Aggressività
Per aggressività si intende una tendenza a comportamenti ostili verso qualcuno o qualcosa. Al di là degli aspetti distruttivi, o di reazione a situazioni conflittuali o frustranti, messi in risalto dalla psicologia del profondo, l'aggressività si caratterizza dal punto di vista dell'etologia per le sue funzioni adattive tese alla conservazione e alla difesa di risorse vitali.
Le basi biologiche
1.
Dal punto di vista biologico, l'aggressività è un sistema comportamentale di cruciale importanza per la sopravvivenza e la riproduzione della maggior parte delle specie animali. Gli animali aggrediscono per ottenere delle risorse disponibili in quantità limitata, per difendere la propria integrità fisica o per imporre ad altri un comportamento altrimenti rifiutato. L'aggressione è, quindi, un mezzo e non un fine, e in genere è un comportamento a cui si ricorre in assenza di altre strategie di competizione meno rischiose. Sebbene le molteplici funzioni adattive dell'aggressività siano tutte, in ultima analisi, riconducibili alla necessità di acquisire e difendere risorse biologicamente vitali, è possibile operare alcune distinzioni che consentono una classificazione dei vari tipi di aggressività. Per es., l'aggressività territoriale ha lo scopo di delimitare e difendere da individui della stessa specie un'area essenziale per l'alimentazione e la riproduzione; l'aggressività materna consiste in comportamenti agonistici che mirano a difendere la prole; l'aggressività predatoria implica l'attacco a individui di altre specie, ed eccezionalmente a conspecifici, a fini alimentari.
In tutte le specie animali l'aggressività è un comportamento caratterizzato da differenti livelli di intensità. Le forme più estreme di aggressione, quelle cioè che causano lesioni fisiche gravi, sono relativamente rare rispetto ai comportamenti di semplice minaccia. Nella maggior parte dei casi questi segnali ostili sono sufficienti a risolvere il conflitto senza che i contendenti debbano arrivare a un cruento scontro fisico. Sulla base di questa osservazione i primi etologi conclusero che i meccanismi che controllano l'aggressione si sono evoluti in modo tale da proteggere per quanto possibile gli individui di una stessa specie dai possibili danni derivanti dalla competizione agonistica. Attualmente la teoria della selezione di gruppo non è considerata una spiegazione valida per rendere ragione dell'evoluzione dei comportamenti sociali e si accetta invece il principio che ogni individuo persegue il proprio interesse (che in ultima analisi è la propagazione del proprio corredo genetico) e non quello dei membri della stessa specie. Il fatto che l'aggressione solo raramente abbia conseguenze letali è semplicemente il risultato della necessità per i contendenti di limitare al minimo il rischio di subire danni. Se la risorsa contesa può essere ottenuta senza impegnarsi in un vero e proprio scontro fisico non è vantaggioso aggredire l'antagonista con violenza aumentando così la probabilità di una pericolosa reazione difensiva. Un buon esempio del funzionamento di questi meccanismi di regolazione dell'aggressività è la gerarchia di dominanza che caratterizza molte specie sociali tra cui i primati non umani. In molte specie di primati ciascun individuo occupa un posto nella scala gerarchica che lo classifica rispetto ai compagni di gruppo. Un maschio dominante riesce nella maggior parte dei casi a ottenere l'accesso preferenziale alle risorse contese, come il cibo, i luoghi di riparo o le femmine in estro, senza doversi impegnare in combattimenti prolungati con i compagni di gruppo a lui subordinati. Il conflitto si risolve in genere con lo scambio di segnali visivi e acustici: il dominante minaccia il subordinato guardandolo fisso negli occhi, grugnendo o inseguendolo per brevi tratti. Questi messaggi sono efficaci perché non fanno che rimarcare una superiorità acquisita in precedenza mediante scontri effettivi. Dedurre da ciò che gli animali siano incapaci di far del male a un membro della stessa specie sarebbe un errore grossolano. Quando l'obiettivo non può essere raggiunto se non uccidendo il rivale, anche nei primati non umani, come in molte altre specie, ci troviamo di fronte a esempi che dimostrano un potenziale di violenza non certo inibito dal fatto che l'antagonista è un conspecifico. Negli entelli (Presbytis entellus), specie di scimmie, quando un maschio spodesta il maschio residente diventando l'animale dominante di un piccolo gruppo di femmine e giovani, i piccoli ancora allattati dalle madri sono uccisi dall'invasore. Lo scopo di questo comportamento è duplice: accorciare il periodo di infertilità delle femmine, dovuto all'allattamento, ed eliminare potenziali futuri competitori dei propri figli. Alla violenza del maschio si oppone la violenza delle madri che, di fronte alla prospettiva di vedere vanificato tutto l'investimento in tempo ed energia dedicato al proprio piccolo, reagiscono alleandosi e aggredendo furiosamente l'invasore che minaccia la loro prole. Ne risultano combattimenti violenti con esiti spesso letali.
