Agiografia
di A. Vauchez
Si designa con questo termine l'insieme dei testi composti in onore dei santi e per celebrarne la memoria. Tradizionalmente si distinguono tre diverse forme all'interno di questo genere letterario: le fonti liturgiche, le fonti narrative e le raccolte di miracoli. Queste categorie possono essere conservate come riferimenti di comodo, ma oggi sembra preferibile mettere l'accento sugli aspetti comuni a tutti questi testi, di cui la Chiesa ha fatto usi diversi secondo le epoche.
Nel corso dei primi secoli del cristianesimo, l'a. assunse una dimensione essenzialmente cultuale. A partire dal sec. 3° o dal 4°, le principali Chiese tennero aggiornato e, di conseguenza, continuamente arricchirono il loro martirologio: un calendario diviso per mesi e per giorni, con i nomi di uno o più santi locali o universali - ricordati in corrispondenza a certe date - e con l'indicazione del luogo della loro morte. Più tardi queste liste, in origine abbastanza succinte, furono arricchite di notizie relative alla vita del martire o del confessore e alle circostanze della sua morte. Sono questi i martirologi storici, il più celebre dei quali è il Martyrologium Hyeronimianum, falsamente attribuito a s. Girolamo, ma di fatto compilato a Roma nel sec. 6° sulla base di testi più antichi, redatti in Italia, in Gallia e in Africa. Altri martirologi più tardi conobbero una larga diffusione, in particolare quello che Usuardo, monaco di Saint-Germain-des-Prés, compose verso l'anno 875 a Parigi. Anche in Oriente si registra lo stesso fenomeno, sotto nomi differenti (sinassari e menologi).
Parallelamente allo sviluppo dei martirologi, durante l'Alto Medioevo si registrò il progressivo dilatarsi dello spazio riservato alla commemorazione dei santi nell'ambito della celebrazione liturgica. Ben presto, nell'Africa del Nord, si diffuse presso i chierici l'uso di leggere durante l'ufficio un sunto della vita del servo di Dio di cui si celebrava l'anniversario. In questa prospettiva furono redatti testi intitolati legendae ('ciò che deve essere letto durante l'ufficio'), divisi in lezioni narrative incorporate nelle letture del Mattutino. Per comporli ci si ispirò, quando era possibile, agli Atti dei martiri, vale a dire ai verbali dei processi e più spesso a racconti della vita e delle sofferenze finali, chiamati 'passioni'. Se alcuni di questi testi danno un'impressione di autenticità, per la maggior parte si tratta di amplificazioni epiche e romanzesche, in cui l'uso dell'immaginazione appare tanto più ampio quanto meno si conosceva il personaggio di cui si celebravano i meriti. Gli autori, in gran parte sconosciuti, non risparmiavano dettagli sulla crudeltà dei magistrati romani e dei carnefici, sulla durata degli interrogatori e dei supplizi e sull'ammirevole resistenza opposta dai santi ai persecutori. Per meglio celebrare tale resistenza, si usava e si abusava spesso del meraviglioso: l'immunità dei confessori della fede cristiana in mezzo ai tormenti loro inflitti veniva testimoniata mediante una serie di miracoli gli uni più straordinari degli altri, intesi a suscitare l'ammirazione dei lettori e degli ascoltatori. La priorità dell'intento edificatorio fece sì che queste 'passioni' si trasformassero in una sorta di epopea cristiana in cui tutti i personaggi evocati finirono per somigliarsi e in cui il contesto storico concreto della loro vita e della loro morte si dissolse in una specie di durata atemporale, anticipazione in terra dell'eternità promessa ai servi di Dio. Così il comportamento dei santi si ridusse a una serie di gesti stereotipati e di atteggiamenti convenzionali, miranti a giustificare un dato culto agli occhi della Chiesa universale e conformando di conseguenza chi ne era oggetto ai modelli di maggior prestigio. In questo quadro fiorì la maggior parte dei luoghi comuni che dovevano caratterizzare la letteratura agiografica per tutto il Medioevo e anche oltre, facendo di essa una sorta di linguaggio codificato.
Fino al sec. 8° la Chiesa romana manifestò vive reticenze di fronte a questi testi, giudicati poco conformi allo spirito della liturgia, nel cui ambito però non cessava di aumentare il ruolo del santorale. Verso il 750-800, si vide in molte chiese, anche a Roma, l'ufficio dei santi sovrapporsi, durante talune feste importanti, perfino all'ufficio proprio del tempo liturgico specifico. Presso i monaci, in particolare a Cluny, quest'uso non cessò di estendersi, a partire dal sec. 10°, comportando, secondo i casi, da otto a dodici letture. Da allora, cadute definitivamente le barriere, le 'leggende' entrarono a far parte in modo massiccio della liturgia, rendendo difficile, a partire da questa epoca, stabilire distinzioni precise fra i due tipi di testi agiografici, anche se alcuni, in particolare gli uffici versificati o ritmici, sembrano essere stati destinati soprattutto alla celebrazione dell'ufficio e altri invece alla lettura o alla meditazione.
