DEPRETIS, Agostino
Nacque a Cascina Bella, frazione del comune di Mezzana Bottarone (oggi Brèssana Bottarone), il 31 genn. 1813, unico figlio maschio di Francesco e di Maria Antonia Tronconi.
Il comune di Mezzana era situato nell'Oltrepò pavese, dunque in territorio lombardo ma appartenente al Regno sardo. Sette anni prima il padre vi si era trasferito da Albuzzano, in Lombardia, di cui era originario, in qualità di agente della famiglia Gazzaniga. Di origini modeste (i fratelli, artigiani, più volte ne ottennero l'aiuto economico), proprio nel 1813 iniziò una serie di acquisti di case e terreni che alla sua morte coprivano circa 31 ettari. Passarono poi in eredità al D., che alla più consistente delle proprietà, quella di Castellazzo Beccaria, rimase sempre legato e che estese con successivi acquisti.
Iniziato agli studi dal parroco del paese, a otto anni il D. fu mandato a scuola a Pavia, dove il governo austriaco ammetteva i subalpini d'Oltrepò. Completò il ginnasio-liceo al Ghislieri, e di li passò alla locale università, che lo laureò dottore in giurisprudenza nel giugno 1834. Avviatosi alla pratica legale presso uno studio cittadino, l'abbandonò nel 1836 per tornare in famiglia.
Ve lo richiamò certamente la morte del padre, avvenuta in quell'anno per colera, e la necessità di prenderne il posto e le attività, dovendo egli provvedere al mantenimento di due sorelle ancora nubili, nonché della seconda moglie del padre, Caterina Tabacchi, e della sorellastra Antonia.
In seguito il D. stesso attribuì la partenza da Pavia anche alla necessità di sottrarsi ai controlli di polizia per essere coinvolto nelle attività della Giovine Italia. A Pavia aveva in effetti frequentato un ambiente studentesco nel quale i consueti comportamenti goliardici e scapigliati si confondevano naturalmente con l'agitazione democratica; aveva fatto parte di un gruppo che distribuiva materiale di propaganda e che era in contatto con Mazzini, e almeno in una occasione aveva dovuto attraversare precipitosamente il fiume e riparare nel più ospitale territorio sardo.
Necessitato dalle vicende familiari e da quelle politiche, l'allontanamento dalla pratica legale e dall'ambiente cittadino diventava per il D. - così lo rievocava molti anni più tardi un suo seguace, il Coppino (Commemorazione..., p. 12) - una scelta per "la libertà del contado" e per la possibilità di farvi opera pedagogica come "benevolo consigliere dei contadini" e nelle "non vigilate espansioni con gli amici" che l'ambiente meglio consentiva. A questo ruolo e a quest'immagine il D. doveva tenersi fedele, e trovarvi il fondamento della sua ideologia politica. Proprietario e agente di campagna in una delle più ricche e operose province agricole italiane, crocevia di traffici tra il Regno sardo, quello lombardo-veneto e il ducato di Parma, vi sviluppò le attitudini sue tipiche per l'amministrazione attenta dei beni patrimoniali e per l'accortezza delle transazioni, così mercantili come politiche. Succeduto al padre nella carica di sindaco di Mezzana Bottarone, agente dei Gazzaniga a Cascina Bella, passato poi a Stradella come agente dei Gazzaniga Arnaboldi, nel giro di pochi anni aveva già raddoppiato il patrimonio ricevuto, che nel 1844 si estendeva per 66 ettari e alla fine del decennio seguente avrebbe raggiunto i 250 ettari.
Chi ne ha ricostruito la storia scrive che questo patrimonio fu accumulato "sottoponendo ad ipoteca la proprietà e investendo nella stessa il denaro ottenuto per aumentare la rendita, vivendo senza lussi superflui e conservando le sane e parsimoniose abitudini della gente che sa spendere il suo denaro e sa quanto valga una proprietà ampliata lentamente e faticosamente" (Talamo, La formazione..., p. 38) - Ma il benessere economico, nonché la cerchia delle relazioni - che via via si consolidavano con la frequentazione dei mercati, e grazie ai rudimenti appresi della pratica legale - si ampliarono poi in modo determinante allorché nel 1842 la famiglia Gazzaniga si estinse nella più ricca casata milanese degli Arnaboldi, che ne acquisirono il nome e le proprietà. Agente a Cascina Bella e uomo di fiducia dell'ultima dei Gazzaniga, Maria, il D. ne riorganizzò il patrimonio familiare redigendo un dettagliato regolamento che metteva un agente a capo delle "provincie" in cui divideva la proprietà e affidava la direzione suprema a un agente generale, incarico che egli stesso assunse per il corrispettivo di 6.000 lire milanesi all'anno oltre a una "decente abitazione" e una persona al suo servizio. Stabilita la sede centrale dell'amministrazione dei Gazzaniga-Arnaboldi a Stradella, il D. vi si trasferì, dirigendovi con perizia ed efficacia le proprietà affidategli, mentre per i suoi nuovi uffici ebbe spesso occasione di varcare il confine e di recarsi a Pavia e a Milano, e qui di frequentare l'ambiente dei Gazzaniga-Arnaboldi, simpatizzanti liberali e presto suoi intimi, nonché dell'agente del duca Visconti di Modrone, ing. Caccianino, che nel '42 aveva esaminato e approvato l'originale regolamento redatto dal Depretis.
Esponente di una minore borghesia agraria in ascesa che gli interessi stessi sospingevano su posizioni innovatrici entro l'ordine ormai scosso della Restaurazione, il D. fu tra i primi aderenti della Associazione agraria sorta a Torino nel 1842 e qui ebbe una prima occasione di mescolarsi a molti rappresentanti della classe dirigente sarda, subito accostandosi ai più avanzati tra di loro, come L. Valerio o G. Lanza. I contatti e le amicizie qualificati, assieme al suo stesso censo e all'esperienza quotidiana dei traffici, erano intanto pronti a tramutarsi in base elettorale non appena s'instaurassero gli ordinamenti rappresentativi. Il 27 apr. 1848, alle prime elezioni politiche del Regno sardo, il D. si presentò candidato sia nel collegio di Stradella, dove non fu eletto per soli 17 voti, sia in quello confinante di Broni, dove raccolse invece soltanto 20 Voti su 235 votanti. Ma avendo il vincitore di quest'ultimo collegio, Paolo Farina, optato per il IV di Genova, alle suppletive del 26 giugno il D. fu eletto quasi senza opposizione e divenne così deputato di Broni, che sempre lo riconfermò fino al 1860, mentre il seggio di Stradella rimaneva, con l'appoggio dello stesso D., a C. Correnti. Sei mesi più tardi si svolsero pure le prime elezioni amministrative, e il D., che era consigliere comunale di Stradella già dal 1844 - nominatovi dall'intendente di Voghera, cui spettava la nomina, a quel tempo non elettiva - il 14 dic. 1848 ebbe il terzo posto tra i venti consiglieri eletti, figurando al primo posto Carlo Arnaboldi Gazzaniga, il figlio ventiquattrenne di Maria. Con regio decreto del 10 marzo 1849 il D. fu quindi nominato sindaco di Stradella e rimase nella carica fino all'ottobre del 1850. Sempre nel 1849, fu eletto anche consigliere provinciale di Voghera.