2.
Recenti studi di neurobiologia hanno permesso di chiarire in parte i meccanismi fisiologici che mediano il comportamento aggressivo. Le regioni cerebrali coinvolte nel controllo dell'aggressività sono l'ipotalamo, l'amigdala, la corteccia temporo-limbica e la neocorteccia frontale. La rimozione chirurgica dell'amigdala elimina le risposte aggressive nella scimmia. Nell'uomo, studi clinici hanno dimostrato che lesioni del lobo temporale causano un aumento patologico del comportamento aggressivo. La relazione tra neuromediatori e aggressività è estremamente complessa. Diverse sostanze, quali l'acetilcolina, la noradrenalina, l'acido gamma-amino-butirrico (GABA) e la serotonina, influenzano la soglia di reazione aggressiva. Gli studi più recenti hanno evidenziato in particolar modo il ruolo della serotonina. La tendenza a commettere atti impulsivi violenti (v. violenza) sia autodiretti che eterodiretti si associa a una ridotta funzionalità della trasmissione serotoninergica a livello cerebrale. Quest'alterazione neurochimica è stata documentata in differenti popolazioni psichiatriche (pazienti depressi, schizofrenici, con disturbi di personalità, piromani), ma anche in omicidi che avevano commesso il crimine in modo passionale e non premeditato. La relazione tra ormoni e aggressività è altrettanto complessa, anche se il ruolo del testosterone nel favorire il comportamento aggressivo è stato dimostrato sia nell'uomo che in altri animali.
3.
Di fronte a episodi di agghiacciante violenza, a livello sia individuale sia di massa, si tende spesso a chiamare in causa la malattia mentale come spiegazione possibile e, tutto sommato, rassicurante. In realtà gli studi epidemiologici hanno ripetutamente dimostrato che le persone affette da disturbi psichiatrici sono responsabili solo di una piccolissima percentuale dei crimini violenti che affliggono la nostra società. Inoltre, non ha senso accomunare pazienti affetti da malattie molto diverse per rischio di violenza in un'unica categoria. Mentre alcuni disturbi mentali predispongono in effetti a reazioni aggressive, altri sono caratterizzati da livelli patologicamente bassi di aggressività. La comprensione dell'aggressività umana non può prescindere dall'esame dei dati biologici e dalla considerazione degli aspetti evolutivi perché la maggior parte delle caratteristiche del comportamento aggressivo nella nostra specie sono analoghe a quelle di altre specie, in particolare quelle a noi più vicine filogeneticamente, come i primati non umani. Ciò senza negare l'importanza di variabili che caratterizzano in modo esclusivo alcuni fenomeni dell'aggressività umana, primo fra tutti la guerra così come la intendiamo oggi. I meccanismi biologici che regolano l'aggressività nell'uomo si sono infatti evoluti per controllare il conflitto tra individui e piccoli gruppi e si basano su segnali comunicativi che richiedono il contatto diretto.
1.
