani è l'istituzione di un rapporto armonico fra i termini di un'educazione di timbro fondamentalmente occidentale, da molti ormai acquisita direttamente in più o meno lunghi soggiorni all'estero o attraverso l'intensa frequentazione di testi letterari europei, e la radicale diversità della vita e della cultura delle nazioni africane nelle quali lo scrittore vive o torna a vivere.
L'impatto molto spesso doloroso con questa problematica esistenziale costituisce il tema fondamentale di molti romanzi ''di formazione'', tra cui spiccano L'aventure ambigüe (1961) del senegalese Ch. H. Kane (n. 1928) e L'enfant noir (1953), del guineano C. Laye (1928-1980), autore di altre due opere di notevole interesse, la saga storico-mitologica Le maître de la parole (1978), che attinge alla tradizione orale mandinga, e soprattutto di Le regard du roi (1954), singolare confluenza di materiali allegorici e fantastici in un contesto di alta tensione morale. Altre storie di éducation sono: Une piège sans fin (1960) e L'initié (1979), del beninese O. Bhêly-Quénum (n. 1928), in cui la situazione dello sradicato viene ulteriormente drammatizzata da un pesante sovrappeso di angoscia; Kocoumbo, l'étudiant noir (1960), Les fils de Kouretcha (1970) e Les dépossédés (1973), dell'ivoriano A. Loba (n. 1927); Climbié (1956), Un nègre à Paris (1959), Patron de New York (1964) e Les jambes du fils de Dieu (1980), dell'ivoriano B. B. Dadié (n. 1916), già citato fra i poeti e cofondatore della rivista Présence africaine; e Giambatista Viko ou le viol du discours africain (1975), dello zairese Mbwil a Mpāāng Ngal (n. 1933), autore di un altro interessante romanzo, L'errance (1979).
Tra i molti portavoce della delusione conseguente al mancato appuntamento con una reale ed effettiva risoluzione dei tanti problemi della decolonizzazione e dell'indipendenza, merita senz'altro citazione − per i romanzi Le soleil noir point (1962) e Violent était le vent (1966), e per alcune opere di teatro − l'ivoriano Ch. Nokan.
Ma non è solo la denuncia del colonialismo o l'angoscia del disadattato o il tentato recupero della propria identità etnica a ispirare la narrativa del periodo della decolonizzazione: nel corso degli anni Sessanta e Settanta infatti, raggiunta una certa consapevolezza di autonomia culturale, favorita peraltro da un'intensa attività di alfabetizzazione e da una relativa libertà d'espressione e di giudizio acquisita con l'indipendenza politica, per denunciare mali, storture, ''mostri'' della nuova società, molti scrittori africani − fortificati in parte dall'esempio di alcuni eccellenti risultati raggiunti dai due maggiori narratori africani anglofoni, i nigeriani Ch. Achebe e W. Soyinka − riconoscono nella satira un veicolo più agile, immediato ed efficace di quanto non sia il racconto-dramma.
Ne scaturisce una grande fioritura di pagine narrative fortemente e spesso felicemente parodistiche nei confronti di vizi, situazioni e personaggi della nuova realtà sociopolitica. Così, accanto a romanzi che, come L'arbre fétiche (1971) del beninese J. Pliya (n. 1931), Sous l'orage (1963), Le sang des masques (1970) e Noces sacrées (1977) del malinese S. Badian (n. 1928), conservano un profondo legame con la tradizione, evocandone fenomenologia e personaggi con più equilibrata disposizione critica; accanto a racconti di denuncia non più zavorrati dalla pesante anche se comprensibile parzialità della vittima ma ormai notevolmente aperti a un'equa ripartizione delle colpe e al dialogo costruttivo, come Les soleils des indépendances (1968) dell'ivoriano A. Kourouma (n. 1927), il più notevole esempio dei cosiddetti ''romanzi del disincanto''; come Le Cercle des Tropiques (1972), Le récit du Cirque de la Vallée des Morts (1975) e L'homme du troupeau du Sahel (1979) del guineano A. Fantouré (n. 1938), particolarmente sensibile ai problemi del progresso africano; come Entre les eaux (1973), Le bel immonde (1976) e L'écart (1979) dello zairiano V.-Y. (Vumbi Yoka) Mudimbé (n. 1941); accanto a queste opere che privilegiano il registro drammatico, si afferma una letteratura di denuncia che punta maggiormente sugli acidi corrosivi della satira, il cui rappresentante più gustoso è senz'altro il congolese H. Lopes (n. 1937), ministro della Pubblica Istruzione e poi (1973) presidente del Consiglio, pungente e obiettivo derisore di eccessi e difetti della progressiva ma forse troppo veloce emancipazione della donna africana (La nouvelle romance, 1976), delle ambiguità del rapporto fra intellettuali e potere (Sans tam-tam, 1977) e perfino disincantato analista del proprio mestiere di scrittore (Le pleurer-rire, 1983). Non meno caustico, ma diversamente impegnato, è il camerunese F. Bebey (n. 1929), che nei romanzi (Le fils d'Agatha Moudio, 1968, Grand prix de l'Afrique noire; La poupée ashanti, 1973; Le roi Albert d'Effidi, 1976) e nei racconti (Embarras et C.ie, 1968; Trois petits cireurs, 1972) ridicolizza gli aspetti più macroscopicamente alterati di una vita quotidiana sempre più complicata e deformata. Della profonda deformazione operata nell'inconscio collettivo africano dal mezzo di comunicazione più diffuso e influente, il cinema, tratta con piacevole quanto penetrante ironia, nel romanzo Rêves portatifs (1979), il congolese S. Bemba (n. 1934), autore anche di Le soleil est parti a M'Pemba (1982), Les cargonautes (1984) e Léopolis (1985).
