Agnello
di F. Nikolasch
L'a., al pari della pecora e dell'ariete, è tra i simboli principali dell'arte cristiana, soprattutto come emblema di Cristo e della cristianità. All'origine di questa simbologia è l'Antico Testamento: il sacrificio di Abramo (Gn. 22), i capri espiatori nel giorno della riconciliazione (Lv. 16), la rappresentazione del servo di Dio (Is. 53) e, in particolare, le definizioni che riguardano l'a. pasquale (Es. 12). L'a., talora sostituito dall'ariete, figura anche come animale prediletto per il sacrificio nel culto veterotestamentario, come per es. nei sacrifici del mattino e della sera (sacrificio del Tamid, Nm. 28, 3-8). Inoltre, nella simbologia cristiana, sono estremamente significative le contrapposizioni pastore-a. e sacerdote-a. sacrificale, mentre rivestono particolare significato anche le vesti dei progenitori, fatte di pelle d'a. (Gn. 3, 21), e la pecora a cui è stata tosata la lana (Is. 53, 7).
Il sacrificio di Abramo (Gn. 22) assume particolare valore in quanto prototipo di tutti i sacrifici e in quanto certezza dell'aiuto costante di Dio. La akedah, il vincolo tra Isacco e la sua salvezza ottenuta attraverso il sacrificio dell'ariete, è garanzia dell'aiuto divino in ogni circostanza. La liturgia della festa dell'anno nuovo (Rōsh-ha-Shānā) si ispira ripetutamente a Gn. 22; il suono del corno dell'ariete (shofar) ricorda le corna dell'animale sacrificato al posto di Isacco; l'uccisione dell'a. pasquale cade nell'anniversario del sacrificio di Abramo. Il sacrificio giornaliero di un a. rammenta inoltre Dio presente al sacrificio di Abramo, mentre tutti i sacrifici al Tempio si ricollegano allo stesso passo della Genesi, giacché l'altare su cui vengono arsi i resti delle vittime rappresenta il luogo del sacrificio di Abramo. La salvezza di Isacco, ottenuta tramite il sacrificio dell'ariete, è per Israele simbolo escatologico della propria salvezza (Bĕrēshīt rabbā, Midrash).
Tra gli apocrifi dell'Antico Testamento, l'Enoch etiopico (89 ss.) rappresenta Jahvè come signore di un gregge di pecore e le guide del popolo e i giusti (eventualmente anche il Messia) come pecore e a.; il Testamento dei Patriarchi, di incerta origine ebraica, accenna al Messia come a un a., analogamente a ciò che avviene in Ap. 12 ss. e in Gv. 1, 36.
I significati assunti dall'a. nell'Antico Testamento sono ripresi nel Nuovo, ove sono attribuiti preferibilmente a Cristo. Giovanni Battista chiama Gesù "agnello di Dio" (Gv. 1, 36) e s. Paolo identifica nel Signore crocifisso l'a. pasquale (1 Cor. 5, 7). Nelle parabole della pecorella smarrita (Mt. 18; Lc. 15) e del Buon Pastore (Gv. 10), il Vangelo usa inoltre il simbolo dell'a. per rappresentare l'umanità che il Figlio di Dio è chiamato a salvare. Nel designare i settantadue discepoli e nell'inviarli come messaggeri del suo arrivo nelle città (Lc. 10, 3; Mt. 10, 16), costituendo dunque il primo nucleo di missionari della Chiesa, Cristo li paragona ad a. inviati in mezzo ai lupi.
L'a. come simbolo del fedele e dell'intera comunità ecclesiale è indicato ancora da Cristo stesso quando affida a Pietro, prima dell'ascensione al cielo, il mandato di pastore del suo gregge: "Pasci i miei agnelli" (Gv. 21, 15); "Pasci le mie pecorelle" (Gv. 21, 16-17).
Per gli autori dei Vangeli sinottici l'ultima cena di Cristo è da intendersi come cena pasquale; per contro Giovanni mette in relazione la crocifissione con l'uccisione dell'a. pasquale (Gv. 19, 36; un'interpretazione simile si ha anche in 1 Pt. 1, 19; Eb. 11, 28). La similitudine tra Cristo e i capri offerti nel giorno dell'espiazione consiste anche nel fatto che, in entrambi i casi, si ha a che fare con vittime sacrificate per la remissione dei peccati (Eb. 13, 11).