Praticamente tutti, sin dalla prima infanzia, affrontano il problema dell'aggressività quando si interrogano sulla possibilità di ledere o proteggere la propria incolumità e quella altrui. È perciò comprensibile che ancor prima di essere un oggetto di ricerca sistematica l'aggressività sia un ineludibile motivo di riflessione e di preoccupazione per ogni individuo e ogni società. Le diverse culture si caratterizzano in merito a questo problema e al ruolo che esso svolge nella loro economia. In ambito scientifico lo studio dell'aggressività, e dei suoi diversi aspetti, ha costituito un oggetto di ricerca importante per varie discipline, dalla biologia alle scienze psicologico-sociali. La multidisciplinarità è dunque un carattere distintivo della ricerca su questo tema. Nell'ambito della stessa psicologia le varie branche che si sono interessate alle condotte aggressive, dalla psicobiologia alla psicologia sociale, ne hanno posto in risalto diverse componenti. La multidimensionalità è infine apparsa una caratteristica del fenomeno poco compatibile con i vari tentativi di ridurre le sue diverse espressioni a un unico tipo di moventi.Per aggressività generalmente s'intende la tendenza che sorregge un comportamento aggressivo: un comportamento, cioè, intenzionalmente orientato ad arrecare danno a un'altra persona. È tuttavia evidente che la nozione di 'tendenza' è elusiva e che i legami tra intenzionalità e danno arrecato sono spesso incerti. La tendenza che sorregge la condotta aggressiva in momenti e contesti differenti può infatti corrispondere a processi e meccanismi molto diversi. Non è verosimile che i processi e meccanismi che regolano la tortura siano gli stessi di quelli che regolano il vandalismo o l'insulto. Le intenzioni che possono infine sfociare in un danno sono anch'esse molto dissimili. Man mano che si approfondisce l'analisi delle varie manifestazioni si svela la difficoltà di tracciare linee di demarcazione precise tra ciò che è intenzionale e ciò che non lo è, tra un'aggressione 'ostile', finalizzata esclusivamente a danneggiare un'altra persona, e un'aggressione 'strumentale' al servizio di fini diversi dall'offesa; e, ancora, la difficoltà di distinguere quanto vi è di 'reattivo' e quanto invece vi è di 'proattivo', quando, cioè, la condotta aggressiva è soprattutto una risposta più o meno adattiva all'ambiente o quando essa è invece un'azione trasformativa dell'ambiente.
L'ipotesi che le varie manifestazioni aggressive siano tutte direttamente o indirettamente riconducibili a un'unica origine, come un istinto, una pulsione, una disposizione, o al dispiegamento di medesimi processi, è apparsa sempre meno difendibile. È sembrato, inoltre, sempre più necessario passare da una prospettiva di analisi prevalentemente centrata sugli esiti e sugli immediati antecedenti della condotta, a una prospettiva in grado di cogliere il senso che un comportamento ha nell'economia generale di una strategia individuale di relazione con la realtà.
2.
Nessuna teoria della personalità e del comportamento sociale ha potuto esimersi, sia pure indirettamente od occasionalmente, dal tentare di dare una risposta al perché della distruttività umana. Sin quando la riflessione sulla personalità e sulla società è stata prevalentemente appannaggio dei filosofi, la nozione di istinto è stata una specie di categoria onnicomprensiva nella quale rientravano le varie manifestazioni aggressive; ciò è stato sino a epoche recenti, anche in ambito scientifico, finché tale nozione è servita a supplire l'assenza di conoscenze più precise sul complesso intreccio di interazioni persona-ambiente entro cui si inscrivono le varie condotte. Lo studio dei processi che regolano le diverse manifestazioni aggressive e l'analisi approfondita delle loro diverse componenti e determinanti hanno segnato il tramonto della nozione di istinto e sono il punto di approdo al quale è pervenuta la ricerca contemporanea. Prima di ciò, due indirizzi hanno soprattutto dominato la ricerca, alimentato la discussione e ispirato l'azione clinica ed educativa: la psicoanalisi e la teoria dell'apprendimento.