Questa osmosi fra fonti narrative e liturgiche venne facilitata dal prestigio ottenuto da alcune particolari biografie di santi, divenute classiche, e come tali copiate e plagiate durante tutto il Medioevo. Si tratta soprattutto di vite di confessori dei secc. 4° e 5°, in particolare dei grandi vescovi confessori come s. Martino - il cui ritratto, fissato da Sulpicio Severo, costituì un punto di riferimento obbligato per ogni autore di una biografia di santo prelato - e dei prestigiosi asceti orientali designati con il nome di Padri del deserto: s. Antonio, le cui privazioni e tentazioni erano state ampiamente descritte da s. Atanasio verso il 360, s. Pacomio e gli eremiti Paolo, Malco e Ilario, immortalati dalla penna di s. Girolamo. Bisogna aggiungere la vita di s. Benedetto, il padre del monachesimo occidentale così come figura nei Libri IV dialogorum (II) di Gregorio Magno. Ma altrettanto importanti delle biografie dedicate a questo o a quell'altro 'atleta di Cristo' furono le raccolte di biografie e di storie edificanti redatte in Oriente, come le Vitae Patrum, diffuse in Gallia da Giovanni Cassiano, la Historia monachorum, tradotta da Rufino verso il 402, e la Historia Lausiaca, opera di Palladio, discepolo e biografo di s. Giovanni Crisostomo. Tutti questi testi hanno in comune il fatto di esaltare il prestigio dell'ascetismo, portato a gradi inauditi, e di fornire un'immagine del santo cristiano che si colloca sul prolungamento del vir Dei biblico, contemporaneamente profeta - vale a dire mediatore fra Dio e gli uomini - e taumaturgo, capace di compiere miracoli con il segno della croce, in virtù di una potenza acquisita con il digiuno, la preghiera e il silenzio. Questo modello doveva conoscere un grande successo in Occidente e orientare l'a. verso la ricerca di prodezze, in materia di mortificazione e di miracoli, in grado di testimoniare in modo clamoroso il dominio del santo sulle forze della natura.
Lo sviluppo del culto dei santi e il ruolo crescente da esso occupato nella vita religiosa dei fedeli, a partire dal sec. 5°, incrementarono anche la redazione di raccolte di miracoli. La più antica di queste collezioni di prodigi, compiuti dai servi di Dio in vita ma soprattutto dopo la morte, fu redatta in Oriente in onore dei santi medici Cosma e Damiano. In Occidente uno dei principali centri in cui si elaborò questo tipo di letteratura fu il santuario di Tours, dedicato a s. Martino, di cui Gregorio di Tours celebrò la potenza benefica negli anni 474-475. È notevole che da questo autore i poteri terapeutici dell'apostolo delle Gallie vengano designati con il nome di virtutes, il che esprime bene lo slittamento ormai prodottosi da una valutazione della santità in termini di perfezione morale o religiosa a una concezione più ampia, in cui l'efficacia dell'intercessione diventa elemento decisivo.
In questa prospettiva si vide, nel corso dei secoli seguenti, la moltiplicazione dei libri miraculorum, destinati ad attirare il massimo di visitatori e di offerte a questo o quel santuario in possesso delle reliquie di un santo. I più celebri, all'interno di una produzione sovrabbondante, sono il Liber miraculorum sanctae Fidis, redatto nel sec. 11° dai monaci di Conques, e, nel sec. 12°, quelli di Santiago de Compostela e di Notre-Dame di Rocamadour. Non è esagerato accostare a questa categoria di testi agiografici i racconti di invenzioni e soprattutto di traslazioni di reliquie che si moltiplicarono in epoca carolingia, soprattutto con le incursioni normanne e saracene del sec. 9°: questo, almeno, dal punto di vista del vasto spazio dato ai prodigi che le reliquie dei santi avrebbero generato, di norma per manifestare il desiderio di ricevere uno specifico culto oppure perché le si facesse riposare nel luogo desiderato e non altrove.