Entrato alla Camera quando si discuteva il progetto sull'unione della Lombardia e delle province venete agli Stati sardi, il D. si schierò a sinistra e votò con l'opposizione, che proprio su quella legge fece cadere il governo Balbo. Nei suoi primi interventi si può vedere come in quell'opposizione si manifestassero i temi a lui più congeniali d'un democraticismo rurale e borghese: accanto all'incoraggiamento al progresso economico e sociale, accanto al liberismo, particolarmente sentiti l'autogoverno locale e il coinvolgimento nelle istituzioni di una più vasta base sociale.
Infatti il 6 luglio, sempre in tema d'annessione della Lombardia, presentò e sostenne un emendamento per l'abolizione delle barriere doganali, mentre pochi giorni dopo richiese una pronta riforma degli ordinamenti locali e più tardi - nel primo suo intervento riportato nella serie dei Discorsi Parlamentari, quello del 18 nov. 1848, - collegò l'esigenza delle riforme amministrative al tema delle libertà politiche. Manifestava così l'esigenza di un rinnovamento congiunto delle istituzioni e degli uomini, sia a livello locale e amministrativo - dove il D., accingendosi a una personale azione di svecchiamento, di rigore e di chiarezza amministrativa in qualità di sindaco, chiedeva il sostegno dello Stato e delle leggi -, sia a livello politico e nazionale, dove più volte affermò la necessità di radicare lo statuto in un vasto rinnovamento del personale politico e amministrativo dello Stato. Discutendosi infatti il 18 novembre due disegni di legge relativi a provvedimenti di assistenza e di pubblica sicurezza da adottare per gli emigrati - e in quel momento riguardanti soprattutto gli esuli lombardi -, metteva in guardia dal pericolo di affidare l'emigrazione ad una macchina amministrativa retriva, che spesso ostacolava l'applicazione di direttive liberali; ad impiegati, funzionari, sindaci e segretari comunali, com'egli disse, "già di per se stessi inclinati ad usare, ad abusare del loro ufficio a danno della libertà". Perciò invocando la tutela statutaria delle libertà personali propose un articolo aggiuntivo che esplicitamente subordinava all'intervento dell'autorità giudiziaria gli arresti personali e le visite domiciliari.
Se dunque fin dall'inizio della sua esperienza parlamentare - che egli compiva, si noti, mentre il costituzionalismo stesso muoveva i suoi primi passi e fondava le sue regole e le sue procedure - il D. manifestava una sua vocazione ben radicata e definitiva ad affidare la difesa del liberalismo allo studio ravvicinato dei congegni amministrativi; se così sì definiva una sua collocazione già tutta "interna" agli ordinamenti, la sua insistenza poi perché fosse effettiva e sostanziale l'evoluzione liberale di quegli ordinamenti, e il liberalismo avesse larghe basi sociali, spiega il radicalismo che connotò le sue posizioni politiche nelle prime legislature del Parlamento sardo. Nei fatti del 1848-'49, nel succedersi rapido dei governi e delle legislature, egli agì infatti come uomo di partito, e via via che le posizioni più estreme della Sinistra si distinsero da quelle più moderate si riconobbe piuttosto nelle prime, ed anzi ne fu esponente di primo piano. Esordì nel luglio del '48 non votando i pieni poteri al governo per la durata della guerra; firmò, nel novembre, la Dichiarazione politica con la quale le opposizioni condannavano le incertezze del ministero nella politica nazionale. Sciolta la Camera, i firmatari di quella Dichiarazione nominarono un "cornitato elettorale" presieduto dal Valerio e fu probabilmente il D. a stilare l'Appello alla nazione col quale la Sinistra si presentò agli elettori fissando congiunti i propri obiettivi "interni" ed "esterni": "l'indipendenza assoluta d'Italia, l'unione delle forze nazionali, la costituente, lo sviluppo delle libertà politiche e municipali, la perfezione dei codici, l'incremento delle industrie e dei commerci, il benessere delle classi povere e faticanti, la grandezza insomma e la gloria d'Italia". Vinte quelle elezioni dalla Sinistra, il 9 febbr. 1849 fu eletto vicepresidente della Camera per la seconda legislatura, che tuttavia durò pochi mesi, e di nuovo sciolta la Camera, costituì con Lanza e Mellana un comitato elettorale e nell'agosto, apertasi la terza legislatura, tornò ad essere vicepresidente della Camera.
Col nuovo appello alle urne del dicembre 1849 accompagnato dal proclama di Moncalieri, la Sinistra perse la maggioranza e s'accentuò al suo interno la distinzione tra il gruppo più moderato facente capo al Rattazzi e la Sinistra "pura" del D., di Valerio, Sineo, Mellana. Fautore d'una massima apertura sociale delle istituzioni liberali, il D. condivideva molto dell'opera di propaganda e dei programmi di mobilitazione popolare propri del democraticismo più avanzato di stampo mazziniano e repubblicano da cui lo divideva però la fedeltà al quadro costituzionale, che era in lui nettissima, fisiologica addirittura. Solo una certa voluta indeterminazione dei presupposti dottrinari consentiva perciò al suo radicalismo d'affiancarsi alle correnti estreme dell'attivismo risorgimentale. Sullo sfondo di questa indeterminazione vanno collocati sia i suoi rapporti con i mazziniani, con lo stesso Mazzini e in genere col mondo dell'iniziativa rivoluzionaria risorgimentale, sia l'attiva partecipazione, tra il 1850 e il 1851, alla fondazione d'un nuovo giornale, Il Progresso (uscito il 7 nov. 1850) che, cessata la Concordia del Valerio - della quale il D. era pure azionista -, avrebbe dovuto propagandare gli obiettivi dell'opposizione parlamentare senza vincolarsi a programmi politici troppo definiti. Al giornale, diretto da C. Correnti, contribuì attivamente, acquistandone e probabilmente diffondendone le azioni, partecipando al consiglio di direzione e collaborandovi occasionalmente per la parte economica e finanziaria. Vi conobbe tra gli altri il Crispi, che pure collaborò al giornale.