L'Apocalisse presenta infine Cristo in tutta la sua magnificenza come compimento della figura veterotestamentaria dell'a. pasquale: egli è l'a. che si fa immolare, l'unico degno di aprire il libro dei sette sigilli e di prender posto sul trono di Dio (Ap. 5); nel suo sangue gli eletti hanno reso candide le proprie vesti (Ap. 7). Cristo è l'a. del nuovo esodo e il suo cantico e quello di Mosè vengono cantati da coloro che sono stati salvati (Ap. 15); è l'a. sul monte Sion che raduna attorno a sé gli eletti (Ap. 14) e che accoglie come sposa la Gerusalemme celeste, di cui egli è tempio e luce (Ap. 21).
Le interpretazioni dei Padri della Chiesa trovano il loro fondamento in testi dell'Antico Testamento (specialmente Gn. 22; Lv. 16; Is. 53; Es. 12) e inoltre nelle parabole della pecorella smarrita (Mt. 18; Lc. 15) e del Buon Pastore (Gv. 10); i passi dell'Apocalisse, nella maggioranza dei casi, vengono posti in relazione con l'a. pasquale.
Interesse particolare viene mostrato per il racconto del ritrovamento dell'ariete e della sua uccisione al posto di Isacco. Nel rendere tale passo, le versioni greche si differenziano tra loro: secondo quella dei Settanta e Teodozione (180 d.C.) l'ariete era tenuto fermo all'albero di Sobech; per Aquila Pontico (sec. 2°) esso era impigliato in un cespuglio di rovi e infine secondo la versione siriaca (sec. 2° o 3°) e secondo l'Ebreo (sec. 3°) pendeva da un albero. Nell'edizione latina di Firmico Materno (Liber de errore profanarum religionum, 20, 4; CSEL, II, 1867, p. 121) esso era tenuto legato alla radice di un albero. La maggior parte dei Padri latini si riferisce ad Aquila e scorge nell'ariete un simbolo dell'incoronazione di spine di Cristo (Tertulliano, Adv. Jud., 13, 21ss., PL, II, col. 636C; Agostino, De civ. Dei, 16, 32; Sermo XIX, 3, PL, XXXVIII, col. 135). La patristica greca, ma anche s. Ambrogio, segue le versioni dei Settanta e di Teodozione: l'ariete è considerato simbolo della crocifissione (Melitone di Sardi, Fragm., 5, PG, V, coll. 1216-1218; Eusebio di Emesa, In Christi resurr. oratio II, PG, XLVI, coll. 628-652; Giovanni Crisostomo, De poenitentia hom. VI, PG, LX, coll. 765-768). L'uccisione dell'ariete è interpretata dalla patristica greca e latina come simbolo della sofferenza nella morte del Signore; Tertulliano (Adv. Jud., 13, 21) vede nelle corna dell'animale i bracci della croce (cornua), altri autori le braccia di Cristo inchiodate al legno (Esichio di Gerusalemme, In Lev., 1, 1; PG, XCIII, coll. 791-803). Alessandro Monaco (De inventione Sanctae Crucis; PG, LXXXVII, col. 4024C) riprende la tradizione rabbinica secondo cui le colline di Moria coincidono con il Golgota.Origene (e già presumibilmente Melitone di Sardi) identifica Isacco con il Verbo, per il quale il dolore è impossibile, e l'ariete con Cristo fattosi uomo (In Gen. Hom., 8 e 9; PG, XII, coll. 205-215). Questa interpretazione viene diffusa ulteriormente dalla patristica della Cappadocia (Gregorio di Nissa, In Christi resurr., 1, PG, XLVI, col. 601; Basilio, Liber de Spiritu Sancto, 14, PG, XXXII, col. 124C) e la si ritrova nel sec. 5° nella cristologia alessandrina e antiochena. Tale interpretazione, proprio per le sue influenze greche, è accettata solo in minima parte dalla patristica latina (Ambrogio, Ep. LXXII, 1, PL, XVI, coll. 1297-1298; In Psal. XXXIX, 14, PL, XIV, col. 1113). Efrem Siro interpreta il ritrovamento dell'ariete come simbolo dell'incarnazione in Maria, la sua uccisione come sofferenza di Cristo nella morte (Sermo in Abraham et Isaac, 165ss.). Ambrogio, seguendo Filone, individua nell'ariete anche il Verbo (De Abraham, II, 8, 52; PL, XIV, col. 503). L'interpretazione secondo cui l'ariete rappresenta l'umanità sofferente si trova soprattutto in Cirillo d'Alessandria (Glaphira in Gen., III, 3, PG, LXIX, coll. 144-148; Hom. Pasch. V, PG, LXXVII, coll. 472-500) e in Teodoreto di Cirro (In Gen., 22; PG, LXXX, coll. 181-183): l'ariete simboleggia il dolore e la morte dell'umanità mentre Isacco rappresenta l'impossibilità di soffrire del Verbo e la sua immortalità. Secondo l'interpretazione di Gn. 22 data da s. Ambrogio, l'ariete è il simbolo di Cristo, poiché egli, grazie alla sua potenza e perfezione, è guida e capo del gregge (De Abraham, I, 8, 77; PL, XIV, col. 471): Cristo, in ragione della sua natura umana, appartiene al gregge, ma nello stesso tempo è il pastore; un'interpretazione analoga si trova in Agostino (Sermo XIX, 3; PL, XXXVIII, coll. 134-135). L'ariete equivale alla natura umana di Cristo e al suo potere sovrano sull'intera umanità (Cirillo d'Alessandria, Glaphira in Gen., III; Esichio di Gerusalemme, In Lev., II e V; PG, XCIII, coll. 846-904, 9661020). L'origine di questo simbolismo risale a molto tempo prima (Martyrium Polycarpi, 14; PG, V, col. 1040) e, oltre che su Gn. 22, si fonda su Mic. 2, 13 e sulle definizioni della perfezione dell'a. pasquale.
