Africanismo
sommario: 1. Significati e origini del concetto. 2. Il movimento panafricano. 3. La maturità scientifica. 4. Questioni metodologiche. 5. Idee e programmi di unità continentale. 6. Regionalismo e ‛non allineamento'. 7. Anni sprecati? 8. La ricerca di alternative. 9. Il problema della riformabilità degli Stati-nazione. 10. Verso una rinascita dell'africanismo. □ Bibliografia.
1. Significati e origini del concetto
Il termine ‛africanismo', nel significato che è andato assumendo nel corso degli ultimi decenni del XX secolo, designa lo studio dell'Africa nelle varie discipline scientifiche o umanistiche dell'ambito politico-culturale. In questa accezione, l'africanismo ha acquistato un peso e un'importanza specifici quale studio umanistico incentrato su problematiche di ordine sociale, soprattutto in quei rapporti in cui le questioni legate alla discriminazione razziale hanno avuto, o sono sembrate avere, una particolare importanza. In questo senso - peraltro nient'affatto secondario - l'africanismo ha avuto la funzione di una ideologia di liberazione egualitaria in un secolo profondamente influenzato dall'imperialismo e dalle sue conseguenze culturali, sia nella stessa Africa che nelle aree della diaspora nera oltre Atlantico. Come vedremo, inoltre, le idee o i significati a esso associati si sono fusi con orientamenti ideologici diversi, in particolare con il concetto di panafricanismo, nel cui contesto il termine si è caricato di notevoli valenze emotive. Ciò spiega la difficoltà di dare una definizione univoca dell'africanismo; a certi livelli il suo significato coincide con quello di africanistica, e il termine indica quindi i vari rami in cui si articola lo studio dell'Africa; ma ad altri livelli sfugge a ogni definizione esatta e recede nella vaga sfera delle aspirazioni ideologiche.
Tali difficoltà di definizione, tuttavia, sono un problema essenzialmente moderno. Nelle culture europee dell'antichità classica, l'Africa rappresentava la vasta e semisconosciuta terra del mistero al di là del Mediterraneo con le sue popolazioni esotiche: ‟ex Africa - si diceva - semper aliquid novi". In seguito, dopo la nascita del cristianesimo, l'Africa sarebbe stata considerata anche terra d'origine di santi e di prodigi cristiani, al punto che il termine africanismo assunse un significato eminentemente religioso nel corso del Medioevo e anche nei secoli successivi. Così, ad esempio, in Inghilterra il più antico uso documentato del termine sembra risalire al 1614: si parlò di ‛africanismo' in riferimento ai primi Padri della Chiesa, e tale termine aveva a che fare con l'esegesi delle Scritture. Questa particolare accezione persistette sin quasi alla fine del XIX secolo. In un dizionario biografico cristiano pubblicato nel 1882, ad esempio, si legge che i principî affermati da Origene correggono ‟l'africanismo che, sin dall'epoca di Agostino, ha dominato la teologia occidentale". A quel tempo il termine era usato anche dai viaggiatori europei, sebbene raramente, per indicare quegli aspetti della cultura africana considerati inusuali ed esotici; e in questo significato fu usato correntemente per un certo periodo in Nordamerica, per designare gli ‛africanismi' linguistici degli schiavi neri.
Ma l'affermarsi dell'imperialismo moderno e le sue conseguenze modificarono drasticamente e in modo irreversibile le valenze semantiche del concetto di africanismo, privandolo di ogni connotazione religiosa e conferendogli una dimensione essenzialmente laica; e l'imperialismo e le sue conseguenze costituiscono il quadro di riferimento indispensabile per ogni seria analisi dell'africanismo. Ciò vale in modo particolare per quei gruppi di Africani colti ed emancipati, di varie origini etniche e geografiche, che cominciarono ad affermare la propria presenza e le proprie idee negli ‛insediamenti' britannici delle aree costiere dell'Africa occidentale dopo gli anni quaranta dell'Ottocento. Si trattava di gruppi che avevano beneficiato, sia pure indirettamente, dei movimenti britannici e delle leggi contro la schiavitù dell'inizio dell'Ottocento. Dopo aver dichiarato abolita la schiavitù nel 1807, per molti anni i governi britannici utilizzarono la marina militare per scoraggiare e, se possibile, sopprimere la tratta di schiavi dall'Africa. Le navi-pattuglia vennero autorizzate a sequestrare le imbarcazioni che trasportavano schiavi e a sbarcare questi ‛ricatturati' (come venivano chiamati nel gergo dell'epoca) in qualità di ‛uomini liberi' nella Sierra Leone, nei pressi della ‛capitale' recentemente istituita di Freetown. Più o meno lo stesso avvenne in seguito nella nuova colonia americana di Liberia: qui - sebbene in numero di gran lunga inferiore rispetto alla Sierra Leone - gli schiavi liberati dalle navi negriere, nonché i neri emancipati provenienti dai nuovi Stati americani, riuscivano a trovare salvezza in piccoli insediamenti in cui potevano sentirsi liberi di ricostruire la propria vita. Quanti sopravvissero alle malattie e alla fame - invero una minoranza - colsero con determinazione ed entusiasmo questa opportunità, e divennero i padri di gran parte della storia africana moderna, nonché dell'africanismo quale oggi lo conosciamo.
Il percorso concettuale seguito da questi pionieri è facile da ricostruire in retrospettiva. Liberati dagli orrori delle navi negriere che attraversavano l'Atlantico, i ‛ricatturati' sbarcati nella Sierra Leone (e lo stesso sarebbe avvenuto poco dopo per quelli sbarcati in Liberia) non erano reintegrati nella loro terra d'origine. Prelevati da culture locali di varie e differenti origini lungo il vasto litorale tra l'Angola e le coste dell'Africa occidentale - sebbene la maggior parte fosse originaria delle regioni nigeriane -, gli schiavi liberati si trovarono tra popolazioni a loro del tutto estranee. Costretti a restare uniti nella buona e nella cattiva sorte, potevano far assegnamento solo su se stessi; in pratica, essi dovettero costruirsi autonomamente una propria cultura. Sollecitati dalle influenze missionarie cristiane (soprattutto protestanti nei territori costieri sotto l'autorità britannica) particolarmente forti all'epoca, i membri di queste comunità finivano per considerarsi salvati dall' ‛Africa selvaggia' che li aveva ridotti in schiavitù e deportati, e ritenevano fosse ora offerta loro l'opportunità di un futuro completamente diverso che avrebbe dovuto essere cristiano, alfabetizzato e britannico. Verso gli anni cinquanta dell'Ottocento in un piccolo gruppo di insediamenti dislocati lungo il litorale africano - ma principalmente a Freetown (Sierra Leone), Cape Coast (Ghana) e sull'isola di Lagos (Nigeria) - i discendenti dei ‛ricatturati' avevano dato vita, grazie a un duro lavoro e alle loro capacità naturali, a una comunità di intraprendenti commercianti, insegnanti e artigiani che disponevano di una modesta ricchezza e di una forte determinazione a fare ancor meglio in futuro.
Era inevitabile che i membri di queste comunità voltassero le spalle all'Africa. Convinti che la civiltà non potesse che provenire dall'Europa, essi accolsero le concezioni e le istituzioni britanniche senza lasciarsi scoraggiare dal razzismo coloniale degli ultimi decenni del XIX secolo, diventando fautori delle idee e dei lealismi nazionalisti che, secondo il loro modo di vedere, avevano reso la Gran Bretagna un paese libero e potente. A tal fine era compito dell'avanguardia colta e illuminata degli Africani cristiani, come scriveva uno dei suoi esponenti nel 1911, ‟aiutarsi reciprocamente per uscire dall'Africa più nera. [...] La giungla impenetrabile che ci circonda - continuava Attoh Ahuma nel suo manifesto intitolato profeticamente La nazione della Costa d'Oro e la coscienza nazionale - non è più buia dell'oscura foresta primigenia della mente umana incolta". La logica conclusione non poteva che essere un'esortazione a ‟emergere dalla foresta selvaggia e uscire all'aperto, là dove si costruiscono le nazioni". La sfida venne accettata: poco più di quarant'anni dopo, le popolazioni della colonia della Costa d'Oro divennero indipendenti formando il nuovo Stato-nazione del Ghana, organizzato e strutturato come uno Stato sovrano e indipendente secondo il modello parlamentare e burocratico britannico. Il loro famoso leader, Kwame Nkrumah, pur restando un fervente sostenitore dell'unificazione propugnata dal panafricanismo, si sarebbe trovato a governare in un'Africa in cui le divisioni politiche e geografiche imposte dalla spartizione coloniale si perpetuavano in una miriade di Stati-nazione.
Fu così che la grande ideologia della liberazione africana del XX secolo, il nazionalismo, si sviluppò in contraddizione con se stessa, affermando ‛valori africani' e nello stesso tempo rinnegando l'esperienza politica e culturale propria delle generazioni e dei secoli che avevano preceduto le divisioni coloniali. Solo molti decenni più tardi, di fronte all'amaro spettacolo dei fallimenti politici e sociali degli anni ottanta, sarebbe diventato sempre più chiaro che proprio questa funesta separazione dalle proprie radici era probabilmente la causa del disastro. Si sarebbe visto allora che l'importazione in blocco delle istituzioni europee, frutto di un'evoluzione storica completamente diversa rispetto a quella conosciuta dall'Africa, non era servita a realizzare gli obiettivi di liberazione che uomini come Attoh Ahuma si erano prefissi.
Nel frattempo, negli ultimi decenni dell'Ottocento e per gran parte del Novecento, le minoranze dell'Africa coloniale che avevano ricevuto un'educazione occidentale continuarono la loro ricerca di un'identità africana che consentisse loro di porsi - dal punto di vista sia della dignità umana che dei traguardi raggiunti - allo stesso livello di tutti gli altri popoli, soprattutto di quelli europei, che erano riusciti ‟a emergere dalla foresta selvaggia e uscire all'aperto, là dove si costruiscono le nazioni". Fu questa prospettiva, assieme alle crescenti oppressioni del razzismo coloniale, a consolidare in più occasioni e in modo sempre più convincente le idee di unità africana e di mutua solidarietà. Da artefatto creato da una fantasia estetizzante, l'idea di ‛Africa' si trasformò in un programma concreto e urgente di autodifesa politica e sociale. Per ragioni che si comprendono facilmente, questa idea aveva fatto la sua prima comparsa tra le diseredate comunità nere dei paesi americani e caraibici e, per ragioni altrettanto comprensibili, aveva assunto connotazioni essenzialmente chiliastiche. Una poesia scritta nel 1841 illustra bene questo punto: ‟Inesplicabili misteri del fato / coinvolgono, o Africa, il tuo futuro stato. [...] / Velata, nella notte di questi tempestosi anni / un'alba di festa sull'Africa appare: / allora libero sarà il suo collo dal giogo dell'Europa, / e arti risanatrici all'orride armi seguiranno" (S. Montgomery, Poetical works, London 1841, vol. I, p. 17).
Ma i panafricanisti più avvertiti dei primi anni del Novecento avevano in mente obiettivi assai più concreti, che sarebbero stati dichiarati subito con enfasi e che, a tempo debito, tra molte sofferenze e molte speranze disattese, avrebbero segnato la storia.
2. Il movimento panafricano
Il panafricanismo come movimento organizzato prese forma e si manifestò inizialmente attraverso una serie di convegni tenuti tra il 1900 e il 1945 che, peraltro, ebbero in principio ben poca risonanza o furono del tutto ignorati dal resto del mondo. Il primo di questi convegni - organizzato da un avvocato di Trinidad (Caraibi), Henry Sylvester-Williams - riunì a Londra, nel 1900, circa 32 persone di colore, di cui solo quattro, a quanto risulta, erano nate in Africa. Dalle sue deliberazioni conclusive nacque la Pan-African Association e una rivista, ‟Pan-African", di cui sembra sia stato pubblicato un solo numero. Tuttavia l'allocuzione conclusiva del convegno, indirizzata ‟alle nazioni del mondo", fu scritta da un portavoce afroamericano che in seguito avrebbe acquistato fama mondiale, William Edward Burghardt Du Bois (1863-1963), e si apriva con parole che sarebbero rimaste celebri: ‟Il problema del XX secolo è il problema delle discriminazioni basate sul colore della pelle, la questione di quanto le differenze di razza [...] costituiranno in avvenire la base per negare a oltre la metà del mondo il diritto di usufruire, al massimo delle proprie capacità, delle opportunità e dei privilegi della civiltà moderna".
Du Bois convocò una seconda conferenza a Parigi, nella speranza di sfruttare l'occasione della Conferenza della pace (1919) che seguì la conclusione della prima guerra mondiale, per pubblicizzare le rivendicazioni del movimento panafricanista: le conclusioni tratte dai 57 partecipanti furono sintetizzate in una risoluzione che indicava come obiettivi principali la tutela e il progresso dei ‟nativi dell'Africa e delle popolazioni di origine africana". Ma anche le risoluzioni di questa conferenza vennero ignorate, e lo stesso avvenne per quelle, analoghe, di una terza conferenza (Londra e Bruxelles, 1921) e di una quarta (Lisbona, 1923), in cui la richiesta veniva reiterata: ‟i neri vengano trattati come uomini. Non vediamo altra strada per raggiungere la pace e il progresso". Nel frattempo a queste voci se ne unirono altre provenienti dalla stessa Africa. Nel 1920, ad esempio, le quattro colonie dell'Africa occidentale britannica (Nigeria, Costa d'Oro, Sierra Leone, Gambia) - create dagli insediamenti di quanti erano stati ‛ricatturati' un secolo prima - vararono un ambizioso progetto che mirava a un cambiamento costituzionale in senso anticoloniale. Ciò avvenne con la formazione del National Council of British West Africa, il cui obiettivo era promuovere una federazione delle quattro colonie che preludesse alla loro indipendenza e che costituisse il primo passo verso una qualche forma di unità continentale, ossia panafricana. In una significativa dichiarazione del 1921, il presidente di tale Consiglio, l'avvocato J. E. Casely Hayford, originario della Costa d'Oro, affermava: ‟così come esiste un sentimento di fratellanza internazionale tra tutti i bianchi, tra tutti i bruni e tra tutti i gialli, allo stesso modo dev'esservi un sentimento internazionale tra tutta la gente nera".
Era questo un tema destinato a guadagnare forza. Scrivendo nel 1929 al pensatore americano nero Du Bois, il sudanese (occidentale) Tiémoko Garan Kouyaté spiegava che l'ambizioso scopo della League Against Imperialism, di recente formazione e attiva a Londra e Parigi, era ‟l'emancipazione politica, morale e intellettuale dell'intera razza negra", con l'obiettivo finale della costituzione di un grande Stato negro in Africa. Già in quegli anni, in breve, era avviata una sintesi di idee e intenti preesistenti concernenti l'‛Africa' e il suo speciale destino; da questo movimento sarebbe nato e si sarebbe sviluppato l'africanismo politico inteso come quadro di agitazione politica e faro verso un futuro libero.