Schierato all'estrema e puntualmente antigovernativo, Il Progresso era nettamente ostile anche al Rattazzi, al Centro-Sinistra e a consimili "apostati della democrazia" (pare che un articolo costasse al D. un duello alla pistola con un giornalista dell'Opinione), mentre riprendeva i manifesti mazziniani non senza esitazioni e reticenze che indispettivano lo stesso Mazzini. La varietà delle vedute all'interno della redazione e quindi l'incertezza della linea presto lo indebolirono; cessò le pubblicazioni il 31 dic. 1851, quando tra l'altro il colpo di stato in Francia aveva di molto ristretto le prospettive della democrazia estrema. In quel momento di delusione vi fu chi propose di affidare un rilancio ad iniziative clamorose come quella, di cui rimangono più tarde e assai vaghe testimonianze, del rapimento dell'imperatore Francesco Giuseppe ad opera di Cairoli e del D. stesso.
La partecipazione del D. a un simile progetto più che mal documentata è poco verosimile. Se può esser vero, come riporta un memorialista, che durante le Cinque giornate il D. fremesse, impedito all'azione da febbri perniciose (Breganze, p. 48), o che poi, nominato "commissario insurrezionale per tutta la Lombardia", fosse fermato dal disastro di Novara (Coppino, p. 15), resta il fatto che poche persone come lui erano aliene dall'azione risoluta, e comunque tarde a schierarsi, o inclini a non schierarsi affatto, nelle situazioni di conflitto. Perciò le lettere di Mazzini alternavano a quel tempo gli apprezzamenti, e in certi casi l'intimità cospirativa, alle esortazioni, agli ammonimenti e fino ai rimproveri, che si fecero più frequenti col passare del tempo. "Mi fu impossibile intendere il vostro pensiero, e me ne duole. Non son tempi questi da rimanerci in dubbiezza l'uno verso l'altro", gli scriveva ad es. il Mazzini il 17 nov. 1851, allorché il D., oggetto di pressioni da entrambe le parti, non seppe prender partito tra i due concorrenti comitati costituitisi a Parigi per la riorganizzazione della Sinistra democratica europea, l'uno ispirato da Lamennais, e per conto del quale nel maggio gli scriveva il Montanelli, l'altro da Mazzini.
L'occasione di saggiare la disponibilità del D. sarebbe peraltro venuta di lì a un anno, al momento di organizzare una insurrezione in Lombardia nella quale doveva avere un ruolo preminente il comitato di Pavia, capcggiato dal Cairoli, mentre tra i possidenti ai quali i mazziniani chiesero un sostegno economico figurava l'Arnaboldi. Si aggiunga che dopo Novara il D. avrebbe nascosto una partita di fucili proprio.a Stradella, nodo comunque strategico per il moto sul quale per più ragioni convergevano perciò le attenzioni dei cospiratori. Alla fine dell'estate 1852 Cairoli e G. Acerbi, esuli lombardi ora in Piemonte, incontrarono a Stradella il giovane Piolti de' Bianchi, principale agente di Mazzini a Milano. Nel ricordo di Piolti il D. si sarebbe mostrato del tutto all'oscuro del progetto. Ma è difficile che lo fosse, se ai primi di ottobre ospitò E. Brizi, capo del moto milanese, proveniente da Londra, e lo aiutò a passare in Lombardia. D'altra parte il 20 novembre Mazzini stesso sconsigliava dal riporre "troppa buona fede in D., buonissimo, ma non caldissimo nell'azione".
Al D. Mazzini chiedeva di svolgere soprattutto un ruolo politico; in questo senso gli scrisse da Chiasso il 5 febbr. 1853, alla vigilia dell'insurrezione, esponendogli la sua strategia, e in essa il ruolo che avrebbe dovuto svolgervi la Sinistra subalpina: un ruolo insurrezionale, nel caso in cui il Piemonte si schierasse con l'Austria nel reprimere la rivoluzione lombarda; il compito invece di ottenere dal governo un intervento militare senza condizioni nel caso che il Piemonte si schierasse con il moto. Scritta con tono elevato, la lettera riproduceva lo schema dell'appello ai Genovesi, nel quale appunto si diceva che se il Piemonte fosse stato favorevole all'insurrezione, "bisogna esigere imperiosamente: creazione d'un Gabinetto lealmente nazionale, per esempio, di Gabella, Mellana, Depretis, Parent, ed altri" (Mazzini, Scritti..., LI, p. 3). Il D. era effettivamente a Torino il 6 febbraio, giorno del voto, che peraltro falli sul nascere. Da parte piemontese, si contribuì al fallimento con una serie di provvedimenti di polizia che portarono a bloccare sul confine quanti tentarono di attraversare la frontiera lombarda e ad operare numerose perquisizioni e sequestri. Il più rumoroso di questi avvenne in casa Depretis, in cerca dei famosi fucili. "Si faccia immediata rigorosa perquisizione a Stradella in casa del Deputato D., sempreché sia ben accertato il fatto dell'uscita da casa sua del carro carico di fucili", così si ordinava dal ministero dell'Interno all'intendente generale di Alessandria. La sera del 9 furono sequestrati al D. sciabole e fucili, che più tardi, dopo una sentenza di proscioglimento della Corte d'appello di Casale, il D. riuscì a farsi restituire muovendo il guardasigilli Boncompagni tramite Rattazzi presidente della Camera.
La crisi del mazzinianesimo che seguì il fallimento di quel moto segnò in breve tempo anche l'indebolirsi e poi lo spengersi dei rapporti diretti del D. con Mazzini. Forse ancora nel febbraio 1854 il D. cercò di ristabilire qualche contatto organizzativo col Mazzini se questi gli scriveva: "Amico, vi sono grato del vostro ricordarvi di me. Penso alla persona che chiedete come centro visibile del Partito: ma non è facile trovare chi riunisca tutte le condizioni volute" (in Grandi, p. 199). Di lì a pochi mesi tuttavia, dopo che il 3 apr. 1854 insieme al Correnti, al Valerio, Robecchi e Pareto, il D. aveva fondato un nuovo, impegnativo giornale della Sinistra democratica, Il Diritto, Mazzini faceva seguire un aspro sfogo: "Scrivo, e so che non risponderete (...) Scrivo per esaurire ogni possibile tentativo coi buoni, prima di dichiararmi libero e di protestare per conto mio contro una inerzia che comincia a diventar codardia (...) Credete veramente voi buoni, voi che amate l'Italia, sdebitarvi dagli obblighi vostri, scrivendo un Giornale?" (ibid., p.201). Pure non rinunciando a cercare ancora di ottenere finanziamenti tramite il D., nel 1855 Mazzini lo farà con toni sempre più disillusi, e che ci testimoniano in atto o prossima l'interruzione definitiva del rapporto: "Attribuii al vostro stato di salute il vostro silenzio con me, malgrado l'ultima mia", scriveva il 5 marzo. "L'Italia ha tradito se stessa, il Partito ha tradito l'Italia" (ibid., p. 204).
Intanto le capacità d'amministratore del D. s'applicavano, a partire dal patrimonio suo personale e da quello affidatogli, nei Consigli comunali e provinciali e in molteplici attività locali cui era interessato, e di lì passavano al Parlamento nazionale, in una serie di nessi che sarebbero ancora tutti da ricostruire.