In Lv. 16 si racconta che furono scelti due arieti, uno dei quali fu ucciso in sacrificio mentre l'altro venne condotto nel deserto come capro espiatorio. Nell'interpretazione cristologica vengono prese in considerazione anche le indicazioni provenienti dalla Mishna (la somiglianza dei due arieti, gli sputi e i calci riservati al capro espiatorio, la cui testa viene avvolta in un panno rosso di lana) e il rito viene riferito o alla doppia venuta di Cristo, nell'incarnazione e nel secondo avvento (Barnaba, Ep. catholica, 7, 3-10, PG, II, coll. 744-748; Giustino, Dial. cum Tryphone judaeo, 40, 4, PG, VI, coll. 562-563; Tertulliano, Adv. Marcionem, III, 7, 7, PL, II, coll. 329-331; Adv. Jud., 14, 9, ivi, coll. 638-642), oppure a Cristo e Barabba (Origene, In Lev. Hom., 10 e 11; PG, XII, coll. 526-535): questa chiave di lettura si ritrova in seguito nuovamente nel Venerabile Beda (Leviticus, XXI; PL, XCI, coll. 352-355), in Bruno di Asti (Exp. in Lev., XVI; PL, CLXIV, col. 437A), in Ruperto di Deutz (Lib. Lev., II, 30; PL, CLXVII, col. 819A). Cirillo di Alessandria vede nei due arieti le due nature di Cristo ( Contra Julianum, 2, PG, LXXVI, coll. 557-612; Ep. XLI, PG, LXXVII, coll. 201-221); analoga interpretazione danno anche Esichio di Gerusalemme (In Lev., V), Severo di Antiochia (Ep. 65) e Teodoreto di Cirro (Eranistes III Dial., PG, LXXXIII, col. 251; In Lev. 16, PG, LXXX, col. 329).
Il paragone (Is. 53, 7) tra il servo di Dio e l'a. allude all'innocenza, alla purezza e alla mancanza di colpa di Cristo (Clemente di Alessandria, Paedagogus, I, 5, PG, VIII, col. 268B; Origene, In Jo., 1, 32, PG, XIV, col. 77; In Jer. Hom., 11 e 18, PG, XIII, coll. 368-376, 464-500) oppure alla pazienza e alla mitezza con cui egli accettò sopra di sé il dolore (1 Clem., 16, 1-3; Tertulliano, De resurr. carnis, 20,5, PL, II, col. 821C; Liber de patientia, 3, 7, PL, I, col. 1365A). Inoltre l'a. è simbolo della sua prima venuta, nella mortificazione (Giustino, Dial., 32, 2; 49, 2, PG, VI, coll. 541-545, 581-585; Ireneo, Adv. Haer., IV, 33, 1, PG, VII, col. 1072; Eusebio di Cesarea, Demonstr. Evang., IV, 16, PG, XXII, coll. 308-345).
