DA MULA, Agostino
Nacque a Venezia il 21 dic. 1561, da Francesco di Lorenzo (del ramo dei Da Mula di S. Giacomo dall'Orio) e da Laura Zorzi di Francesco, entrambi patrizi veneti: il suo nome sarà registrato il 1°genn. 1562 all'avogaria di Comun, nel Libro d'oro del patriziato veneto.
La carriera politica del D. iniziava con buoni auspici il 19 sett. 1587, quando veniva eletto savio agli Ordini, la carica che schiudeva ai giovani più promettenti le porte del Collegio; carica cui sarà rieletto il 17 sett. 1588. Di lì a cinque anni, il 5 dic. 1593, lo troviamo eletto a un posto di un certo prestigio nella Terraferma, podestà e capitano a Belluno: il D. porterà con sé quale vicario, ossia quale collaboratore nell'amministrazione della giustizia, Giovanni Bonifacio, un giovane rovigotto destinato a distinguersi, oltre che nel campo del diritto, in quello storico e letterario.
L'affermazione del D. nel governo della Repubblica avverrà agli inizi del Seicento, in concomitanza con la grande svolta impressa alla sua politica.
Scomparivano, o venivano messi vieppiù da parte, gli uomini che avevano continuato, e intendevano continuare, la politica di neutralità avviata dopo il trattato di Bologna del dicembre 1529: salvaguardia dei rapporti pacifici con i principi che premevano alle frontiere dello Stato veneto, la Spagna, l'Impero, gli arciduchi d'Austria; evitare irrigidimenti nei confronti della Sede apostolica, anche se essa, insediatasi sul Po, a Ferrara, sembrava proiettare la sua ombra sulla Repubblica, insidiandone l'indipendenza, spirituale e temporale. Si riteneva che. malgrado questo, la Sede apostolica restasse l'appoggio più sicuro per la Repubblica, in Italia e soprattutto nel Mediterraneo, dove era sempre da temere la ripresa della politica espansionistica dell'Impero ottomano. Di contro a tale visione degli interessi della Repubblica, emergeva la ferma volontà di porre termine all'atteggiamento di soggezione e di accomodamento verso i principi confinanti, di ricercare Oltralpe nuove alleanze che ridessero slancio alla politica e vigore all'economia che denunciava preoccupanti segni di crisi, di ricuperare nei riguardi della Sede apostolica la pienezza della propria indipendenza, di ridare smalto alla propria cultura aprendola alle idee nuove che andavano allora diffondendosi.
I patrizi promotori di tale rinnovamento riuscivano a farsi eleggere sempre di più in organi chiave come il Collegio. Il D. era uno di loro. Era diventato savio di Terraferma alla fine di dicembre 1602; sarà rieletto alla carica il 31 marzo 1604, e poi ogni anno, ininterrottamente, fino al settembre del 1610; dopo un anno e mezzo di interruzione, tornerà savio di Terraferma il 31 marzo 1612. Era stato un decennio difficilissimo. La svolta politica aveva portato tra i 606 e 1607 alla grave contesa dell'interdetto con la Sede apostolica, seguita da un accendersi di questioni nelle quali la Repubblica aveva ribadito una concezione intransigente della sua sovranità, così come al rischio di una guerra con la Spagna, nonché di una rottura con un principe alla cui alleanza la Repubblica particolarmente ambiva, il re di Francia. Ispiratore della nuova politica era diventato fra Paolo Sarpi; il D., insieme con un Nicolò Contarini, con un Sebastiano Venier, con un Giovan Francesco Sagredo, gli era assai vicino; lo si considerava anzi uno degli avversari più ostinati della Sede apostolica.
Il D. si trova già alla fine del Cinquecento in quel sodalizio di patrizi veneziani che si riuniva nel ridotto Morosini, a discutere di problemi culturali, ad accogliere anche forestieri che fossero portavoce di nuove idee. Al ridotto Morosini era stato ricevuto Giordano Bruno; vi avrà un ruolo primario Galileo Galilei, il filosofo-matematico che la Repubblica aveva voluto quale maestro allo Studio di Padova.