a) La psicoanalisi. Anche per quanto concerne l'aggressività e le sue diverse manifestazioni la psicoanalisi ha esercitato un'influenza che travalica i confini dell'indagine psicologica. La nozione di pulsione aggressiva - la pulsione è un processo psichico dinamico che non è rigidamente e univocamente determinato come l'istinto - si è sostituita, nell'esperienza clinica, al concetto di aggressività istintuale e ha assegnato all'analisi delle motivazioni e delle condotte aggressive un ruolo centrale nella spiegazione del funzionamento psichico e dell'organizzazione sociale. Nell'elaborazione freudiana sono rintracciabili tre ipotesi di base: l'aggressività come impulso primario; l'aggressività come reazione alla frustrazione; l'aggressività come estroflessione della pulsione di morte (Caprara 1981). Mentre le prime due ricorrono fin dai primi lavori clinici, e la terza si impone soprattutto nei lavori della maturità, tutte e tre di fatto restano d'attualità sino all'ultimo come risulta dalla lettura del Disagio della civiltà. È infatti la repressione dell'aggressività che si configura al tempo stesso come una necessità per la sopravvivenza della società e una fonte di nuova aggressività per "l'uomo civile che ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po' di sicurezza" (Freud 1929, trad. it. p. 602). Le diverse ipotesi non sono in alternativa l'una all'altra, piuttosto sembrano riflettere diversi livelli di analisi per la necessità di rendere conto di molteplici aspetti della fenomenologia aggressiva. Effettivamente l'aggressività, come frutto di un moto spontaneo, non controllato, improvviso, può apparire nei vissuti di chi l'agisce e nella percezione dell'osservatore come l'espressione di una pulsione aggressiva; così come possono configurarsi espressioni di una pulsione di morte tutti quei sentimenti (depressivi) e quei comportamenti (suicidari e omicidi) che inequivocabilmente annunciano un simile desiderio e che irriducibilmente sembrano finalizzati a un esito letale.
D'altro canto, per comprendere la genesi di ciò che viene vissuto ed espresso come carica aggressiva o come angoscia di morte, è fondamentale valutare le privazioni e le frustrazioni che possono esserne all'origine. Sarebbe però un errore confondere la prospettiva fenomenologica, che mira a rendere conto degli stati soggettivi del paziente facendo ricorso alla metafora della pulsione (come se agissero dentro di lui delle forze dirette a una meta e da lui difficilmente controllabili), con la prospettiva eziologica, che si propone di spiegare quegli stati ricercandone gli antecedenti causali e approfondendo i meccanismi che li innescano e li regolano. Dopo Freud le medesime ipotesi sono state riprese e approfondite da vari autori, spesso come se fossero alternative o reciprocamente incompatibili. Alcuni hanno privilegiato l'ipotesi della pulsione aggressiva primaria (Hartmann-Kris-Loewenstein 1978), altri l'ipotesi dell'aggressività come reazione alla frustrazione (Fenichel 1945), altri ancora l'ipotesi della pulsione di morte (Klein 1932). In realtà moti aggressivi, desideri di morte e sentimenti di vulnerabilità e di privazione, sono spesso intrecciati sin dalla prima infanzia, quando è verosimile, come osservava Freud, che "l'io odia, aborrisce, perseguita con l'intenzione di mandarli in rovina tutti gli oggetti che diventano per lui fonte di sensazioni spiacevoli" (1915, trad. it. p. 33). È inevitabile che le esperienze di dispiacere, che si associano alla vulnerabilità e alla prolungata dipendenza del piccolo dell'uomo, forniscano i presupposti per sentimenti, desideri e comportamenti auto ed eterodistruttivi. Sono però le concrete occasioni di appagamento e di privazione e, in particolare, le relazioni del bambino con chi si prende cura di lui, che significativamente determinano e modulano il trasformarsi delle precoci esperienze in rappresentazioni, attribuzioni, intenzioni e abitudini aggressive. In questa direzione i progressi della clinica psicoanalitica hanno sempre più finito col convergere con i progressi della ricerca sullo sviluppo della personalità. Contemporaneamente l'interesse dell'indagine si è allontanato dalle pulsioni per concentrarsi sulle relazioni interpersonali, sulle transazioni persona-ambiente e, infine, sui processi e le strutture mentali che in parte sottendono e in parte risultano da tali relazioni e transazioni.