Relativamente a Es. 12, la patristica continua a mantenere l'interpretazione di Gv. 19 e 1 Cor. 5, 7, secondo la quale Gesù sarebbe morto il giorno della vigilia, giorno in cui gli a. vengono immolati (Giustino, Dial., 111, 3; PG, VI, coll. 732733). Secondo Giustino, oltre alla coincidenza dei due momenti, anche il fatto che l'animale venga steso su due legni è un riferimento alla morte sulla croce (Dial. 40, 3). Il termine Pascha viene messo in relazione con il greco πάσχειν (Ireneo, Adv. Haer. IV, 10, 1; PG, VII, coll. 999-1000); come il sangue dell'a. pasquale sparso sugli stipiti delle porte, così anche il sangue di Cristo versato sulla croce conduce alla redenzione (Cipriano, Liber ad Demetr., 22; PL, IV, coll. 579-580). La scelta dell'a. pasquale nel 10 nisān e il suo sacrificio cinque giorni più tardi (14 nisān) si riferisce alla quinta e ultima parte della storia del mondo, che comincia con l'incarnazione e che si conclude con la morte sulla croce (Cirillo d'Alessandria, Glaphira in Ex., II, 1; PG, LXIX, coll. 417-420). Poiché non si può parlare di sofferenza o di morte per quanto riguarda la natura divina di Cristo, l'a. pasquale fu inteso come simbolo di quella umana (Melitone di Sardi, Hom. Pasch.; Origene, In Jo., 6, 53; 6, 60; 28, 20, PG, XIV, coll. 504, 737A). Per gli gnostici l'a. è simbolo dell'incompletezza della natura umana in cui si è incarnato il Verbo (Eracleone, Fragm., 10; PG, VII, col. 1297D); per la cristologia alessandrina, simbolo delle spoglie mortali assunte dal Verbo, della sua carne (Eusebio di Cesarea, De solemnitate paschali, I, PG, XXIV, col. 693A; Eusebio di Emesa, De Filio, 43; Atanasio, Ep. ad episcopos Aegypti et Lybiae, 17, PG, XXV, coll. 576-577). Analoghe posizioni si ritrovano nelle problematiche cristologiche del sec. 5°: il simbolismo dell'a. è simile a quello dello schema logos-sarx (predominio del Verbo sulla natura umana di Gesù). Per gli apollinaristi esso rappresentava l''irrazionale' natura umana di Cristo. A partire dai Vangeli sinottici, con l'introduzione dell'eucaristia durante il banchetto pasquale, l'a. pasquale diviene emblema della eucaristia (Origene, In Mat. Comm. series, 79, PG, XIII, coll. 1728-1730; Giovanni Crisostomo, De coemeterio et de cruce, 3; PG, XLIX, col. 397). Nelle liturgie orientali il pane eucaristico viene detto 'a.', nel canto dell'Agnus Dei (di influsso orientale, introdotto da papa Sergio I) l'eucaristia viene indicata come 'a. di Dio'.
La scelta dell'a. pasquale tra pecore e capre (Es. 12, 5) viene interpretata dai Padri della Chiesa orientale come la capacità di redenzione del Cristo che è morto per i giusti e per i peccatori (Origene, In Jo., 10, 17; PG, XIV, coll. 352-357); ciò ritorna anche in Girolamo (De Exodo, 13; PL, XXVIII, col. 257). Secondo la patristica latina, il precetto accenna alla nascita di Cristo tra giusti e peccatori, tra ebrei e pagani (Gregorio di Elvira, Tractatus Origenis, IX); un'interpretazione autonoma si trova in Zeno da Verona, il quale riconosce in Es. 12, 5, un riferimento alla doppia natura, divina e umana, di Cristo (Tract. LV, De Exodo, 2; PL, XI, coll. 510-511). I Padri della Chiesa vedono nella natura divina di Cristo la perfezione dell'a. pasquale; secondo gli Alessandrini e secondo i Padri della Cappadocia, che predicano l'unità di Cristo, la perfezione si attribuisce anche alla natura umana (Cirillo d'Alessandria, De adoratione, 17, PG, LXVIII, col. 1068; Gregorio di Nazianzio, In Sanctam Pascham oratio XLV, PG, XXXVI, coll. 626-664). L'essere uomo è ritenuto segno della divinità di Cristo e del suo potere sovrano (Cirillo d'Alessandria, De adoratione, 17; PG, LXVIII, col. 1068) o segno dell'unità della Chiesa, del corpo di Cristo, dal momento che egli si è offerto in sacrificio per Adamo (Gregorio di Nazianzio, In Sanctam Pascham oratio XLV). La ricorrenza annuale è stata interpretata dalla patristica orientale, talvolta sotto l'influsso gnostico, come simbolo di eternità e perfezione di Cristo in virtù del suo essere divino; altri vedono nell'anno l'immagine simbolica dell'uomo nuovo, mentre per i Padri latini esso si riferisce alla durata della predicazione pubblica di Cristo. I cinque giorni durante i quali si custodisce l'a. sono interpretati come riferimento alle cinque età nelle quali Cristo fu presente e nell'ultima delle quali subì il sacrificio. Solo in casi isolati si trova una lettura riferita alla prigionia; in Efrem Siro (Comm. in Ex.) si allude al tempo trascorso tra l'incarnazione e la morte sulla croce. L'uccisione che ha luogo di sera si riferisce all'istante del trapasso di Cristo, oppure è il simbolo della fine della sua vita terrena. Il sangue sparso sugli stipiti delle porte è segno di accettazione della fede e della celebrazione del battesimo con la relativa unzione.