Profano o religioso, il teatro tradizionale africano possiede l'insolita qualità di essere sintetico e popolare allo stesso tempo; ed è questa una caratteristica che quasi integralmente passa nel teatro letterario, e in particolare nel teatro indigeno in lingua francese: che conosce, a partire dal 1930, un rapido sviluppo per impulso della scuola William Ponty di Dakar, sorta col patrocinio di Ch. Béart, nella quale particolare rilievo assume la tradizione etnografica. A partire dal 1954 subentrano i centri culturali promossi da B. Cornut-Gentil, che, sensibili ai tempi mutati, incoraggiano un tipo di creazione drammatica impegnata nella denuncia del colonialismo e delle sue conseguenze, nell'analisi del conflitto generazionale e nella critica del malcostume politico.
Anche nel campo del teatro si accampano personalità artistiche già note, come Césaire, autore di Et les chiens se taisaient (1956), La tragédie du roi Christophe (1963; trad. it., 1968), Une saison au Congo (1966); e come Dadié, che si rivela drammaturgo abile ed efficace in Assimien Dahylé, roi du Sanwi (1949), Les voix dans le vent, Béatrice du Congo e Monsieur Thogo-Gnini (tutti e tre del 1979), Iles de tempête (1973) e Papassidi maître escroc (1975).
Ma sono soprattutto gli scrittori più giovani a riconoscere nel teatro il veicolo più diretto per raggiungere un più vasto pubblico, per coinvolgere chi ha poca o nessuna confidenza con la pagina scritta e suscitarne reazioni; e si dovranno citare almeno: il congolese (n. 1934) S. Bemba (Une eau dormante e L'homme qui tua le crocodile, 1972; Tarantelle noire et diable blanc, 1976), il camerunese (n. 1939) G. Oyono-Mbia (Trois prétendents... un mari, 1960; Notre fille ne se mariera pas, 1969; Jusqu'à nouvel avis, 1975; Le train spécial de son Excellence, 1978), il congolese M. N'Debeka (n. 1944), già citato fra i poeti, autore di Le Président (1970) e di Les lendemains qui chantent (1983); il camerunese R. Philombé (Les époux célibataires, 1971; Africapolis, 1974), l'ivoriano Ch. Nokan (Les malheurs de Tchakô, 1968; Abraha Pokou, 1971; La traversée de la nuit dense, 1972).
Dal 1966 un concorso teatrale inter-africano offre la felice occasione di far conoscere testi drammatici inediti di giovani autori di valore.
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Letterature di lingua portoghese. − Le letterature africane di lingua portoghese si distribuiscono su un'area piuttosto estesa, che comprende cinque paesi: Angola, Mozambico, Guinea Bissau, São Tomé e Príncipe, Capo Verde, tutte ex colonie portoghesi, divenute indipendenti nel 1975 (nel 1973 il Guinea-Bissau); i primi tre sono paesi continentali, São Tomé e Príncipe e Capo Verde sono isole atlantiche: di qui i contesti differenti di ciascuno dei due gruppi, cui ovviamente si aggiungono le differenze tra paese e paese.
In origine del tutto disabitati, gli arcipelaghi vennero ben pre sto colonizzati da portoghesi, da genovesi e da altri europei, che vi tradussero molti schiavi africani. Da questo stretto contatto durato ben cinque secoli è naturale che si originasse una complessa mescolanza razziale e culturale − più accentuata a Capo Verde che a São Tomé − che ha espresso sistemi culturali tanto differenziati da autorizzare una netta distinzione tra cultura capoverdiana e cultura santomense.