Genere in apparenza immutabile, l'a. subì in realtà in Occidente, negli ultimi secoli del Medioevo, un'importante evoluzione, legata sia alla nuova concezione della santità sviluppatasi nella Chiesa in quest'epoca, sia soprattutto a una mutazione nelle finalità e nell'uso di questi testi. Fino a quel momento, i santi erano concepiti e presentati soprattutto come eroi di tipo cavalleresco che compivano azioni straordinarie in terra in virtù di un legame personale, una specie di patto feudale che li legava fin dal principio a Dio. Quest'ultimo chiedeva loro di servirlo con tutte le forze e la militia spiritualis, nella quale essi si impegnavano, consisteva essenzialmente nel comportarsi in terra come esseri celesti, vale a dire nella maniera più differente possibile da quella degli uomini normali: pregare invece di agire, digiunare invece di nutrirsi, vegliare invece di riposare, e così via. Il santo rinunciava a tutte le funzioni vitali o comunque cercava di ridurle allo stretto indispensabile, per mortificare il corpo e spezzarne le pulsioni malvage, poiché la vita perfetta è quella che più si allontana dalla carne. Nello stesso tempo, perché il merito dei servi di Dio fosse incontestabile, bisognava che essi fossero di alta estrazione, così che anche quando non si sapeva niente dell'origine di un santo, l'a. non mancava di nobilitarlo o addirittura di farne un figlio di re, tanto era fortemente radicata negli spiriti la convinzione che i comportamenti virtuosi fossero in qualche modo riservati a coloro che già si distinguevano per la nobiltà del sangue e che la rinuncia iniziale fosse già di per sé sufficiente a mettere costoro sul cammino della virtù e della santità. Così l'assimilazione della perfezione cristiana alla fuga dal mondo e a un ideale eroico, allontanando le figure dei santi dai comuni mortali, aveva contribuito a farne degli esseri inaccessibili. Di conseguenza, i monaci potevano, bensì, cantare gli uffici dei santi e fare l'elogio delle loro virtù e miracoli nelle litanie, alcune delle quali vennero ben presto tradotte in lingua volgare come la Leggenda di s. Alessio, ma, come constatava s. Bernardo in un sermone, "quando vi sono le feste dei santi, noi dobbiamo nello stesso tempo rallegrarci ed essere anche pieni di confusione; dobbiamo rallegrarci perché godiamo della loro protezione, ma essere confusi perché non li possiamo imitare" (Sermo in vigilia sanctorum Apostolorum Petri et Pauli; PL, CLXXXIII, col. 405).
Dagli ultimi anni del sec. 12°, questo caratteristico clima spirituale conobbe un'evoluzione soprattutto in Italia, dove cominciarono ad apparire biografie di santi laici di origine modesta (pellegrini, penitenti, eremiti) come s. Ranieri di Pisa (m. 1160) o s. Omobono di Cremona (m. 1197), nella cui vita l'azione occupa un ampio spazio, soprattutto riguardo alla carità. Sotto l'influenza dei Cistercensi e ancor più degli Ordini mendicanti, nel sec. 13° la dimensione pastorale del culto dei santi e in genere dell'a. divennero preponderanti. La diffusione delle eresie suscitò presso il clero più illuminato il desiderio di offrire ai fedeli modelli di comportamento relativamente accessibili. Si riscrissero allora numerose vite di santi antichi visti con una nuova prospettiva; ma soprattutto ci si sforzò di esaltare figure vicine nel tempo e, a volte, nello spazio. Uno dei testi più significativi al riguardo è la Vita de beatae Mariae Oignacensis, una beghina mistica dell'attuale Belgio, che Giacomo di Vitry, suo direttore spirituale, compose nel 1215 per fornire alle donne dell'epoca, talvolta tentate di aderire al catarismo o ad altre sette, un esempio di santità cattolica rispondente alle loro aspirazioni più profonde. In tutta la cristianità, soprattutto dopo il 1230, i predicatori diffusero l'idea che la vera grandezza dei santi consiste nella loro vita quotidiana e non nei miracoli. Gli agiografi ne seguirono le orme sforzandosi di dimostare che i poteri straordinari dei servi di Dio - che nessuno metteva in dubbio - avevano origine nella ricerca di una imitatio Christi, vale a dire in una assimilazione alla persona di Cristo sofferente e trionfante, spinta in certi casi fino alla identificazione, come dimostrano le biografie di s. Francesco d'Assisi, specie nel racconto delle stimmate ricevute dal Poverello a La Verna (v. Francesco; Francescanesimo).
