COLONNA, Agapito
Era, come risulta dal suo testamento, figlio di Giacomo detto Sciarra del ramo di Palestrina della famiglia, il noto protagonista dell'oltraggio di Anagni, e non suo nipote come si è comunemente ritenuto.
Il nome di Agapito risulta molto diffuso nel ramo di Palestrina della famiglia Colonna, dato che S. Agapito era oggetto di particolare venerazione in questa città tanto che a lui fu dedicata la cattedrale. Nel XIV secolo, quando visse il C., ci sono almeno cinque Colonna di questo nome. Appare, perciò, necessario fare alcune precisazioni sui suoi omonimi. Il C. è Agapito III. AgapitoI è suo zio; Agapito II suo cugino germano; Agapito IV suo nipote e Agapito V padre di Martino V, suo pronipote.
Il C. compare nell'epistolario pontificio per la prima volta nel 1343, quando inviò a Clemente VI l'assegnazione di un beneficio non per se stesso, bensì per il suo primo professore di latino, il maestro Francesco Manni di Pratovecchio nella diocesi di Fiesole. Se ne deduce che il C. fece studi umanistici oltre a quelli di diritto canonico per i quali consegui la licenza. Ma il suo vero maestro fu il Petrarca. Nel 1359 il poeta ricorda al C. gli anni del suo insegnamento quando lo stimolava all'apprendimento e trovava nel giovane allievo un deciso impegno allo studio e capacità naturali che glielo facevano fortemente apprezzare (Fam., 20 e 22). Si direbbe che da allora è passata una ventina d'anni. Si può ritenere con certezza che il C., rimasto orfano, venne accolto ad Avignone dal cugino cardinale Giovanni: questi lo fece nominare cappellano papale e a partire dal 1342 gli fece assegnare due prebende, resesi vacanti per la morte del suo uditore e del suo cameriere, quelle, cioè, di Padova e di Tours. Il C. stesso inviò a Clemente VI una supplica nel 1343 per conservare quelle rendite durante i sette anni della sua residenza in una sede universitaria. Suo cugino Giovanni ottenne per lui nel 1346 il prevostato di S. Martino di Tours, di cui il C. era già canonico. Nel 1351 il C. ricevette anche due cappellanie perpetue a Dinant e a Liegi. Sin dal 1350 egli era anche arcidiacono di Bologna, città dove restò fino al 1363, e dove, di conseguenza, rivestì l'incarico di vice cancelliere dell'università per la facoltà di diritto canonico. Almenoa partire dal 1354 egli aveva un vicario, come risulta da un documento notarile.
Il C. è ricordato nel discorso pronunziato da uno studente austriaco in occasione del proprio dottorato in diritto canonico nel 1359: in esso si mettono in rilievo le nobili origini dell'esaminatore e gli si attribuisce la discendenza da Giuba, re della Mauritania. Al medesimo anno risale la lettera, andata perduta, che il C. scrisse al Petrarca: gli rimproverava la ricchezza in cui viveva, confrontando il "palazzo" di Milano con la propria casa presso Bologna, ove viveva povero sotto un tetto che lasciava passare la pioggia, vestito modestamente, contentandosi di poco. Sempre alla stessa epoca risale un suo sermone, conservato in copia insieme con la lettera autografa che lo trasmetteva all'abate di S. Paolo fuori le Mura (Parigi, Bibliothèque nationale, Lat. 3291, ff. 1-4). Il sermone, composto in occasione della festa della conversione di s. Paolo, è un'opera interessante. Il C. manifesta la propria cultura umanistica nelle continue citazioni da Tito Livio, Vegezio, Valerio Massimo e Seneca, appare assiduo lettore di s. Agostino e di altri Padri della Chiesa, e mostra la propria preparazione giuridica con i frequenti riferimenti non solo al Decreto, ma anche ai testi canonici originali.