Furono queste le idee che consentirono a quanti le propugnavano di accantonare - esattamente come avevano fatto molto tempo prima i ‛ricatturati' - le evidenti diversità e i conflitti esistenti tra le popolazioni africane, ‛appiattendo' il panorama etnico fintantoché non si fosse consolidata un'Africa non più etnica, priva di tali diversità e conflitti. L'esperienza aveva insegnato loro, spesso amaramente, che ciò che li univa indissolubilmente, il nero o il presunto nero della loro pelle, era un elemento assai più potente nel mondo non africano a loro noto di qualsiasi altro fattore di divisione. Questo significato dell'africanismo, soprattutto nella diaspora oltre Atlantico, era destinato a persistere a dispetto di ogni scoraggiamento e di ogni sconfitta. Quando, dopo la seconda guerra mondiale, si affermarono e fiorirono gli studi africanisti, è proprio questo significato che si sarebbe rafforzato con ogni nuova scoperta degli elementi di unità che erano stati alla base dello sviluppo culturale dell'Africa nel corso dei secoli, sia sul piano delle strutture religiose o socio-politiche, sia su quello della esperienza pressoché comune a tutta l'Africa della spoliazione coloniale. Esso avrebbe dato impulso ai primi nazionalisti degli anni cinquanta, e avrebbe portato infine, nel 1963, alla creazione dell'Organizzazione dell'Unità Africana. Per tutti questi aspetti la concezione unificante dell'africanismo può essere quindi considerata una delle ideologie creative del XX secolo.
Nel frattempo, l'istituzione di sistemi coloniali stabili dopo il primo conflitto mondiale aveva cominciato ad attenuare il rozzo atteggiamento di rifiuto mostrato dai conquistatori nei confronti delle popolazioni che essi avevano rinchiuso entro i confini geografici di questo nuovo imperialismo. In parte questo nuovo atteggiamento rispondeva all'esigenza di studiare in modo scientifico tali popolazioni, specialmente nell'ambito delle nuove discipline antropologiche, e in parte nasceva dalla curiosità di un piccolo gruppo di funzionari coloniali, il cui prolungato contatto con l'Africa aveva stimolato l'interesse per le culture indigene. Lo studio della storia dell'Africa e dell'evoluzione delle sue istituzioni socio-politiche cominciava a sembrare possibile e persino auspicabile.
Un ruolo importante nel favorire queste influenze africaniste esterne fu quello svolto dall'International African Institute, fondato a Londra nel 1927, e dalla sua prestigiosa rivista, ‟Africa", nata l'anno successivo. Un'analoga iniziativa in Francia, anch'essa ispirata ai bisogni pratici di una amministrazione coloniale in espansione, alle prese con il problema di mantenere la pace, fu intrapresa nel 1933 dall'etnologo francese Marcel Griaule: la Société des Africanistes - il nome stesso indica come la nuova accezione di ‛africanismo' fosse ormai ampiamente accettata -, che fu seguita nel 1936 dalla fondazione a Dakar, capitale del sistema coloniale francese dell'Africa occidentale, dell'Institut Français de l'Afrique Noire (IFAN), che avrebbe acquistato un'importanza scientifica di primo piano. Analoghi interessi emersero in Belgio, mentre in Italia, in Germania e in Portogallo un serio studio dell'Africa fu impedito dall'ascesa del fascismo con le sue varie forme di politica razzista.
Questo era il quadro generale alla fine degli anni trenta, quando, sconvolgendo lo stagnante panorama di un imperialismo convenzionale, i grandi rivolgimenti del secondo conflitto mondiale aprirono prospettive prima ritenute impossibili. Un ruolo importante in questo senso ebbe lo smantellamento dei sistemi coloniali, che lasciarono il posto a un'Africa ormai libera di esprimersi e persino di agire autonomamente. Ciò ebbe delle ripercussioni anche sullo studio dell'Africa, conferendo all'africanismo un'importanza e un rigore scientifico del tutto nuovi.
3. La maturità scientifica
Alla fine della seconda guerra mondiale, che aveva visto la vittoria delle nazioni democratiche, il periodo dell'imperialismo diretto in Africa fu generalmente considerato prossimo alla fine, e questa convinzione si fece strada gradualmente persino nello squallido panorama del Portogallo fascista. Per ragioni la cui analisi esula dall'ambito di questa trattazione, per l'Africa si preparavano nuove forme di indipendenza postcoloniale. Questo impetuoso sviluppo fu debitamente annunciato, di poco in anticipo sui tempi, dall'ultimo congresso panafricano, tenutosi a Manchester nell'ottobre del 1945. Presenziato da 90 delegati di varia provenienza, tale congresso spostò il dibattito su un terreno completamente nuovo, trasferendo per la prima volta ma in modo decisivo l'africanismo - inteso in un senso altamente politico di tipo continentale - dalla diaspora nera al continente africano stesso. Du Bois era presente, al pari di eminenti attivisti caraibici quali George Padmore (1902-1959, originario della Guyana) e C. L. R. James (1901-1991, originario di Trinidad); ma vi erano anche personaggi di spicco della vita politica africana, tra cui due futuri presidenti di repubbliche indipendenti: Kwame Nkrumah (1909-1972), della Costa d'Oro (Ghana dopo il 1956), e Jomo Kenyatta (1891-1978), del Kenya, nonché un veterano tra gli attivisti della Sierra Leone, I. T. A. Wallace-Johnson (1895-1965) e un considerevole contingente di nigeriani. ‟Siamo determinati a essere liberi", affermarono i partecipanti: ‟se il mondo occidentale è ancora intenzionato a governare il genere umano con la forza, allora gli Africani, come ultima risorsa, potrebbero essere costretti a loro volta a far ricorso alla forza nel tentativo di conquistare la libertà".
A partire dalla regione subsahariana, con l'indipendenza del Ghana nel 1975, quel processo disorganico, spesso confuso, che oggi viene definito ‛decolonizzazione', venne portato gradatamente a compimento nella maggior parte del continente. Paradossalmente, la decolonizzazione non portò alla nascita di forme di unità africana, bensì al costituirsi di altrettante repubbliche, formalmente sovrane, quante erano state le colonie; il panafricanismo, tranne che in occasioni formali e puramente celebrative, sembrava ormai confinato nell'ambito di una retorica da salotto. La risposta finale, quale ha cominciato a delinearsi negli anni novanta sia pure in modo controverso, sarà differente. Una delle ragioni che stanno alla base di questa diversità - sottolineando ancora una volta la validità intellettuale di un africanismo esteso ora a tutto il continente, sia a sud che a nord del Sahara, sia cristiano che musulmano o di altra fede - fu individuata, già negli anni sessanta, nello sviluppo impetuoso e articolato dello studio umanistico e scientifico dell'Africa. Si affermava ora, con crescente sicurezza, la necessità che l'africanismo si rendesse autonomo. La raggiunta maturità scientifica di questo campo di studi avrebbe dovuto consentirgli di proclamare la propria indipendenza liberandosi dalla tutela degli orientalisti che, se si era rivelata utile in passato per difendersi da uno scetticismo pieno di pregiudizi, era ora divenuta un ostacolo per l'analisi e la ricerca. L'africanismo scientifico era diventato adulto e doveva essere riconosciuto come tale. Fu questo il tema di apertura di una importante conferenza tenuta presso l'Università del Ghana, a Legon, nei dintorni di Accra, tra l'11 e il 18 dicembre 1962, che costituì il primo congresso internazionale degli africanisti.
La convinzione che l'africanismo, lo studio dell'Africa, avesse raggiunto la maturità scientifica fu espressa nella sessione plenaria di apertura del congresso dal veterano degli africanisti statunitensi, Melville J. Herskovits. Egli ribadì che ‟gli studi sull'Africa non devono più restare un'appendice dell'orientalistica", e che la vecchia terminologia era diventata ‟un'assurdità geografica". Tra il consenso generale Herskovits enunciò quello che sarebbe diventato uno dei punti focali degli atti congressuali che seguirono: l'africanismo doveva liberarsi dall'impostazione eurocentrica e dalla miopia del periodo coloniale. Si trattava di tematiche destinate a riproporsi in modo sempre più insistente negli anni successivi. Ora che quasi tutte le popolazioni africane, con l'avanzare della decolonizzazione, erano già o erano in procinto di diventare i soggetti della propria storia e della propria cultura, piuttosto che oggetti della tutela e del dominio coloniali, non si poteva più accettare che gli studi di africanistica fossero relegati a costituire solo una branca dell'orientalistica.
Questa necessità risultava da tempo evidente agli studiosi. Molto era stato già conseguito nei pochi anni trascorsi dalla fine della seconda guerra mondiale. ‟Si andavano forgiando [...] nuove concezioni delle risorse africane, sia umane che materiali", poteva affermare Herskovits. ‟Gli Africani erano ora un fattore attivo nel dirigere i propri destini politici", anche se nel mondo sviluppato continuava a farsi sentire il peso di una cultura imperialista e di conseguenza grettamente razzista. Nell'ambito accademico gli Africani erano ormai diventati ‛colleghi' come mai prima d'allora, e ciò aveva dato grande impulso alla ricerca nella stessa Africa. ‟Prima della seconda guerra mondiale - ricordò Herskovits in quella conferenza - diversi Africani erano andati all'estero per l'istruzione superiore, di solito nelle università delle loro metropoli o, in alcuni casi, degli Stati Uniti e del Canada; ma si trattava di un'esigua minoranza rispetto alle centinaia e poi migliaia di studenti che affluirono in seguito nelle università e nei politecnici dell'Inghilterra e della Francia, nei colleges e nelle università degli Stati Uniti e, con l'andar del tempo, di altri paesi dell'Europa occidentale, della Cecoslovacchia e dell'Unione Sovietica, di Israele, dell'India e della Cina".
Il fatto che questo africanismo ormai sicuro di sé avesse acquisito una dimensione internazionale era attestato anche dalla composizione del comitato organizzatore del congresso, che non risentì delle pressioni, già allora fortemente inibitorie, della guerra fredda. Oltre allo stesso Herskovits, facevano parte del comitato Ivan Potekhine, dell'Istituto per l'Africa dell'Accademia delle Scienze dell'URSS, insigni africanisti britannici e francesi e delegati di molte altre nazioni, tra cui l'illustre etiopista italiano Enrico Cerulli. Tuttavia, la caratteristica più notevole di questo consesso di africanisti era costituita dal fatto che il congresso si svolgeva in Africa, e che sia il presidente che i delegati erano africani - cosa impensabile prima della guerra.
Il congresso si tenne presso l'Università di Legon, e fu energicamente appoggiato dal governo del Ghana, allora al suo quinto anno di indipendenza. La prolusione della sessione inaugurale fu affidata al presidente Nkrumah, che ebbe cura di collegare il congresso alle tradizioni indigene. Egli ricordò le parole pronunciate da uno studente zulu (sudafricano), Isaka Seme, quando, 57 anni prima, aveva ricevuto un premio dalla Columbia University. ‟Gli Africani - aveva detto Seme nel 1906 - sono già consapevoli della loro posizione anomala e desiderano un cambiamento. Un giorno più luminoso sta sorgendo sull'Africa. Già mi pare di vedere dissolversi le sue catene [...] La rigenerazione dell'Africa significa che una nuova, peculiare civiltà sta per arricchire il mondo". Questa visione poteva apparire utopistica e indubbiamente troppo ottimistica; e tuttavia, riproposta da Nkrumah al congresso di africanisti nel 1962, sembrava appropriata ai compiti futuri.
Il congresso fu presieduto dallo storico nigeriano K. Onwuka Dike, allora vicerettore della più importante università africana, quella di Ibadan. Affiancato da studiosi africani i cui nomi stavano diventando celebri e che di lì a breve sarebbero stati all'avanguardia nelle rispettive discipline, Dike sostenne la necessità di ampliare l'ambito degli studi africani: ‟A mio avviso - egli affermò - non si dovrebbe escludere dalle nostre discussioni alcun tema vitale per la comprensione della nostra cultura o necessario per sviluppare le nostre risorse umane e materiali. I delegati del mio paese rispecchiano questo più ampio approccio agli studi africani e quindi - in un'epoca, aggiungiamo noi, in cui gli studi scientifici in Africa erano ancora agli inizi - includono un biochimico, un pediatra, nonché storici, agronomi, economisti e studiosi di politica". Dike espresse la speranza che il congresso avrebbe ‟cercato di superare la tradizionale divisione tra discipline umanistiche e scienze pure".
Alla base di questo atteggiamento vi era la consapevolezza della necessità di rompere, pubblicamente e con una nuova fiducia in se stessi, quelle barriere mentali che per tanto tempo avevano limitato gli approcci alle realtà del continente. Per assolvere il suo compito l'africanismo (e si ricordi che il sostantivo era ancora usato raramente) avrebbe dovuto abbandonare, come ebbe a dire Dike riferendosi alla storia, i ‟miti sorpassati e ormai insostenibili" che ‟hanno continuato a dominare l'interpretazione del passato africano"; ad esempio, l'allora diffusa ‛ipotesi camitica', secondo cui i Negri non avrebbero dato alcun contributo al progresso umano, mentre le civiltà africane sarebbero state in realtà civiltà dei ‛Camiti'. Il locus classicus di questa ‛teoria' - di cui da tempo si è dimostrata l'inattendibilità, ma che nel 1962 era ancora dibattuta - può essere individuato in uno scritto del 1930 di C. G. Seligman. Questi aveva affermato che ‟non sarebbe un'esagerazione dire che la storia dell'Africa subsahariana non è altro che la storia della penetrazione nel corso dei secoli, con gradi e tempi diversi, del sangue e della cultura camiti tra gli aborigeni Negri e Boscimani"; era sottinteso che ‟il sangue e la cultura" camiti, per quanto entità misteriose se non mitiche, avevano avuto origine al di fuori dell'Africa, probabilmente nell'area caucasica. Queste fantasie, e altre della stessa natura - affermava Dike - dovevano essere abbandonate una volta per tutte.
Lo stesso tema fu sviluppato dallo psicologo nigeriano T. Adeoye Lambo, i cui successi clinici in Nigeria gli avevano già procurato una fama internazionale. Il suo intervento, intitolato Significative aree di ignoranza e di incertezza nello studio della psicologia africana, è un altro indicatore del clima intellettuale in cui questo africanismo ormai maturo riaffermava la propria autonomia. Lambo criticava la povertà intellettuale che caratterizzava il recente lavoro di una serie di ricercatori e autori non africani, ribadendo nel contempo, al pari di altri delegati africani, la necessità che lo studio dell'Africa fosse coltivato a livello internazionale. Alcuni esponenti della recente ricerca psicologica e sociologica su argomenti concernenti l'Africa, egli affermava, ‟hanno prodotto lavori che nel caso peggiore - e ne menzionava parecchi - non sono altro che romanzi o aneddoti pseudoscientifici manifestamente etnocentrici; nel caso migliore - e ne menzionava molti altri ancora - sono compendi enciclopedici di notizie fuorvianti [...] così zeppi di palesi lacune e di incoerenze che non possono più essere seriamente presentati come osservazioni aventi un qualche valore scientifico". La civiltà occidentale, affermava Lambo, ha dimostrato un grandissimo interesse per le istituzioni sociali e culturali esotiche e per le loro implicazioni sul piano psicologico, rivelando al contempo una profonda ignoranza sull'argomento. Egli ricordava in proposito come, ancora nel 1951, uno studio britannico fosse giunto alla sconcertante conclusione che ‟la mentalità africana normale è assai simile alla mentalità di quel settore della popolazione europea comunemente definita psicopatica o sociopatica", laddove ‟la somiglianza dei pazienti europei lobotomizzati con gli Africani primitivi è per molti versi totale". Per eliminare queste assurdità Lambo auspicava lo sviluppo di una ricerca più completa e qualitativamente migliore in tutti i campi della psicologia e della sociologia. L'appello di Lambo risultò uno dei temi centrali del congresso; esso sarebbe stato raccolto negli anni seguenti.