Per quanto riguarda le culture dei tre paesi continentali, esse hanno subito profonde modificazioni in molte aree, particolarmente in quelle urbane. Tutte le letterature di questo settore dell'A. nascono intorno alla metà del 19° secolo, eccetto quella del Guinea-Bissau, più antica di qualche decennio, legata a un'occasione contingente, l'importazione della prima rotativa, la cui finalità immediata era la stampa del Boletim oficial, la prima testata in A. a pubblicare, oltre ad articoli di materia legislativa, testi letterari (piuttosto rudimentali), notizie varie, informazioni di carattere sociale e culturale.
Lo svolgimento di queste letterature può essere cronologicamente articolato in tre periodi: a) dalle origini agli anni Trenta-Quaranta; b) dagli anni Quaranta all'indipendenza (1975); c) dall'indipendenza ai nostri giorni.
Il primo periodo è caratterizzato da una totale subordinazione ai modelli linguistici, tematici e storici peculiari delle letterature europee. Il secondo si configura come momento in cui l'espressione letteraria scopre il tema della coscienza nazionale, e questo progressivo recupero promuove l'acquisizione e l'arricchimento dell'identità culturale. Il discorso letterario appare decisamente orientato a esprimere le radici culturali e sociali della nazione ed è vivificato dall'ideologia della liberazione. Nel terzo periodo, tuttora in piena evoluzione, i testi letterari, soprattutto quelli poetici, celebrano personaggi ed episodi della lotta armata e della ricostruzione nazionale, indulgendo spesso alla retorica; ma va anche detto che negli ultimi tempi si registrano nella giovane poesia africana, in particolare in alcuni autori dell'Angola, del Mozambico e di Capo Verde, i sintomi inequivocabili di una decisa svolta tematica: le forzature retoriche e ideologiche cedono il campo all'espressione di sentimenti, di ansie giovanili, in un contesto peraltro costantemente aperto alla fiducia nell'avvenire.
La prima opera di lingua portoghese in A. viene pubblicata, alla metà del 19° secolo, in Angola: è un volume di poesie, Espontaneidades da minha alma (1850), di J. da Silva Maia Ferreira. Tra i poeti di rilievo vissuti e operanti sullo scorcio del 19° secolo da ricordare J. Cordeiro da Matta (Delirios, 1889), autore di dominante vena romantica, nella quale incastona aspetti della realtà africana, arrivando ad aprirsi, anche se timidamente, all'idea dell'indipendenza nazionale: tema che sarà apertamente proposto da J. Eduardo Rosa e L. do Carmo Ferreira (nella rivista Luz e Creança, 1902-03, di P. da Paixão Franco).
Sul piano dell'impegno, si può citare un certo giornalismo interventista, nel quale sono da segnalare i nomi di J. de Fontes Pereira, F. Castelbranco, S. Ferreira.
Nelle prime decadi del 20° secolo s'impone la personalità di A. T. Bastos, giornalista e romanziere; e, a partire dagli anni Trenta, emergono i poeti G. Bessa Victor e T. Vieira da Cruz, e il romanziere A. Assis Junior (O segredo da morta, 1935), che preannunciano la fase moderna della letteratura angolana. Un rilievo particolare ha la rivista Mensagem (1951-52), intorno alla quale militano A. Neto (Sagrada Esperança, 1974), A. Jacinto (Poemas, 1961), M. de Andrade, M. Antonio (Amor, 1960). Un'altra rivista, La Cultura (ii, 1957-61), è resa dinamica da una nuova generazione che offre nuove forze alla creazione di una letteratura autenticamente angolana: L. Vieira (Luuanda, 1964), A. Santos (Quiraxixe, 1965), Costa Andrade (Terra da acácias rubras, 1961), H. Guerra, M. L. Guerra, H. Abranches (Koukava de Fetí, 1981), A. de Almeida Santos, A. Cardoso (Poemas de circunstância, 1961). Altri nomi emergenti sono quelli di D. Mestre (Do canto à idade, 1977), R. Duarte de Carvalho (As decições da idade, 1976), M. Rui (Quem me dera a ser onda, 1970), Pepetela (Mayombe, 1980), J. Rocha, A. Barbacitos (Nzoji, 1979), J. Macedo (I° Tetembu, 1966), J. M. Vilanova (Vinte canções para Xininha, 1971), R. David.
La letteratura angolana è in evoluzione e in espansione: e lo testimoniano, tra gli altri, i giovani poeti J. L. Mendonça, E. Bornavera, J. Maimona, P. Tavares, A. de Santa, L. Feijaò K.
Per il Mozambico, l'unico autore eminente del secolo scorso è J. da Silva Campos Oliveira (O mancebo e trovador Campos Oliveira, 1885).
