Agatocle
Nato nel 360 a.C. circa, figlio di un fabbricante di ceramiche stabilitosi a Siracusa, dovette abbandonare la città sotto il regime oligarchico.
Fattovi ritorno quando il popolo si ribellò, percorse con successo tutti i gradi della carriera militare fino a ottenere la carica di stratego e, nel 316 a.C., quella di stratego e custode della pace, che gli assicurava un potere quasi assoluto. Deciso a prevenire eventuali tentativi di essere rovesciato, sterminò gran parte degli ottimati. Consolidato in tal modo il suo potere, svolse con pieno successo una politica tendente ad assoggettare le altre città siceliote e a neutralizzare la reazione dei Cartaginesi, che non tolleravano l’espansionismo del tiranno. Come ritorsione per l’aiuto fornito da quelli alle città da lui minacciate, A. invase i territori siciliani soggetti a Cartagine. La reazione cartaginese, agevolata dal sostegno delle città che si ritenevano in pericolo, non si fece attendere, e A. dovette affrettarsi a rientrare a Siracusa, che era stata posta sotto assedio dai suoi nemici. Nel 310, battuto da Amilcare, concepì l’audacissimo proposito di raggiungere l’Africa con un ridotto esercito e riuscì ad attuarlo con grande destrezza, ottenendo un’ininterrotta serie di successi bellici. Nel 308 fece ritorno in Sicilia, dove l’assedio posto a Siracusa si era intanto concluso senza risultati per la tenace e valorosa resistenza opposta dal fratello Antandro, e sconfisse la coalizione di città greche capeggiate da Agrigento. Dopo aver concluso un trattato di pace con i Cartaginesi, riuscì a sottomettere tutta la Sicilia, a eccezione di quella città. Nel 304 assunse il titolo di re. Morì di malattia nel 289, dopo essersi assicurato il controllo dello stretto di Messina e aver conquistato Còrcira (Corfù) e Lèucade (Lefkada), ma la sua opera non gli sopravvisse.
Di A. tratta l’viii capitolo del Principe, dedicato a coloro che «per scelera ad principatum pervenere». Nulla di sostanziale aggiungono alcuni luoghi dei Discorsi, nel cui capitolo vi (§ 170) del III libro, analogamente a ciò che avviene nel Principe, A. è ricordato come «principe d’uno esercito», del quale si servì per «occupare la patria», sebbene in II xiii 3 fosse stato citato come esempio di coloro che hanno impiegato la sola frode per innalzarsi «o a regno o a imperii grandissimi». Come che sia di ciò, problemi esegetici più complessi e inquietanti pone quello che si dice di lui nell’«opuscolo» che traccia l’ideale ritratto del «principe nuovo» alla cui «estraordinaria» virtù è affidato il compito di guarire l’Italia dalle «sue piaghe già per lungo tempo infistolite».
Del quale non sarebbe qui opportuno né possibile discutere; ma almeno questo bisogna dire, che a quel principe e alla maniera di condurre al successo il suo arduo e forse ineseguibile compito andava la mente di M. mentre narrava le «inumane» imprese del tiranno siracusano.
All’inizio dell’viii capitolo (§§ 1-8) del De principatibus, riassumendo, non senza qualche forzatura, ciò che aveva letto in Giustino, Storie filippiche, XIX iii-vi, M. ricorda la brillante carriera militare di A., il crudele colpo di Stato con cui, dopo aver sterminato «tutti e’ senatori ed e’ più ricchi del populo», consolidò il suo potere, e la strenua resistenza che oppose ai Cartaginesi, portando la guerra in Africa mentre Siracusa era sotto assedio. Seguono (§§ 9-12) alcune tormentate considerazioni sul contrastante giudizio che si deve dare di lui, a seconda che lo si guardi dal punto di vista della politica o da quello dell’etica. Su A. lo scrittore torna nei §§ 22-26, per domandarsi come, «dopo infiniti tradimenti e crudeltà», abbia potuto «vivere lungamente sicuro nella sua patria e difendersi da li inimici esterni» senza che nessuno abbia mai tentato di rovesciarlo. La risposta è data dalla celebre distinzione tra «crudeltà male usate» e «bene usate»:
Bene usate si possono chiamare quelle – se del male è lecito dire bene – che si fanno a un tratto per la necessità dello assicurarsi e di poi non vi si insiste dentro, ma si convertono in più utilità de’ sudditi che si può.