A pochi anni di distanza dal congresso, gli studi scientifici e umanistici sull'Africa avevano avuto un notevole sviluppo non solo in tutti i principali paesi del mondo, ma anche in molti paesi minori. Ciò vale in particolare per il continente africano stesso, dove le poche scuole secondarie e i due o tre colleges universitari del periodo coloniale si erano rapidamente moltiplicati dopo la decolonizzazione. Vi fu un aumento dell'interesse nei confronti dell'Africa mai registrato in precedenza. Nuovi libri di testo vennero scritti per le discipline umanistiche e, a poco a poco, anche per quelle scientifiche. Questo processo divenne sempre più accentuato col progredire della decolonizzazione, e verso gli anni ottanta aveva interessato più o meno profondamente ogni paese africano, fatta eccezione (sino agli anni novanta) per la Repubblica del Sudafrica, all'epoca violentemente razzista.
Anche al di fuori dell'Africa si verificò un analogo, positivo sviluppo degli studi sull'Africa. Si moltiplicarono i ‛Centri di studi africani', come venivano spesso chiamati, che poterono beneficiare di generose sovvenzioni pubbliche, sia negli Stati Uniti che in Europa e nell'URSS, fintantoché rimase vivo (e ciò vale soprattutto per gli anni ottanta) lo stimolo delle rivalità politiche e ideologiche, sentite peraltro più dai governi e da pedagoghi istituzionali che non dagli studiosi.
4. Questioni metodologiche
Negli anni sessanta e sino alla fine degli anni settanta si poteva avere l'impressione che l'africanismo avesse cominciato a superare i suoi confini originari, quelli, cioè, di una semplice ‛ricerca della verità storica'. La necessità di asserire la specificità e il valore delle culture africane non sembrava più tanto urgente, né agli Africani più colti che intendevano riaffermare la propria dignità nel mondo postcoloniale, né ai non Africani che si sforzavano di liberarsi, in ogni campo, da miti ed errori razzisti. L'atteggiamento difensivo che aveva caratterizzato il lavoro dei primi africanisti nel periodo coloniale iniziava, a quanto pareva, a scomparire. Si poteva cominciare a tralasciare il banale compito di dover replicare ai pregiudizi culturali europei o, più in generale, ‛occidentali'.
Una serie di questioni metodologiche, assieme all'accrescersi delle conoscenze e a una maggiore sicurezza nei propri mezzi, contribuì a confermare questo processo. Una di tali questioni riguardava la natura delle fonti e dei documenti della storia africana. Già negli anni cinquanta si era arrivati alla convinzione che le testimonianze scritte relative alla storia africana fossero assai più ricche di quanto si ritenesse, soprattutto quelle relative al periodo, coincidente grosso modo con il Medioevo europeo, che aveva visto l'affermarsi dell'alfabetizzazione nell'Arabia meridionale e nelle regioni a nord del Sahara. Questa nuova consapevolezza, che può essere fatta risalire agli anni cinquanta dell'Ottocento, fu promossa dalla pubblicazione a Londra dei resoconti dei viaggi di Heinrich Barth nel Sudan occidentale e con la successiva riscoperta da parte degli Europei di alcuni testi fondamentali, inizialmente in traduzione francese, quali il Tarikh al-Sudan, composto a Timbuktu verso il 1660 ma fino ad allora sconosciuto in Europa. Il nuovo africanismo sperava di poter recuperare altri documenti di questo tipo, scritti sia in arabo che in ajami (lingue indigene traslitterate in caratteri arabi), e questa speranza non andò disattesa. Nello stesso tempo cominciarono a esser presi in considerazione documenti fino a quel momento trascurati o dimenticati negli archivi europei delle società missionarie, delle compagnie commerciali e delle amministrazioni coloniali. Anche in questo caso il risultato fu una ricca messe di testimonianze e di informazioni.
Tuttavia, già allora era chiaro che la ricerca non poteva basarsi unicamente su fonti scritte. In un continente che in larga parte ignorava ancora la scrittura, la ricerca doveva estendersi alla storia e alla tradizione orali. Quali risultati si potessero conseguire basandosi sulle fonti orali era stato dimostrato da Samuel Johnson, un sacerdote yoruba di Oyo, in Nigeria, autore di una Storia degli Yoruba (1921), e da un capo degli Edo, J. U. Egharevba, che aveva raccolto la storia orale dei re dell'antica città e Stato di Benin (da non confondersi, geograficamente o altrimenti, con l'attuale Benin, ex Repubblica di Dahomey). Sebbene queste fonti orali richiedessero un esercizio interpretativo altrettanto prudente di quello applicato ai documenti del Medioevo europeo, esse si rivelarono assai utili, facendo luce su molti aspetti fino ad allora oscuri.
Ciò che restava da dimostrare era il valore delle testimonianze orali nel caso di tutti quei popoli che non possedevano ‛memorie' ufficiali di un qualche tipo, legate o meno alla corte di un sovrano, o la cui memoria storica non sembrava andare più in là di un recente passato. A tal fine un'efficace metodologia fu proposta dallo storico belga Jan Vansina in un'opera di importanza fondamentale, De la tradition orale: essai sur la méthode historique, pubblicata per la prima volta nel 1961. Altre seguirono, basate anch'esse, come quella di Vansina, sulla ricerca sul campo. Rimarchevole sotto questo riguardo è una storia delle comunità Luo (in Uganda e in Kenya), che cominciò a essere pubblicata nel 1967 dallo storico luo B. A. Ogot. Più in generale, la pubblicazione di testimonianze orali in traduzione inglese e francese (raramente in altre lingue) ha arricchito la conoscenza storica e sociologica dell'Africa, migliorando la nostra comprensione del cambiamento istituzionale e culturale presso i popoli che non conoscono la scrittura.
L'africanismo moderno doveva costantemente ribadire che il suo ambito di studi si estendeva a tutto il continente, sia a nord che a sud del Sahara; anche a questo riguardo occorreva apportare delle modifiche nei metodi d'indagine. In generale durante l'egemonia imperialista europea, per tutto l'Ottocento e anche dopo la fine del secolo, lo studio delle regioni africane a nord del grande deserto era prerogativa degli studiosi delle civiltà arabe e islamiche, degli egittologi o degli etiopisti. Questi tendevano a provare che le culture delle varie regioni dell'Africa settentrionale oggetto del loro studio fossero in qualche modo isolate dalle altre culture africane, e che potessero in genere essere ritenute di derivazione asiatica. Ma la riflessione degli africanisti sulle connessioni tra le culture a nord e a sud del Sahara aveva portato alla convinzione che nessuna di esse poteva essere compresa prescindendo dalle altre. Pur dando il giusto peso alle fonti non africane e alle influenze delle culture araba e islamica, gli africanisti mettevano ora l'accento anche sul processo di iniziativa e di sviluppo culturale che doveva la sua forza e la sua originalità a tutte le principali popolazioni del continente. Tale convincimento venne rafforzato da nuovi studi, in particolare nel campo del diritto e delle istituzioni politiche, che sottolineavano le influenze reciproche tra le culture di entrambe le ‛sponde' del deserto. I contributi degli africanisti agli studi sui Berberi, alla riscoperta dei testi islamici nell'Africa occidentale e - in misura minore, ma pur sempre significativa - in quella orientale, nonché le nuove traduzioni in lingue europee di fonti classiche arabe, sono stati alcuni dei risultati più notevoli di questo approccio. Gli studi africani e arabi sono così riusciti a procedere insieme proficuamente.
Per lungo tempo l'egittologia si dimostrò un partner più difficile in questa impresa di ricerca ecumenica. L'Egitto dei Faraoni andava considerato parte dell'Africa? Fino ad allora, nell'epoca dell'imperialismo moderno, il problema non si era quasi posto. Si trattava di un argomento troppo imbarazzante per coloro i quali ritenevano, in accordo con i diffusi pregiudizi razziali dell'epoca, che il lungo dominio imperialista esercitato sulle popolazioni africane del Sahara fosse giustificato dal fatto che si fossero dimostrate incapaci di intraprendere un autonomo processo di civilizzazione. Le testimonianze degli autori della Grecia classica, da Erodoto a Diodoro Siculo e altri storici, che per oltre quattro secoli avevano concordemente sostenuto che le culture dell'Egitto dei Faraoni erano di origine e derivazione africana, andavano quindi rigettate; la civiltà dell'Egitto dei Faraoni si sarebbe sviluppata in virtù del ‛genio nazionale' di quel popolo, oppure sarebbe derivata dalle culture mesopotamiche; l'Africa Nera, in ogni caso, aveva avuto un'influenza del tutto marginale. Questa concezione, o convinzione, venne sottoposta a critiche sempre più serrate dall'africanismo degli anni sessanta e ritenuta nient'altro che il frutto dei pregiudizi della cultura imperialista. La discussione continuò, come attesta in modo efficace il secondo volume della Storia generale dell'Africa, pubblicato negli anni ottanta (v. Mokhtar, 1981, p. 58). La cooperazione con gli etiopisti si è rivelata invece meno spinosa, sebbene anche in questo caso la tradizione di un'etiopistica non africana si sia dimostrata dura a morire.
In generale, nel periodo intensamente costruttivo compreso all'incirca tra il 1950 e il 1975, gli studiosi dell'Africa trovarono più motivi di unione che di divisione, nonostante la varietà e la diversificazione dei loro approcci. In particolare, l'archeologia africana ha fatto enormi passi avanti in quei decenni, grazie in non piccola misura all'applicazione delle nuove tecniche di datazione dei materiali organici, soprattutto attraverso il radiocarbonio (14C); le scoperte di questa archeologia sono diventate una parte integrante dei moderni studi umanistici. Lo stesso discorso vale per la linguistica africana: in questo campo la ricerca di J. H. Greenberg e dei suoi colleghi e successori ha posto le basi per una comprensione più approfondita dei principali ceppi linguistici e dei loro percorsi evolutivi.
La scienza politica, disciplina in espansione dopo la seconda guerra mondiale, ha contribuito a dare spessore e prospettiva a sistemi e strutture di società e di governo che sino ad allora erano sembrati privi di ogni capacità di sviluppo autonomo. Lo stesso vale per lo studio del diritto africano. Un esempio significativo in questo campo è rappresentato da un'opera del giurista nigeriano T. O. Elias (v., 1956), con la quale egli si propose di far piazza pulita di una serie di preconcetti imperialistici assai diffusi, secondo cui il diritto in senso proprio sarebbe arrivato in Africa solo con la dominazione colonialista; prima di allora vi sarebbe stata solo una congerie di consuetudini che, a ogni modo, non costituivano un diritto. L'opera di Elias sortì il suo effetto, e altri studiosi hanno seguito il suo esempio illuminante.
Nel complesso, si può dire che la tendenza, culminata nel congresso del 1962, a considerare l'africanismo un aspetto essenziale, e quindi pienamente legittimo, dello studio del genere umano, avrebbe fatto molta strada verso la sua piena realizzazione.
5. Idee e programmi di unità continentale
Il progressivo avvicinamento all'idea e alla pratica di cooperazione e unificazione degli sforzi che si andava realizzando nel mondo accademico doveva ora proseguire sul terreno assai più complesso e difficile della politica. Nel rilevare l'ostinazione e l'intraprendenza dimostrata in questa ‛marcia verso l'unità' durante e dopo gli anni cinquanta, vanno tenuti presenti i vantaggi e gli svantaggi di una costante influenza esercitata dalla diaspora nera nordamericana e caraibica. Questa influenza può essere considerata da un lato eminentemente pratica, dall'altro improntata a un panafricanismo messianico. Per quanto riguarda il lato pratico, essa si tradusse in una critica serrata e coraggiosa dell'imperialismo europeo in Africa, in un sostegno concreto agli attivisti africani che sarebbe stato difficile se non impossibile per loro ottenere in altro modo, e in una sfida ai partiti e alle correnti di opinione liberali e di sinistra dell'Europa occidentale a mettere in pratica i principî sbandierati nella loro retorica antimperialistica. Prima dello scoppio della seconda guerra mondiale e dell'indebolimento dell'imperialismo europeo in Africa, tutto ciò non poteva avere che un impatto minimo sulle correnti di opinione europee e nessuna incidenza sulle decisioni politiche, ma fu nondimeno utile ai panafricanisti e a tutti coloro che si preparavano ad aderire alle campagne anticolonialiste, perlomeno in quanto creò un piccolo spazio per la mobilitazione antimperialista.
Per quanto riguarda invece la dimensione messianica, questa influenza della diaspora nera ebbe scarsa connessione con le realtà e i problemi concreti, contribuendo ad alimentare l'illusione che le popolazioni africane fossero indifferenziate, essenzialmente prive di conflitti e divisioni interne. Tuttavia, la storia degli ultimi anni dimostra che questa illusione, palesemente tale in superficie, nascondeva però una verità più profonda. Se le minoranze nere della diaspora oltre Atlantico erano divise da fattori geografici o di altro tipo, erano perlomeno unite dal colore della pelle e dalle conseguenti discriminazioni derivate dai pregiudizi razzisti dei bianchi. L'idea di un antimperialismo radicale aveva cominciato a guadagnare terreno ancor prima della grande guerra, ed era molto diffusa alla sua fine. Era del tutto naturale che la diaspora nera confrontasse la propria condizione con quella degli Africani che avevano subito la spoliazione coloniale. Tutti i neri, in questa prospettiva, dovevano essere alleati naturali. Una volta che tale concetto fosse stato adeguatamente spiegato e compreso, sarebbe stato possibile arrivare a un'unità di pensiero e di azione. Nel corso degli anni venti questa idea si propagò da oltre Atlantico ai piccoli gruppi di Africani che vivevano nell'Europa occidentale, soprattutto in Francia e in modo particolare a Parigi. I programmi politici dell'africanismo, per quanto pressoché ignorati da altri, divennero per questi esiliati o profughi un articolo di fervida fede.