La prosa arriva con J. Albasini (O livro da dor, 1925). R. de Noronha (Sonetos, 1943), con la sua produzione dispersa nella rivista O Brado Africano, è il precursore della moderna poesia mozambicana, che raggiunge la sua più notevole espressione con N. de Sousa, J. Craveirinha (Chigubo, 1964), O. Mendes, R. Nogar (Silencio escancarado, 1982), M. dos Santos e più tardi R. Knopfli (O País dos outros, 1959), S. Alba (O ritmo do pressagio, 1974), S. Viera (Também memória do povo, 1983), L. de Vasconcelos, H. Baptista.
In questi ultimi anni la poesia mozambicana ha raggiunto un notevole livello di originalità, con molti e interessanti poeti: L. C. Prataquim, M. de Sousa Lobo, E. White, J. Bucuane, A. Artur, ecc.
La narrativa mozambicana, che ha il suo iniziatore riconosciuto in J. Dias (Godiolo e outros contos, 1952) e i suoi cultori più validi in O. Mendes (Portagem, 1965), C. Conçalves, L. B. Honwana (Nós matamos o cão tinhoso, 1964), ha trovato autorevoli esponenti in non pochi scrittori delle generazioni più giovani, quasi tutti novellieri; tra essi emergono A. Magaia, M. Conto (Vozes anoitecidas, 1985), C. da Silva, U. Ba Ka Khosa, M. Panguana, A. Muianga.
Riviste che segnarono o segnano la vita intellettuale mozambicana sono: Msaho (1952), Paralelo 20 (1957-61), Caliban (1971-72), Charrua, Forja, Eco, Xiphepo.
La letteratura capoverdiana si divide in due periodi, il cui crinale è costituito dalla pubblicazione della rivista Claridade (1936-60), che ebbe come fondatori B. Lopes, M. Lopes e J. Barbosa, cui si deve la prima opera del modernismo capoverdiano, Arquipélago (1935). La prima fase è caratterizzata dall'assenza di una coscienza nazionale, con testi influenzati dai paradigmi europei, evidentissimi nel caso di J. Lopes (Jardim das hespérides, 1932), P. Cardoso (Hespérides, 1926), E. Tavares (Mornas, 1932). Con Claridade gli scrittori "misero i piedi in terra", e cominciarono a esprimere e a rappresentare la capoverdinità, inaugurando la seconda fase, ancora in atto, della storia letteraria di Capo Verde.
Nel 1944 fu fondata Certeza, nella quale si distinsero A. Franca, e più tardi G. Mariano, O. Martins (Caminhada, 1962), Y. Morazzo, O. Silveira (Hora Grande, 1962); poco dopo fu la volta di Seló, fervidamente animata da O. Osório (O canto do habitante, 1977), A. Vieira (Poemas, 1984), J. Miranda Alfama, R. Vera-Cruz.
Nella narrativa assumono rilievo B. Lopes, fondatore della prosa moderna (Chiquinho, 1947), M. Lopes (Os flagelados do vento leste, 1960), L. Romano, G. Mariano (Vida e morte de Joao Cabafume, 1976), H. Teixeira de Sousa (Ilhéu de contenda, 1979) e O. Amarilis (Caes do Sodré té Salamansa, 1974).
In questi ultimi anni, giovani poeti e narratori si riuniscono intorno a riviste letterarie come Ponto e Virgula e Fragmentos.
La prima figura guineana famosa è il padre secolare M. Marques de Barros, compilatore di un'opera dedicata alla letteratura orale (A Literatura Negra, 1900).
Dopo l'indipendenza nazionale sono state pubblicate due antologie di poesia, Mantenhas para a quem luta (1977) e Primeiros momentos da costrução (1978), nelle quali sono stati inclusi poeti del tutto inediti e altri che scrivono in lingua creola.
H. Proença si fa notare con Não posso odiar a palavra (1982), e V. Cabral con A Minha luta é a primavera (1981). Tutta questa produzione assume a materia poetica l'ideologia rivoluzionaria.
A Sãao Tomé e Príncipe si distinguono i poeti N. e C. da Costa Alevre (Versos, 1916 ed. postuma), che introducono il motivo del "dolore di essere negro". I poeti M. da Veiga (O canto do Ossobô), F. J. Tenreiro (Ilha de nome santo, 1942), A. do Espirito Santo (E' nosso o solo sagrado da terra, 1978), T. Medeiros, M. M. Margarido, svolgono una tematica santomense (M. da Veiga e F. J. Tenreiro introdussero nella loro poesia l'espressione di negritudine).
I testi teatrali scritti e rappresentati nei cinque paesi cercano di acquisire una loro espressione originale, così come la letteratura infantile; a titolo di esempio possiamo fare per l'Angola il nome di M. E. Neto.
Si ricorda che Capo Verde, Guinea-Bissau, São Tomé e Príncipe possiedono anche letterature in lingua creola; e sono già apparse opere nelle lingue materne africane.
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