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Agostino Aurelio d'Ippona, santo

di Alberto Pincherle - Enciclopedia Dantesca (1970)
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Agostino Aurelio d'Ippona, santo (in D. nelle forme Augustino; Agustino)

Alberto Pincherle

Padre e dottore della Chiesa occidentale, nato a Tagaste (Numidia proconsolare; oggi Souk Ahras, Algeria) il 13 novembre 354, morto a Ippona (Hippo Regio, odierna Bona) nella notte tra il 28 e il 29 agosto 430.

Il racconto dei primi anni della sua vita è nelle notissime Confessioni. Altre notizie biografiche si trovano in vari scritti e nell'epistolario; in atti delle Chiese dell'Africa e nella Vita di A., scritta poco dopo la morte di lui da Possidio vescovo di Calama, suo intimo. Dei genitori, il padre, Patrizio, di condizione modesta, era ancora pagano quando A. nacque; la madre, Monica, virtuosa e devota cristiana, ottenne poi che il marito si convertisse. Compiuti i primi studi nella città natale, A. li proseguì a Madaura; poi, per gli studi di retorica, andò a Cartagine dove fu preso dalla brillante vita letteraria e mondana. Qui si unì con una donna, dalla quale ebbe un figlio, Adeodato, morto quattordicenne nel 389. Si appassionò alla filosofia in seguito alla lettura dell'Hortensius di Cicerone. All'entusiasmo per la speculazione teoretica si aggiunse un intenso interesse per la dialettica (lettura, poco dopo, delle Categorie di Aristotele), quale mezzo sicuro d'indagare la verità, come pure per le scienze dei numeri, quali l'astronomia vera e propria e l'astrologia, che egli però doveva presto abbandonare. Nella ricerca di una spiegazione dell'universo A. si rivolse alla Bibbia; ma da essa si ritrasse deluso. Aderì per contro al manicheismo che, di fronte alle aporie della cosmologia biblica, gli si presentava come spiegazione interamente razionale del macro e microcosmo, con l'esistenza del male e del dolore.

Tuttavia il carattere mitico del dualismo manicheo, la cui cosmologia era contrastante con l'esattezza dell'astronomia matematica, non riusciva ad appagare A. neppur dopo i colloqui intrattenuti con Fausto di Milevi, il maggiore maestro della setta. Allora, insoddisfatto ma sicuro delle proprie capacità, partì per Roma. Qui, tuttavia, non conseguì il successo sperato, ma i corregionali ottennero dal potente prefetto Simmaco che A. fosse destinato come professore ufficiale di retorica (autunno 384) a Milano. Colà, raggiunto dalla compagna, dal figlio e dalla madre, gli arrise il successo, con possibilità di una carriera nell'amministrazione imperiale e prospettive di un brillante matrimonio, cui lo spingeva la madre; onde congedò la sua donna che ritornò in Africa. Insoddisfatto ormai del manicheismo, tra i dubbi della ricerca sull'angoscioso problema del male, venne a conoscere, nella predicazione di Ambrogio, quell'interpretazione allegorica delle Scritture, che offriva risposte alle critiche dei manichei. Dai colloqui, specialmente con il gruppo di cristiani colti che attorniavano Ambrogio e per lo più aderenti al neoplatonismo, A. fu indotto a leggere Plotino, Porfirio, Mario Vittorino, ma anche le Epistole di Paolo e qualche scritto cristiano. L'identificazione della felicità con la sapienza e la virtù, col possesso della verità nell'accettazione della rivelazione cristiana e con la vita ascetica, lo condussero, dopo lunghe esitazioni, alla conversione, all'abbandono della professione, al ritiro per qualche tempo, con la madre e gli amici, in campagna - ove compose opere a noi giunte - e al battesimo, con Adeodato e l'inseparabile amico Alipio (Pasqua del 387). Decise allora di ritornare in Africa, ma per la morte della madre solo nell'autunno del 388 potè sbarcare a Cartagine. Si stabilì a Tagaste, dove condusse con amici e discepoli una vita quasi di comunità ascetica, redigendo opere, tutte caratterizzate dalla polemica contro il manicheismo e dall'intento di conciliare neoplatonismo e cristianesimo. Già nel De Magistro e nel De Vera religione il conoscere è spiegato non più con l'anamnesi platonica, ma con la cosiddetta " illuminazione interiore " del Verbo che infonde le verità nell'anima umana. Questa, in un'elevazione graduale, si riconosce mutevole ma trascende sé stessa: la dottrina della conoscenza diviene dimostrazione di Dio.