b) La teoria dell'apprendimento. Diversamente dalla psicoanalisi, che ha approfondito i risvolti soggettivi della fenomenologia aggressiva, e cioè i vissuti, le fantasie, le ansie e i conflitti connessi all'essere soggetto e oggetto di aggressione, la teoria dell'apprendimento ha soprattutto indagato le condizioni oggettive che, in qualità di antecedenti, rinforzi e moderatori regolano l'innesco, l'intensità, il mantenimento e il declino del comportamento aggressivo. L'ipotesi di un nesso causale tra frustrazione e aggressione, che già Freud aveva anticipato, viene riproposta nel 1939 da J. Dollard, L. Doob, N. Miller, O. Mowrer e R. Sears in Frustration and aggression, divenuto la pietra angolare di un impianto conoscitivo che resiste da vari decenni. Anche quando la frustrazione, cioè il blocco che si frappone tra bisogno e meta, non si configura più come l'antecedente esclusivo per qualsiasi forma di ostilità, essa continua tuttavia ad avere un ruolo centrale nella genesi e nella regolazione della condotta aggressiva. In seno a una tradizione di ricerca nella quale la condotta è fondamentalmente l'esito di una serie di anelli che associano stimoli e risposte, il legame tra frustrazione e aggressione affonda le proprie radici in predisposizioni innate e si rafforza in virtù dell'apprendimento. In accordo con un modello tensio-riduttivo del funzionamento mentale, una volta che è innescata l'istigazione ad aggredire, è soprattutto la messa in atto di una condotta aggressiva che rispristina lo stato di equilibrio verso il quale tende l'apparato psichico. Si tratta evidentemente di un modello non dissimile da quello delle origini psicoanalitiche, che viene superato dalle conoscenze più recenti sul funzionamento della mente come apparato proattivo, caratterizzato dalla ricerca di un livello ottimale di stimolazione, piuttosto che dalla semplice riduzione di tensione.
Oltre quarant'anni di ricerca avvalorano l'ipotesi di un legame privilegiato tra aggressività e frustrazione, ma nello stesso tempo ne denunciano i limiti e concorrono a svelare l'inadeguatezza di quel modello (Bandura 1973; Berkowitz 1993; Zillman 1979). I nessi tra frustrazione e aggressività variano, infatti, a seconda della legittimità e della plausibilità della frustrazione, a seconda dell'accessibilità delle varie condotte e dei possibili destinatari, a seconda delle conseguenze che vengono anticipate, a seconda delle possibilità di ricorrere ad altre condotte più o meno efficaci nel mitigare o superare l'esperienza frustrante. La percezione degli eventi e degli attori, potenziali aggressori e vittime, l'attribuzione delle cause, l'anticipazione degli effetti, svolgono una parte originariamente non prevista dai teorici dell'ipotesi frustrazione-aggressione. Vi sono frustrazioni alle quali non segue alcuna ostilità. Vi è tutta una fenomenologia aggressiva che non è riconducibile ad alcun atto frustrante se non indirettamente e attraverso congetture del tutto opinabili. Se vi sono forme impulsive per le quali può ancora valere un nesso automatico e primitivo tra eccitazione e comportamento aggressivo, tale nesso è del tutto estraneo in quelle forme meditate a freddo, lungamente programmate e portate a termine con sapiente lucidità. Il modello tensio-riduttivo è evidentemente inadeguato a rendere conto della complessità dei processi e dei meccanismi e dell'efficacia delle misure che possono in taluni casi promuovere e in altri contrastare il ricorso all'aggressione.
3.