La comparsa della concezione del santo come un modello e non più solo come un intercessore ebbe importanti ripercussioni sull'agiografia. Collezioni di miracoli avulse dal contesto locale e messe al servizio di una apologetica ortodossa, soprattutto in materia di sacramenti, furono composte dal cistercense tedesco Cesario di Heisterbach, all'inizio del 13° secolo. Ma soprattutto i Domenicani, come Giovanni di Mailly e Bartolomeo di Trento, composero leggendari abbreviati, onde meglio potessero essere messi a disposizione del clero testi rimasti fino a quel momento inaccessibili; soltanto le abbazie o le chiese più importanti possedevano infatti i leggendari completi, opere di grandi dimensioni, spesso lussuosamente miniate e destinate a un uso esclusivamente liturgico. Il principale strumento di diffusione di questi flores sanctorum fu senz'alcun dubbio la Legenda aurea del domenicano italiano Jacopo da Varazze (o de Voragine) composta verso il 1260/1265. Questa compilazione, di cui sussistono ancora oggi più di mille manoscritti latini, conobbe un enorme successo fino al sec. 16° e fu tradotta, già all'inizio del sec. 14°, in gran parte delle lingue volgari della cristianità. Perciò essa raggiunse non solo i chierici ansiosi di rendere piacevoli i propri sermoni con esempi concreti, ma anche i laici che vi trovavano esempi su cui meditare e che, attraverso questi testi, ebbero accesso a un mondo affascinante rimasto per loro sino a quel momento quasi sconosciuto. È noto, per es., che s. Brigida (m. 1373) fece tradurre in svedese alcune vite di santi, mentre Carlo di Blois (m. 1364), il pio duca di Bretagna, era così interessato ad ascoltare la lettura delle storie dei santi che dimenticava persino di mangiare. Nel sec. 14° i testi agiografici diventarono una delle basi essenziali della pietà. Così l'appassionato attaccamento alla verginità di una gran dama provenzale come Delfina di Puy-Michel (m. 1360), la sposa di s. Elzeario di Sabran (m. 1323), si radicava nella meditazione sulla vita di s. Alessio, s. Cecilia e s. Valeriano, mentre la lettura della storia di Barlaam e Iosafat l'aiutò a convincersi, dopo la vedovanza, che la vita nel mondo era incompatibile con la ricerca della salvezza e a decidere di ritirarsi in un reclusorio.
Questi testi, infine, ispirarono fortemente gli artisti, che vi trovarono nello stesso tempo aneddoti pittoreschi e racconti di miracoli che dovevano influenzare la rappresentazione dei santi nell'arte della fine del Medioevo. La 'nuova agiografia', mentre poneva l'accento sulle virtù dei servi di Dio, non escludeva infatti la possibilità di far ricorso al meraviglioso. Da buoni pedagoghi e conoscitori della mentalità popolare, gli autori dell'epoca privilegiarono i racconti edificanti sull'esistenza dei loro eroi, mettendone in rilievo quegli episodi che meglio potevano colpire la fantasia. L'a. della fine del Medioevo resta dunque un linguaggio 'della festa' che associa indissolubilmente il fantastico al possibile e l'immaginario all'esemplare, il che permette di capire il fascino che esercitò sul pubblico, sia direttamente attraverso la lettura, sia attraverso la mediazione delle opere d'arte a essa lettura ispirate: a partire da celebri cicli, come quello di Giotto nella basilica superiore di Assisi, che traspone in immagini alcuni passaggi della Legenda Maior di s. Bonaventura, fino agli innumerevoli affreschi anonimi che si possono ancora vedere sui muri delle chiese italiane e nelle vetrate che adornano tante cattedrali gotiche a Nord delle Alpi.
Bibliografia
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di N.P. Ševčenko
Il fulcro della rappresentazione agiografica bizantina è sempre stata la ritrattistica: i personaggi dell'intera corte celeste compaiono, realizzati in tutte le principali tecniche artistiche, ora raffigurati da soli ora in gruppi ben determinati. Le scene agiografiche di carattere narrativo e le particolari storie di un singolo santo ebbero in confronto nell'arte bizantina un ruolo di minore importanza, almeno dopo il periodo paleocristiano.
Le primissime opere agiografiche sono relative al martirio dei santi e si trovano nel luogo in cui essi erano morti o erano stati seppelliti, il martyrium (Grabar, 1946). Nonostante, nella maggior parte dei casi, di questi primi monumenti siano rimaste soltanto descrizioni - come quelle relative ai pannelli, forse dipinti su tela, situati intorno alla tomba di s. Eufemia a Calcedonia (Euphémie de Chalcédoine, a cura di Halkin, 1965) o alle scene rappresentate presso la tomba di s. Teodoro a Euchaita (PG, XLVI, col. 737) o di s. Barlaam ad Antiochia (PG, XXXI, col. 489) -, è chiaro che le scene di martirio vero e proprio vennero per lo più ampliate sino a formare piccoli cicli della 'passione' che comprendevano una codificata successione di episodi: arresto, processo, tortura ed esecuzione, spesso con la rappresentazione di Cristo che presiede a tali avvenimenti. Più che a un testo specifico tali immagini appaiono legate a un particolare luogo.
I ritratti funerari posti presso la tomba del santo, spesso nell'atteggiamento dell'orante, potevano essere copiati su oggetti liturgici (Pisside di s. Menna, Londra, British Mus.; Volbach, 1958) o su piccoli oggetti-ricordo per pellegrini (Vikan, 1982) oppure anche in tavole votive collocate in altre parti della stessa chiesa, come per es. quelle di S. Demetrio a Salonicco, che risalgono al tardo sec. 6° e al 7° secolo. Sia che fossero stati eseguiti a spese pubbliche, sia che fossero dovuti a committenza privata (si suppone che nella chiesa di Salonicco esistessero esempi di entrambi i casi), la stessa collocazione di questi pannelli in luoghi pubblici attesta l'importante ruolo che essi ricoprivano per la intera comunità. Rimangono pochi esemplari di icone su tavola del tardo sec. 6°, per la maggior parte conservate nel monastero di S. Caterina sul monte Sinai (Weitzmann, 1976); ma la loro grande diffusione è testimoniata dalle fonti scritte. Il favore che queste immagini incontrarono, soprattutto a livello di privati, può forse collegarsi in parte alla comune credenza che tali icone possedessero molti dei poteri miracolosi attribuiti al santo in esse rappresentato (Kitzinger, 1954; Cormack, 1985).