Il D. aveva interessi culturali assai ampi. Gli piaceva leggere e studiare gli scrittori dell'antichità greca e latina. Possedeva nella sua biblioteca un manoscritto arabo del Corano, considerato molto raro: Paolo Sarpi lo aveva convinto a farne omaggio al grande filologo ginevrino Isaac Casaubon, corrispondente del servita. Il D. era però versato soprattutto nelle scienze matematiche: era dunque questo l'interesse che lo legava, come il Sarpi, il Sagredo e Sebastiano Venier, al Galilei. Che già nel 1599 avesse con il grande pisano una familiarità particolare, pare dimostrarlo una sua lettera del 3 luglio di quell'anno, in cui gli chiedeva di fargli una commissione a Padova per far cuocere bene delle metope in terracotta. L'occasione che aveva portato alla ribalta nel mondo degli studiosi il nome del D., e che nello stesso tempo doveva aver creato non lievi screzi tra il Galilei e il gruppo degli amici veneziani più affiatati con lui, era stata, nel corso del 1609, l'invenzione del cannocchiale e il suo uso astronomico, seguito dalle sensazionali scoperte che Galileo esponeva alcuni mesi dopo nel Sidereus Nuncius, edito nel marzo del 1610.
Ciò che colpisce il lettore è il fatto che il Galilei esponesse molto sommariamente le caratteristiche dello strumento, già inventato da oscuri occhialai belgi, e da lui portato a perfezione ottenendo ingrandimenti molto più potenti: praticamente l'unico dato da lui fornito era quello dell'entità degli ingrandimenti. Mentre Galilei aveva ascritto completamente a se stesso il merito e i procedimenti dell'invenzione, secondo voci che girarono subito dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius, il merito, o tutto o in parte, doveva essere di altri. Era singolare, a tal proposito, l'atteggiamento che il Sarpi assumeva scrivendo a un suo corrispondente francese, Jacques Leschassier; il 16 marzo 1610, inviandogli il libro del Galilei, appena uscito dai torchi, sembrava voler mettere in evidenza che non solo il matematico che insegnava allo Studio di Padova, ma "alii ex nostris earum artium non ignari" avevan meriti nell'invenzione e nelle successive osservazioni con lo strumento; proseguiva poi dando particolari precisi sulle misure delle lenti e del tubo (Sarpi, Lettere ai Gallicani, p. 73). Giravano voci contraddittorie anche sulle scoperte astronomiche: il matematico Giovanni Gloriosi scriveva da Venezia a Giovanni Terrenzio il 29 maggio che si diceva pubblicamente che il primo a osservare i pianeti di Giove fosse stato il D., e ne avesse poi riferito al Galilei; forse proprio al D. si riferiva il Galilei il 19 agosto in una lettera al Keplero in cui protestava che "Quidam Venetiis contra me obloquebatur iactitans se certo scire, stellas meas, circa Iovem a se pluries observatas, planetas non esse, ex eo quod illas semper cum Iove spectabat, ipsunique aut omnes aut pars modo sequebantur, praeibant modo" (Opere, X., p. 422). Ma a parte quest'ultima, molto più controversa, accusa contro il Galilei, si può osservare, quanto alla scoperta del cannocchiale, che intendenti di problemi di ottica, tali da essere in grado di ragionare sulla tecnica e l'uso dello strumento, a Venezia, che si sappia, tra gli amici del Galilei c'erano solo lo stesso Sarpi e il Da Mula. In effetti, nel Saggiatore, che uscirà a Roma nel 1623, Galilei ammetterà che, prima della notte in cui, a Padova, dopo vgrie prove, aveva infine scoperto la struttura del cannocchiale, aveva conversato sull'argomento, durante il giorno, a Venezia con degli amici a cui il giorno seguente, fabbricato lo strumento, diede conto dell'invenzione. Vien anzi fatto di pensare che, visto che, sempre nel racconto del Galilei, proprio in quel giorno erano giunte dall'Olanda le novità sugli occhiali, oltre a