La multidimensionalità del fenomeno ha fatto sì che la ricerca prendesse itinerari diversi in rapporto ai particolari casi indagati. Gli psicobiologi hanno approfondito la funzione biologica delle diverse condotte aggressive e ne hanno indagato i meccanismi che ne regolano l'innesco, l'intensità e il declino. Da un lato, le loro ricerche hanno fornito elementi importanti per valutare la funzione adattiva di quei comportamenti ai fini della preservazione delle varie specie; dall'altro, all'interno di quest'ultima, hanno messo in rilievo specifici e differenti meccanismi che regolano una molteplicità di condotte solo genericamente riconducibili alla nozione di aggressività. Dai suddetti studi risulta opinabile che questa sia un istinto o una pulsione radicata su specifiche strutture anatomo-fisiologiche, la cui esistenza e il cui funzionamento farebbero della condotta aggressiva un elemento inevitabile e ineliminabile della natura umana. Non è stata provata, d'altro canto, l'esistenza di strutture anatomo-fisiologiche esclusivamente interessate alla condotta aggressiva, né di specifiche strutture interessate a tutte le sue diverse manifestazioni. Piuttosto, la grande flessibilità del programma genetico e la complessa organizzazione dei sistemi biologici, in vario modo interessati alle e dalle condotte aggressive, inducono a iscrivere ciò che genericamente viene ricondotto al termine aggressività nella sfera della possibilità e dell'estrema variabilità.I progressi della genetica del comportamento hanno messo in risalto la grande importanza delle interazioni geni-ambiente a partire dal concepimento, la grande duttilità del genoma e l'estrema varietà delle forme fenotipiche. La più approfondita conoscenza dei vari sistemi anatomo-fisiologici ha posto in risalto l'estrema plasticità delle strutture, l'intreccio e l'interdipendenza dei vari sistemi biologici, la centralità del dialogo continuo tra l'organismo e l'ambiente, tra la persona e il suo corpo (Karli 1987).
Gli psicologi clinici, sociali, dello sviluppo e della personalità hanno indagato le funzioni e i significati che le diverse espressioni aggressive assumono nei diversi rapporti e contesti sociali. Contemporaneamente hanno approfondito la natura dei processi affettivi e cognitivi e delle strutture mentali che regolano l'innesco, lo svolgimento e la cessazione delle varie condotte e ne modulano i correlati a livello di esperienza soggettiva. A questo proposito, le precoci esperienze di frustrazione e gratificazione appaiono cruciali nel porre le premesse all'interiorizzazione e allo sviluppo di atteggiamenti, sentimenti e comportamenti ostili e aggressivi.Gli indirizzi sociocognitivi hanno ulteriormente avvalorato il ruolo dell'esperienza, della pratica e dell'imitazione delle condotte sociali e dei processi di socializzazione (Bandura 1986). Verosimilmente, le varie condotte aggressive entrano a far parte di una strategia di relazione col mondo in virtù dell'efficacia che esse mostrano di avere, e per i vantaggi che da esse possono derivare, sulla base di quanto risulta dalla propria e dall'altrui esperienza.
L'approfondimento della ricerca nei vari settori ha in definitiva comportato una maggiore consapevolezza della multideterminazione e della polifunzionalità dei fenomeni indagati. Non solo non ha trovato riscontro empirico l'ipotesi tradizionale di un istinto aggressivo in quanto necessità biologica; ma neppure l'ipotesi di una dimensione di personalità, tratto o disposizione, suscettibile di spiegare le varie manifestazioni dell'aggressività (Caprara-Pastorelli 1989; Caprara-Barbaranelli-Zimbardo 1996). La grande differenza tra gli individui induce a ritenere che ciascuno di essi sia all'inizio portatore di un potenziale suscettibile di tradursi indifferentemente in un vasto repertorio aggressivo. Ciò di cui ognuno è portatore alla nascita non rende tuttavia ragione delle differenze che prendono forma nel corso dello sviluppo sino a stabilizzarsi in vere e proprie caratteristiche di personalità. Ciò che si è direttamente sperimentato e appreso, le aspettative che si sono dovute assecondare, le norme e i valori che sono stati progressivamente interiorizzati, le influenze dei familiari, dei compagni, degli educatori, dei media sembrano essere assai più importanti.
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O. Fenichel, Spezielle psychoanalytische Neurosenlehre, Wien, Internationaler Psychoanalytischer Verlag, 1945 (trad. it. Trattato di psicoanalisi delle nevrosi e delle psicosi, Roma, Astrolabio, 1951).
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