Innocenzo VI gli assegnò un altro beneficio, facendolo arciprete della collegiata di Lonigo nella diocesi di Vicenza: presso questa città il C. ebbe anche il priorato secolare di S. Nicola. Ma egli abbandonò tutte queste prebende, insieme con il canonicato di Padova, quando Urbano V lo promosse vescovo di Ascoli Piceno il21luglio 1363: egli era allora soltanto diacono e ottenne la consacrazione vescovile solo all'inizio del 1364. Nello stesso anno, però, abbandonò la diocesi per svolgere una missione diplomatica per conto del papa. Urbano V lo inviò a Praga il 3 sett. 1364 con l'incarico di ottenere dall'imperatore e dal re Luigi d'Ungheria almeno un'interruzione dell'impresa che andavano conducendo nella Marca Trevigiana. Il pontefice cercava di proteggere Francesco da Carrara contro i duchi d'Austria e aveva proibito a questi ultimi di impossessarsi di Belluno e Feltre. Il C. era a Praga il 7 apr. 1365 quando Carlo IV assegnò alcune rendite ai suoi nipoti Agapito (IV) e Paolo, figlio del defunto fratello del C. Pietro Sciarra, cavaliere e senatore.
Alla fine del 1365 il C. fu incaricato di un'altra missione. Venne inviato a Genova per negoziare la pace tra quel Comune e i Dal Carretto, protetti dai Visconti. Ma l'accordo non venne raggiunto; e il pontefice all'inizio del 1366 manifestò il proprio dolore per il mancato conseguimento della pace. Nemmeno l'intervento del conte Amedeo di Savoia, a fianco del C., ottenne alcun risultato. Il C. venne inviato di nuovo presso il Visconti; ma la pace venne conclusa solo quando Urbano V si fermò a Genova, durante il viaggio per trasferirsi a Roma, dove arrivò nell'ottobre 1367; e il C. fu al suo seguito.
Si trattenne presso la corte pontificia sino agli ultimi mesi del 1368. Alla fine dell'anno fu inviato di nuovo in Germania, con l'incarico di ricercare la pace tra il marchese Ottone di Brandeburgo e i duchi d'Austria, di modo che l'imperatore potesse operare in Italia. Nel febbraio 1369 il C. era a Lucca presso Carlo IV e assistette alla conferma dei privilegi imperiali degli ospedalieri di S. Giacomo di Altopascio e quindi, insieme con il cardinale Guido di Boulogne e suo nipote Roberto di Ginevra, allora vescovo di Cambrai, all'istituzione di un vicariato per le città imperiali della Toscana sotto la presidenza di Firenze. Non abbiamo ulteriori notizie in merito alla sua missione. Sappiamo comunque che il 22 ottobre il pontefice, prima di lasciare Roma per far ritorno ad Avignone, dove morirà Poco dopo, trasferì il C. dalla diocesi di Ascoli, a quella di Brescia. Si trattava di una sede più ricca della precedente, ma il C. non vi risiedette mai. Fu, infatti, inviato come nunzio apostolico nella penisola iberica con il compito di riconciliare i re d'Aragona, di Navarra, di Castiglia e del Portogallo. E una volta conseguita la pace, il C. avrebbe dovuto predicare la crociata contro i Saraceni.
L' 11 ag. 1371 Gregorio XI lo nominò vescovo di Lisbona. Il C. pagò allora tutte le obbligazioni cui era tenuto verso la Camera Apostolica per i suoi tre vescovati (Arch. Segr. Vat., Oblig. et solut., 40, f. 77), e il papa lo invitò ad accontentarsi, per quello di Lisbona, delle consuete rendite. L'anno successivo Gregorio XI lo inviò in Boemia, autorizzandolo a spostarsi in Ungheria, in caso di necessità. Il C. fu annunziato in quei paesi da lettere pontificie e ricevette pieni poteri. Anche Gregorio XI, al pari di Urbano V, voleva ristabilire in quelle regioni la pace e sollecitare tutti i principi ad aderire alla crociata contro i Turchi: e al pari del suo predecessore si affidò al Colonna. Questi nel 1374 era di nuovo in Portogallo; nel 1375 soggiornò a Roma; e nei due anni successivi risiedette forse per qualche tempo a Lisbona.