fornire all'amico tutti i presupposti teorici sull'uso e la conformazione delle lenti e le particolarità osservate nelle loro esperienze, il Sarpi e il D. gli avessero dato anche delle lenti, di buona fattura e di una certa potenza. Naturalmente tutto ciò non toglie nulla al fatto che fu Galilei a scoprire la struttura dello strumento. Che il Sarpi fosse comunque risentito nei confronti del Galilei, forse più per l'amico D. che per se stesso, lo dà da pensare una lettera del 27 aprile, sempre diretta al Leschassier che gli aveva chiesto spiegazioni sulle fasi e le macchie lunari dopo aver letto il libro del Galilei: Sarpi prendeva infatti un'aria di sufficienza nei confronti dei libro che non aveva neppure letto, dando delle delucidazioni fondate solo su proprie esperienze.. E si esprimeva sempre al plurale nei confronti dei progressi fatti dai veneziani, "nostri" egli scriveva, nella fabbrica e ngll'uso dello strumento (Lettere ai Gallicani, p. 81), incuriosendo l'amico. "De oculariis -perspicillis ut tibi aliquid dicam." - spiegava Sarpi nella lettera dell'8 giugno "sunt hic viri aliquot eruditi, qui commentariolum de visione concipiunt, ubi et inventi hollandicì rationem et causam explicant, simulque totam theoriam perspicillorum exponunt". Gliene avrebbe inviato una copia qualora fosse stato edito (ibid., p. 84). Nella lettera del 3 agosto al Leschassier specificava che il libretto di ottica non era ancora stato stampato per delle difficoltà incontrate dall'autore nell'incidere le illustrazioni e fornire delle spiegazioni su di esse: è questo particolare che convince che il Sarpi si riferiva proprio al Da Mula. Il Sagredo, che era stato assente da Venezia per un incarico in Levante proprio durante gli anni delle scoperte del cannocchiale, quando il Galilei si era poi trasferito nel 1610 in Toscana, aveva iniziato con lui uno scambio epistolare piuttosto fitto. All'inizio di giugno del 1612, forse proprio a seguito di tutte le polemiche che non dovevano essersi ancor spente dopo due anni, aveva.cominciato ad interessarsi alla teoria della visione, sostenendo, con riprovazione da parte del D. e dei Sarpi, un'idea, nata dal buonsenso e dal ragionamento, che si sarebbe poi rivelata quella giusta: trovava infatti conferma alla sua opinione nei Paralipomena ad Vitellionem, già edito nel 1604 da Keplero. Invano aveva chiesto spiegazioni e chiarimenti all'amico lontano. Il 30 giugno gli scriveva che il D., molto occupato per questioni famigliari e di governo, pure gli aveva fatto vedere, appena il Sagredo era tornato a Venezia, "un numero grandissimo di tavolette di legno intagliate con diverse dimostrazioni, che dovevano servire per un suo trattato, scritto di propria mano, in foglio, de forse 100 carte; ma non mi volle permettere che leggessi alcuna cosa, con tutto che mostrasse gran. desiderio di conferire meco i suoi pensieri, per levarsi de, alcuni minimi scropuli". Aveva senz'altro dichiarato falsa l'opinione del Sagredo, ma dopo tre mesi aveva accondisceso 'a ritenere di poterla aggiungere ai tre "modi" della visione che egli aveva ipotizzato nel suo trattato. Poi il D. non aveva più ripreso il discorso, sebbene in passato avesse insistito con il Sagredo per mostrargli il suo libro (Galilei, Opere, XI, p. 350). Non è stato possibile ritrovare il manoscritto, che forse è stato distrutto o dallo stesso D. o dai suoi eredi. Si può ritenere comunque che egli avesse rinunciato all'ambizioso progetto della pubblicazione perseguito con tanta fatica, perché si doveva essere reso conto, proprio dalle discussioni col Sagredo, probabilmente dopo aver esaminato le opere ottiche di Keplero, che le teorie ottiche su cui poggiava tutta la costruzione del suo trattato erano state superate dagli studi kepleriani.