Le iniziative intraprese sotto la spinta di queste idee dagli attivisti anticolonialisti - che in periodo di repressione e di censura da parte dei regimi coloniali erano perlopiù costretti a vivere in esilio (fatta eccezione per una presenza, ampiamente ridotta al silenzio, in Sudafrica) - si concretarono nella convocazione di innumerevoli piccoli convegni, conferenze, congressi, e nella pubblicazione di svariati giornali. La maggior parte di queste iniziative ebbe vita effimera, e tuttavia il loro effetto cumulativo si fece sentire. Esemplari a questo riguardo possono essere considerate la figura e l'opera dello scrittore e attivista sudanese Tiémoko Garan Kouyaté, già ricordato in precedenza. Nato nel 1900 circa, questo illustre protagonista degli anni del primo entusiasmo panafricano morì, probabilmente assassinato, durante l'occupazione nazista della Francia nel 1942, in circostanze non ancora chiarite. Alla fine degli anni venti, assieme ad altri Africani residenti a Parigi, tra cui il senegalese Lamine Senghor (da non confondersi con il ben più famoso Senghor, futuro presidente del Senegal indipendente), egli aveva creato una piccola ‛organizzazione', clandestina ma assai attiva, denominata Ligue pour la Défense de la Race Nègre. Portando avanti la loro campagna anticolonialista nel cupo clima politico di quegli anni, e invariabilmente ostacolati dalla sorveglianza della polizia, Kouyaté e i suoi compagni rivolsero naturalmente i loro pensieri agli Stati Uniti, in cui le idee del panafricanismo, sotto la guida di Marcus Garvey, di Du Bois e di altri attivisti, erano già ben consolidate. Una lettera scritta da Kouyaté a Du Bois nel 1929 - fortunatamente conservata negli archivi nazionali della Repubblica del Benin - illustra quello che era diventato (ed è forse rimasto sino ai nostri giorni) un programma globale di emancipazione dei neri. La lettera inizia con una richiesta di aiuto fraterno, poiché all'epoca gli Africani residenti in Europa non potevano contare su risorse autonome, e prosegue illustrando gli obiettivi che la Ligue cercava di raggiungere. ‟Il fine della nostra Ligue - scrive Kouyaté a Du Bois - è l'emancipazione politica, economica, morale e intellettuale dell'intera razza negra. Si tratta di riconquistare, con tutti i mezzi legittimi, l'indipendenza nazionale - e il termine ‛nazionale', usato nel 1929, dà da pensare - delle popolazioni negre nei territori coloniali di Francia, Inghilterra, Belgio, Italia, Spagna, Portogallo, ecc. [...] e di istituire nell'Africa Nera un grande Stato negro. Le popolazioni nere dei Caraibi conserveranno il diritto di creare una propria confederazione, o di ricongiungersi all'Africa Nera una volta che questa sia stata riconquistata [...] Il punto cruciale è l'unificazione del movimento mondiale dei Negri e la costituzione di un movimento comune senza mai perdere di vista le specificità dei singoli aspetti" (cit. in Langley, 1973, p. 312).
L'idea di un'unificazione acquistò forza dopo la seconda guerra mondiale, che aveva minato le fondamenta del sistema coloniale europeo mettendo in moto il processo di decolonizzazione. Le colonie dipendenti dovevano diventare Stati sovrani: niente di più naturale, quindi, che unificarle all'interno della visione panafricana. Ed è in questa situazione che si trovarono a svolgere un ruolo importante alcuni leaders dell'emergente nazionalismo che avevano soggiornato negli Stati Uniti o erano stati influenzati dagli Afroamericani. I singoli territori ‛decolonizzati' - essi sostenevano - isolatamente sarebbero stati una presenza debole e scarsamente influente sulla scena internazionale, mentre unendosi tra di loro avrebbero potuto occupare una posizione ben diversa. Il ragionamento era convincente e fu accettato con entusiasmo, perché in quegli anni (e anche in seguito) i lealismi degli Africani erano indirizzati alle comunità etniche d'origine e non, o solo in pochissimi casi, alle unità create artificialmente dal colonialismo. I Nigeriani, per citare un esempio tipico, si riconoscevano come Yoruba, o Ibo, o Haussa, ecc., ma assai di rado, per il momento, come Nigeriani (in che misura i criteri di autoidentificazione siano realmente cambiati è una questione accesamente dibattuta ancora negli anni novanta). Nel frattempo, non appena divenne presidente del Ghana indipendente nel 1957 - la prima delle colonie subsahariane a raggiungere questo status - l'allora ‛astro nascente' dell'autoaffermazione africanista, Kwame Nkrumah, avanzò in modo memorabile la richiesta di una totale decolonizzazione e, servendosi dei fondi pubblici di cui allora disponeva, appoggiò questa richiesta con la sponsorizzazione di una serie di congressi politici che avevano come tema l'unificazione.
L'importanza storica di queste varie iniziative non risiedeva tanto nei loro contenuti concreti, quanto nel fatto che grazie a esse l'Africa poteva presentarsi come nuova realtà politica sulla scena mondiale. Il primo congresso dei nuovi Stati indipendenti africani - che all'epoca erano otto, comprese Etiopia e Liberia - si tenne ad Accra, capitale del Ghana, già nell'aprile del 1958, appena un anno dopo che la colonia britannica della Costa d'Oro era diventata Stato del Ghana. Si può affermare senz'altro che questo congresso segnò la nascita ufficiale del movimento panafricano in terra africana, e tale fu considerato all'epoca. Nkrumah poté parlare a ragione di una conferenza memorabile: ‟è la prima volta nella storia - disse nel suo discorso inaugurale - che i rappresentanti di Stati sovrani indipendenti in Africa si riuniscono allo scopo di istituire più stretti legami di amicizia, fratellanza e solidarietà tra di loro". Con parole che sarebbero divenute celebri, Nkrumah dichiarò: ‟se nel passato il Sahara ci divideva, ora ci unisce. E l'offesa a uno di noi è un'offesa a tutti noi. Da questa conferenza deve scaturire un nuovo messaggio: giù le mani dall'Africa, l'Africa deve essere libera!".
Successivamente, nel corso dello stesso anno, superando ogni sorta di difficoltà logistiche e politiche, Nkrumah riuscì a organizzare un imponente convegno di leaders politici e portavoce di partiti o movimenti nazionalisti africani anticolonialisti; anche solo dal punto di vista dell'efficienza organizzativa, questo evento fu immediatamente considerato una pietra miliare. La maggior parte dei rappresentanti dell'Africa francese (occidentale o equatoriale) rifiutarono di partecipare con l'eccezione della Guinea, creando così i presupposti di un futuro contrasto determinato essenzialmente dagli atteggiamenti e dai preconcetti imperialisti della Francia. Per il resto, però, il convegno fu caratterizzato da una notevole e qualificata partecipazione, e poté annoverare addirittura parecchi nazionalisti delle colonie del Portogallo, all'epoca completamente chiuse al mondo esterno. Altri delegati provenivano dalla lontana Città del Capo in Sudafrica. Tra le figure di spicco vi fu il futuro leader del Kenya, Tom Mboya - Jomo Kenyatta e i suoi compagni erano ancora in carcere in Gran Bretagna, accusati di aver capeggiato la ribellione dei Mau Mau. Mboya, già un brillante oratore nonostante all'epoca mancasse ancora di esperienza, definì questa riunione senza precedenti di leaders nazionalisti ‟l'apice del sogno di una vita", ossia l'inizio della fine delle divisioni coloniali imposte al continente africano circa settant'anni prima.
Seguirono molti altri convegni, sui quali non possiamo soffermarci in dettaglio. Divenne subito evidente l'esistenza di profondi motivi di dissidio, che però in genere vennero accantonati passando decisamente in secondo piano rispetto al processo di decolonizzazione allora in corso. Viste in retrospettiva, le iniziative politiche di questi anni interessanti potrebbero essere considerate frutto di una fase di autoscoperta, in cui leaders politici e attivisti di varia autorità e influenza, molti dei quali erano personalità estremamente dinamiche, cercavano collettivamente di adeguarsi alla loro reale situazione in Africa e nel mondo. Apparentemente, essi erano liberi di plasmare il futuro del continente, riorganizzato secondo criteri razionali e quindi unito in una federazione; senza dubbio questo era ciò che avevano in mente uomini come Nkrumah e un piccolo gruppo di donne nazionaliste in numerosi territori. Ma a un livello di realtà più profondo si trattava, ovviamente, di una libertà molto limitata. A parte la loro inesperienza in campo amministrativo - cosa che, come si sarebbe visto in pratica, era di scarsa importanza, dato che i leaders nazionalisti in questi primi anni erano persone estremamente intelligenti e coraggiose (non avrebbero potuto sopravvivere se fosse stato altrimenti) - la vera limitazione era costituita dalla mancanza di potere economico. Con la fine dell'imperialismo politico essi avevano ereditato una ‛divisione del bottino' imperialista: il potere economico era detenuto, ora come prima, dai paesi dell'Europa occidentale e dal Nordamerica. I nazionalisti più avvertiti compresero questa debolezza cruciale. In seguito, forse, sarebbero riusciti a trovare il modo di superarla ma nel frattempo potevano solo elaborare e proclamare una serie di principî che servissero da guida per la loro azione futura. E se è vero che questi si sarebbero dimostrati eccessivamente ambiziosi, e solo in rari casi avrebbero trovato attuazione, tuttavia in una prospettiva storica la semplice enunciazione di tali principî di unità d'azione e di intenti - sempre di ispirazione panafricanista - non mancò di influenzare gli eventi futuri. Questi pionieri di una concreta unità africana ritennero giusto prendersi sul serio, anche se il resto del mondo si comportava altrimenti. Così, ad esempio, la conferenza di uno dei vari raggruppamenti politici costituitisi nei primi anni sessanta - quella del cosiddetto ‛gruppo di Monrovia', che si tenne nel maggio del 1961 - approvò una serie di risoluzioni che chiedevano: a) una assoluta eguaglianza e sovranità nei rapporti tra gli Stati di recente indipendenza; b) ‟il riconoscimento da parte di tutti gli interessati che ogni Stato africano ha il diritto di esistere", per cui ‟nessuno Stato avrebbe cercato di annetterne un altro" con la forza; c) l'unione volontaria di uno Stato con un altro ogniqualvolta tale unione si rendesse desiderabile e attuabile; d) e, per converso, la non ingerenza nelle questioni interne degli ‛Stati confratelli'; e) il divieto di dare asilo politico ai dissidenti di un altro Stato e l'assoluta condanna nei confronti delle attività sovversive negli Stati vicini.
Negli anni seguenti nessuno dei desiderata espressi venne rispettato da tutti, e spesso non furono nemmeno ricordati. Nondimeno si può affermare che essi fissarono uno standard di etica africanista che, per quanto non seguito nella pratica, continuò a esercitare un'influenza spirituale che perdura tuttora. Verso il 1960, quando il processo di decolonizzazione era ormai in atto nella maggior parte dell'Africa occidentale ed equatoriale, vennero decise anche alcune questioni relative all'identità africana. Dopo i miti e i costrutti ideologici che erano stati fonte di disunione durante il tardo periodo coloniale, appariva necessario, ad esempio, fissare un criterio per stabilire chi dovesse essere considerato africano e chi no. Il criterio prescelto, in linea generale, fu quello di considerare africano chiunque fosse originario del continente. ‟Dovrebbe essere ovvio - sostenne il veterano tra i nazionalisti nigeriani Nnamdi Azikiwe - che non può esservi un futuro degno per l'africanismo se non si adotta una definizione ampia dei termini. Per questo vorrei parlare delle popolazioni dell'Africa in termini generali, in modo da includere tutte le razze che vivono nel continente e abbracciare tutti i gruppi linguistici e culturali che vi risiedono" (N. Azikiwe, The future of pan-Africanism, 1961). Da allora questa definizione è rimasta sostanzialmente immutata. A tempo debito anche i coloni bianchi nativi del Sudafrica sarebbero stati riconosciuti senza difficoltà come Africani.
La formazione di gruppi di attivisti, l'organizzazione di svariate conferenze e il crescente ascolto che la causa africanista trovava in un mondo disposto ora a prestare attenzione a influenti personalità che parlavano dall'Africa e per l'Africa, tutto ciò dava l'impressione che l'africanismo godesse di ottima salute. In realtà, invece, cominciavano a porsi alcuni interrogativi cruciali che davano motivo di pensare altrimenti. Quali preferenze politiche e quali lealismi si sarebbero affermati nell'Africa postcoloniale? Quali pressioni e influenze esterne si sarebbero fatte sentire? Le rivalità tra le grandi potenze fornirono la risposta, dando luogo a devastanti ingerenze che assunsero forme diverse e furono la conseguenza da un lato dell'antagonismo colonialista tra la Francia e la Gran Bretagna, dall'altro dell'acuirsi della guerra fredda e della lotta per il dominio mondiale tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica. Queste ingerenze erano destinate a creare divisioni e discordie, e molti anni sarebbero passati prima di poter rimediare ai loro effetti distruttivi.
Per il momento, comunque, le conferenze africaniste e le risoluzioni da esse promulgate diedero l'occasione a intellettuali e nuovi leaders politici di sviluppare e propagare liberamente le proprie ideologie, e tale possibilità fu accolta con gioia dopo il silenzio forzato del periodo coloniale. Personalità di rilievo, dotate di notevoli capacità oratorie e comunicative (ancora ridotta era la presenza delle donne nella vita pubblica) quali Nkrumah e Azikiwe, Sékou Touré e Nyerer, cui si aggiungevano ora altri attivisti nord- e sudafricani, conferirono all'africanismo quelle caratteristiche distintive che avrebbe conservato anche negli anni di decadenza e fallimento che sarebbero venuti di lì a poco. Essi condannarono la repressione razzista ovunque si presentasse e denunziarono i crimini politici di violenza o corruzione. Con crescente sicurezza di sé, anche gli esponenti dell'ala moderata si sentirono spinti a sostenere, ad esempio, il diritto del popolo algerino, allora impegnato in una guerra di liberazione coloniale contro la Francia, di rivendicare la propria indipendenza, oppure a denunciare gli esperimenti atomici della Francia nel Sahara. Non vi era alcun tema politico scottante a cui gli africanisti non fornissero una piattaforma di dibattito o di contestazione.
Fu questo il contesto di programmi e di intenti politici all'interno del quale i più influenti tra gli africanisti, primo tra tutti Nkrumah, portarono avanti il loro progetto utopistico. In seguito, nella triste situazione creatasi negli anni ottanta, l'idealismo della loro filosofia africanista sarebbe stato ricordato con imbarazzo, e tuttavia la visione che li ispirava restava di grande impatto. Si trattava di una filosofia politica che intendeva ‟rifiutare ogni tipo di controllo straniero, nella forma sia del vecchio imperialismo, sia in quelle più sottili del ‛neocolonialismo' basato sul controllo finanziario e diplomatico, o della ‛balcanizzazione' di ampi territori in unità che, prese singolarmente, sono facilmente vulnerabili. Più positivamente, i politici radicali sono ansiosi di riscattare i loro popoli da secoli di degradazione, facendo sì che un mondo dal quale sono stati finora ignorati accordi loro piena dignità" (v. Thompson, 1969, pp. 169 ss.).
Fu questo il contesto di aspirazioni all'interno del quale numerose correnti africaniste confluirono, dando vita a un ampio movimento di agitazione politica che avrebbe avuto uno dei suoi successi più significativi nella creazione della Organization of African Unity nel 1963: a un anno di distanza, quindi, dal primo congresso indetto dai leaders intellettuali dell'africanismo nel Ghana.
6. Regionalismo e ‛non allineamento'
Una di queste correnti africaniste, che si sarebbe rivelata tra le più influenti, scaturiva dal nazionalismo anticolonialista dell'Africa orientale. La situazione dei suoi esponenti era più difficile e spesso più rischiosa di quella dei colleghi delle regioni occidentali del continente. Essi infatti dovevano farsi strada contro le minoranze di coloni bianchi, che in generale avevano goduto dell'appoggio della madrepatria britannica. Minoranze di questo tipo non esistevano nell'Africa occidentale, ed erano forti in quella francese solo in un paio di territori (in particolare in Camerun e nella Costa d'Avorio). Nell'Africa orientale britannica (che comprendeva il Tanganica, il Kenya, l'Uganda e l'isola di Zanzibar) queste minoranze perlopiù di origine britannica erano determinate a impadronirsi della ‛successione imperiale' quando la decolonizzazione fosse iniziata. Per contrastare queste ambizioni, i nazionalisti impegnati nella lotta anticoloniale cercarono anche di unificare la propria azione, obiettivo che riuscirono a conseguire in misura davvero notevole.