Il C. ebbe un ruolo importante nelle vicende successive alla morte del papa Gregorio XI, avvenuta a Roma il 27 marzo 1378. Nel conclave venne eletto pontefice, l'8 aprile, Urbano VI; ma la sua elezione non fu accettata dai cardinali francesi rifugiatisi ad Anagni, che il 20 settembre elessero a Fondi Clemente VII.
Il C. era uno dei pochi prelati romani tornati da Avignone; a lui naturalmente si rivolsero in modo particolare i magistrati municipali romani che per ben due volte - durante la novena e la sera del conclave e poi il giorno successivo - si recarono dai cardinali per invitarli ad accogliere le istanze della cittadinanza che voleva vedere sul trono pontificio un papa romano o, quanto meno, italiano. 1 magistrati pregarono il C. di placare l'agitazione popolare. Il mattino del giorno 8 il C. si recò a S. Pietro e cercò di sedare i clamori della folla. Verso mezzogiorno fu chiamato in conclave insieme con Bartolomeo Prignano, vescovo di Bari, e altri quattro vescovi, perché il Collegio potesse ricevere l'eletto. Ma essi trovarono gran difficoltà ad aprirsi un varco tra la folla che, in armi, aveva invaso anche le sale riservate. Urbano VI non poté quindi essere avvertito della sua elezione perché i cardinali erano tutti fuggiti. Uno di questi era Roberto da Ginevra - un caro amico del C. - il quale prima rientrò a Trastevere, poi riattraversò l'Isola Tiberina e si recò alla residenza del Colonna. Questi gli offrì rifugio nel castello di Zagarolo. Roberto di Ginevra parti di notte; prima di lasciare Roma sembra avesse detto a un suo familiare: "Salvate il vescovo di Bari dai Romani; quando sarà salvo, Agapito diverrà cardinale". Il C. rimase a Roma. Tornato al Vaticano, passò la notte al palazzo. Nessuno ancora aveva messo in dubbio l'elezione del pontefice. Il giorno successivo Urbano VI si impegnò, con grande energia, a riunire i cardinali. Il C. era al suo fianco: il mattino fece ritornare i cardinali dai loro alloggi e accompagnò di persona Pietro de Luna. Il papa lo inviò a Castel Sant'Angelo e nel pomeriggio lo pregò di recarsi dal cardinale di Ginevra a Zagarolo. Il C. obbedì e ritornò il sabato successivo annunciando il prossimo arrivo di Roberto di Ginevra. Apprese allora che Urbano era definitivamente pontefice perché il giorno prima aveva accettato l'elezione: il Collegio, senza Roberto e gli altri cardinali fuggiti, l'aveva intronizzato nella cappella. Di nuovo il C. si fermò nel palazzo. La domenica mattina Roberto di Ginevra arrivò in Vaticano e si prosternò davanti al nuovo papa. E quando questi andò a celebrare la messa nella cappella del conclave, il fratello del conte di Ginevra mostrò al C. e al vescovo di Todi l'anello che voleva offrire al pontefice: era appartenuto a sua madre Mahault di Boulogne e secondo il C. aveva un valore di 400 fiorini. Poi il papa e tutti i cardinali celebrarono insieme la messa solenne a S. Pietro. Il C. inviò una lettera a Lisbona per annunziare l'elezione pontificia al re, che in seguito si manterrà neutrale.