Il Breganze riferisce ad es. di un istituto scolastico sorto a Stradella per iniziativa del D. e per finanziamento dell'Arnaboldi al fine di contrastare l'influenza dei convitti clericali (e per opposizione di questi presto costretto alla chiusura); oppure di una Società enologica patrocinata, sempre a Stradella, dal D. (e nella quale avrebbe investito, perdendovela, "la maggior parte del modesto suo peculio": così il memorialista trasmette una immagine di ristrettezze economiche che gli studi recenti smentiscono, ma che fece allora parte del ritratto sociale dell'uomo).
Più congrua certamente ad illustrare il ruolo svolto dal D. nei nessi che intercorrevano tra interessi locali - privati e pubblici - e attività parlamentare, tra programmi amministrativi, schieramenti politici e iniziative economiche, sarebbe la sua attività nella costruzione della linea ferroviaria Alessandúa-Stradella-Piacenza. Era un settore. quello ferroviario, che avrebbe coltivato per tutta la vita, sottolineandone il rilievo politico ed economico nazionale. In questo caso poi poté a buon diritto presentare gli interessi del suo collegio come quelli generali dello Stato, data la posizione dell'Oltrepò pavese nella rete dei collegamenti che andavano stabilendosi tra il Piemonte e la pianura padana lombarda, e tra Genova e Milano.
Nella primavera del '53 fu relatore alla Camera sul ddl riguardante la linea di collegamento con la rete svizzera, e sostenitore in quel caso di un tracciato diverso da quello voluto dal governo e poi approvato. L'anno seguente partecipò alla commissione che esaminò, relatore Correnti, le concessioni relative ai tronchi tra Alessandria e Stradella e tra Novi e Tortona, di cui auspicava il collegamento con Pavia. In questo senso, rimasto in minoranza su alcune questioni di tracciato, intervenne più volte nella discussione del giugno 1854. Già da due anni, a quell'epoca, egli aveva costituito un "cornitato provvisorio promotore della strada ferrata da Alessandria al ducato di Piacenza" che andava raccogliendo le adesioni degli enti locali interessati e di singoli possidenti. Votata la legge relativa, il 3 ott. 1855 fu quindi costituita l'apposita società anonima e il D., azionista, fu eletto presidente del Consiglio d'amministrazione. Mentre procedevano i lavori, ampliatasi la partecipazione di capitali e la provenienza degli azionisti, nel 1856 la società si trasferi a Torino; il 3 nov. '57 furono aperti i tronchi da Alessandria e Novi a Voghera e l'anno seguente quello fino a Stradella. Per sopraggiunte difficoltà finanziarie, nel '59 la società votò la cessione dell'esercizio al governo e la conversione delle azioni in rendita pubblica. Il D., che credeva nelle possibilità di espansione dell'iniziativa, avrebbe voluto evitare la liquidazione della società e, rimasto in minoranza, ne lasciò la presidenza.
L'impegno parlamentare del D. era in quegli anni il naturale esito di siffatte attività amministrative e ne rimaneva caratterizzato, così nelle forme come nei contenuti. Nel più ordinato svolgersi delle legislature che seguì all'avvio concitato del biennio rivoluzionario, e soprattutto nell'opera riformatrice a cui le indirizzarono i governi cavouriani, il D. trovò il terreno a lui più congeniale. A partire dalla quarta legislatura, nella quale i suoi interventi furono particolarmente numerosi, egli si dedicò ai lavori parlamentari "corne un impiegato". Così lo dipinge il Breganze (pp. 88-90): impegnato per tutta la giornata alla Camera, ne usciva la sera - lui scapolo, ormai residente a Torino - per trasferirsi al caffè con gli amici della politica. Lo occupavano soprattutto questioni economiche e finanziarie (appartenne alla commissione Bilancio nella V legislatura) e intervenne di preferenza sui bilanci, su leggi bancarie e d'imposta, su dogane e trattati, in genere prendendo la parola nella discussione degli articoli, su aspetti tecnici particolari sui quali si dimostrava in particolar modo agguerrito e nei quali, più che nei suoi rari interventi su temi politici generali, trovava spesso argomento per manifestare le proprie posizioni fiberali avanzate, le proprie convinzioni democratiche: così la difesa della giustizia fiscale, o la riaffermazione d'un laicismo deciso e d'una rigorosa difesa della libertà.
Nel gennaio-febbraio 1853, ad e s., affidò la difesa d'un regime fiscale socialmente più avanzato a diciotto suoi brevi interventi sulla legge d'imposta personale e mobiliare, sulla quale il governo aveva accettato le modifiche di segno conservatore apportate dal Senato. Nel maggio del 1854, discutendosi il bilancio degli Esteri, chiese invece una drastica riduzione dello stanziamento per la legazione di Roma facendone occasione per lanciarsi contro la politica delle trattative e contro la Curia romana, che nelle trattative, nelle "tergiversazioni", com'egli disse, aveva il suo secolare strumento di dominio, nemico delle riforme e dell'indipendenza d'Italia. Nei giorni successivi, intervenendo sulla legge di pubblica sicurezza, dette poi prova della sua acribia garantista criticando a più riprese la portata potenzialmente illiberale di alcune norme riguardanti l'autorizzazione all'esercizio delle professioni, l'abolizione del controllo comunale sulle liste delle persone sospettate di furto campestre, l'obbligo imposto ai proprietari di immobili di comunicare alle autorità i nomi degli abitanti o agli imprenditori di elencare i dipendenti, e così via.
Nell'esercizio di questa attività parlamentare, e di una opposizione che è stata detta "burocratica", si manifestavano in modo precoce e definitivo i tratti principali dell'immagine politica del D., a cominciare dal fatto stesso che essa tendesse a risolversi tutta entro l'ambito dell'attività parlamentare e amministrativa. Va notato infatti che né allora né poi dette mai alle stampe scritto alcuno, né lasciò memorie o altre significative elaborazioni concettuali che non fossero contenute nei suoi discorsi o relazioni parlamentari.
Erano discorsi, quelli del D., pronunciati con uno stile oratorio piano, meticoloso, senza impennate, lo stile d'un oratore "poco splendido, ma molto succoso", scrisse il Brofferio; anzi "un parlatore e non un oratore", come precisò il Petruccelli della Gattina. E a voler seguire la distinzione di un suo biografo, se il Brofferio fu tipico tribuno, il D. aveva invece l'eloquenza del debater, "cioè dell'oratore d'affari, del buon disputatore", di colui che non trascina, non commuove, non convince, ma "dotato di sangue freddo insuperabile e di gran pratica degli affari amministrativi e nella tattica parlamentare, discorreva senza paura di sorta, ma senza enfasi e pretensione" (Lewis, pp. 38, 39). Sia pur con concetti e parole diverse, le testimonianze del tempo sono quindi unanimi nel descriverlo come "uoino di analisi più che di sintesi", come scrisse il Petruccelli: "i dettagli gli oscurano la vista delle grandi linee"; un uomo, annotò ancora il Minghetti nei suoi Ricordi, "che ha vivo l'intuito pratico ed il tatto parlamentare" ma che "non ebbe mai alto senso politico".