Oggetto dapprima di un culto locale presso le tombe, in aree decentrate dell'impero, le reliquie di questi santi furono gradualmente traslate a Costantinopoli e il loro culto assorbito dalla capitale, così che, a partire dal sec. 7°, la Vergine, protettrice della città, appare già raffigurata attorniata da un folto gruppo di santi non locali.
Con l'istituzione del calendario ecclesiastico di Costantinopoli (900 ca.) ogni santo dovette trovare posto nelle celebrazioni dell'anno liturgico cominciando nello stesso tempo ad assumere una sua specifica e stabile fisionomia. Pochi santi, quali Pietro, Paolo, Giovanni Battista e, forse, Teodoro, avevano già acquistato caratteristiche fisse prima dell'iconoclastia, ma le discussioni sorte durante tale periodo, concernenti l'identità tra un'immagine e il suo 'prototipo', condussero tra i secc. 9° e 11° a un crescente interesse anche per la concreta consistenza e la chiara definizione delle caratteristiche fisiche di dozzine di altri santi.Il ritratto bizantino caratterizza il santo come appartenente a una delle tre età dell'uomo: l'imberbe, l'uomo maturo con la barba ancora bruna, il vecchio dai capelli bianchi. Tale specificazione di identità è poi definita ulteriormente tramite un particolare contorno della capigliatura e la forma della barba. Uguale importanza hanno, nel ritratto del santo, le vesti, che indicano, nel modo più esatto possibile, il mestiere da questi esercitato in vita, il suo rango nella gerarchia secolare o ecclesiastica e qualche volta anche la sua origine etnica. Vi sono santi che, pur avendo lo stesso aspetto, si differenziano per le vesti, le quali mettono in evidenza il ruolo da loro avuto in vita (come per i santi, entrambi rappresentati giovani, Giorgio e Pantaleimone); e altri, viceversa, che avendo svolto la medesima professione sono bensì vestiti allo stesso modo, ma possono comunque venire facilmente identificati subito, senza ombra di dubbio, per la diversa età e fisionomia, come avviene nel caso dei due santi militari Demetrio e Teodoro.
Queste specifiche distinzioni sono rispettate con tale precisione e attenzione ai particolari che il santo è immediatamente riconoscibile, sia nel caso che venga rappresentato in un mosaico di grandi dimensioni, sia che esso sia miniato all'interno di un'iniziale di pochi centimetri; sia che l'opera provenga da Costantinopoli, sia che risulti realizzata in qualche lontana provincia dell'impero. Soltanto le donne non sono distinguibili con sicurezza l'una dall'altra e questo perché l'abbigliamento femminile appare meno chiaramente differenziato rispetto a quello maschile: tutte le figure femminili indossano infatti lunghe tuniche nonché, eccetto le vergini, il maphórion; inoltre, dato che sono velate, non è possibile distinguerle per l'acconciatura, altrimenti elemento in questo senso fondamentale in un ritratto bizantino.
Tra i pochi personaggi femminili che è possibile riconoscere con facilità vanno citate le sante imperatrici Elena e Irene, nonché principesse come s. Caterina, tutte vestite secondo il costume imperiale, mentre di s. Maria Egiziaca viene messo in risalto l'isolamento dalla società tramite l'eloquente rappresentazione delle chiome scompigliate e della figura emaciata e coperta di vesti lacere.
S. Pietro è rappresentato munito di chiavi; ma generalmente attributi così espliciti non sono un elemento comune nella ritrattistica agiografica bizantina. Un santo può essere occasionalmente distinto da un particolare copricapo o dalla fascia o dal fatto di recare in mano un oggetto di uso liturgico; si tratta comunque di elementi che, in qualche modo, fanno parte dell'abbigliamento, mentre non esiste nulla che sia paragonabile ai cofanetti, alle sfere, agli animali e agli analoghi riferimenti alla vita del santo che nell'arte occidentale aiutavano l'osservatore nell'individuazione dei personaggi raffigurati.