Il pontefice continuò a servirsi di lui: lo inviò ad Anagni dove erano riuniti i cardinali francesi e il C. tornò a Roma recando una lettera di Roberto di Ginevra con la quale chiedeva una grazia per due familiari. Il 18 settembre il C. venne nominato cardinale; ma rifiutò, non perché dubitasse dell'elezione del papa, bensì perché voleva vivere in pace; non desiderava - dichiarò - di navigare in un mare in tempesta. Il vescovo di Todi si recò dal C. che era rientrato ad Anagni per convincerlo. Allora il C. tenne un consiglio di famiglia. E mantenne il rifiuto: il rischio gli sembrava troppo grande. Allora il Comune di Roma gli inviò un'ambasciata per insistere anche a nome dell'imperatore. Finalmente il C. decise di accettare e fu nominato cardinale prete di S. Prisca.
La prima notizia che abbiamo sulla sua attività di cardinale è la visita che egli fece a Gallicano, poco a nord di Zagarolo. Si recò a trovare il cugino Stefano, notaio papale, anch'egli nominato cardinale insieme con il C., che era malato e che ricevette anche la visita del medico senese del pontefice, Francesco Casini. Si vennero così ad incontrare tre amici del Petrarca. Il C. aveva appena ricevuto la notizia dell'elezione di Clemente VII a Fondi. Ci è giunta una delle sue prime reazioni a tale elezione: "Non credo - disse al Casini - che il cardinale di Ginevra sia divenuto papa, bensì che sia diventato capo del Sacro Collegio fino a che non venga raggiunto un accordo con il santo padre" (cfr. Seidlmayer, p. 318).
Il C. rimase ancora in Curia: il 16 marzo 1379, insieme con gli altri cardinali, esaminò le testimonianze raccolte per la canonizzazione di s. Brigida, canonizzazione che era sollecitata specialmente dall'ex vescovo di Jaen, Alfonso Pecha, che si era fatto eremita al seguito della santa (sulla canonizzazione di s. Brigida si veda, I. Collijn, Birgittinska Gestalter..., Stockholm 1929). Dovette anche esser presente quando vennero fatte conoscere ai cardinali le testimonianze raccolte con grande zelo dal Pecha - con l'aiuto di suo fratello Pietro, monaco nella diocesi di Toledo - per giustificare il papa di Roma contro quello di Avignone. Il C. era infatti a Roma nel mese d'aprile quando scrisse ai Senesi chiedendo, con grande insistenza, una pievania per uno dei suoi familiari. Ed era ancora in Curia quando l'arcivescovo di Trani, delegato di Siena a Roma, dopo la morte del cardinale Orsini (15 ag. 1379) protettore dei Senesi presso la Curia, scrisse suggerendo loro di scegliere come vescovo protettore il C. perché nessuno come lui era in grado di opporsi ai loro avversari.
Successivamente Urbano VI inviò il C. in missione, incaricandolo di ricercare la pace tra Venezia e Genova. Le due repubbliche erano da tempo in conflitto e le loro truppe lottavano allora per il possesso di una delle città lagunari, Chioggia, che darà il nome alla guerra. Nonostante il C. avesse utilizzato le sue amicizie, nate quando era ambasciatore presso il re d'Ungheria, con Francesco da Carrara e con altri signori, l'assedio era continuato ed egli non ottenne alcun valido risultato. Possediamo una preziosa lettera inviata dal C. al pontefice il 14 febbr. 1380 "ex campo utriusque partis" presso Chioggia, interessante anche per comprendere il suo punto di vista sullo scisma. In essa egli fa il resoconto dei viaggio. A Venezia tra stato ricevuto dal doge con grande onore all'inizio di febbraio, poiché il popolo veneziano si manteneva fedele alla Chiesa di Roma e al suo papa e il doge nutriva amicizia per il C. e rispetto per i suoi antenati. A Venezia aveva ricevuto notizie confortanti anche per quanto riguardava Mantova; e confermava l'impegno a recarsi a Genova. E proseguiva: "E vengo alla questione più grave. Il re di Castiglia mi ha scritto come un figlio al padre in merito ad una questione per ia quale gli fu inviato fra' Pietro [il fratello di Alfonso Pecha] e nella quale si trovano le idee dell'arcivescovo di Toledo, Tenorio. Essi vogliono un atto autentico della vostra seconda elezione, quella che precedeva l'intronizzazione del venerdì pomeriggio. Allora mi avevate inviato a Zagarolo per cercare Roberto di Ginevra: pertanto non posso sapere tutto sulla cerimonia. Se quel documento esiste, abbiamo guadagnato la Castiglia. Sappiate, comunque, che lo stesso re invia un ambasciatore ai due cardinali italiani. Hanno scritto ovunque che non c'è speranza se non in un concilio". Si tratta di una lettera di un abile diplomatico nella quale appaiono riflettersi i caratteri dei due corrispondenti. La lettera termina con la richiesta di ricordarsi dell'appoggio promesso: "Se torno a Roma, non ho di che vivere" (v. la lettera in Seidlmayer, pp. 320-323).