L'annotazione del Minghetti commentava il voto del D. sulla guerra di Crimea, nel 1855. Di fronte alla politica cavouriana la posizione del D. manifestò, assieme alle incertezze proprie del carattere dell'uomo, più profonde e sostanziali contraddizioni. "Egli che aveva origini, mentalità, spirito, interessi di uomo di centro - scrive a questo proposito il Moscati (p. 433) - era rimasto, - come per scarsa conoscenza di se stesso, lontano da quell'aggruppamento che ora partecipava al connubio". Se infatti la sua profonda adesione alle ragioni degli ordinamenti statutari, la sua estraneità all'azione decisa, la sua vocazione amministrativa erano tutti elementi che rendevano dubbia e combattuta la sua militanza nell'Estrema, le radici più autentiche del suo democraticismo - in sostanza una interpretazione progressista del quadro costituzionale, in senso pragmatico più che ideologico - per esprimersi avrebbero potuto forse trovare più fertile terreno nella collaborazione con l'attivismo cavouriano che nell'opposizione "di schieramento" che egli gli mosse in tutto il decennio. Ne nasceva l'ambivalenza, la disponibilità piena di remore, pronta a manifestarsi come incertezza, che i contemporanei rilevavano, a volte con toni assai sarcastici. Cavour, in questo più rigido di Mazzini, ebbe pessima opinione del D., e pare anzi che lo descrivesse come "un uomo di neve, dominato dall'indecisione; il suo proponimento di oggi è dimenticato all'indomani per una futile circostanza".
Di Cavour il D. fu oppositore anche nei momenti di particolare impegno nazionale, come di fronte alla guerra di Crimea, allorché si schierò contro il trattato franco-sardo-inglese del gennaio 1855, con una posizione non condivisa interamente nemmeno dalla sua parte politica. Di quella scelta avrebbe fatto ammenda di fronte alla Camera almeno in due occasioni; il 21 apr. 1858, dichiarando: "La guerra d'Oriente, o signori, ci ha dato dei risultati che io, confesso schiettamente alla Camera, non mi aspettavo. Io riconosco che la guerra d'Oriente ha acquistato credito ed influenza al nostro paese, e, quello che più conta, ha fatto sì che le nostre armi acquistassero nuovo lustro e nuova gloria" (Discorsi parlamentari, II, p. 386); e il 1º dic. 1862, con una "franca confessione": "Ammetto che non ho votato questa debberazione, e il fatto ha dimostrato che avrei fatto meglio ad appoggiarla" (ibid., IV, p. 246).
In realtà nel 1858 il riconoscimento fu tutt'altro che limpido. Dopo avere, per tutto il '56 e parte del '57, rallentato un poco la sua attività parlamentare, era stato eletto vicepresidente della Camera per la sesta legislatura, appoggiato dallo stesso Cavour. Prendendo la parola su di un composito provvedimento che trattava tra l'altro del reato di cospirazione contro capi di Stato e di governo esteri e di apologia dell'assassinio politico, e quindi consentiva di toccare temi di politica estera, il D. dapprima metteva in guardia dal pericolo d'esser troppo strettamente vincolati da quei provvedimenti alla difesa dell'ordine internazionale nel caso scoppiasse una rivoluzione in un paese vicino (evidentemente nella penisola). Venendo poi a commentare la politica estera di Cavour, da un lato rendeva omaggio ai risultati raggiunti con la guerra di Crimea, dall'altro li screditava attribuendoli al caso, che aveva consentito ai soldati sardi di farsi onore in una guerra per altri versi inutile e inconcludente, che nessuno avrebbe votato se solo se ne fosse previsto l'esito. Perciò, aggiungeva, alla politica diplomatica del governo - la parte "intesa" del programma cavouriano alla quale si dovevano quei risultati - voleva aggiungerne un'altra "sottintesa" ("Questa l'aggiungo io, non la domando al presidente del Consiglio"): "Il programma deve terminare con dire: coll'aiuto dei nostri alleati, usando della nostra influenza, pigliando il momento opportuno, siccome la diplomazia non scioglie definitivamente veruna grande questione, finiremo la questione coll'Austria coll'aiuto di Dio e dei cannoni piemontesi" (ibid., II, p. 388).
Di una siffatta opposizione il D. avrebbe offerto nel 1862 la sua interpretazione affermando che "la Sinistra (...) esagerò i concetti politici del conte di Cavour; ebbe questo torto, che è quello ordinariamente dei partiti più avanzati, di portare le teorie ad un diapason forse più alto di quello che lo consenta la pratica. Si potrebbe anche dire più esattamente che il conte di Cavour ebbe l'abilità ed il senno di far sue e rendere pratiche le idee, le dottrine, le teorie messe avanti e sostenute dalla Sinistra ... La Sinistra, se fu di stimolo, non fu mai d'inciampo al Gahinetto del conte di Cavour e ... anzi svolte fu sua alleata ed aiutatrice" (ibid., IV, p. 234). Pronunciando questa specie di riconciliazione postuma col suo avversario, il D. difendeva nel caso specifico il contributo di Rattazzi, e cioè il valore del connubio, in cui vedeva la realizzazione del medesimo programma che la Sinistra aveva sostenuto con maggiore rigidità. Con ciò ricordava i contenuti della sua sostanziale convergenza col programma cavouriano: "la Sinistra sostenne la dottrina del libero scambio, la libertà di coscienza, la libertà dei comuni, l'armamento del paese, la costruzione di nuove fortificazioni, di arsenali, l'incameramento dei beni ecclesiastici, il matrimonio civile, ed altre simili provvisioni e riforme furono messe innanzi dalla Sinistra, e in parte, se non in tutto, vennero accettate dal conte di Cavour" (ibid., pp. 234 s.). Il che lo induceva a concludere: "Confesso che forse avranno servito meglio il paese coloro che si sono messi a lato del conte di Cavour, ma lo obbediva ad una convinzione sincera e non mi pento d'aver seguito quella via" (ibid., p. 236).