La loro organizzazione comune divenne operante già nel 1957 - e dunque quando la politica della decolonizzazione era appena agli inizi - allorché 21 delegati del Kenya, del Tanganica e dell'Uganda si riunirono a Mwanza (Tanganica) e vararono un programma di ‛unità e libertà' (uhuru na umoja in lingua swahili, che sarebbe stata riconosciuta come lingua nazionale). Venne creato il PAFMECA (Panafrican Freedom Movement of East and Central Africa; per ‛Central Africa' si intendevano i nazionalisti della colonialista Federazione dell'Africa Centrale, costituita nel 1953, che comprendeva la Rhodesia settentrionale e meridionale e il Nyassa: gli attuali Rhodesia, Zambia e Malawi). In seguito il PAFMECA fu esteso, almeno sulla carta, sino a comprendere tutte le formazioni politiche anticolonialiste del Sudafrica che avessero voluto unirsi, dando così origine al PAFMECSA.
Nonostante queste iniziative, però, vi erano già parecchi segnali che preannunciavano la futura sconfitta. Dati i limiti di questa trattazione, ci limiteremo a menzionarne solo due, che furono i primi presagi degli sconvolgimenti autodistruttivi che avrebbero portato gli anni a venire. Nel 1961, a distanza di pochi mesi dall'acquisizione dell'indipendenza formale del vasto territorio del Congo Belga, una serie di rivolte ‛tribali', cui si aggiunsero le pressioni esterne (scaturite dalla nuova, deleteria guerra fredda tra Est e Ovest), determinarono il collasso dell'esecutivo e la guerra civile; l'intrinseca fragilità dei progetti di unificazione divenne dolorosamente evidente. Più o meno negli stessi anni un'improvvisa interruzione delle trattative per l'unificazione tra le repubbliche del Senegal e del Sudan (Mali), nell'Africa occidentale, segnò la fine dei progetti più utopistici del primo panafricanismo. Si osservò allora che se il lungo periodo del colonialismo diretto si poteva definire concluso, o almeno prossimo alla conclusione, cominciava ora un periodo di ‛neocolonialismo'. La strada verso l'autoriappropriazione postcoloniale dell'Africa si rivelava assai più ardua e lunga di quanto avessero previsto i primi panafricanisti.
Nonostante questi segnali negativi, i capi degli Stati già formalmente indipendenti si riunirono ad Addis Abeba per proclamare la nascita di una organizzazione continentale. Tutti questi Stati (tranne il Marocco e il Togo, che si aggiunsero in un secondo tempo) si unirono per creare l'Organization of African Unity (OAU), con sede ad Addis Abeba, varando un programma di azione ad ampio raggio. L'OAU avrebbe dovuto promuovere l'unità o perlomeno la solidarietà di tutti gli Stati africani, inclusi quelli che si andavano formando nei mari e negli oceani circostanti. Essa avrebbe mirato inoltre a intensificare una cooperazione costruttiva tra questi Stati; a difendere la loro sovranità e la loro integrità territoriale; a eliminare ogni forma residua e ogni traccia di colonialismo; a unirsi al resto del mondo nel tentativo di promuovere gli interessi e i principî delle Nazioni Unite e della sua Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Al fine di realizzare questi obiettivi e programmi politici, gli Stati membri dell'OAU intendevano intraprendere una serie di passi per avviare una proficua cooperazione in ogni campo rilevante dell'azione economica, politica e sociale. A livello operativo, l'OAU fu dotata di istituzioni interamente nuove, in particolare di un'Assemblea di capi di Stato e di governo, di un Consiglio dei ministri nominato da tale assemblea, di un Segretariato generale (con sede ad Addis Abeba) e di una Commissione cui erano affidati compiti di mediazione, conciliazione e arbitrato a beneficio della pace e della concordia tra gli Stati membri. Altre disposizioni riguardavano i finanziamenti e questioni analoghe.
Questi intenti avrebbero in effetti potuto conferire all'OAU una dimensione utopistica, e tuttavia i dibattiti e le discussioni che ne accompagnarono la nascita furono improntati a un solido realismo. I rischi e i pericoli di questa visione erano avvertiti abbastanza chiaramente. In un articolo scritto due anni prima, Kwame Nkrumah li aveva efficacemente individuati: ‟Posti di fronte alle richieste avanzate dalla popolazione, che reclama un innalzamento degli standard di vita e migliori condizioni sociali, ma ostacolati da economie che riescono a malapena a coprire le spese correnti di amministrazione e di mantenimento, [gli Stati africani] sono di fronte a un dilemma. E hanno alle costole gli agenti neocolonialisti, che con un sorriso invitante cercano di irretirli nelle maglie dell'imperialismo" (cfr. ‟Labour monthly", settembre 1962). Agli osservatori curiosi (e spesso impazienti) negli Stati Uniti e in Europa, questi discorsi tendevano ad apparire un sintomo di paranoia, ma gli anni successivi avrebbero dimostrato che essi riflettevano un amaro realismo. Per sottolineare questa acuta consapevolezza dei rischi e dei pericoli, l'OAU non improntò la sua attività diplomatica alla neutralità, che avrebbe impedito ogni ‛schieramento' rispetto alle questioni internazionali e pertanto indebolito l'azione pacificatrice o qualunque altra influenza costruttiva che gli Stati africani membri dell'organizzazione avessero voluto esercitare; al contrario, i suoi esponenti rifiutarono la neutralità ritenendola indesiderabile e impraticabile, e optarono invece per il ‛non allineamento' nei confronti dei principali conflitti ideologici che avrebbero potuto verificarsi tra le potenze industrializzate, che erano per ogni altro rispetto dominanti. Tale scelta non fu operata senza un'attenta valutazione. Anzi, i più avvertiti tra i rappresentanti dell'OAU erano ben consapevoli degli ostacoli che avrebbero trovato sul loro cammino; la maggior parte dei paesi membri infatti era attivamente coinvolta in trattati o impegni formali con e verso le ex madrepatrie nella sfera politica, economica o direttamente militare; ciò vale soprattutto per le ex colonie francesi, che rimasero (e sarebbero rimaste a lungo) sotto il controllo finanziario della Banca di Francia e dei suoi vari strumenti monetari. Queste limitazioni non potevano essere ignorate; esse erano una componente inevitabile del processo contraddittorio attraverso il quale si era potuta avviare una parziale decolonizzazione. Il risultato del grande meeting di Addis Abeba del 1963 fu fondamentalmente quello di preparare il terreno perché alla fine si riuscisse ad arrivare a una riappropriazione della sovranità. In questa misura limitata ma realistica, per quanto deludente potesse risultare per i mistici e gli utopisti, la creazione dell'OAU costituì un notevole successo. Essa fissò degli obiettivi che non si sarebbero potuti raggiungere in un tempo prevedibile, ma conservò un sostanziale realismo esaltando al contempo gli scopi che l'indipendenza, quando fosse stata raggiunta, doveva cercare di perseguire per risultare efficace.
Senza dubbio era stato promesso troppo, e tuttavia non si trattava solo di retorica. Nei primi anni di vita l'OAU conseguì un certo numero di successi, alcuni dei quali, soprattutto nell'ambito della composizione di controversie tra gli Stati, di non piccolo valore. Uno di questi successi, conseguito già nel novembre del 1963, fu ad esempio la risoluzione da parte della diplomazia africana di un contrasto piuttosto serio e potenzialmente violento sui confini tra l'Algeria e il Marocco. Analoghi successi nel mantenimento della pace fra gli Stati furono raggiunti in occasione di un violento scontro tra i governi dell'Etiopia e della Somalia, e, nell'ottobre 1967, dello scoppio di una controversia sui confini tra la Somalia e il Kenya. Questi episodi nello stesso tempo rafforzarono la convinzione che ogni seria contestazione delle frontiere fissate nel corso della spartizione coloniale rischiava di rendere impossibili soluzioni pacifiche; questa convinzione, ammessa sia pure con riluttanza da molti nazionalisti africani, sfociò in una risoluzione dell'OAU (formulata ufficialmente al Cairo nel 1964) che impegnava gli Stati membri ‟a rispettare i confini esistenti al momento dell'acquisizione dell'indipendenza".
In questo modo venne riconfermata l'inviolabilità delle frontiere fissate dalla spartizione coloniale, anche se molti nazionalisti avevano da tempo dichiarato che queste rappresentavano un'imposizione imperialista e come tale inaccettabile. Val la pena di citare in proposito il commento di uno specialista, formulato nel 1973: ‟Alcuni - scrisse lo studioso di scienza politica nigeriano Adekunle Ajala - hanno condannato la risoluzione [relativa alle frontiere] in quanto essa non fa che perpetuare lo status quo [instaurato dalla spartizione coloniale] ed è quindi più o meno nociva alla causa dell'unità africana. Questa posizione può apparire ragionevole, ma di fatto non è realistica allo stato attuale della politica africana"; quanti contestano la linea politica dell'OAU in merito alle frontiere nazionali, proseguiva Ajala, ‟dovrebbero tener presente che, senza di essa, la maggior parte delle controversie sarebbero state risolte non attraverso la mediazione africana, ma nei ministeri stranieri al di fuori dell'Africa" (v. Ajala, 1973). Il problema dunque, come presto sarebbe divenuto chiaro, era che le controversie e i contrasti su questioni di interesse nazionale sarebbero stati in ogni caso risolti da governi non africani che perseguivano interessi non africani.
Negli anni sessanta, con l'acuirsi della guerra fredda e il conseguente intensificarsi della competizione tra le grandi potenze, la realtà di una sovranità postcoloniale, in tutto il continente africano, divenne sempre più dubbia. Ci era voluto molto tempo perché i nazionalisti si chiarissero le idee su queste questioni di importanza cruciale, ma l'urgenza della situazione imponeva tale chiarezza d'idee con una forza sconosciuta in passato.
Anche nelle circostanze più favorevoli, tuttavia, sarebbe stato difficile raggiungere una chiara percezione dei principali problemi di scelta e di linea politica, sebbene vada detto che in quegli anni di sperimentazione i migliori tra i leaders nazionalisti continuarono a dimostrare un solido realismo. Alcuni, come Kwame Nkrumah, potevano ancora essere attratti dai sogni utopistici della diaspora nera d'oltre Atlantico, come se l'appartenenza etnica e le sue specificità culturali non avessero in Africa un'influenza più profonda che tra i neri della diaspora, ma molti, la maggioranza, avevano una visione più realistica. Essi avevano imparato dall'esperienza che l'unità sarebbe stata possibile solo se avesse dato spazio e voce ai lealismi locali, alle preferenze regionali e via dicendo. I discorsi e le azioni di questi leaders nazionalisti, entrambi ben documentati in quegli anni (come non lo erano stati in passato), dimostrano che la maggior parte di essi intendeva realizzare l'obiettivo indicato da Nkrumah di un'unità continentale di intenti e di autodifesa, ma si rendeva conto che a tal fine occorreva una attenta considerazione delle realtà del pluralismo etnico. Un avanzamento troppo rapido in direzione dell'unità continentale avrebbe incontrato ostacoli eccessivamente difficili da superare. Ciò valeva in particolare per le piccole ex colonie della Francia - in certi casi vaste dal punto di vista dell'estensione geografica, ma di modeste dimensioni per quanto riguarda la popolazione e la ricchezza di risorse accessibili. A differenza delle ex colonie britanniche, i territori appartenuti alla Francia dovevano in un modo o nell'altro fare i conti con le ambizioni nazionali di marcata impronta imperialista dell'ex madrepatria, anche là dove le comunità di coloni bianchi erano relativamente deboli, come nella maggior parte dell'Africa occidentale ex francese.
Negli anni sessanta furono dunque numerosi i tentativi di formare e appoggiare una variegata gamma di raggruppamenti economici regionali per ovviare ai difetti più evidenti delle divisioni coloniali. Il primo di questi raggruppamenti degno di nota fu l'OERS (Organisation des États Riverains du Sénégal, ovvero del fiume Senegal). Composta da rappresentanti delle repubbliche del Senegal, della Guinea, del Mali (ex Sudan) e della Mauritania, tale organizzazione fu fondata nel marzo 1964, a meno di due anni di distanza dalla creazione dell'OAU, con il compito di elaborare e promuovere progetti per lo sviluppo ecologico e tecnologico del fiume Senegal, sia come via di navigazione utilizzata dai quattro Stati membri, sia come fonte di energia elettrica, sia per migliorare l'irrigazione. In pratica l'OERS poté costituirsi formalmente solo nel 1968, dopo numerosi rivolgimenti politici e incontri al vertice tra i quattro presidenti e i relativi ministri; ciononostante l'organizzazione svolse un buon lavoro in materia di pianificazione e investimenti comuni, e poté sopravvivere negli anni seguenti. In ogni caso, l'OERS aveva nel frattempo fissato il principio della comunanza di interessi e di azione in questi quattro piccoli paesi, artificialmente creati dalla spartizione imperialistica alla fine del XIX secolo.
Altri due raggruppamenti regionali meritano di essere menzionati, perlomeno in quanto indicano la volontà di cooperare per il vantaggio comune, anche là dove il processo di decolonizzazione aveva acuito notevolmente la rivalità tra le élites al governo delle nuove repubbliche: si tratta dell'UDEAC (Union douanière et économique de l'Afrique Centrale) - formata anch'essa nel 1964, che comprendeva il Camerun, la Repubblica Centroafricana, il Congo-Kinshasa (ex Congo Belga, poi Zaire), e il Congo Brazzaville - e della rivale UEAC (Union des États de l'Afrique Centrale), formatasi poco dopo, che comprendeva lo Zaire, la Repubblica Centroafricana e il Ciad. Queste iniziative, prive di solide radici, erano il riflesso di una lotta politica per l'egemonia istigata dalla Francia (e poi anche dagli Stati Uniti, sempre più interessati in quegli anni a instaurare e a rafforzare l'influenza di Washington su queste vaste regioni equatoriali, come del resto altrove), ma nello stesso tempo indicavano come a livello regionale vi fosse un'accettazione degli obiettivi del panafricanismo. Queste unioni regionali, inoltre, contribuivano a facilitare la distribuzione delle sovvenzioni stanziate in Francia e negli Stati Uniti in favore dei governi e dei presidenti in questione; tali sovvenzioni erano ora inevitabilmente registrate sotto la voce ‛aiuti allo sviluppo', sebbene i loro effettivi benefici in questo senso cominciassero a essere messi in discussione da alcuni economisti di mentalità più aperta, sia in Europa che in Africa. Nel frattempo, nell'Africa orientale anglofona fu compiuto un analogo tentativo di creare un'organizzazione economica regionale con la formazione della East African Economic Community, cui partecipavano il Kenya, la Tanzania (un'unione formata nel 1964 tra le ex colonie britanniche del Tanganica e di Zanzibar) e l'Uganda. Al pari di altre unioni regionali del periodo, le sue istituzioni erano modellate su quelle dell'OAU, in quanto prevedevano sulla carta un'assemblea legislativa regionale, un consiglio dei ministri, un segretariato e dei consigli per la pianificazione. Questa ‛comunità' dell'Africa orientale morì quasi sul nascere, vittima dei dissensi tra le regioni, derivanti, essenzialmente, dall'ambizione del Kenya di ottenere la stessa egemonia regionale che aveva avuto sotto il dominio coloniale britannico.