A Genova il C. venne ricevuto il 22 marzo con onori pari a quelli tributatigli a Venezia. Ripartì, poi, per Vicenza per attendere il re d'Ungheria e poi partecipare al congresso che si tenne in giugno a Cittadella. A Chioggia i Genovesi continuavano a resistere e la pace poté concludersi solo l'anno successivo.
Urbano VI lo inviò allora come legato in Aragona. Il C. rientrò a Roma probabilmente in autunno ove ricevette un altro arcidiaconato, quello di Durham in Inghilterra.
Morì il 3 o l'11 ott. 1380.
In viaggio verso la Spagna si era fermato presso i domenicani di Arezzo e qui il 9 dicembre aveva fatto testamento, con cui disponeva della sua eredità (l'originale del testamento in Bibl. Apost. Vat., S. Maria Maggiore, cart. 70, n. 1144). Da questo e da altre fonti possiamo ricostruire il suo patrimonio. Egli possedeva almeno il castello di Zagarolo e una parte di quello di Colonna. Quando era vescovo in Portogallo suoi procuratori avevano spedito nel 1373 da Lisbona ad Avignone 14.000 pezzi d'oro che andarono persì in un naufragio. Sappiamo anche che da cardinale aveva acquistato una proprietà terriera nella valle della Marana di circa quarantadue ettari coltivati: ne cedette metà alle clarisse di S. Lorenzo a Panisperna, il 13 ott. 1379, all'interno di una permuta complessiva tra terre e i diritti (corredo e dote) della badessa sua nipote. Tali diritti rientrarono nell'asse ereditario. Due mesi dopo il C. scelse come erede universale Landolfo Colonna, signore di Riofreddo e quarto di questo nome; alcuni doni, peraltro, erano destinati a chiese. Landolfo era fedele a Urbano VI e Clemente VII l'aveva già scomunicato da Fondi. Il C. gli impose l'onere di sostenere le cappellanie fondate a S. Maria Maggiore. Qui il C. voleva la sua tomba davanti l'altar maggiore, sotto quella del cardinale Giacomo Colonna o accanto a quella del cugino cardinal Pietro, nella cappella di Niccolò IV o, se possibile, di fronte all'immagine della "Madonna di S. Luca". E qui fu sepolto. Presso la sua tomba tre cappellani avrebbero dovuto celebrare ogni settimana messe per la sua anima. Esecutori testamentari furono nominati alcuni cardinali e altre persone, tra cui sua sorella Andrea, monaca di S. Silvestro. Ma le messe non vennero mai celebrate: nel 1387 i canonici ricorsero ad un espediente per costringere l'erede a rispettare i suoi obblighi, costringendolo a pagare subito il necessario per un periodo di almeno sei anni. Sulla tomba fu messo un epitaffio che ancora si legge: "Preclarus tenui requiescit Agapitus urna".
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