Il divieto di mangiare carne cruda significa che l'eucaristia e la fede devono realizzarsi attraverso buone opere, oppure che la fede riguarda non solo la natura umana visibile, ma anche quella divina celata. Mangiare cibi non cotti significa - tra l'altro - sminuire la fede, considerando Cristo come solo uomo. Mangiare cibi arrostiti significa ricevere l'eucaristia con profondo rispetto e con fede nella natura divina di Cristo. Secondo Origene (In Jo., 10, 18) il cibarsi della testa, delle zampe e delle interiora è simbolo delle diverse verità di fede; secondo Gregorio di Elvira (Tractatus Origenis, IX) della Trinità. La maggioranza dei Padri della Chiesa vede nella testa dell'a. un'allusione alla natura divina di Cristo o alla sua prima venuta; nelle zampe un riferimento alla natura umana o alla parusía. Le interiora sono emblema dell'essenza divina celata. Il fatto che l'a. vada consumato in una sola casa (Es. 12, 46) allude all'unità della Chiesa alla quale sono legate sia la fede, sia l'eucaristia.Il paragone e l'interpretazione di Cristo come Buon Pastore e a. risalgono alla parabola della pecorella smarrita (Mt. 18, 12-14) e a quella del Buon Pastore (Gv. 10, 1-16). La pecorella smarrita è il genere umano del quale il Verbo, attraverso l'incarnazione, ha assunto la natura, riavvicinandolo a Dio. Dell'interpretazione cristologica ci si servì soprattutto contro le teorie ariane e apollinariste: l'a. è simbolo della natura umana nella sua interezza che il Verbo ha assunto in sé e la sua posizione sulle spalle del pastore sta a significare l'unità di Dio con l'uomo, espressasi in Cristo (Gregorio di Nissa, Adv. Apoll., 16). La parabola del Buon Pastore può essere intesa come rappresentazione simbolica del Verbo, che affida la sua umanità alla morte (Cirillo di Gerusalemme, Catechesis, 10, 3, PG, XXXIII, col. 664; Eusebio di Emesa, De arbitrio, 5). Un simile rapporto si può cogliere tra gli a. del sacrificio - portati dai sacerdoti nel Tempio - e il Cristo. Origene interpreta le figure dei sacerdoti come simboli del Verbo, che offre la sua umanità come a. sacrificale (In Jo., 6, 53). A partire dal sec. 4°, in seguito alle dispute legate all'arianesimo, si riconobbe alla natura umana di Cristo il ruolo di sacerdote addetto al sacrificio, quindi Cristo - in quanto uomo - rappresenta il nostro tramite con Dio (Cirillo di Alessandria, In Jo., 118). Infine anche il vello dell'a. costituisce un simbolo di Cristo, secondo Gn. 3, 21 (le vesti dei progenitori erano di pelle). Dagli gnostici questa pelliccia è stata interpretata come l'incarnazione del Verbo (Ireneo, Adv. Haer., I, 5, 5, PG, VII, coll. 500-502; Tertulliano, Adv. Valentinianos, 24, 3, PL, II, coll. 577-578); per gli ariani e gli apollinaristi è simbolo dell'imperfezione della natura umana, che il Verbo ha abbandonato nel dolore e con cui si è presentato alla morte. Anche nei testi patristici si ritrova questa immagine: la morte di Cristo significa spogliarsi del vello dell'a., la sua resurrezione il vestirsi con uno nuovo.