Il ritratto tipico non era peraltro completamente arbitrario: quando era possibile, si conformava ad antiche tradizioni letterarie o agiografiche o aveva la pretesa di riprodurre un'immagine del santo dipinta durante la sua stessa vita (Chatzidakis, 1938). Le tipologie, una volta fissate, potevano essere facilmente trasmesse, anche grazie a descrizioni altrettanto sintetiche di quelle ritrovate nei più tardi manuali dei pittori (The ''Painter's Manual'' of Dyonisius of Fourna, a cura di Hetherington, 1974).
Gli innumerevoli ritratti di santi che ornavano le chiese del periodo mediobizantino, quali quelle di Hosios Lukas nella Focide e della Nea Moni a Chio, erano raggruppati secondo una gerarchia comunemente accettata. Nonostante accadesse talvolta che i ritratti dei santi festeggiati nello stesso giorno dell'anno fossero dipinti insieme o comunque in due aree equivalenti della chiesa, tuttavia la loro collocazione nel calendario liturgico non aveva, nel determinare la loro posizione all'interno della chiesa, altrettanta importanza della loro appartenenza a una determinata categoria: profeti, apostoli, evangelisti, vescovi, santi soldati, santi monaci, sante. I primi due gruppi potevano essere rappresentati nel tamburo della cupola, gli evangelisti nei pennacchi della stessa, i vescovi nell'abside, i santi soldati lungo le pareti laterali, i santi monaci nella controfacciata e le donne nel nartece (Demus, 1947); ma l'esatta collocazione e la composizione di ciascun gruppo variava a seconda delle esigenze dell'architettura e del carattere peculiare dell'edificio che si voleva decorare, a seconda cioè che l'edificio avesse o meno una cupola, che fosse una fondazione imperiale o una cappella funeraria privata, che si trattasse del kathólikon di un monastero maschile o di uno femminile.
Le stesse suddivisioni si hanno nei cori degli eletti nelle scene di Giudizio universale (Weitzmann, 1978, fig. 23), ove i santi di ciascun gruppo, caratterizzati in modo generico, sono però guidati da personaggi ben riconoscibili: Giovanni Crisostomo, Basilio e Gregorio alla testa dei vescovi; Giorgio, Teodoro e Stefano, collocati così da designare il gruppo dei martiri; Maria Egiziaca alla guida del gruppo delle donne. Nelle scene della Grande Deesis queste stesse figure, ben individuabili, rappresentano evidentemente l'intero gruppo al quale appartengono.
Si trova inoltre in questo periodo un tipo di ritratto che si potrebbe definire 'arricchito', unito cioè costantemente a elementi narrativi così specifici che permettono di ipotizzare la derivazione da modelli ben conosciuti e venerati ab antiquo. Si può citare in questo senso il Miracolo di Chone a opera dell'arcangelo Michele, Eustachio e il cervo, Simeone Stilita sulla colonna, circondato dalla madre e dai discepoli, e i Quaranta martiri di Sebaste in piedi sul lago ghiacciato.
Un altro genere di illustrazione agiografica è il c.d. ciclo calendariale, che rappresenta, in sequenza, il martirio dei vari santi ordinati secondo la data in cui venivano festeggiati nel calendario ecclesiastico, mentre i rari personaggi che non avevano subìto il martirio appaiono celebrati da immagini che li ritraggono in posizione stante oppure raffigurano la scena del loro funerale. Il suddetto 'ciclo' comprendeva inoltre rappresentazioni relative ai principali episodi della vita di Cristo e di Maria posti nel corrispondente giorno dell'anno in cui essi venivano commemorati.
L'impatto emozionale che tali impressionanti serie di immagini esercitavano sull'osservatore fu spesso oggetto di discussione durante e subito dopo l'iconoclastia: ciò dimostra che tali cicli esistevano già nel sec. 8° (Ignazio Diacono, Vita Tarasii, a cura di Heikel, 1899, pp. 413-416; Wolska Conus, Walter, 1980; Fozio, Hom. XVII, a cura di Laourdas, 1959, p. 170; Brubaker, 1989) ed è noto comunque che Basilio I fece includere scene di martirio nella decorazione del portico della Nea Ecclesía di Costantinopoli, da lui fondata nell'880 ca. (Teofane Continuato, Vita Basilii, V, 86, a cura di Bekker, 1838). Non è tuttavia possibile sapere se questi esempi precoci seguissero effettivamente o meno l'ordine del calendario ecclesiastico.
Il primo e più importante ciclo di questo genere tuttora conservato è il Menologio di Basilio II (Roma, BAV, gr. 1613), nel quale terrificanti scene di tortura e di uccisione sono inserite in contesti paesaggistici di straordinaria qualità. Le miniature con le immagini di ciascuno dei quattrocentotrenta santi rappresentati in questo manoscritto occupano ciascuna uno spazio ben definito, indipendentemente dalla popolarità e dalla diffusione del culto del santo raffigurato, così come i testi (tratti in ogni caso dal sinassario) sono ugualmente uniformati, occupando ciascuno esattamente sedici righe della pagina.