Male usate sono quelle le quali, ancora che nel principio sieno poche, più tosto col tempo crescono che le si spenghino (§§ 24-25).
È difficile comprendere come dalle Storie filippiche il suo moderno lettore abbia potuto dedurre che A. convertì le iniziali «crudeltà» in «più utilità dei sudditi che si può». Questa convinzione M. avrebbe potuto trarla da due storici greci, Polibio (IX xxiii 2) e Diodoro Siculo (XIX ix 6). Ma, tanto del primo quanto del secondo, solo i primi cinque libri erano stati tradotti in latino, rispettivamente da Niccolò Perotti e Poggio Bracciolini. È indubbio che il Fiorentino conoscesse almeno il contenuto dei più importanti frammenti del VI libro delle Storie polibiane, sebbene una spiegazione certa sia finora mancata; ma non per questo sarebbe meno imprudente supporre che potesse facilmente procurarsi anche l’accesso al IX libro di quell’opera. Né vi è motivo di credere che la sua conoscenza della Bibliotheca historica diodorea si estendesse oltre il V libro. Infatti il cenno nei Discorsi (III xiii 17) al comportamento tenuto dai mercenari dopo la morte di Alessandro, piuttosto che da Diodoro XVIII ix, dipende da Giustino XIII ii-iii. Si aggiunga che, se M. fosse stato informato del contenuto del XIX libro della Bibliotheca, non avrebbe probabilmente affermato che, dopo la strage degli ottimati, il tiranno di Siracusa «occupò e tenne il principato di quella città senza alcuna controversia civile», perché lo storico greco narra (XIX cii-civ) come i fuorusciti siracusani lo abbiano costretto ad affrontare un durissimo scontro. Finché non emerga una testimonianza probabilmente ormai irreperibile dovremo dunque accontentarci di supporre che M. abbia tratto la convinzione che A. aveva convertito l’efferata crudeltà con cui aveva preso il potere in sollecita cura per il bene dei sottoposti da un insieme di circostanze convergenti, fra cui il deciso carattere antiottimatizio della violenza di cui si era servito per innalzarsi al principato: manifestazione di un orientamento politico a cui il felice esito delle sue imprese lasciava presumere che fosse rimasto tenacemente fedele, tanto da apparire un emulo di Nabide e di tutti i principi che avevano seguito il pressante suggerimento del capitolo De principatu civili circa la necessità di «avere il populo amico», benché in nessuno dei due diversi significati che quel capitolo attribuisce all’aggettivo il «principato» di A. possa dirsi «civile». L’ipotesi appare tutt’altro che soddisfacente, ma, in alternativa, non resterebbe che affidarsi all’indimostrabile congettura che M. era venuto a conoscenza di una discussione che aveva avuto forse luogo negli ambienti filoellenici di Firenze. L’autentico e più grave problema – del quale A., come Cesare Borgia e alcuni altri grandi, antichi e moderni, è il simbolo riassuntivo –, il problema di cui lo scrittore sente l’angosciosa complessità, che non consentiva alcun superamento, ma esigeva, piuttosto, scelte nette e coerenti con il fine, è tuttavia il difficile e spesso contraddittorio rapporto tra etica e politica. Evidente è infatti lo sforzo dell’autore per tenere ben distinto il giudizio che si deve dare di un atto, e di chi lo compie, a seconda che lo si guardi dall’uno o dall’altro punto di vista. Eppure tanto insistito è questo sforzo da suscitare l’impressione che non solo dalla volontà d’impedire che il lettore cada in equivoco tragga origine, ma da ragioni più intime e meno ovvie.