Per l'arte ebraica Gn. 22 rappresenta il prototipo della salvezza finale del popolo: "Alla fine di tutto gli Israeliti si trovano nel peccato e nel tormento, ma in ultimo vengono salvati dalle corna dell'ariete" (Bĕrēshīt rabbā, Midrash, Gn. 22, 13a). A Dura Europos, in Siria, si conferisce particolare importanza all'immagine dell'ariete (accanto allo scrigno della Torah) e così pure a Beth-Alpha in Palestina (mosaico pavimentale). Nell'iconografia cristiana tale immagine simboleggia la sofferenza di Cristo nella morte e talvolta rappresenta la natura umana, come nel sarcofago della basilica di S. Ambrogio a Milano, realizzato sotto l'influsso dello stesso Ambrogio: "Perché appeso? Perché tu capisca che non si tratta di un sacrificio terreno. Perché appeso per le corna? Perché egli, grazie a una forza più alta, ha strappato dalla terra la sua carne" (De Abraham, I, 77). L'ariete del sacrificio di Isacco compare anche in un sarcofago 'a porte di città' conservato a Parigi (Louvre; Wilpert, 1929, I, pp. 182-183, tav. LXXXII, 3). Un sarcofago con fregi proveniente da Saint-Luc di Bearn (ora ad Arles, Mus. Lapidaire d'Art Chrétien) mostra l'ariete all'interno di un'edicola, in una rappresentazione che presenta analogie con quella della resurrezione di Lazzaro; uno schema simile si trova in un sarcofago decorato a fregi, a Tolosa (Le Blant, 1886, p. 969, tav. 25, 1), dove l'ariete è posto all'interno di una struttura a colonne. Due rappresentazioni a mosaico a Madābā (Giordania), nella cappella di Suaitha e nella chiesa di S. Giorgio, mostrano entrambe l'ariete con le corna legate ai rami dell'albero. Qui l'animale rappresenta Cristo che muore sulla croce: "L'albero di Sabech è la croce, il legno della remissione dei peccati, al quale era appeso l'ariete, un'immagine del Cristo con le mani inchiodate alla croce" (Esichio di Gerusalemme, In Lev., I; Efrem Siro, Sermo in Abraham et Isaac, 102-107). La vicinanza all'altare di entrambe le raffigurazioni (come in S. Vitale a Ravenna) allude all'eucaristia come celebrazione nel presente della passione di Cristo.
Le rappresentazioni allegoriche dell'a. nell'arte funeraria alludono al paradiso nel quale vivono i defunti (a. con ciotole di latte sono raffigurati nelle catacombe di Domitilla, Callisto, Pietro e Marcellino e nel Coemeterium Maius a Roma). Nella decorazione plastica dei sarcofagi, il tema del pastore che munge riporta all'immagine di Cristo che - secondo Clemente di Alessandria - ci nutre e ci fortifica con il suo latte divino (Inno cristiano del Pedagogo). Un esempio particolare è costituito dalle scene bibliche del sarcofago di Giunio Basso del 350 ca. (Roma, Tesoro di S. Pietro) in cui è rappresentata la figura allegorica dell'a. (i Tre fanciulli nella fornace, il Miracolo della sorgente di Mosè, le Tavole della Legge sul Sinai, il Battesimo di Cristo, la Moltiplicazione dei pani, la Resurrezione di Lazzaro); scene simili si trovavano anche nell'antica basilica di S. Pietro e nel mausoleo di Costanza a Roma. L'immagine di Cristo come a. in un gregge di a. si riferisce alla sua natura umana comune a tutti.
L'a. simbolo cristologico con la corona si trova o all'interno di una corona con frutti delle varie stagioni (Roma, oratorio del battistero lateranense; Milano, legatura nel Tesoro del Duomo) o in una corona circolare (Ravenna, S. Vitale e S. Michele in Africisco; Parenzo, basilica Eufrasiana; Salona, basilica urbana). L'anno e il cerchio sono emblemi della perfezione e dell'eternità, così come anche della divinità di Cristo, l'a. invece è simbolo dell'umanità; la connessione dei due elementi allude alle due nature di Cristo (Giovanni Crisostomo, In Pascha VI, PG, LIX, coll. 735-746; Gregorio di Nazianzio, In Sanctam Pascham oratio XLV; Procopio di Gaza, Comm. in Ex., 8, PG, LXXXVII, coll. 565-568).