Nessun altro manoscritto conservatosi del sinassario è illustrato con un ciclo di questo genere; tuttavia le miniature del Menologio di Basilio II furono attentamente copiate in un piccolo gruppo di opere della metà del sec. 11° contenenti una versione, modificata in questo periodo, delle Vite dei santi di Simeone Metafraste (Le Ménologe Imperial de Baltimore, a cura di Halkin, 1985). Anche questi menologi del sec. 11° possono essere considerati di committenza imperiale, come la Nea Ecclesía e il Menologio di Basilio II; ciascuna delle vite si conclude infatti con una preghiera per la salute dell'imperatore, identificabile forse - ma non è possibile esserne certi - con Michele IV.
Un gruppo di icone del sec. 11° provenienti dal Sinai (G. Sotiriou, M. Sotiriou, 1956-1958, tavv. 136-143; Weitzmann, 1984) compone un analogo ciclo calendariale, i cui titoli riflettono versi contemporanei - in realtà delle 'strofette' - che definiscono ciascun santo e la modalità della sua morte (I calendari in metro innografico di Cristoforo Mitileneo, a cura di Follieri, 1980). Negli affreschi non appaiono versioni di tali cicli prima del sec. 13° e soltanto in alcune chiese di Salonicco, in Serbia e in Bulgaria (Mijović, 1973).
Si conserva un solo altro ciclo miniato di questo genere, un menologio, dell'inizio del sec. 14° (Oxford, Bodl. Lib., gr. th. f. I; Hutter, 1978), nel quale tuttavia mancano completamente le parti testuali, se si eccettuano i titoletti in versi che accompagnano tutte le miniature.
I cicli calendariali non erano legati a fatti particolari della vita dei santi che essi onoravano: era importante piuttosto raffigurare le modalità del loro supplizio e morte e soprattutto raggruppare insieme un cospicuo numero di santi e di sante in modo da assicurare il loro favore, attraverso la rappresentazione delle loro effigi, all'imperatore o a un altro committente.
Cicli narrativi più lunghi, dedicati ai singoli santi, si erano tuttavia già sviluppati nei secc. 9° e 10°: scene tratte dalle vite dei ss. Basilio, Giorgio, Simeone Stilita nelle chiese della Cappadocia; scene della vita di Davide di Garedja in Georgia; dei ss. Basilio, Gregorio e Cipriano in manoscritti che contengono il testo delle omelie di Gregorio di Nazianzio ed episodi isolati in alcuni salteri. Alcune di queste scene miniate vennero riprodotte o sviluppate in redazioni del sec. 11° di questi stessi testi; tuttavia né le copie dei salteri, né quelle delle omelie diventarono mai un mezzo fondamentale per la diffusione dell'illustrazione agiografica.
Tale compito potrebbe essere stato assunto, per la verità, dal più importante testo agiografico del periodo mediobizantino, il Menologio di Simeone Metafraste. Questi, attivo nella seconda metà del sec. 10°, aveva cominciato a raccogliere e spesso a riscrivere centoquarantotto testi agiografici, nella maggior parte dei casi vite di santi, che vennero poi ordinati in raccolte di dieci volumi secondo il calendario ecclesiastico (Ehrhard, 1938, pp. 306-717). Copie illustrate di quest'opera, molto diffusa, apparvero per la prima volta alla metà del sec. 11°, ma raramente si trattò di opere molto elaborate, forse a causa dell'ingente costo che avrebbe comportato l'illustrazione di tanti testi tra loro diversi con qualsiasi altra immagine che non fosse un ritratto. Quest'ultimo consisteva di solito solo in una figura stante o in una scena di martirio come quelle che si trovano nei cicli calendariali, situate all'inizio di ciascun testo. Una di queste edizioni ha, per ciascun volume, un frontespizio in cui sono rappresentati, allineati, tutti i santi del mese: una soluzione ripresa in alcune icone del monte Sinai (G. Sotiriou, M. Sotiriou, 1956-1958, tavv. 126135; Weitzmann, 1984, pp. 107-112). Esistono anche dei cicli ridotti, di circa quattro scene ciascuno, che generalmente illustrano il processo e la morte del martire e, occasionalmente, uno specifico episodio della sua vita.Le scene di martirio sono basate su formule generiche, codificatesi nel tempo, e nessuna di esse rivela l'esistenza di una lunga tradizione iconografica relativa al santo rappresentato. Le composizioni degli altri episodi sembrano, di caso in caso, ideate appositamente per il manoscritto in cui appaiono, sempre però sulla base di formule precedenti prese in prestito da altri contesti. Gli eventi scelti per la rappresentazione sono quelli consueti, conosciuti attraverso le brevi annotazioni del sinassario anziché mediante la versione di Metafraste che accompagnava le immagini. A eccezione di due soli menologi (Monte Athos, Esfigmeno 14; Torino, Bibl. Naz., B II; Ševčenko, 1979, pp. 426-427), il ricco materiale narrativo offerto dalle Vite di Metafraste venne ignorato.Veri e propri cicli biografici esistono soltanto in altre forme di rappresentazione e precisamente nelle icone e nella pittura monumentale. Una completa successione narrativa che abbia inizio con la vita del santo e che termini con la sua morte appare nelle c.d. icone agiografiche, dal tardo sec. 12° in poi. Il legame formale di questi cicli con la struttura dei testi corrispondenti delle vite dei santi fa pensare che, nonostante essi non possano essere derivati da modelli miniati, nondimeno siano stati ispirati dalla lettura delle Vite di Metafraste, prescritta nell'ufficio del mattino (órthros) nelle comunità monastiche, una pratica che può essere documentata almeno dal sec. 12° (Ehrhard, 1938, pp. 314-318).