Sebbene questi tentativi in direzione di una riorganizzazione razionale degli Stati e delle frontiere facessero in pratica scarsi progressi, e spesso nessuno, essi tuttavia segnalavano l'esistenza di un atteggiamento politico che incoraggiava una sensata cooperazione interstatale e contrastava fermamente ogni guerra tra Stati, anche se occasionali conflitti si rivelarono inevitabili. Agendo come un'influenza sotterranea, questo atteggiamento politico ebbe e ha continuato ad avere ciò che può forse essere definito il senso di un ‛imperativo culturale': se gli Africani si fossero fatti distrarre da conflitti e dissensi interni ne avrebbero pagato le conseguenze. Il valore di questo imperativo culturale era difficile da misurare, ma in momenti di acuto contrasto poteva apparire oltremodo positivo.
Ora che cominciavano a conoscere il mondo postcoloniale in cui si trovavano a vivere, i nuovi Stati e le loro popolazioni dovevano trovare dei modi per coesistere pacificamente; tutti si trovarono concordi nell'assegnare un valore prioritario in questo senso alla creazione di unità funzionali basate su accordi tra paesi vicini. Una acuta crisi nello Stato multietnico della Nigeria, sfociata in una serie di massacri e alla fine in una guerra civile negli anni 1967-1970, si dimostrò dolorosamente istruttiva.
Questa guerra civile estremamente violenta scaturì sostanzialmente dalle ambizioni regionalistiche e dall'insoddisfazione più o meno intensa degli esponenti dei principali gruppi culturali della Nigeria orientale, occidentale e settentrionale: ossia, dal punto di vista ‛etnico' (sebbene il termine in questo caso sia tutt'altro che soddisfacente), delle popolazioni di lingua ibo, yoruba e haussa. Tale conflitto rivelò le mire della leadership ibo sotto la guida del generale Ojukwu, il quale dichiarò la secessione della regione dalla Nigeria federale e la costituzione della nuova repubblica del Biafra. Ojukwu e i suoi seguaci cercarono con limitato successo di ottenere il riconoscimento internazionale, e ricevettero di fatto l'aiuto della Francia, che mirava a sostituirsi all'influenza britannica. L'esercito di Ojukwu registrò una serie di successi iniziali, ma alla fine del 1969 venne sconfitto (la pace fu stipulata subito dopo) a causa della compattezza della federazione, dell'isolamento geografico dal resto del mondo e infine, in misura decisiva, dello schierarsi contro il Biafra e a favore della federazione di quei due terzi della popolazione che appartenevano ad altri gruppi etnici e che, sotto la spinta della guerra, erano divenuti nemici degli Ibo. La pace conclusa nel 1970 si distinse per la magnanimità, degna di un capo di Stato, dimostrata dai generali federali, in particolare da Murtala Mohammed e Olusegun Obasanjo. Questa abilità diplomatica fu una sorpresa, e la profusione di analisi e interpretazioni errate da parte dei giornalisti stranieri, soprattutto francesi e britannici, dimostrò una volta di più quanto poco si potesse contare sui commentatori esteri, soprattutto europei, per un giudizio informato. La pace così stipulata si rivelò durevole; per quanto indirettamente, essa segnalava la capacità dell'Africa di capire e gestire autonomamente i propri problemi politici.
Piuttosto che trovarsi divisa in un mosaico di Stati sovrani, come avrebbe facilmente potuto succedere se fosse riuscita la secessione del Biafra, la popolazione nigeriana in rapida espansione (che all'epoca contava 80 milioni di persone di diverse culture e lingue) scelse di restare nella compagine federale, assai meno suscettibile di attriti e, contrariamente alle previsioni di vari profeti di sventura, si dimostrò destinata a restarvi anche in futuro. Né le rivalità tra le élites o quelle interne di altro tipo, né le insistenti pressioni estere riuscirono a disgregare una federazione che nel 1970 contava dodici Stati autogovernati, e presto ne avrebbe compresi ben trentuno.
L'esito della guerra civile nigeriana poteva quindi essere considerato un successo per le aspirazioni panafricaniste. Ma esso dimostrava anche che il modo di intendere la decolonizzazione da parte dei fautori dello Stato-nazione - come trasformazione di circa 50 colonie in altrettante ‛nazioni' sovrane - poteva anche diventare, come i fatti avrebbero presto confermato, un potente fattore di disintegrazione. Il centralismo burocratico che caratterizzava tali ‛nazioni', infatti, faceva sì che ogni effettivo potere esecutivo, con i relativi privilegi e vantaggi materiali, passasse nelle mani di élites politiche rivali; ciò contribuiva a minare in profondità la fiducia dei cittadini nella legittimità di questi Stati e delle loro modalità di autogoverno. In assenza di tale legittimità la validità effettiva dei nuovi Stati-nazione cominciò ad apparire una frode. La moralità vacillava, la corruzione dilagava; da allora in poi, specialmente negli anni settanta, in molti dei nuovi Stati-nazione le repressioni di un governo militarista sarebbero cominciate ad apparire ‛inevitabili' e, in ogni caso, raramente sarebbero state evitate. Si tratta di un problema complesso, per affrontare il quale dovremo allontanarci momentaneamente dalle tematiche più direttamente connesse al panafricanismo.
7. Anni sprecati?
Dopo gli anni di nuove iniziative e di fiduciosa sperimentazione delle possibilità offerte dall'indipendenza, si ebbe - dopo il 1975 circa e con esiti rovinosi durante gli anni ottanta - un lungo, spesso confuso periodo di disgregazione e di disperazione: non dappertutto, è opportuno ribadire, perché l'Africa continuava a offrire un panorama estremamente diversificato, ma certamente con triste frequenza. Molte personalità di valore si rifugiarono all'estero o si ridussero al silenzio in patria. La violenza sconvolse il ritmo della vita quotidiana con impressionante regolarità; la qualità della leadership politica spesso decadde a livelli disperatamente bassi; la fiducia cominciò a declinare. Nel corso degli anni settanta la prospettiva panafricanista rimase ancora viva e addirittura piena di speranza, stimolando iniziative regionali e inducendo leaders energici a promuovere la formazione di unità continentali operative e la cooperazione, ma le cose cambiarono verso la fine del decennio e sembrò che non vi fosse più un pubblico capace di recepire le sollecitazioni di quei leaders. Gli studi e gli scritti panafricanisti diminuirono, e spesso cessarono del tutto; solo in seguito vi sarebbe stata una ripresa.
Per quanti considereranno in retrospettiva gli ultimi scorci del XX secolo sarà difficile misurare appieno il profondo shock subito da intellettuali e leaders politici africani allorché si resero conto, troppo tardi, che la politica dell'indipendenza postcoloniale era scaduta a politica del fallimento. Dopo tutto, essi erano ascesi al potere nel clima esaltante del nazionalismo e della libertà; avevano lavorato alla realizzazione di ambiziosi progetti di espansione sia geografica che intellettuale; si erano mossi sul terreno di un'azione politica globale, ben lontana dai condizionamenti e dalle limitazioni imposti dall'imperialismo razzista; avevano presieduto, tra il plauso internazionale, importanti assemblee delle Nazioni Unite e di altre istituzioni affini; erano sopravvissuti a gravi rivolgimenti e pericoli di violenza. Tutti questi erano stati giudicati nient'altro che gli inevitabili problemi legati al processo di decolonizzazione. Ma alla fine degli anni ottanta, di questo decennio improntato alla ferocia e alla violenza, tale ottimismo cominciava ad apparire una sterile autoindulgenza.
Via via che a un disastro ne succedeva un altro, emerse una nuova attitudine, aspramente critica, sintetizzata dall'ex generale dell'armata nigeriana e capo di Stato Olusegun Obasanjo in un discorso tenuto in occasione di una prestigiosa conferenza europea nel 1990. Quest'uomo, indubbiamente responsabile e rispettato, espresse allora ciò che la gente comune, la gente umile dell'Africa poteva senz'altro riconoscere come frutto della propria tacita esperienza: ‟Il fatto nudo e crudo - disse Obasanjo - è che in Africa abbiamo sprecato quasi trent'anni in inutili tentativi di costruire nazioni. Le nostre politiche erano lontane dai bisogni sociali e dalle esigenze dello sviluppo". L'evidente fallimento politico però non era più imputato alle manchevolezze di questo o quel regime, né all'incompetenza delle amministrazioni, né alle naturali debolezze umane; tutto ciò poteva aver contribuito al disastro, ma esso aveva origini più profonde. La ricerca delle cause della crisi africana divenne così oggetto di un preoccupato dibattito negli anni novanta.
A rendere più urgente la necessità di individuare le cause della crisi contribuivano in misura crescente i dati emersi da una serie di indagini statistiche sulla situazione africana. Si poteva mettere in dubbio la veracità o l'affidabilità delle misurazioni statistiche disponibili, ma anche gli osservatori più scettici dovevano accettare - perlomeno come l'ipotesi più attendibile a disposizione - le conclusioni presentate da grandi agenzie quali la Banca Mondiale e i suoi vari istituti sussidiari. Le prospettive per l'Africa nei primi decenni del XXI secolo, così come venivano ora raffigurate, erano quelle di un'imminente catastrofe in termini di crescente impoverimento, disgregazione sociale e generale incapacità di raggiungere un migliore equilibrio tra profitti e perdite rispetto ai ‛paesi sviluppati': ossia, nel gergo dell'epoca, rispetto ai paesi imperialisti pienamente industrializzati. Questo era quanto mostravano gli indicatori standard dell'analisi economica, e l'esperienza quotidiana sembrava concordare pienamente con essi. Pur tenendo conto della disastrosa incidenza dell'AIDS e della sua sempre crescente diffusione, divenuta una delle principali preoccupazioni in campo medico, si poteva prevedere che la popolazione complessiva dell'Africa sarebbe raddoppiata entro il 2020 o negli anni immediatamente successivi, mentre la capacità media di produrre maggiori risorse alimentari, per non parlare di altri prodotti utili o essenziali, sarebbe aumentata a malapena dell'1-2%.
Nel frattempo le campagne impoverite si sarebbero svuotate con il progressivo abbandono dei villaggi da parte delle popolazioni affamate che cercavano scampo alla fame nelle città di quello che era stato sino a poco tempo prima un continente essenzialmente rurale. ‟Nel 2025 - secondo alcuni realistici commentatori - si prevede che l'Africa meridionale raggiungerà il livello di urbanizzazione che esiste attualmente nel mondo sviluppato [...]. Circa la metà della popolazione dell'Africa orientale e occidentale vivrà a quell'epoca in aree urbane - e lo stesso discorso, si dovrebbe aggiungere, vale per il Nordafrica. In termini assoluti ciò significa che la popolazione urbana in Africa ‟nel 2025 aumenterà di 4-12 volte rispetto ai livelli del 1940" (cfr. Beyond hunger in Africa, a cura di Chinua Achebe e altri, Londra 1990). In sintesi l'Africa, secondo queste previsioni, sarebbe diventato un unico slum di dimensioni continentali, con tutti i gravi fenomeni, forse irreversibili, di disgregazione sociale che ciò avrebbe comportato.
Se questo pessimismo poteva sembrare eccessivo, gli indicatori economici non offrivano un quadro più confortante. Sul piano finanziario, la maggior parte dell'Africa era alla bancarotta. Comunque venisse misurato, il debito estero col ‛mondo sviluppato' era cresciuto progressivamente per molti anni, e si prevedeva che nel 1992 - quindi prestissimo - sarebbe quasi raddoppiato rispetto a dieci anni prima. Era chiaro che la maggior parte di questo debito era irrecuperabile, quanto alla quota capitale, ma occorreva pur sempre pagare alle ex madrepatrie interessi pesantissimi. Il servizio del debito pubblico africano - ossia, in parole povere, la quota dei proventi delle esportazioni destinata a pagare gli interessi ai creditori esteri - ammontava a circa il 15% nel 1985, e divenne considerevolmente più elevato negli anni novanta. Tuttavia, anche se non fosse aumentata, l'esportazione annua di ricchezza africana attraverso il servizio del debito pubblico era tale che ben pochi capitali potevano essere risparmiati per investimenti produttivi, né tantomeno per migliorare lo standard di vita della maggioranza dei cittadini. Questa Africa ‛decolonizzata' risultava quindi materialmente impoverita non solo rispetto ai paesi sviluppati ma, stando a tutti gli indicatori misurabili, anche rispetto alla stessa situazione precoloniale. Né vi erano elementi, nelle misurazioni statistiche accettate o nelle loro interpretazioni, tali da indicare che questo tasso di impoverimento del continente fosse in procinto di rallentare o che potesse in qualche modo essere rallentato.
I fatti, del resto, non facevano che confermare questa situazione generale di grave impoverimento. Qualunque potesse essere il giudizio sull'‛ordine economico mondiale' in relazione alle istituzioni dominanti create alla fine della seconda guerra mondiale (gli accordi della Conferenza di Bretton Woods e le linee di politica economica da essa stabilite), era ormai palese che l'andamento generale delle ragioni di scambio tra l'Africa e i suoi partners commerciali era diventato sempre più sfavorevole nel corso degli anni ottanta e probabilmente anche in quelli successivi. Vi erano dunque fondati motivi per ritenere che la responsabilità di questo esteso impoverimento non fosse da imputare all'Africa ma a quei paesi industrializzati che avevano assoggettato il continente al proprio dominio. Ciò valeva in particolare per alcuni importanti paesi dell'Africa meridionale, pesantemente condizionati dall'imperialismo razzista della Repubblica del Sudafrica e dei suoi partners economici esteri, in particolare gli Stati Uniti e la Gran Bretagna e da ultimo, in misura crescente, il Giappone. Le responsabilità del mondo occidentale nella crisi africana trovarono una conferma particolarmente dolorosa nelle grandi ex colonie portoghesi dell'Angola e del Mozambico. I nazionalisti che si battevano contro il colonialismo in questi due paesi erano riusciti a liberarsi dalle pastoie dell'imperialismo portoghese, particolarmente rigido e oppressivo, con una lunga guerra di liberazione. Tuttavia nel 1975, non appena conseguito questo obiettivo, l'Angola e il Mozambico furono invasi, direttamente o indirettamente, dagli eserciti della Repubblica del Sudafrica, allora violentemente razzista, e dai loro emissari o agenti locali, che nel caso dell'Angola si presentarono come UNITA (União Nacional para a Indipendência Total de Angola) e in Mozambico come RENAMO (Resistência Nacional Moçambicana).
Ampiamente appoggiate e incoraggiate dagli Stati Uniti, e ancora basate sulle politiche aggressive ereditate dalla guerra fredda, queste incursioni e le guerriglie che ne furono la conseguenza diretta scatenarono una guerra distruttiva contro i regimi indigeni appena formatisi nell'ex Africa portoghese. Il risultato, all'inizio degli anni novanta, è stata la distruzione selvaggia e indiscriminata di tutte le conquiste sociali raggiunte durante il processo di liberazione e verso l'autogoverno e successivamente alla vittoria sull'imperialismo portoghese. Ciò vale per gran parte dell'Angola centrale, mentre in Mozambico (dove persisteva la devastante guerriglia inizialmente fomentata dal Sudafrica), tra il 1981 e il 1988, ben 291 unità sanitarie erano state distrutte dalla violenza del RENAMO, altre 687 vennero saccheggiate e almeno temporaneamente chiuse. Più di 200 insegnanti e operatori sanitari vennero uccisi in attacchi assolutamente immotivati. Secondo una stima delle Nazioni Unite del 1989, tra il 1980 e il 1988 in Mozambico circa 494.000 bambini al disotto dei cinque anni erano morti a causa della ‛destabilizzazione', ossia per mano dell'una o dell'altra banda armata sostenuta dall'esterno per destabilizzare il regime in carica. Centinaia di migliaia di uomini e donne vennero trucidati o conobbero le durezze dell'esilio. Quando, alla fine degli anni ottanta, la guerriglia si esaurì fino a cessare del tutto a seguito della fine del regime razzista della minoranza bianca in Sudafrica, l'Angola e il Mozambico erano in gran parte ridotti a un deserto.