Nel corso degli avvenimenti aveva però dato più volte l'impressione che la sua adesione o la sua opposizione al governo fosse di volta in volta subordinata all'evolversi delle prospettive nazionali. Se nel maggio del 1858 votò contro la concessione di un prestito al governo, dopo averne proposto la riduzione, con considerazioni esclusivamente economiche, il 9 febbraio seguente, allorché fu messo ai voti il prestito straordinario di guerra di 50 milioni, vi aderì con poche entusiastiche parole con le quali identificava il governo, ora presieduto da Rattazzi, con la causa nazionale: "Il nostro Governo è non solo il Governo di questo libero paese che tiene alta la bandiera tricolore; egli ha qui il nerbo delle sue forze materiali, ma egli estende il suo stesso governo sopra forze immateriali; egli ha un impero molto più esteso, egli ha il governo morale delle popolazioni d'Italia (...) Capo morale d'Italia, il Governo del nostro paese è il guardiano dei suoi interessi e delle sue sorti, e il custode delle sue speranze" (Discorsi parlamentari, II, pp. 490 s.). Egli stesso nel 1862 avrebbe risposto citando queste sue parole a chi gli ricordava il voto contrario al prestito. Eppure, giunto l'ultimatum austriaco, quando i deputati furono convocati il 23 aprile per votare i pieni poteri e Rattazzi propose tra gli applausi la procedura immediata e sommaria, fu ancora il D. ad opporsi, e a chiedere una breve dilazione, che gli fu negata, per "non precipitar troppo la discussione".
Si apriva per il D. un periodo di intensa collaborazione governativa. Votati i poteri, i deputati raggiunsero i collegi e il D., recatosi a Stradella - dunque in zona di guerra - vi prese il comando della guardia nazionale e, "in camiciotto azzurro a righettine bianche e berretto di prescrizione" (Breganze, p. 84) aiutò a perlustrare il territorio circostante. Pare che il 2 maggio telegrafasse al commissario della zona di guerra di Alessandria, sen. Plezza, proponendo un'azione militare contro un fortilizio austriaco. Ma il 4 le truppe austriache oltrepassarono il Po e occuparono le vicine Voghera e Broni; egli lasciò allora Stradella e riparò a Torino. Giunsero l'armistizio di Villafranca e la sospensione delle ostilità. Il Rattazzi, ministro dell'Interno nel gabinetto Lamarmora, dapprima nominò il D. nella commissione che doveva studiare la nuova legge amministrativa, poi, il 23 novembre, lo nominò governatore di Brescia.
Come un altro esponente della Sinistra a lui vicino, il Valerio, che assunse il governatorato di Como, il D. diveniva così funzionario del governo sardo. La sede era in quel momento assai importante, e certo egli, all'epoca vicepresidente della Camera, vi era stato destinato per la sua autorevolezza anche se la nomina, alla quale Larnarmora tentò di opporsi, dispiacque negli ambienti moderati. Si trattava di predisporre il passaggio della provincia dall'amministrazione austriaca a quella sarda, di organizzare la vita politica locale in vista delle prime elezioni politiche, e infine di svolgere un'opera ora di controllo e di infiltrazione, ora di sostegno alla fuoruscita di volontari alla frontiera col Veneto. Pare che il D. avesse successo nell'opera amministrativa, dove tra l'altro prese anche alcune iniziative di maggiore ambizione, come lo studio immediato di una ferrovia Brescia-Cremona e della linea telegrafica tra Como e Varese, e che fosse assai sollecito verso il volontariato e il fuoruscitismo; in vari luoghi è ricordata la sua attività nella raccolta per "un milione di fucili" o l'appoggio dato al movimento per l'annessione dell'Italia centrale. Nel bilancio politico tratto alla Camera nel '62 lo stesso D. disse di quel periodo: "io era governatore di Brescia, e potei, senza mancare al mio ufficio, anzi, io credo, adempiendo bene il mio mandato di governatore di quella provincia, rendere un servigio al generale Garibaldi (...) Potei fare acquistare dalla provincia di Brescia 3.000 fucili che servirono ad armare la guardia nazionale, una delle più belle di tutta l'Italia" (Discorsi parlamentari, IV, p. 241).
Dieci giorni dopo il suo arrivo a Brescia - che era avvenuto soltanto il 7 genn. 1860 - il ritorno di Cavour alla guida del governo suggerì al D. di presentare le dimissioni, cosa che fece il 19, avendo tuttavia l'accortezza, nel momento stesso in cui doveva ipotizzare di non avere più la fiducia del governo, di dichiarare di avere assunto la carica al solo scopo di sostenere la causa nazionale, così sottolineando il carattere formale del gesto e lasciando al Cavour la responsabilità di una eventuale ripulsa politica. Il 22 gennaio Cavour respinse le dimissioni, e qualche giorno più tardi i due ebbero un incontro diretto, nel quale il D. confermò la sua fedeltà al governo, anche se è da supporre che entrambi evitassero di dare alla collaborazione il significato di una concessione alle posizioni politiche dell'altro. Nelle settimane seguenti il D. si comportò correttamente da agente del governo centrale, almeno su piano amministrativo e patriottico. Forse spiacquero al Cavour le iniziative prese dal governatore in sede elettorale, dove il D. cercò di conciliare i due contrapposti comitati elettorali, e dopo avere probabilmente tentato di impedirla, favorì poi l'elezione - che fu plebiscitaria - del Cavour stesso nel primo collegio di Brescia, ma non quella degli altri candidati governativi. Sta di fatto che il 26 aprile il D., forse anticipando un richiamo del Cavour, rassegnò le dimissioni motivandole con le difficoltà incontrate in campo amministrativo.
Il fatto che egli avesse indossato l'uniforme di governatore, se poteva aver scandalizzato i moderati e disorientato i democratici, non lo aveva però allontanato dalle file della Sinistra, dove forse il suo prestigio ne usciva accresciuto: è della fine di aprile la proposta avanzata da Bertani a Garibaldi di inserirlo nel comitato direttivo dell'associazione che doveva sostenere le nuove imprese garibaldine in concorrenza con la Società nazionale di La Farina. Negli stessi giorni, si parlava per il D. di un governatorato di Milano. Ma egli soffriva piuttosto la forzata esclusione dalla competizione elettorale e quindi dalla Camera; non essendosi potuto presentare alle elezioni perché governatore, il seggio di Broni era stato vinto non dal suo candidato A. Borella, ma da un deciso avversario, il conte A. Nomis di Cossilla, che poi optò per un altro collegio. Date le dimissioni da governatore, il D. si presentò alle elezioni suppletive del 6 e 10 maggio in ben quattro collegi, riuscendo ovunque eletto: oltre che a Broni, riconquistato contro R. Conforti, a Stradella, che lasciato da Correnti era stato vinto nel marzo da Garibaldi, una candidatura patrocinata dallo stesso D. evidentemente per non dare spazio a un candidato effettivo; e in due dei nuovi collegi lombardi, il IV di Milano e quello di Chiari, vinto nel marzo da Zanardelli, che aveva optato per Gardone. È forse questo notevole successo, e in particolare la vittoria a Chiari, che era in provincia di Brescia, alla base delle diffidenze di Cavour, e del sospetto che il D. avesse usato del governatorato per prepararsi l'elezione. Optò per Stradella, che gli aveva dato 248 voti su 252 votanti.