È possibile che le icone siano state ideate, almeno quelle del Sinai, per essere poste in cappelle particolari dedicate al santo (Weitzmann, 1984, pp. 94-103). Tali icone agiografiche, molte delle quali di notevoli dimensioni (quasi un metro d'altezza) comprendono il busto o, anche, la figura intera del santo, circondato generalmente sui quattro lati da una serie di piccoli riquadri con episodi narrativi che si riferiscono alla sua vita: scene della passione e spesso anche miracoli, invariabilmente dipinti in scala ridotta, rispetto al ritratto centrale, ma trattati tutti con la stessa importanza. Si conservano, risalenti all'epoca bizantina, poco più di una dozzina di esemplari di questo genere, ma le icone agiografiche conobbero in seguito una notevole diffusione in ambito slavo.
I cicli agiografici affrescati compaiono sempre più frequentemente a partire dal sec. 12° e - pur non avendo una collocazione fissa nella chiesa - si trovano spesso in ambienti secondari, quali il nartece, la protesi e il diaconico. Talvolta, come avveniva per le icone, essi erano uniti al ritratto di un santo, che poteva occupare l'abside o essere incorniciato come una grande tavola su un muro vicino. Quando il ciclo agiografico era collegato alla tomba del fondatore della chiesa, il santo del quale era illustrata la vita aveva la funzione di intercedere a favore del defunto davanti a Cristo nel giorno del Giudizio.
Il numero dei santi le cui vite furono illustrate nel periodo mediobizantino è limitato; ma in ogni caso prima del sec. 14° i cicli dedicati a s. Nicola e a s. Giorgio superano per numero tutti gli altri. I cicli monumentali, così come quelli svolti sulle icone, non seguono un qualche testo particolare, né per la scelta delle scene, né per ciò che riguarda i particolari di ciascun episodio; tuttavia presentano nel complesso un insieme di convenzioni paragonabili ai tópoi degli agiografi. Fra di esse se ne trovano alcune che echeggiano volutamente scene bibliche note, oppure consuete formule relative alla rappresentazione dell'arresto, del processo e della morte di un martire, nonché alle scene della sua consacrazione e dei suoi funerali.
Talora appaiono rappresentati anche i miracoli, ma si tratta di casi non convenzionali, e comunque cicli di questo tipo sono rari. Si è tuttavia conservata, al Sinai, una piccola iconostasi che illustra una serie di miracoli postumi di s. Eustachio, per i quali non è possibile fare confronti con alcun testo letterario noto (Weitzmann, 1979, pp. 107-111, figg. 28-39).
Nella tarda età bizantina non venne introdotto alcun genere nuovo di illustrazione agiografica, nonostante fosse cresciuto il numero dei cicli e dei santi in essi rappresentati e si manifestasse una nuova enfasi descrittiva. Nella ritrattistica si assiste a una graduale diminuzione della precisione propria del periodo mediobizantino e a un maggiore interesse per la creazione di immagini nuove e di effetto, tese a esprimere il potere e la maestà del santo.I cicli delle vite, in particolare quelli monumentali, accolsero gli sviluppi paleologi dell'iconografia biblica orientandosi verso una sempre maggiore attenzione per il movimento e per le composizioni a più figure. La crescente tendenza programmatica (politica, monasteriale, episcopale, ecc.) che caratterizza le opere di questo periodo, coinvolse spesso anche l'a. (Gouma-Peterson, 1976; Tomeković, 1987). Particolarmente complessi risultano i programmi decorativi della Serbia, ove si contano numerose figure politiche del tempo canonizzate poco dopo la morte.
L'elaborazione di concordanze fra cicli biblici e cicli agiografici, da sempre al centro degli interessi degli artisti bizantini, divenne in quest'ultimo periodo sempre più sofisticata, in relazione anche alla maggiore complessità dei sistemi decorativi delle chiese, tale da richiedere di frequente anche l'inserimento in una unica parete di diversi cicli, altrimenti privi di collegamento (Maguire, 1987, pp. 94-99).
Bibliografia
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