Venuto in fama, trovandosi a Ippona, A. fu acclamato e ordinato sacerdote (principio del 391). Circa cinque anni dopo, Valerio volle che fosse consacrato vescovo, e così A. gli succedette nel governo della diocesi, probabilmente nel primo trimestre del 397.

In quegli anni, nello svolgimento della sua attività di esegeta, A. tra l'altro giunse a quella che gli apparve più piena intelligenza di alcuni passi fondamentali di s. Paolo: a riconoscere cioè che lo stesso apostolo, e oggetto di specialissime rivelazioni, non era immune dal peccato originale, che avendo viziato profondamente la natura umana, ha tolto all'uomo la capacità di realizzare autonomamente la propria salvezza, quasi che l'acquisto di meriti potesse divenire diritto all'essere premiati. Al contrario, Dio, in quanto mera giustizia, non potrebbe che condannare; ma nella sua misericordia infinita (e da lui proviene l'initium fidei, primo passo sulla via della salvezza) concede la sua grazia gratuita ai giusti, che egli solo conosce. Onde l'altra conclusione - contro i donatisti che pretendevano di essere una Chiesa di perfetti - che nella Chiesa, in questo mondo, buoni e malvagi, eletti e reprobi vivono insieme; la separazione avverrà soltanto nel giudizio finale.

Tali, molto in breve e schematicamente, le idee che sono anche alla base delle Confessioni (cominciate appunto nel 397, insieme con il De Doctrina christiana) e approfondite, ribadite, ma anche accentuate nel corso della polemica contro Celestio, Pelagio e Giuliano di Eclano, a partire dal 411. Le accuse rivolte dai pagani ai cristiani dopo il saccheggio di Roma compiuto da Alarico (410), indussero inoltre A. a rispondere, e a costruire così la sua grandiosa teologia della storia nel De Civitate Dei: dove la città di Dio, fondata sull'amore di Dio (e del prossimo), viene messa in contrasto con quella fondata sull'egoismo, sul disprezzo di Dio, sullo spirito di violenza e di conquista. Di entrambe A. indica lo sviluppo sino alla fine dei tempi. Nell'opera è esposta anche quell'interpretazione spiritualistica dell'Apocalisse, che sarebbe passata al Medioevo, così come tante altre concezioni agostiniane: dalla teoria dell'esegesi esposta nel De Doctrina christiana, a quella del De Trinitate, con l'asserzione fortissima dell'unità anche di essenza e della perfetta uguaglianza fra loro delle Persone divine.

Presentato dagli studiosi moderni come l'ultimo degli antichi, o il primo dei medievali, o il tipico rappresentante della cultura della tarda antichità, A. non poteva non essere presente agli spiriti delle età posteriori col suo pensiero complesso e ricco di stimoli. Nel Medioevo, fino al secolo XIV, più che talune concezioni più strettamente teologiche (come quelle relative alla grazia divina e alla predestinazione) influirono quelle eticognoseologico-metafisiche, di origine e affinità platoniche e neoplatoniche, in una tradizione della quale, molto schematicamente, possono considerarsi rappresentanti principali l'Eriugena, s. Anselmo, per alcuni lati i Vittorini, fino alla grande scuola designata come agostiniana per eccellenza, cioè la francescana, avente a massimo rappresentante s. Bonaventura, in opposizione all'aristotelismo di Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, neppur egli rimasto insensibile all'influsso della corrente neoplatonico-agostiniana.

A questo tipo si può ricondurre quel tanto di agostinismo di cui vengono segnalate le tracce in D. (che relativamente al problema del rapporto tra prescienza divina e predestinazione segue s. Tommaso; cfr. Pd XVII 37-42) da vari studiosi, alcuni dei quali sembrano quasi rammaricati del fatto che ad A. " non sia stata fatta nel divino poema la parte che si sarebbe potuta aspettare " (F. Tocco) o della " mancanza di un episodio agostiniano nella Commedia " (P. Chioccioni). Altri ha invece insistito sull'aristotelismo di D., o sulle idee politiche di lui che non avrebbe potuto provare alcuna simpatia per chi " aveva detto troppo male dell'Impero romano " (B. Nardi).