Alla base delle rappresentazioni dell'a. simbolo cristologico e della teoria di a. è la scena della Traditio legis (Dominus legem dat), nella quale Cristo è rappresentato tra gli apostoli (Milano, S. Ambrogio, sarcofago, fine sec. 4°; Roma, S. Sebastiano, sarcofago, 370 ca.; Wilpert, 1929, I, p. 178, tav. CXXXXIX) e tra queste si ritrova quella dell'a. simbolo di Cristo sul monte del paradiso (il Sion) tra gli a.-apostoli che vengono dalle porte della città, riferimento a Betlemme e Gerusalemme come simboli della chiesa degli Ebrei e dei Gentili. Sia la rappresentazione figurata, sia quella allegorica possono trovarsi anche sintetizzate, o con le sole figure di Pietro e Paolo, o con un minor numero di agnelli. L'a. emblema di Cristo allude alla natura umana in cui il Verbo si è incarnato per salvare l'umanità intera, sia Ebrei, sia Gentili; in quanto ariete, egli guida il gregge dei giusti (Cirillo di Alessandria, Glaphira in Gen., III; PG, LXIX, coll. 137-148). Un secondo tema iconografico si ricava dalla scena del giudizio in Mt. 19, 28, ed è quello di Cristo in trono tra gli apostoli; più in basso l'a. simbolo di Cristo (lato posteriore del sarcofago di S. Ambrogio) rappresenta la natura umana, il primo avvento in umiltà (tramite l'incarnazione) contrapposto al secondo avvento nella gloria. Nei testi patristici è molto diffusa la simbologia dell'a. legata al primo avvento (Eusebio di Cesarea, Agostino, Vangelo gnostico di Filippo, diverse omelie pasquali). Parallelamente l'a. riporta all'Apocalisse, dove si parla del trono di Dio e dell'a. come punti centrali della Gerusalemme celeste (Roma, mosaici absidali di S. Pudenziana, della prima basilica di S. Pietro e di quella di S. Paolo). Teorie di a. e raffigurazioni dell'a. quale emblema di Cristo si riferiscono al tema del Dominus legem dat così come a quello del Giudizio; alludono ad Ap. 7 e 14, come pure ad Ap. 21, 22. Al posto degli a. si possono trovare rappresentati anche cervi (Sal. 41), come sui sarcofagi di Marsiglia (Wilpert, 1929, I, p. 19, tav. VIII, 3; p. 185, tav. XVII, 2) o colombe (Roma, atrio del battistero lateranense).
L'a. emblema di Cristo, con la croce o con il monogramma quali segni di riconoscimento posti sul capo o sul dorso, si trova sia in alcune lampade di terracotta nordafricane, sia in manufatti di oreficeria (anelli e amuleti). Con la croce astile compare nell'arte ravennate (il rilievo della croce e il sarcofago in S. Agata, rilievi a Pola, basilica di Felicitas, e a Dobravina) e a Roma (architrave di S. Pudenziana, croce gemmata di Giustino II nel Tesoro di S. Pietro). L'a. che reca l'asta è: "Cristo, Agnello e Pastore, che ci guida nell'Eterno, che ci ha trasformato da lupi in agnelli, che ora si fa pastore per proteggere il suo gregge, per il quale egli stesso si è fatto agnello per essere sacrificato" (Paolino di Nola, Ep. XLII, 2; PL, LXI, col. 380). Particolarmente diffuso è l'a. collocato sulla croce, nel punto di incrocio dei bracci, al posto del Crocifisso (la già ricordata croce di Giustino II in S. Pietro; i mosaici absidali della cripta del duomo di Nola e della basilica paoliniana di Fondi; il ciborio di S. Marco a Venezia). L'arte cristiana evitò per lungo tempo la raffigurazione realistica della crocifissione e con il simbolo dell'a. si alludeva alla natura umana di Cristo, capace di soffrire. Poiché questa immagine poteva essere male interpretata, come se il Crocifisso fosse solo un uomo e non l'incarnazione divina, in Oriente il concilio Trullano (692) vietò la rappresentazione simbolica con l'a. in favore di quella con la figura umana del Cristo (Can. 82).
Nel Medioevo l'iconografia dell'a. si ispira principalmente alle visioni dell'Apocalisse: l'a. che apre il libro della Vita (Ap. 5, 1-14), l'a. sul monte Sion (Ap. 14, 1-5), le nozze dell'a. (Ap. 19, 6-8), l'a. come luce della Gerusalemme celeste (Ap. 21, 23). A tale proposito devono essere ricordati in particolare i mosaici di S. Prassede e gli affreschi di S. Giovanni a Porta Latina a Roma, e inoltre l'affresco absidale di Castel Sant'Elia nei pressi di Nepi. Accanto a questi schemi tipologici, si trova l'a. di Dio in composizioni isolate come simbolo della sofferenza, della morte e del trionfo di Cristo (Sacramentario di Echternach a Darmstadt, Hessische Landes- und Hochschulbibl., 1946; dittico di Nicasio a Tournai, Trésor de la Cathédrale Notre-Dame). A questo gruppo appartiene anche il motivo dell'a. di Dio con il calice che raccoglie il sangue (Bibbia di Alcuino a Bamberga, Staatsbibl., Bibl. 1; Sacramentario di Fulda a Gottinga, Universitätsbibl., 2 Theol. 231 Cim.).