Il 17 genn. 1613 il D. veniva eletto podestà a Verona. Era una delle sedi più impegnative di tutto lo Stato, posta com'era alla strozzatura tra il Dominio di qua e quello di là dal Mincio, all'imboccatura della valle che era una delle porte per chi volesse scendere in Italia. Verona era città tradizionalmente legata alla Sede apostolica, sul piano culturale oltre che su quello ecclesiastico, patria di una nobiltà spesso di origine feudale, tendenzialmente insofferente verso la sovranità della Repubblica; durante l'interdetto, non aveva mancato di dimostrare la sua ostilità per la politica antipontificia ingaggiata dai suoi governantì. Il D. non doveva comunque incontrare particolari difficoltà nel suo reggimento di Verona: le lettere scambiate con il Senato e con i capi del Consiglio dei dieci si soffermano solo su problemi di ordinaria amministrazione. Malgrado questo, o forse proprio in virtù di questo, il D. aveva voluto lasciare a Verona una testimonianza imperitura della sua presenza, della quiete pubblica e della buona armonia con i Veronesi che egli era riuscito a realizzare. Come aveva fatto a Venezia il Senato per il palazzo ducale, esaltandovi pittoricamente le conquiste di Venezia e gli ideali di religione e di pace cui si erano ispirate, così il D. aveva voluto che nella sala pretoria di Verona fosse eseguito un ciclo di pitture che costituissero un messaggio per i Veronesi, presenti e futuri; e laddove il Senato aveva sommissionato a un estraneo, il camaldolese toscano Gerolamo Bardi, di indicare i temì che i pittori dovevano illustrare, a Verona quel compito il D. se l'era assunto personalmente: egli intendeva che in quella sala, dove si riunivala nobiltà veronese, dove il rappresentante della Repubblica svolgeva le sue funzioni più autorevoli, fossero dipinte delle figure simboleggianti le virtù necessarie a un buon rettore, nonché i frutti del suo buon governo; -il D. aveva inoltre incaricato un letterato veronese, Francesto Pola, di spiegare. il ciclo pittorico da lui concepito in un libretto a struttura dialogica; Lo Stolone ovvero Della sala pretoria veronese, che andrà alle stampe a Verona nel 1615, a compimento dell'opera. A quanto riferisce il Pola, sembra che ci fossero stati dei problemi sulla scelta dei pittori. Gli artisti veronesi cui il D. si sarebbe rivolto, Orazio Farinati, Sante Creara, Alessandro Turchi, detto l'Orbetto, e Pasquale Ottino, (il Pola scrive però Ottolino) avrebbero declinato l'invito, perché il D., che voleva vedere l'opera compiuta prima della sua partenza da Verona, aveva posto un limite di tempo troppo ristretto, tre o quattro mesi.
Ci pare lecito formulare l'ipotesi, seppur esilissima, che oltre a questioni di tempo, impossibili da rispettare, ci, fossero divergenze artistiche: tra i pittori veronesi si stava Affermando lo stile caravaggesco (il Turchi e l'Ottino si recheranno infatti di lì a poco a Roma, centro del nuovo orientamento pittorico), stile che a Venezia non era ancora riuscito ad imporsi. Il D. aveva così fatto eseguire il lavoro da Antonio da Gandino, un bresciano che era stato discepolo di Paolo Veronese, ossia di uno dei massimi protagonisti della grande stagione pittorica veneziana.