Di fatto, ove si prescinda da menzioni affatto generiche, o da qualificarsi come convezionali (Mn III III 13 Scripturae doctorum, Augustini et aliorum; Ep XI 16 Iacet Gregorius... iacet Ambrosius... iacet Augustinus; Cv IV XXI 14 E però vuole santo Augustino, e ancora Aristotile nel secondo de l'Etica, che l'uomo s'ausi a ben fare e a rifrenare le sue passioni: dove la genericità risalta in confronto all'indicazione del Filosofo); o che riguardano A. quale fondatore di ordine religioso (Cv IV XXVIII 9 quelli che a santo Benedetto, a santo Augustino, a santo Francesco e a santo Domenico si fa d'abito e di vita simile) o alle quali non si è riusciti ad applicare un riferimento preciso a uno scritto autentico del vescovo d'Ippona (Cv IV IX 8 Onde dice Augustino: " Se questa - cioè equitade - li uomini la conoscessero, e conosciuta servassero, la Ragione scritta non sarebbe mestiere ", che riecheggia in certo modo la distinzione tra ius scriptum e ius non scriptum ed è seguita dalla citazione del Digesto I I 1 " ius est ars boni et aequi "), le citazioni vere e proprie di A. sono assai rare. Possiamo collocare, tra queste, alcune da ritenere fatte a memoria o che, pur nella loro genericità, testimoniano di una conoscenza effettiva (Cv I II 14 e questa ragione mosse Agustino ne le sue Confessioni a parlare di sé: cfr. probabilmente Conf. X III 4, IV 6; Cv I IV 9 e, come dice Agustino, nullo è sanza macula: cfr. Conf. I VII 11 " quoniam nemo mundus a peccato coram te ", e cfr. Job 14, 1-5; 70 e 25 4; Ep XIII 80 legant Richardum de Sancto Victore in libro De Contemplatione, legant Bernardum in libro De Consideratione, legant Augustinum in libro De Quantitate Animae, cfr. Quant. an. 34-36, 77-81: in base a ricordi piuttosto vaghi). Pienamente identificabili e precise sono invece altre due citazioni, in Mn III IV 7 dicit Augustinus in Civitate Dei: " Non omnia quae gesta narrantur... cetera aratri membra sunt necessaria " (cfr. Civ. XVI II, ed. Hoffmann, C.S.E.L. xxxx2 127, con omissione di qualche parola) e al § 8 idem ait in Doctrina Cristiana (cfr. Doctr. christ. I XXXVI-XXXVII 41, ed. Green, C.S.E.L. LXXX 31, con notevoli varianti). Che poi l'idea delle tre fiere infernali sia stata suggerita a D. da Conf. XIII XXI 30 " Continete vos ab immani feritate superbiae, ab inerti voluptate luxuriae et a fallaci nomine scientiae, ut sint bestiae mansuetae et pecora edomita et inoxii serpentes ", è alquanto discutibile. Per contro, l'indubbia conoscenza delle Confessioni, di cui non poteva essere sfuggito a D. il fondamentale libro VIII, induce a ravvisare nell'avvocato de' tempi cristiani / del cui latino Augustin si provide (Pd X 119-120), piuttosto che Paolo Orosio (come i più dei commentatori) o s. Ambrogio o Tertulliano o s. Paolino da Nola o Lattanzio (questi due ultimi preferiti da parecchi), quel Mario Vittorino (per l'attribuzione cfr. Busnelli, Sapegno) di cui A. stesso (Conf. VIII II 3) dice di aver letto le traduzioni di libri neoplatonici. Quanto all'altra menzione di A. nella Commedia (Pd XXXII 35), congiuntamente a s. Benedetto e s. Francesco, sembra veramente che D. volesse indicarlo quale autore di una delle tre regole di vita religiosa sole ammesse, dopo il Concilio ecumenico Lateranense IV, dalla Chiesa dei suoi tempi (cfr. Cv IV XXVIII 9 qui corretto, in quanto anche i domenicani adottarono la regola agostiniana; per la francescana, cfr. Pd XI 98).

Bibl. - Brevi esposizioni in H.-J. Marrou, Saint Augustin et l'augustinisme, Parigi 1955; A. Trapé, in Bibliotheca sanctorum, I, Roma 1965, entrambe con sufficienti indicazioni; più ampia quella di P. Brown, Augustine of Hippo, Londra 1967. Più specificamente: P. Chioccioni, L'agostinismo nella D.C., Firenze 1952; B. Nardi, D. e Celestino V, in Dal Convivio alla Commedia, Roma 1960, passim (ma specialm. 320); A. Pincherle, La Storia della Chiesa antica nella D.C., in Raccolta di scritti in onore di A.C. Jemolo, IV, Milano 1963, 489 ss.

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