Nelle prime linee del capitolo intitolato a coloro che conquistarono il potere per scelera (viii 3), il rifiuto di entrare «ne’ meriti di questa parte» è seguito dalla dichiarazione che i «dua esempli» che M. si propone di offrire, quelli di A. e di Oliverotto Euffreducci, saranno sufficientemente istruttivi per «chi fusse necessitato imitargli», come se lo scrittore sentisse il bisogno di ‘prendere le distanze’ dal periglioso argomento che era costretto a trattare. La «neccessità» di imitare gli scellerati protagonisti del capitolo è infatti rappresentata come una remota eventualità. Per altro, se si legge l’ultimo capoverso, si apprende non solo che questa necessità è ben presente nel mondo reale, ma si viene anche a conoscere quali siano coloro che non possono sfuggire alla sua stretta:
Onde è da notare che, nel pigliare uno stato, debbe lo occupatore d’esso discorrere tutte quelle offese che gli è necessario fare, e tutte farle a uno tratto, per non le avere a rinnovare ogni dì e potere, non le innovando, assicurare li uomini e guadagnarseli con benificarli (§ 27).
Si tratta, dunque, per quanto scandaloso ciò possa apparire, nientemeno che – o, se si preferisce, anche – del «principe nuovo», a cui è rivolta la celeberrima Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam (xxvi). Se è cosí, il distacco con cui sono citati gli esempi di A. e di Oliverotto è contraddetto dall’implicito invito a imitarli al fine di condurre al successo l’impresa da cui dipendeva il riscatto di «questa misera Italia». Tra questi due poli si dispiega l’intero capitolo viii. Fin dall’inizio il giudizio di M. sul tiranno siracusano, che accompagnò le sue «sceleratezze» con una straordinaria «virtù di animo e di corpo», si mostra incerto e oscillante. Non che il binomio scelleratezza-virtù appaia un intollerabile ossimoro a chi con le pagine del Fiorentino abbia qualche dimestichezza. Senonché un primo motivo di perplessità sorge quando ci si domanda se, nell’affermare che A. «tenne sempre, per tutti i gradi della sua età, vita scelerata» (§ 5), lo scrittore abbia tenuto adeguato conto di ciò che dice nel § 26 circa la benevolenza che il tiranno aveva mostrato nei confronti dei sudditi, quasi che volesse lasciare a chi fosse costretto a imitarlo l’intera responsabilità di azioni delle quali lui, M., non nascondeva la crudele scelleratezza. A maggior ragione invita a riflettere il fatto che, dopo aver ricordato il sanguinoso stratagemma con cui A. aveva conquistato il «principato», il quondam Segretario senta il bisogno di precisare (§ 10) che «non si può ancora chiamare virtù ammazzare e’ suoi cittadini, tradire gli amici, essere sanza fede, sanza pietà, sanza religione: e’ quali modi posson fare acquistare impero, ma non gloria», cosa di cui nessuno dei suoi lettori avrebbe dubitato. Anche in questo caso il testo mostra il desiderio, inconsueto nell’autore del Principe, di bilanciare l’elogio delle qualità per le quali A. meritava di essere «imitato» con la condanna della profonda immoralità delle azioni che gli avevano consentito di «acquistare imperio, ma non gloria». E non sarà forse troppo audace scorgervi l’inconsapevole intento di contrastare una personale inclinazione psicologica a lasciare che il giudizio politico si sovrapponesse a quello morale.