Il ciclo di pitture, così come il libretto del Pola, era documento dell'ambizione sfrenata del D., come uomo e come patrizio veneto. Si celebrava bensì in esso la grandezza e la saggezza della Repubblica. In primo piano però stava lui, il D., quale depositario di quella grandezza e di quella saggezza. Tutte le virtù effigiate nella sala le virtù necessarie a un buon rappresentante della Repubblica, erano possedute dal Da Mula. Da cento anni a questa parte, scriveva il Pola, non si era avuto a Verona magistrato migliore di lui, "più religioso, più zelante, più pio ... ; che sia stato più provido, più risoluto, più prudente di lui". Nessuno, proseguiva Stolone, il personaggio più importante dello immaginario dialogo, nessuno aveva esercitato la giustizia meglio del D. (nel libro si scriveva Amulio, a sottolineare l'origine latina della famiglia), con più rigore, equità, pazienza; nessuno era stato dotato di nobiltà più antica e più chiara, e neppure "di cruditione più varia et più piena, et più diffusa per tutte le discipline più pregiate, et per le matematiche principalmente, per la lettura de' classici libri latini et greci". Il D., aveva già detto lo Stolone, è destinato all'eternità. Non c'era alcuna adulazione, ribadiva alla fine, "l'immortalità del suo nome durerà eterna". Anche a rapporti con il suo collega Bertucci. Valier, che nel reggimento, venese aveva ricoperto il carico di capitano, servivano al D. per un'autocelebrazione. Egli aveva realizzato con lui una collaborazione "perfetta", sancita nella sala pretoria da una lapide che la evocava per la posterità, oltre che dall'accostamento su ogni colonna delle armi familiari dell'uno e dell'altro. Si profilava l'ideale dell'"eroica amicizia", che a Venezia avrà di lì a pochi anni la sua consacrazione nel legame strettosi tra due patrizi, Marco Trevisan e Nicolò Barbarigo: amicizia elevata a monito per una società che andava disfacendosi nei conflitti economico-familiari e nell'emulazione delle carriere politiche. Il D. non aveva voluto che LoStolone, il libro della sua gloria, dimenticasse Giovanni Bonifacio, che era stato al suo fianco, sempre.come vicario, nel reggimento di Verona: riconosceva che lui, in primo luogo, e gli altri tre "segnalatissimi assessori" avevano contribuito alla buona riuscita di esso.
Tornato a Venezia, dove l'attendevano gli amici del sodalizio culturale (non c'era più il Galilei, trasferitosi a Firenze, ma rimasto in contatto con loro soprattutto per il tramite di chi gli era più caro, Giovan Francesco Sagredo), il D. aveva avuto una brutta sorpresa. Gli erano stati rubati tutti i suoi "vetri lunghi", materiale prezioso, a giudicare dal desiderio che lo stesso Galileo aveva allora di procurarsene, probabilmente per la costruzione di lenti: il Sagredo, nello scriverne al maestro, prevedeva che il D. se ne sarebbe fatti "lavorare" altri "con estraordinaria diligenza" (Galilei, Opere, XII, p. 158). La carriera politica del D. sembrava ripagarlo di quella disavventura. Il 31 marzo 1615, poi il 31 marzo 1617, di nuovo il 31 marzo 1618, egli era stato rieletto savio di Terraferma. Quest'ultima volta aveva dovuto lasciare quella carica dopo pochi mesi, perché il 31 giugno dello stesso anno veniva eletto savio del Consiglio, che era la massima del Collegio, quasi l'apice, per un patrizio dalle ambizioni del Da Mula. Nel settembre del 1618 gli veniva però inferta una gravissima umiliazione, la più bruciante, data appunto l'altissima dignità di cui era investito.