Per queste ragioni e altre analoghe era più che comprensibile che riprendesse forza la nota tendenza degli Africani a imputare al mondo esterno la responsabilità dei propri mali. Frattanto il mondo esterno, ossia il mondo ex imperialista, aveva preferito dimenticare le proprie responsabilità per lo schiavismo che aveva perpetrato per secoli, e addirittura si compiaceva nel considerare il periodo coloniale come un'esperienza positiva per l'Africa, piuttosto che come un'epoca di spoliazione più o meno distruttiva. I fatti tuttavia indicavano che la maggior parte degli Africani aveva sperimentato solo le conseguenze negative e non gli eventuali vantaggi del colonialismo. Qualunque possa essere il giudizio finale della storia in merito a questi spinosi problemi, negli anni ottanta l'imperialismo poteva ancora esser considerato il principale responsabile dei disastri africani. Questa valutazione si tradusse spesso in un esercizio di autoassoluzione particolarmente diffusa tra gli Afroamericani della diaspora. Molta retorica comprensibilmente indignata fu spesa su questo tema, ma ciò avveniva in misura molto minore, ora, nell'Africa stessa. Se i principali leaders del nazionalismo anticolonialista africano avevano sprecato molti anni, come aveva affermato Olusegun Obasanjo, in ‟inutili tentativi di costruire nazioni", era palesemente giunta l'ora di riconoscere le responsabilità dell'Africa stessa e, se possibile, di spiegarne la dinamica e la natura. Un panafricanismo maturo, nel senso limitato ma realistico in cui un concetto del genere poteva ancora essere formulato, doveva ormai analizzare le realtà esistenti, piuttosto che indugiare in sogni sul futuro.
8. La ricerca di alternative
Da alcuni anni, in effetti, i pensatori africani avevano cominciato a cercar di chiarire le cause della crisi socioeconomica dell'Africa. Pur dando il giusto peso alle pressioni e ai fenomeni di disgregazione sociale derivanti dall'imperialismo o da altre cause esterne, essi incentrarono l'attenzione sulla natura dello Stato postcoloniale, giungendo alla conclusione che esso era fatalmente carente dal punto di vista della capacità di favorire lo sviluppo, e ciò per una cruciale contraddizione interna. Lo Stato postcoloniale si era rivelato ben diverso da come si era presentato all'inizio: indicato come una benedizione frutto della democrazia, si era rivelato la sterile maledizione di una forma di dittatura. Il suo rigido centralismo di principio, in cui e secondo cui tutto il potere esecutivo convergeva e restava al centro, aveva prodotto una parodia delle presunte costituzioni democratiche istituite all'epoca del ritiro dell'amministrazione coloniale. Queste costituzioni, nelle intenzioni originarie, avrebbero dovuto operare in base alle regole parlamentari di un governo rappresentativo, conformemente al modello che si era affermato nella recente storia europea; esse, tuttavia, si erano dimostrate inservibili nelle realtà dell'Africa, e ciò non già per mancanza di capacità politiche, bensì per l'assenza pressoché totale di quelle condizioni che nell'Europa occidentale avevano reso possibile lo sviluppo di regimi costituzionali parlamentari. Mancava, in sintesi, l'ordine strutturato di una società divisa in classi autocoscienti e autodelimitate. Per citare le parole di un esperto americano di analisi politica, il modello democratico-parlamentare ‟era in netto contrasto con la tradizione autocratica dell'epoca coloniale": quell'epoca, cioè, che ultimamente si era vantata di aver favorito l'acquisizione del pieno possesso delle libertà democratiche in Africa. ‟Profondamente radicato nello Stato coloniale era un rapporto di tipo autoritario con la società civile, che si rifletteva nelle sue leggi, nelle sue procedure, nella sua mentalità, persino nelle sue immagini" (v. Rothchild e Chazan, 1988). Questi nuovi Stati-nazione, basati, sulla carta, sulla partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, in realtà erano, praticamente senza eccezioni, condannati a operare in base ai principî e alla prassi di un centralismo rigidamente restrittivo.
Alla fine degli anni settanta, il risultato di questa contraddizione era ormai sotto gli occhi di tutti. In uno Stato-nazione dopo l'altro, il ‛rapporto autoritario' con la società civile, retaggio del periodo coloniale, aveva dissolto i parlamenti appena creati, mandato in frantumi le procedure elettorali, svigorito le intenzioni democratiche e, in progressione fatale, negato allo Stato ogni legittimazione popolare. Le burocrazie civili avevano richiesto l'intervento di quelle militari, perché era in queste ultime che risiedeva l'effettivo potere esecutivo. Quando la crisi economica colpì questi Stati-nazione, in particolare negli anni ottanta, troppo spesso la disciplina militare cedette il passo a brutali violenze. Nelle varie dittature militari la partecipazione dei cittadini alla gestione dello Stato e della società fu negata o semplicemente abolita con i più crudeli atti di violenza e di coercizione. Sembrava allora che non vi fossero limiti alla capacità distruttiva di un potere irresponsabile; troppo spesso lo Stato postcoloniale, che avrebbe dovuto essere strumento di liberazione sociale e culturale, era annegato in un bagno di sangue. Nei casi più clamorosi - in Somalia, in Liberia, nella Sierra Leone e in altri paesi ancora - questo fallimento fu palese non meno che crudele; altrove, in gradi diversi e in forme meno drammatiche - come, ad esempio, in Nigeria o nel Ghana - le speranze di un ampliamento democratico si scontrarono ripetutamente con la prassi di un governo autoritario che si collocava nella tradizione dell'autocrazia coloniale.
Per coloro che ancora credevano in un futuro migliore tutto ciò era tanto più penoso in quanto importanti sforzi erano stati compiuti, persino nei cupi anni ottanta, per invertire questa tendenza alla disintegrazione. La critica rivolta allo Stato postcoloniale, accusato di essere intrinsecamente autocratico e quindi privo della capacità di favorire lo sviluppo sociale, fu portata avanti con grande energia dagli intellettuali indipendenti africani in vari paesi. Durante il breve interludio di un governo civile in Nigeria si tentò di attuare una serie di riforme radicali delle strutture costituzionali, alla ricerca di alternative democratiche a un governo militare insediato da lungo tempo. Tali riforme miravano a una effettiva devoluzione o decentramento dei poteri esecutivi e a ottenere il controllo delle risorse materiali, così da favorire il governo municipale o altri tipi di governo locale ai loro vari livelli. Al fine di ‟restituire il potere al popolo" sottraendolo alle burocrazie sia militari che civili, le quali avevano il controllo in ogni settore, le riforme nigeriane del 1976 crearono per decisione del Parlamento non meno di 300 nuovi governi locali all'interno dell'ampia federazione multistatale. Ciononostante le burocrazie statali non vennero soppiantate; verso il 1990 si poteva constatare che tutti questi governi locali erano ‟totalmente subordinati ai governi centrali piuttosto che ai cittadini", e che operavano sostanzialmente ‟come estensioni della burocrazia statale" (v. Olowu, 1990).
Queste critiche rivolte a un'autocrazia autodistruttiva divennero sempre più frequenti e generalizzate all'inizio degli anni novanta, investendo ben presto anche il vasto settore dell'‛aiuto estero' e della ‛strategia dello sviluppo' - espressioni usate per indicare l'impiego dei prestiti ottenuti dall'estero per l'apparente beneficio dei cittadini e degli Stati governati in nome dei cittadini. Quasi tutti i più influenti commentatori africani erano ora impegnati in un'analisi di stampo più panafricanista che non strettamente nazionalista, anche se termini altisonanti come ‛panafricanismo' erano poco utilizzati o discussi. Si trattava a ogni modo di un'analisi ‛sovranazionalista', che si collocava nella tradizione di vecchi orientamenti e convinzioni. Un esempio può illustrare questo punto. Nel 1989 Claude Ake, uno studioso di scienze politiche di Port Harcourt, nella Nigeria sudorientale, osservava che ‟le strategie per lo sviluppo in Africa, con poche eccezioni, hanno avuto la tendenza a configurarsi come strategie in cui una minoranza usa la maggioranza per i propri scopi"; si trattava, in altre parole, di strategie irriducibilmente ‛dall'alto' (per usare un'altra espressione coniata di recente) che escludevano quindi la partecipazione democratica. Tali strategie, proseguiva Ake, erano solo poco meglio di un'aggressione concertata contro gli interessi di una cittadinanza cui era negato qualunque mezzo efficace di intervento (cfr. ‟Newsletter of the African Association of Political Science", dicembre 1989). Si trattava di strategie, si potrebbe aggiungere, del tutto simili nel loro tradizionale carattere autocratico a quelle che caratterizzavano il vecchio modello coloniale di dittatura dell'esecutivo, e che erano in uso nella maggior parte dei nuovi Stati-nazione a prescindere dalle loro identità nominali e territoriali.
All'approssimarsi della fine del secolo, l'incidenza e l'intensità di questa profonda crisi istituzionale divennero sempre più evidenti in tutte le principali regioni del continente. L'analisi di tale crisi, inoltre, aveva cominciato a suggerire alcune conclusioni, sia pure di carattere provvisorio. In quanto fondato in pratica su di una struttura ‛neocoloniale', lo Stato-nazione esistente non era in grado di realizzare gli obiettivi di liberazione attraverso il centralismo costrittivo che lo caratterizzava. Questo aveva prodotto una situazione in cui uno Stato ‛forte' degenerava a dittatura personale (qualunque fossero state le intenzioni originarie dei singoli dittatori), mentre uno Stato ‛debole', ossia che si fosse liberato da tale centralismo autocratico, cadeva vittima degli sprechi e della corruzione prodotti da ciò che veniva universalmente condannato come ‛tribalismo'. Con questo termine, tuttavia, non ci si riferiva tanto alle rivalità etniche quanto alla lotta per impossessarsi del potere statale condotta da individui in competizione e dalle loro clientele. Lo Stato ‛neocoloniale', sia nella versione ‛forte' che in quella ‛debole' dal punto di vista dell'autorità dell'esecutivo, conduceva alla fine allo stesso risultato: una qualche forma di dittatura militare.
Da questa prima analisi scaturiva logicamente un'altra conclusione. Lo Stato-nazione esistente doveva essere riformato in modo da eliminare questo eccessivo centralismo. Nessun serio commentatore sembra aver pensato che la struttura esistente di Stati-nazione, prodotto della spartizione coloniale, potesse o dovesse essere abolita. Era evidente che questi Stati erano ormai accettati dai cittadini come uno strumento moderno ed efficace di autoidentificazione, e come tali erano divenuti indispensabili. I brillanti atleti africani che vincevano le loro medaglie in competizioni internazionali non si presentavano come rappresentanti di una qualche identità etnica locale, bensì, invariabilmente, come rappresentanti di un'identità nazionale. Sul piano dell'identità personale o tradizionale i famosi velocisti dell'Africa orientale potevano riconoscersi come Oromo, Amhara, Kikuyu o Kalendjin, ma concorrevano come Etiopi, Kenioti, ecc. Le squadre di calcio africane potevano reclutare da una cinquantina di gruppi etnici diversi i propri giocatori per le gare internazionali, e tuttavia i calciatori partecipavano alle competizioni come Nigeriani, Ghaneani, Senegalesi o come appartenenti a un qualche altro Stato-nazione. Ancora una volta, la conclusione era la stessa. Se questi Stati-nazione non si potevano abolire in quanto ormai indispensabili come strumenti di autoidentificazione a livello internazionale, dovevano perlomeno essere riformati.
9. Il problema della riformabilità degli Stati-nazione
Quali aspetti degli Stati-nazione esistenti potessero o dovessero essere riformati divenne uno dei principali temi di dibattito. Molti si erano resi conto della necessità di una riforma; perché allora i tentativi di attuarla erano ripetutamente falliti? Sui casi più clamorosi di fallimento non c'era molto da discutere: se alla fine degli anni ottanta gran parte dell'Angola e del Mozambico si trovava in una situazione sociale ed economica disastrosa, ciò non poteva essere in alcun modo ascritto alla loro aspirazione all'indipendenza. I movimenti nazionalisti di questi paesi, rispettivamente il MPLA (Movimento Popular de Libertação de Angola) e il FRELIMO (Frente de Libertação de Moçambique), all'inizio potevano aver commesso degli errori per mancanza di esperienza e del tempo necessario a ovviare alle conseguenze deleterie di un colonialismo disastroso, ma, come abbiamo visto, la vera causa della rovina dopo il conseguimento dell'indipendenza furono le invasioni e le guerriglie pilotate dall'esterno. Oppure, per citare un esempio in un campo molto diverso, la vasta Repubblica del Sudan era ora vittima di una lunga guerra civile e di una violenza politica che aveva diverse origini, al punto che, in effetti, sembrava scomparsa ogni traccia di un obiettivo nazionale. La possibilità di attuare riforme, in questo caso significativo, era caduta sotto il controllo di fazioni e orientamenti religiosi che frustravano anche la semplice possibilità di un obiettivo nazionale, pretendendo che in materia di leggi e sanzioni fossero applicate le rigide dottrine di un ‛fondamentalismo' islamico (termine che veniva ora usato e abusato) promulgate in epoca medievale e rimaste inalterate sino ad allora. Quando nuove ondate di fanatismo investirono il continente africano, in particolare l'Algeria e il Sudan, si poté constatare come questa intolleranza assolutista avesse acquisito dimensioni sconosciute ormai da molti secoli e risultasse distruttiva per ogni iniziativa moderata in direzione della riconciliazione nazionale. Negli Stati che cercavano ora di ripristinare il sistema giuridico medievale della sharī‛a, come l'Algeria, il Sudan e altri paesi con governi e orientamenti analoghi, i non-musulmani dovevano perdere i diritti civili e le condizioni di eguaglianza essenziali, non potevano contare su alcuna parità di giustizia ed erano esposti alle più crudeli repressioni. Ciò avrebbe reso inevitabile il sorgere di conflitti interni.
Il risultato a lungo termine di questo estremismo probabilmente non si vedrà che tra molti anni. Nel frattempo, per arginarne o neutralizzarne gli effetti distruttivi, o perlomeno per impedire che si estendano a comunità musulmane non ancora contagiate in misura sostanziale dal fondamentalismo, occorre perseguire politiche razionali di riforma costituzionale. Il centralismo burocratico aveva cominciato a esser considerato il più grave ostacolo al progresso: a cosa andava dunque imputato il fallimento dei tentativi intrapresi in precedenza per arginarne l'azione disgregatrice? Uno dei veterani del primo nazionalismo, l'ex capo di Stato della Tanzania Mwalimu Julius Kambarage Nyerere, ancora attivo dopo il ritiro dalla politica, aveva abbozzato una risposta in un'analisi del 1984: ‟Vi sono cose che non farei se dovessi ricominciare", affermò Nyerere riferendosi al fallimento del programma di riforme ujamaa degli anni settanta, che era stato un altro tentativo di devolvere il potere esecutivo a rappresentanti locali. ‟Una di queste è l'abolizione delle forme di governo locale, l'altra è lo scioglimento delle cooperative [nazionali]. Il prezzo che abbiamo pagato è stato l'acquisizione di una burocrazia mastodontica. Ci siamo ritrovati con una gigantesca macchina che non siamo in grado di manovrare in modo efficiente" (cit. in ‟Third world quarterly", 1984).