Il dubbio acquisisce maggiore consistenza allorché si legga con la dovuta attenzione il passo in cui, mentre da un lato viene ribadita l’impossibilità di accogliere A. tra «gli eccellentissimi uomini», dall’altro M. mostra di non essere disposto a tollerare che se ne tragga motivo per giudicarlo inferiore a «qualunque eccellentissimo capitano»:
Perché, se si considerassi la virtù di Agatocle nello entrare e nello uscire de’ pericoli, e la grandezza dello animo suo nel sopportare e superare le cose avverse, non si vede perché egli abbia a essere iudicato inferiore a qualunque eccellentissimo capitano: nondimanco la sua efferata crudeltà e inumanità con infinite sceleratezze non consentono ch’e’ sia in fra gli eccellentissimi uomini celebrato. Non si può adunque attribuire alla fortuna o alla virtù quello che sanza l’una e l’altra fu da lui conseguito (§§ 11-12).
«Eccellentissimo capitano», dunque, ma non «eccellentissimo uomo» a causa della scelleratezza con cui accompagnava le sue virtú di comandante militare; alle quali, tuttavia, M. sembra intenzionato a negare che si addicesse il nome di «virtù» («sanza l’una e sanza l’altra»), benché poco sopra avesse celebrato «la virtù di Agatocle nello entrare e nello uscire de’ pericoli». Difficile è dire se una simile precauzione dipenda unicamente dalla volontà di evitare che qualcuno, messo in difficoltà dai diversi significati assegnati al medesimo termine, attribuisse allo scrittore l’intenzione di confondere, o l’incapacità di distinguere, virtù politica e virtù morale; o se non vi si debba anche scorgere l’oscura consapevolezza che quell’inammissibile confusione tendeva a prodursi in qualche recesso della sua mente. Non può infatti sfuggire che, a giudicare A. da un punto di vista che facesse astrazione dalle sue indubbie capacità di edificazione politica, M. riusciva solo con riluttanza, come se l’impossibilità di collocarlo sotto il segno del Bene non fosse sufficiente a collocarlo sotto quello del Male.
Nella frase che distingue le crudeltà «bene usate» da quelle «male usate» M. attribuì le «crudeltà» di quelle che ritiene «bene usate» alla «necessità dello assicurarsi», ma si premurò d’introdurre la dubitativa retorica «se del male è lecito dir bene», quasi a evitare che l’esplicito emergere dell’imprescindibile necessità di consolidare con qualsiasi mezzo il proprio potere rendesse inoperante, se non addirittura improponibile, qualsiasi criterio di valutazione diverso da quello politico:
E hassi ad intendere questo, che uno principe e massime uno principe nuovo non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che egli abbia uno animo disposto a volgersi secondo e’ venti della fortuna e la variazione delle cose gli comandano; e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato (xviii 14-15).
«Imitare» A. poteva dunque dimostrarsi necessario, anche se da qualche suo eccesso era forse bene astenersi. Resta solo da notare che, a differenza di Clearco, ricordato nei Discorsi (I xvi 19-22), e del principe di cui tratta il capitolo De principatu civili (ix), il tiranno divenuto «re di Siracusa» non intervenne, secondo M., in un grave conflitto sociale; sicché la strage che perpetrò, benché abbia felicemente condizionato la sua politica, fu motivata soltanto dalla decisione di «tenere con violenzia e sanza obligo di altri quello che d’accordo gli era suto concesso» (viii 6).
E questo spiega perché dovette conquistare «a poco a poco» il favore del popolo mediante una serie continua di «benifizi», elargiti in un tempo successivo a quello in cui aveva compiuto la sua crudelissima impresa.
Sulla quale alcune cose sono state dette, ma molto resterebbe da dire, poiché la problematica, etica e politica, che essa implica è tanto irta di difficoltà da richiedere che, oltre ai temi della «fortuna» e della «variazione delle cose», si trattino quelli della rigidità della natura individuale (da cui dipende l’impossibilità di trovare il necessario «riscontro» con i «tempi») e, innanzi tutto, dell’aspra conflittualità che nel terzo libro delle Istorie fiorentine, induce l’anonimo ciompo ad affermare che «gli uomini mangiono l’uno l’altro», materia che non una scheda richiederebbe, ma un non breve trattato. Ciò non impedisce tuttavia di osservare che nel capitolo xvii del Principe, dominato dall’immagine di Cesare Borgia, l’antagonistico rapporto di etica e politica appare meno problematico (non si dice, ed è importante notarlo, meno drammatico) perché, e soltanto perché, della scelta, politicamente disastrosa, di astenersi dal violare le norme dell’etica M. si limita a mettere in rilevo le conseguenze pratiche, lasciando al lettore l’ingrato compito di constatare come tali conseguenze contraddicano le norme che si era deciso di rispettare.