Il D. si era dunque sottratto per il momento alla collaborazione con il governo senza però rompere con Cavour, e aveva ripreso il suo posto alla Camera in tempo per votare con l'Estrema contro la cessione di Nizza e della Savoia. Si apprestava allora a ricevere un nuovo e più importante incarico presso la dittatura di Garibaldi in Sicilia, e la storia stessa della sua nomina aiuta a definire le funzioni a cui fu chiamato e il modo in cui le esercitò.
Deteriorandosi i rapporti tra Garibaldi e il rappresentante sardo La Farina, che il 7 luglio fu poi arrestato e espulso dall'isola, da entrambe le parti si aveva interesse ad accordarsi sul nome di un nuovo inviato sardo, al quale Garibaldi avrebbe tra l'altro potuto affidare il governo civile dell'isola data l'incerta posizione di Crispi, che il 27 giugno fu costretto alle dimissioni. Per quell'incarico era già stato fatto il nome del D., che da parte sua ai primi di luglio scriveva al Bertani: "Amerei (...) che il Generale sapesse che, appena tornato alla Camera, io ho detto a Farini che, se il Governo voleva mandarmi in Sicilia, io ero pronto ad andare (...). Io insomma ho fatto quanto doveva e se non mi trovo in Sicilia presso di lui non è colpa mia". Non sappiamo quanto il D. fosse noto a Garibaldi, che sicuramente non aveva mai incontrato e del quale era comunque considerato un apprezzato seguace, oltre ad essere noto come esponente autorevole della Sinistra ed insieme persona capace di porsi "al di sopra delle parti": dopo che Bertani lo aveva contrapposto alla Società nazionale, a fine luglio furono i comitati romagnoli della Società stessa a offrirgli la presidenza al posto di La Farina, mentre anche il gruppo torinese del partito d'azione - Bargoni, Regoli, Macchi - lo proponeva ora per la missione siciliana.
Il 2 luglio Persano, sollecitando da Palermo l'invio di "un uomo energico, capace ed ordinatore", comunicava a Cavour che Garibaldi aveva inviato il conte Trecchi con tre nomi per la carica di commissario regio: il D., il marchese Pallavicino e il gen. Brignone. Negli stessi giorni, il re aveva invitato Farini a richiamare al più presto La Farina, manifestando l'intenzione di inviare in sua vece L. Valerio. La richiesta di Garibaldi mise dunque il governo in un bel pasticcio", come scriveva Cavour a Farini: "Interpellato dal Re, risposi che avrei preferito di gran lunga Valerio, ma che non credeva si potesse ricusare la persona designata dal Generale. Il Re fece dapprima chiamare Valerio. Questi con una schiettezza che l'onora, fa un quadro tale di D. che il Re esita". Mentre veniva inviato l'Amari a Palermo per parlamentare col dittatore, Cavour rispondeva al Persano manifestandogli i termini della sua opinione perché ne facesse argomento presso Garibaldi. "D.", scriveva tra l'altro il Cavour, "è stato mazziniano prima e dopo il '48. Era non è molto in corrispondenza con Mazzini, e rifuggì sempre dal disdire in modo solenne e pubblico il Profeta. Di più, sotto forme austere, ed ad onta di modi che parrebbero indicare un carattere riàoluto, D. è un uomo indeciso, irresoluto, che mal sa affrontare l'impopolarità. Ha ingegno ma difetta di studi pofitici che valgano ad abilitare di giudicare dell'opportunita degli atti che sono d'indole internazionale. Sarebbe un ottimo esecutore sotto un capo deciso. Riuscirà un mediocrissimo direttore in un gran movimento politico". E il giorno dopo, più sbrigativamente, a Ricasoli: "Garibaldi, accorgendosi di non saper governare, chiede al Re in ajuto D. Il Re voleva mandargli Valerio. Il primo fu Mazziniano ed è tuttora cercatore di popolarità. Il secondo ha meno ingegno ma più onestà politica". Il rilievo forse sproporzionato, anche nel suo carattere tutto negativo, che Cavour attribuiva al D. nel momento in cui si sentiva costretto a rimettere ogni scelta a Garibaldi, ce lo fa comprendere quanto scriveva a Nigra il giorno 12: "Si un changement de Ministère pouvait rétablir l'harmonie entre Garibaldi et Turin il faudrait peut-étre songer à l'opérer. Mais qui mettre à notre place? ... [Garibaldi] montre une grande confiance dans Depretis. Mais Depretis ne serait tolléré ni par le pays ni par l'Europe". Il D., informato nel frattempo di tutta la trattativa, confidava: "Se Garibaldi, com'è probabile, si arrende ai desiderii del Governo, io tornerò a Stradella a fare il contadino, e a raccoglier denari per la Sicilia". Ma Garibaldi non si lasciò convincere: "Si dichiarò amico di Valerio - così riferiva Persano - ma non lo tiene adatto al paese". Il 14 luglio, al ricever conferma dell'irremovibilità di Garibaldi, Cavour convocò dunque il D. per farlo partire immediatamente. "Ritenga quanto le scrissi di D.", comunicava al Persano, "è uomo debole che si lascierà strascinare. Se si rivolge a lei per appoggio, non glielo neghi, senza però riporre in lui cieca fiducia".
Il 15 luglio il D. partiva per Genova, dove la mattina del 17 si imbarcava sul "Provence" diretto in Sicilia. Impostogli solo dalla necessità di non contrariare Garibaldi dopo l'infelice esperimento di La Farina, il D. non godeva affatto della stima di Cavour, che pure doveva contare su di lui per convincere il generale a concedere l'annessione dell'isola. Da qui le riserve con cui Cavour gli concesse la sua fiducia: "Mi lusingo che il sig. Depretis", scriveva il 18 luglio, "partito ieri sera per Palermo dietro invito del Generale, riuscirà a ristabilire l'accordo fra lui ed il Ministero; in caso contrario, lo abbandoneremo, qualunque possano esserne le conseguenze". Partendo, il D. portò con sé un cifrario speciale per comunicare con Torino, e secondo la sua stessa testimonianza avrebbe anche avuto, da utilizzare al momento opportuno, un decreto speciale che lo nominava commissario straordinario dei re in Sicilia. La cosa non è altrimenti documentata e non venne mai alla luce, ma il D. fupoi comunemente chiamato "commissario regio" e come tale fu considerato.