Si era discussa in Consiglio dei dieci una controversia tra due patrizi della stessa casata, Antonio di Alvise Cappello, nipote del D. (era figlio di sua sorella Franceschina), e Antonio di Marin Cappello, il quale era al centro dell'attenzione cittadina perché stava dilapidando la sua fortuna in una lite astiosa ed annosa con i suoi figli. Il Consiglio dei dieci aveva deciso in favore di quest'ultimo, contro il nipote del Da Mula. Una decisione indegna, a veder dello stesso D., tanto che, lasciato il suo ufficio, si era recato al Consiglio dei dieci per protestare davanti a quel gelosissimo consesso: aveva detto che si erano violate le leggi del Maggior Consiglio, che non si rendeva giustizia, che "per privati rispetti" si facevano "cose esorbitanti", chic si rizzavano i capelli a tutti e a lui, in:particolare, saltava addirittura la berretta sulla, testa. La reazione del Consiglio dei dieci era stata virulenta: i capi di esso avevano ingiunto al D. di andarsene, subito a casa e di rimanervi fino a nuovo ordine. Il D. aveva dovuto obbedire, si era avviato senza poter neppure attendere i suoi servitori, a piedi, accompagnato solo da un conoscente "botteghier da spadaria'", attraversando il Canal Grande, lui, "senator di questa patria, constituido in cargo eminente, vestito di veste insigne", su una qualsiasi "barca da traghetto a un remo".
La questione trascendeva il fatto personale e assurgeva a conflitto di potere tra due organismi al vertice della Repubblica. Il Consiglio dei dieci aveva il sopravvento, rivendicando la pienezza suprema, giudiziaria e morale, non solo politica, della sua autorità. Convocato il giorno dopo davanti al tribunale dei capi, il D. si era difeso con un certo vigore: aveva bensì accampato delle scuse, dicendo che si era equivocato, che egli non voleva offendere il Consiglio dei dieci, di cui riconosceva tutta l'autorità, ma protestare contro la magistratura dei governatori alle Entrade, veri responsabili della misura ffigiustamente presa a danno del nipote; aveva però affermato la responsabilità e le prerogative che gli spettavano come senatore, non solo come savio del Consiglio. Egli diceva di aborrire la licenza e la corruttela dei tempi presenti, ma di non poter rinunciare a parlare "con la libertà che si conviene a senatore nato in patria libera e allevato con concetto che 'l mantener questa libertà debba andar avanti che 'l mantener la vita". A conclusione, i capi del Consiglio dei dieci avevano proposto che il D. fosse convocato in Collegio e lì, presenti gli stessi capi, dovesse dichiarare a voce alta di essere dispiaciuto "per aver trascorso in quelle parole, e che ciò gli servirà di avvertimento". Proposta che era stata respinta. Era stata approvata quella fatta dal doge e dai consiglieri, di ammonirlo in Collegio per non aver portato ai capi del Consiglio dei dieci "base dellapubblica libertà", la "riverenza" dovuta, ma di condonargli per questa volta il castigo.
Il Senato, riconfermandogli la sua stima, non solo rieleggeva il D. a savio del Consiglio, alla fine di giugno del 1619 e del 1620, ma gli conferiva in quegli anni anche magistrature più specifiche, provveditor sopra Ori e Monete, provveditor alle Fortezze, provveditor alla Cassa ori e argenti, nonché al Deposito Banco giro e all'Arsenal. Successo forse dovuto anche al fatto che, come rivelava un'inchiesta fatta fare nel 1620 dal gesuiti, a differenza da vecchi amici come Nicolò Contarini e Sebastiano Venier egli aveva ammorbidito la sua posizione politico-religiosa.