Se, in un mondo dominato dalla competizione e dalla violenza, la moralità resta un ideale inattingibile, non è solo perché la politica esige il sacrificio dell’etica, poiché in tal caso sarebbe sempre possibile sacrificare la politica all’etica, come i primi cristiani sacrificavano la vita alla fede: non solo per questo, dunque, ma anche perché, comunque si agisca, è impossibile non offendere l’etica. Né lo si può evitare astenendosi dall’azione e lasciando che il Male domini il mondo, come il santo eremita al quale, nella Vita di Castruccio Castracani, M. attribuisce con ironia e disprezzo il nome di «fra Lazero». Invano si cercherebbe nelle opere del geniale Segretario una maniera di sottrarsi a quest’insuperabile aporia: l’analisi che reca alla luce – pur senza proporsi questo scopo, o, almeno, senza proporselo esplicitamente – i limiti della morale tradizionale non conduce verso una nuova morale. Allorché, in Discorsi III xli, M. assume la responsabilità di esortare coloro che amano la patria a osservare la vecchia massima fiorentina che impone di «perdere l’anima» per conservarle «vita» e «libertà», le azioni ingiuste, crudeli e ignominiose che si è costretti a compiere non mutano perciò natura, come diviene evidente quando si consideri che l’esortazione è formulata dicendo che dove si dilibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d’ingiusto, né di piatoso, né di crudele, né di laudabile né d’ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire quel partito che le salvi la vita e mantenghile la libertà (§ 5).
Altri testi, su cui è impossibile soffermarsi in questa sede, consentono di comprendere da dove tragga origine l’insuperabile necessità della politica, che non potrebbe essere diversa da quella imperiosamente suggerita dalla «cognizione delle azioni delli uomini grandi»: la scarsità delle risorse e la feroce competizione che ne rende impossibile una pacifica e condivisa amministrazione.
Bibliografia: Fonti: Giustino, Storie filippiche, XX viii 1, XXII ii 9-12, XXIII ii 6-13.
Per gli studi critici si vedano: F. Nitti, Machiavelli nella vita e nelle dottrine (1876), a cura di S. Palmieri, G. Sasso, 2° vol., Bologna 1996, pp. 245-51; F. Meinecke, Die Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte, München 1924 (trad. it. L’idea della ragion di stato nella storia moderna, Firenze 1970, pp. 25-44); G. De Sanctis, Agatocle, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, Istituto della Enciclopedia italiana, 1° vol., Roma 1929, ad vocem, in seguito anche in Id., Scritti minori, 1° vol., Roma 1970, pp. 205-48; F. Chabod, Scritti su Machiavelli, Torino 1964, p. 150; G. Sasso, Studi su Machiavelli, Napoli 1967, pp. 100 segg. e 117 segg.; I. Berlin, The originality of Machiavelli, in Studies on Machiavelli, ed. by M. Gilmore, Firenze 1972, pp. 149-206; C. Lefort, Le travail de l’oeuvre. Machiavel, Paris 1972, pp. 347-81; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi, 2° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 360-63 e passim; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 1° vol., Il pensiero politico, Bologna 1993, pp. 386 segg. e 462 segg.; S. N. Consolo Langher, Agatocle. Da capoparte a monarca fondatore di un regno tra Cartagine e i Diadochi, Messina 2000; G. Inglese, Per Machiavelli, Roma 2006, pp. 57 segg. e 77 segg.; G. Cadoni, Machiavelli, il Bene, il Male e la politica, «La cultura», 2010, 48, pp. 221-59.