La burocrazia era stata in effetti gonfiata dal persistente centralismo del regime. I comitati locali di autoamministrazione erano controllati dalle diramazioni delle segreterie del partito unico del paese, del suo ‛centro' politico. In ogni villaggio che avrebbe dovuto essere autogovernato le commissioni locali - peraltro elette democraticamente - cadevano quindi sotto il controllo più o meno diretto del governo centrale, che operava attraverso il suo apparato burocratico. Il decentramento cui mirava questo programma ujamaa fu così soffocato sul nascere, nonostante la bontà degli obiettivi che si era posto. Le riforme nigeriane del 1976, come abbiamo visto, andarono incontro a un analogo fallimento e per la stessa ragione, ossia perché non era stato concesso alcun reale potere amministrativo. Alle stesse conclusioni giunse un'illustre personalità del mondo accademico, Lamin Sanneh. Nel suo intervento a un simposio internazionale sul tema ‟Stato e religione" svoltosi nel 1991, Sanneh affermò che il culto dello Stato quale principale strumento unitario di governo - storicamente, nella maggior parte dell'Africa, il culto dello Stato coloniale o neocoloniale - ‟ha avuto conseguenze disastrose per il nostro popolo", concludendo che ‟il rinnovamento politico dell'Africa deve iniziare da una riduzione del potere dello Stato" (cit. in Hunwick, 1992).
Lasciando da parte quelle che potremmo chiamare le politiche della disperazione, incluse tutte quelle versioni del ‛fondamentalismo' che vedevano nel ricorso alla violenza e alla contro-violenza - in altre parole, in una qualche forma di guerra - la risoluzione dei conflitti interni, l'analisi si orientava ora a estendere la sua critica allo Stato postcoloniale. Un significativo esponente di questo orientamento emergente, che ancora doveva acquistare autorità, fu un altro personaggio politico nigeriano, l'ex segretario generale della Commissione economica per l'Africa delle Nazioni Unite, Adebayo Adedeji. Egli fu tra coloro - all'epoca ancora una minoranza - che sostenevano come la storia dell'Africa non potesse esser fatta cominciare con le invasioni e le spoliazioni coloniali; occorreva invece che l'inizio della storia politica africana fosse fatto risalire a molto prima che venisse raggiunto questo ‛punto di rottura' col passato. Adedeji affermò che le proprie origini culturali risalivano all'antico Stato africano di Ijebu, conquistato dalla Gran Bretagna alla fine del XIX secolo e da allora cancellato dalla storia. E tuttavia questa unità politica altrimenti dimenticata era riuscita ad acquistare una legittimazione profondamente sentita dal popolo; a essa si doveva la stabilità e la tolleranza che avevano caratterizzato lo Stato di Ijebu in epoca precoloniale. Ciò che ora si rendeva necessario, in tutta l'Africa, era un nuovo ed efficace sostituto di questo senso di legittimazione: non ovviamente attraverso un qualche tentativo di ‛ritornare al passato', bensì elaborando appropriate strutture di rinnovamento socio-politico. In qualunque modo questo fosse stato concepito, il punto di partenza doveva essere il superamento della scissione - causata dalle invasioni e dalle spoliazioni coloniali - tra la storia indigena e la storia coloniale del continente.
Tale interpretazione poteva apparire irrealistica o semplicemente assurda a tutti quegli osservatori stranieri, specie europei, i quali sulla base dei loro preconcetti culturali imperialisti avevano ritenuto per lungo tempo che nell'Africa precoloniale non fosse esistita alcuna forma di sviluppo indigeno, e che continuavano a pensare che l'Africa - come aveva insegnato Hegel nell'Ottocento - ‟non aveva fatto parte del mondo storico". Questi preconcetti erano in seguito diventati i pilastri dell'insegnamento della storia nei programmi educativi coloniali, negli anni in cui masse di bambini africani frequentavano per la prima volta la scuola, e in misura crescente le scuole secondarie.
Questo paternalismo coloniale, conservatosi per lungo tempo, aveva minato profondamente la fiducia in se stessi degli Africani. ‟Così forte è stato il senso di disprezzo inculcato dal dominio coloniale - osservava Adedeji dinanzi a un pubblico ben disposto a trovarsi d'accordo - che molti Africani, e la maggior parte dei non Africani, hanno persistentemente denigrato i risultati conseguiti dal continente prima del colonialismo - le sue espressioni artistiche, le sue usanze e credenze, i suoi sistemi e metodi di governo. In effetti, la tragedia è stata che, una volta giunta l'opportunità di liberarsi dal giogo del colonialismo, non è stato fatto alcun tentativo per riaffermare l'autodeterminazione dell'Africa attraverso la sostituzione delle istituzioni e dei sistemi di governo ereditati dai paesi stranieri, nonché degli imperfetti modelli europei dello Stato-nazione, con sistemi indigeni rinnovati e modernizzati, meno estranei ai cittadini e quindi più credibili". Il risultato è stato che nel periodo postcoloniale la maggior parte degli ‟oltre cinquanta Stati-nazione artificialmente istituiti non hanno avuto alcuna possibilità di arrivare a una trasformazione e a una coesione di qualche importanza in campo politico, sociale ed economico" (cfr. ‟Bulletin of African Centre for Development and Strategic Studies", 1992, I, 2, pp. 1-8).
La situazione sociale dell'Africa confermava in pieno questa diagnosi. Se la permanenza e la validità delle frontiere imposte erano messe in questione in misura crescente dagli intellettuali africani, che definivano tali frontiere come ‛contenitori' artificiali di modelli europei fallimentari e preconcetti storici, esse venivano semplicemente ignorate e calpestate da larga parte dei cittadini per altri riguardi rispettosi della legge. Il ruolo rilevante e il valore commerciale di quello che veniva definito con un eufemismo ‛commercio parallelo' - parallelo, cioè, al commercio legale dello Stato - erano da tempo risultati evidenti, anche se non riconosciuti ufficialmente. Agli inizi degli anni ottanta non era un'esagerazione affermare che la Repubblica del Benin era diventata la base di una delle più vaste attività di contrabbando del mondo, soprattutto verso la vicina Nigeria. ‟L'‛economia parallela' della Repubblica del Benin è così estesa che per gli anni 1982-1984 - e non si trattava di anni eccezionali da questo punto di vista - il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti riteneva probabile che non meno del 90% del commercio del Benin ufficialmente non esistesse": si trattava di un commercio sommerso, cioè semplicemente non registrato nelle statistiche ufficiali del governo (v. Davidson, 1991, pp. 237-238).
Fu a questo punto del fallimento politico postcoloniale che la tradizione africanista conobbe una feconda rinascita. Pochi anni prima, con la creazione dell'Economic Community of West African States (ECOWAS), era stato varato il progetto di un intelligente regionalismo economico; a tale progetto aderivano 15 Stati, saliti a 16 nel 1977 con l'aggiunta della Repubblica di Capo Verde. Prendendo atto della realtà esistente, l'ECOWAS si proponeva di eliminare progressivamente i controlli alle frontiere e quelle regolamentazioni di natura separatista del commercio che moltissimi ormai ignoravano, violando in un modo o nell'altro la legge. Un sistema comune di tariffe commerciali avrebbe dovuto unificare e difendere gli interessi dell'intera regione, assumendo valide funzioni economiche via via che fosse stato gradualmente esteso, nel giro di otto-dieci anni, ai paesi membri più poveri (Burkina Faso, Capo Verde, Gambia, Guinea-Bissau, Mali, Mauritania, Niger). Molte altre proficue iniziative da intraprendere nell'ambito dell'ECOWAS furono discusse e progettate, e sebbene parecchie di esse rimanessero sulla carta, era nondimeno evidente che le idee dell'africanismo avevano acquistato un nuovo, più solido realismo. Nel 1990, a riprova di questo realismo, l'ECOWAS ha patrocinato una forza militare multistatale da impiegare per operazioni di pace, l'ECOMOG (Economic Community's Monitoring Group), al fine di porre termine in Liberia alla sterile guerra intestina tra i vari signori della guerra o politicanti locali desiderosi di assicurarsi il controllo dello Stato; anche questo progetto ebbe un impatto significativo.
Tuttavia, nessuna di queste iniziative (e quelle dell'ECOWAS non erano le uniche del genere) ebbe un'efficacia reale per quanto riguarda il problema centrale dell'instabilità e del disordine degli Stati postcoloniali. Il commercio ‛parallelo', ossia illegale, continuò a impoverirli, soprattutto quelli in cui dominavano burocrazie centralizzate, stornando dalle casse dello Stato ricchezze che andavano a finire nelle tasche dei privati. Le enormi spese militari continuavano a inghiottire entrate di cui c'era urgente bisogno per scopi civili. Fintantoché le amministrazioni di questi Stati fossero rimaste fortemente centralizzate, i cittadini avrebbero continuato a sentirsi privati di ogni possibilità di partecipazione alle decisioni politiche. Il problema cruciale del forte accentramento amministrativo cominciava ad apparire insolubile. E tuttavia, proprio quando la situazione sembrava senza via d'uscita, cominciarono a prender corpo qui e là nuove soluzioni; si trattava di soluzioni inattese e impreviste, che per alcuni anni furono pressoché ignorate. Protagonista di una di queste svolte positive, nel 1976 e negli anni successivi, fu la repubblica dell'Uganda.
10. Verso una rinascita dell'africanismo
L'Uganda, colonia britannica dell'Africa orientale - paese con un'economia basata sulla pastorizia, ricco di bellezze naturali e scenario di antichi regni - aveva conquistato l'indipendenza nel 1962 a seguito della decolonizzazione britannica. Dopo aver sperimentato una serie di regimi pseudoparlamentari più o meno disastrosi, culminati nella dittatura militare di Idi Amin (1971-1979), l'Uganda conobbe un breve periodo caratterizzato da un governo ‛di transizione' e da crescenti disordini politici finché, nel 1986, non venne intrapresa una serie di iniziative rivoluzionarie sotto la guida di un ex studente ugandese dell'Università di Dar-es-Salaam, Yoweri Museveni. Nel giro di tre anni era divenuto chiaro che questo ancor giovane presidente e i suoi collaboratori erano in grado non solo di istaurare la pace, ma anche di mantenerla una volta conseguita. Il Consiglio Nazionale della Resistenza - con i poteri conferitigli da centinaia di consigli eletti a livello locale al cui vertice vi era una nuova Assemblea nazionale - riuscì a dimostrare in modo abbastanza evidente che il potere esecutivo poteva essere riconsegnato nelle mani dei cittadini perché lo esercitassero a livello locale nei singoli borghi e villaggi. Buon senso e tolleranza, per altro inaspettati, furono ulteriori elementi che si aggiunsero a questo quadro di riconciliazione tra Stato e cittadini. I principî dello Stato di diritto vennero sostanzialmente ripristinati dopo essere stati violati o ignorati per anni o forse decenni. L'economia del paese ebbe una ripresa costante, quasi spettacolare; la giustizia prosperò; i beni espropriati agli immigrati asiatici dai precedenti regimi furono restituiti ai legittimi proprietari; ricomparvero persino gli investimenti esteri. Solo il futuro potrà confermare questa svolta positiva, ma nel frattempo tutti coloro che in molti altri paesi oltre all'Uganda avevano attribuito la responsabilità della crisi economica e morale dei loro Stati a un centralismo burocratico alienante potevano trovare una conferma della propria convinzione: il rinnovamento politico doveva cominciare, per citare le parole di Lamin Sanneh, da una globale ristrutturazione del potere dello Stato.
Cosa poteva significare in pratica questa affermazione fu illustrato dai pionieri ugandesi. ‟Negli ultimi otto anni - affermò nel 1994 uno di essi, il procuratore generale A. K. Mayanja in occasione di una conferenza sul diritto pubblico - in Uganda abbiamo messo in atto un tipo di democrazia globale in cui il popolo elegge i propri leaders non come avversari, bensì come rappresentanti cui è demandata la responsabilità di deliberare sui problemi comuni di coloro che li eleggono e di trovare, tutti insieme, delle soluzioni a tali problemi". Solo nel breve ma fruttuoso ‟periodo caratterizzato dall'assenza di una politica improntata alla competizione e allo scontro tipica del modello occidentale di democrazia, questo paese è riuscito a raggiungere un apprezzabile livello di sviluppo, di pace e di armonia" (cit. in ‟West Africa", 19 settembre 1994). Fino a che punto tale soluzione potesse essere valida venne dimostrato nel frattempo da un altro paese dell'Africa orientale che aveva alle spalle una lunga storia di violenza distruttiva. Si tratta dell'ex colonia italiana dell'Eritrea, precipitata in una guerra civile imputabile a varie cause sin dai primi anni cinquanta, quando l'Impero etiope governato dagli Amhara l'aveva assoggettata a varie forme di dominio coloniale e infine a una dittatura militare di ispirazione sovietica comandata da Menghistu Hạ̅yla Mariam. Durante la guerra di liberazione anticoloniale, gli Eritrei - raccolti nel Fronte Popolare di Liberazione dell'Eritrea, FPLE - scacciarono le armate etiopi legate al dittatore e, finalmente, nel 1993, conquistarono l'indipendenza. L'Eritrea aveva poi cercato di suggellare questa pace conquistata a caro prezzo introducendo forme di autogoverno costituzionale basate sulla partecipazione democratica, e ciò con notevole successo se si tiene conto che si trattava di un paese impoverito e devastato da una lunga guerra di origine esterna. Solo gli anni a venire potranno confermare la validità di queste iniziative; per ora, esse offrono un notevole esempio di rinnovamento coronato da successo.
Anche queste vicende possono essere lette come una rinascita della vecchia tradizione africanista. Riscoprendo la storia precoloniale del continente, vi erano ora illustri Africani che esaltavano le virtù del loro popolo che questa attestava. Con un nuovo realismo, essi insistevano sul fatto che ‟i problemi africani richiedono soluzioni africane", e che tali soluzioni erano possibili, come dimostrava l'esempio ugandese. Il soffocante centralismo dello Stato coloniale prima, e di quello neocoloniale poi, era stato invariabilmente difeso asserendo che non era stato possibile individuare nelle radici indigene della società africana alcun elemento costruttivo, alcun impulso allo sviluppo. Non era forse l'impressionante potenza degli Stati europei la prova di una superiorità cui l'Africa poteva adeguarsi importando e adottando i modelli di tali Stati? Così era sembrato, e così in ogni caso era stato insegnato. E tuttavia il fallimento postcoloniale, sempre più evidente all'approssimarsi del XXI secolo, indicava nuove conclusioni. Senza mettere in discussione l'assoluta necessità di una ricostruzione improntata alla modernizzazione, tale fallimento - e l'evidente rinnovamento in Uganda e in Eritrea non erano che due scenari significativi tra i tanti possibili - suggeriva che l'ethos della comunità africana era stato ed era tuttora una ricca fonte di ispirazione creativa, di civiltà, di capacità di autocorrezione: qualità inestimabili che potevano dar luogo, anche nelle tristi condizioni attuali, a vitali atti di rinnovamento. In questa prospettiva, poteva addirittura sembrare che dopo lunghi decenni di spoliazione e semispoliazione il continente africano potesse alla fine riprendere nelle sue mani i propri destini.
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