Le ultime cariche, aggiunto ai riformatori allo Studio di Padova e aggiunto ai provveditori all'Arsenal, erano giunte al D., tra luglio e settembre del 1621. Un mese dopo, ammalato di febbre, egli faceva testamento, nella sua casa di S. Vio: vi moriva il 26 ott. 1621, assistito dal dottor Santorio Santorio, pur lui vecchio membro del sodalizio scientifico sarpianogalileiano.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, Libro d'oro nascite, busta 69 (1554-1589); il testamento del 25 ott. 1621, dettato al notaio Fabrizio Beaciani: Ibid., Atti Beaciani Fabrizio, busta 56/18 (dall'apertura del testamento risulta morto il 26 ottobre e non il 27 come dal necrologio della Sanità); registrazione di morte: Ibid., Provveditori alla Sanità, Necrologi, reg. 851 (1621); Ibid., Misc. Codici I, St. Ven. 21: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori dei patrizi veneti, V, s. v.; Ibid., G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto ... ; Ibid., Misc. Codici III, Codici Soranzo 33, vol. III; alberetto genealogico e storia del palazzo a S. Vio: Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. Venier 124, cc. 292v-298v; interviene a un contratto a Lozzo nel 1612 come membro del collegio Amulio di Padova: Ibid.., Mss. P. D. C 2616/4; per l'elezione alle varie cariche: Arch. di Stato di Venezia, Segretario alle Voci, Elezioni in Pregadi, regg. 5, c. 18v; 6, c. 160; 7, cc. 12v-14v; 8, cc. 12v-14v; 9, cc. 4v, 12v-14v, 82; 10, cc. 1, 2, 27, 29, 30, 60, 86v, 95 e Segretario alle Voci, Elezioni in Maggior Consiglio, regg. 7, c. 167v; II, c. 161v; per il giuramento alla podesteria di Belluno: Ibid., Capi dei Consiglio dei Dieci, Giuramenti, reg. 5 (1585-1610), c. 69; lett. come podestà di Verona al Consiglio dei dieci: Ibid., Capi dei Consiglio dei Dieci, Lettere di rettori e d'altre cariche, busta 198 (Verona 1610-20); deliberazioni del Senato al D. podestà a Verona: Ibid., Senato, Terra, registro 84; Roma, Arch. Rom. Societatis Iosu, Ven. 109. c. 413: Senatori che vanno in Pregadi, che hanno voto deliberativo in tutti li negotii attinenti alla Repubblica veneta; F. Pola, Lo Stolone ov vero Della sala pretoria veronese restaurata dal podestà Agostino Amulio, Verona 1615, F. Comet, Paolo V e la RepubblicaVeneta. Giornale dal 22 ottobre 1605, al 9 giugno 1607, Vienna 1859, pp. 1181 ss., 195, 201 s., 223; G. Capasso, Fra Paolo Sarpi e l'interdetto di Venezia Firenze 1879, pp. 204, 213; il Sarpi cita il D. in uno dei suoi "pensieri" il 557, registrato sotto l'anno 1595, in P. Sarpi, Scritti filosofici e teologici editi e inediti, a cura di R. Amerio, Bari 1951, p. 113; G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958, pp. 103 e nota 2, 107 nota 1, 122 e nota 2, 167; V. Ronchi, Il cannocchiale di Galileo e la scienza del Seicento, Torino 1958, pp. 105 s., 174; P. Sarpi, Lettere ai Gallicani, a cura di B. Ulianich, Wiesbaden 1961, pp. XVII, 73, 79, 81, 84, 86, 241; Gi Galilei, Opere (edizione nazionale), X, pp. 73 s., 303 s., 422; XI, pp. 108, 34, 330 s., 349 s., 500, 506, 536, 549, 554, 555; XII, pp. 139, 142, 158, 405 s., 460; XVI, pp. 172. s.; Due generazioni, in Cinquant'anni di pittura veronese 1580-1630 (catal. della mostra), a cura di L., Magagnato, Vicenza 1974, pp. 32 s.; G. Cozzi, Paolo, Sarpi tra Venezia e l'Europa, Torino 1979, pp. 43 s., 65, 155 s., 166 s., 183 nota 106, 185 ss., 199, 220, 224; A. Favaro, Amici e corrispondenti diGalileo, Firenze 1986, I, 219 s., 331 s., Galileo, Firenze 1983, pp. 338 s.; G. Cozzi, Politica, cultura e religione, in Cultura e società nel Rinascimento tra Riforma e manierismi, a cura di V. Branca - C. Ossola, Firenze 1984, pp. 36-39 .