L'a. di Dio trionfante con l'asta o la bandiera crociata si trova inoltre utilizzato in araldica; grande significato assume infine il motivo dell'adorazione dell'a. (altare di Jan van Eyck nella chiesa di S. Bavone a Gand).
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di G. G. Pani
L'a. portato a spalla dal Buon Pastore è uno dei temi iconografici più antichi e più frequenti nelle catacombe romane, specialmente sulle lastre con epigrafi, in pittura o in microsculture. Come simbolo ecclesiale, gli a. che sono effigiati per es. nell'arco trionfale della basilica di S. Maria Maggiore a Roma, mentre escono dalle porte di Betlemme e Gerusalemme (che rappresentano l'Ecclesia ex gentibus e l'Ecclesia ex circumcisione), sono intesi a rendere immediatamente visibile l'immagine della Chiesa come gregge.
In una pittura del cimitero di Bonaria (Cagliari), raffigurante la pesca degli apostoli, sulla barca dove Cristo è seduto presso il timone, all'insolita immagine degli uomini che vengono raccolti dalle reti gettate nel mare si accompagna anche la raffigurazione di un a. che mediante una passerella sale a bordo della nave, esemplificazione del fedele che fa il suo ingresso nella Chiesa (Cagliari, cimitero di Bonaria, cubicolo di Giona, parete A; prima metà del sec. 4°).
Così pure la celebre immagine del cimitero di Pretestato a Roma, che raffigura un a. fra due lupi ed è spiegata dalle didascalie che l'accompagnano come la trasposizione della vicenda di Susanna e dei seniores (Dn. 13) in chiave animalistica, si presta a essere interpretata alla luce del simbolismo cristiano come il fedele circondato dalle insidie, ma che può comunque contare sulla presenza salvifica di Cristo.
Il tema iconografico dell'a. -Cristo sul monte Sion, direttamente mutuato da Ap. 14, 1, e già presente nelle scene di Tradito legis, trova applicazione soprattutto nei mosaici absidali, come visione della parusía di Cristo (Cimitile, Nola; Fondi, basilica paoliniana; Roma, Ss. Cosma e Damiano, sec. 6°) e nella scultura (sarcofagi di Ravenna). In queste scene l'a. è raffigurato con la croce. La scena degli a. che adorano la croce è una rappresentazione di tipo 'araldico' che isola nel campo visivo dello spettatore uno schema ternario (la croce, spesso gemmata, e i due a. ai lati) e costituisce una imago brevis del tema già delineato nell'iconografia della Tradito legis o dell'a. crucigero sul monte Sion (per metonimia). Il tema è applicato nei sarcofagi ravennati e diffuso poi nell'Italia centrale (Otricoli, presso Terni, abbazia di S. Vittore, mensa del vescovo Fulgenzio, metà del sec. 6°; Narni, S. Giovenale, sarcofago del vescovo Cassio, metà del sec. 6°) e settentrionale (Monza, Mus. del Duomo, pluteo da S. Giovanni Battista, c.d. 'lastra di Teodolinda', fine del sec. 6°).
Nell'arte romanica l'a. si incontra frequentemente, rappresentato inginocchiato, con una lancia a croce e con il nimbo pure cruciforme. Importanti timpani romanici con l'immagine dell'a. si trovano a San Isidoro a León, in Spagna, a Girolles e a Saint-Michel d'Aiguiche, a Le Puy in Francia e a Rheinau in Svizzera.
Bibliografia
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di F. Panvini Rosati
Il simbolo con il quale si indica Cristo, secondo la definizione di Giovanni Battista ricordata dal Vangelo di Giovanni (Gv. 1, 29), rappresentato come un a. sdraiato verso sinistra e retrospiciente con un vessillo al fianco, si trova nei secc. 12°-14° su monete tedesche, boeme, spagnole e dei Cavalieri di Rodi. In Francia l'Agnus Dei costituiva il tipo caratteristico di una serie di monete d'oro, da Luigi IX a Carlo VII, dette per il loro tipo 'montone d'oro'. In Italia l'a. è raffigurato su monete di Trieste della seconda metà del 13° secolo.
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