Arrivò a Palermo la sera del 20 luglio, il giorno in cui si combatteva a Milazzo, e fu ricevuto da Crispi col quale subito si reimbarcò per raggiungere il generale al campo e sempre insieme al Crispi incontrò Garibaldi, che con decreto del 2210 nominò prodittatore ("L'avv. D., deputato al Parlamento nazionale, è nominato prodittatore. Egli eserciterà tutti i poteri conferiti al Dittatore dai comuni della Sicilia"). Immediatamente mise mano al riordino dell'amministrazione. Ma già nell'incontro di Milazzo s'erano delineati i ruoli e le rispettive posizioni che avrebbero condizionato la sua missione. La stessa sua alacrità nel ristabilire l'ordine mirava infatti a inserire le strutture amministrative dell'isola negli ordinamenti sardi e doveva quindi preparare, e insieme avvalersi, di una pronta annessione. Ma se Garibaldi lo delegò senza riserve e quasi distrattamente alle cure del governo ("aveva persino dimenticato, alla partenza per Milazzo, di aver chiamato D. da Torino", riferiva Cordova, e Persano: "ebbi tempo di fargli dare disposizioni riguardanti D., altrimenti scordava; sono però vaghe ..."), gli chiarì anche subito di voler rinviare ogni discorso circa l'annessione almeno al momento in cui egli avesse raggiunto il continente, dopodiché l'annessione avrebbe potuto esser promulgata anche per decreto. Questa precisazione pare che fosse richiesta dal Crispi come condizione per rimanere, come Garibaldi voleva, al fianco del Prodittatore. Garibaldi non voleva insomma precisamente ciò che Torino si attendeva dal D., e che era poi la soluzione del maggior nodo politico del momento, una annessione cioè che salvasse alla Corona la conquista della Sicilia dalle possibili conseguenze di una avanzata garibaldina. Tra queste, poco considerata dal generale ma molto dal suo entourage, era una evoluzione democratica del moto, possibilità che era legata anche ai procedimenti e agli uomini con i quali si poneva mano al riordino del governo, nonché al modo in cui, al momento opportuno, si fosse proceduto all'annessione. Su queste faccende vigilava il Crispi, che era ben addentro nella politica isolana e a partire dal 3 agosto tornò al dicastero dell'Interno. Il D. fu accolto con generale simpatia, e all'inizio conquistò addirittura i più vicini corrispondenti di Cavour come l'Amari il Persano (che lo descrisse a Cavour come "uomo rispettabile di ottimi sentimenti, ordinatore di sommo ingegno, onesto, devoto al Re ed a V. E.") e il Cordova ("D. è accetto a tutti. Il suo aspetto (...) ispira soggezione agli importuni, la parola mite gli concilia i cuori"). Era soprattutto l'impegno amministrativo del D. a consolare il Cordova, che già il 24 luglio riferiva a Cavour: "D. dispose studi immediati (e già siamo all'opera) per la pronta: Formazione dei bilanci; Applicazione alla Sicilia della legge comunale e provinciale; Istituzione di una commissione legislativa temporanea; Relazione sul debito pubblico; Applicazione del codice penale militare; Riforma del codice penale e di procedura penale; Legislazione dei lavori pubblici; Ordinamento de' tribunali; Legge sul sistema monetario". Egli agì in queste materie secondo la prassi - che fu consueta in tutto il processo di unificazione, e che creò malcontento in Sicilia non meno che altrove - di estendere le leggi sarde, appena adeguandole alla situazione; un'opera che non gli pose problemi di comprensione e di conoscenza, e a compier la quale il D., diffidente degli elementi locali, chiamò collaboratori dal Settentrione, come B. Casalis e A. Mordini. Tra le altre cose, furono così iniziati il riordinamento dell'amministrazione militare, della marina da guerra e della pubblica sicurezza, fu istituita una sezione temporanea del Consiglio di Stato, applicato il sistema monetario italiano e riaperta la zecca di Palermo in vista del prestito che fu poi emesso il 27 agosto. Fautore di uno sviluppo ferroviario quanto più rapido possibile, il D. non ebbe esitazioni nell'annulIare la concessione data da Garibaldi all'Adami ("qui siamo tutti d'accordo", scriveva al generale il 6 agosto, "che non era ammissibile; che gli interessi dell'Adami erano inconciliabili con quello dello Stato") e il 17 agosto istituì una commissione consultiva per le strade ferrate.
Scrivendo a Garibaldi il 6 agosto, il D. riferiva con compiacimento e ottimismo della sua intensa azione amministrativa, e in particolar modo del decreto con cui il 3 agosto aveva dichiarato lo statuto sardo legge fondamentale dell'isola - e imposto il giuramento di fedeltà agli impiegati pubblici - rinviandone però l'entrata in vigore a epoca da destinarsi. "Io sono persuaso, scriveva, che il paese andrà sempre più rassicurandosi. Pubblicata la legge provinciale e comunale che è il vero fondamento della pubblica amministrazione, ed ordinata la sicurezza pubblica in tutta l'isola, avremo ricondotta la quiete nelle popolazioni e riordinati i servizi potremo non solo esigere regolarmente le imposte ma accrescerle occorrendo, e realizzare nel paese se non tutto almeno una parte del prestito".
Proclamazione dello statuto e unificazione amministrativa, ordine pubblico e risanamento finanziario: questi gli elementi della mediazione tentata dal D. tra Garibaldi, al quale chiedeva l'assenso all'annessione, i moderati locali, ai quali offriva il ristabilimento defl'ordine, e il govemo di Torino, al quale ripetutamente chiese carabinieri e soldi ("il denaro è uno dei più decisi annessionisti", avrebbe poi dichiarato alla Camera l'11 ottobre).
Ma nonostante i successi ottenuti sui vari punti del programma, l'operazione complessiva fallì. Già la proclamazione dello statuto per decreto (e non per voto popolare, comunque espresso), e poi la formula del rinvio - pare suggerita da Crispi - furono criticati negli ambienti moderati dell'isola, che sempre più rimproveravano al D. di non sapersi sottrarre al controllo di Crispi, o di non volerlo fare, per sottile calcolo politico, come temeva il Cordova, che per questo rifiutò un dicastero offertogli dal D. L'ipotesi di una più o meno calcolata debolezza del D. nei confronti di Crispi sembrava al Cordova confermata anche da alcune scelte amministrative, come la nomina dei governatori che tenne dietro la pubblicazione della legge comunale e provinciale avvenuta con decreto del 26 agosto. Probabilmente, la scarsa conoscenza che aveva il D. della società locale, e che lo stesso suo progetto di "dittatura amministrativa" non lo aiutava a capire, lo indebolivano in queste materie di fronte a Crispi, il quale minava d'altra parte la sua reputazione presso Garibaldi ("D. è venuto in Sicilia per continuare l'opera di La Farina. Fingendosi vostro amico e a voi devoto, si è cinto d'uomini a voi e a me completamente ostili, affin di preparare quella annessione immediata, che è il desiderio del barattatore di Nizza").
Certo è che l'impossibilità di convincere Garibaldi all'annessione indebolì di molto la fiducia di cui egli godeva presso i cavouriani, e ciò soprattutto dopo il 19 agosto, quando il passaggio di Garibaldi sul continente sembrò realizzare la condizione fin lì posta per proclamare l'annessione. All'annessione d'altra parte il governo di Torino sempre più chiaramente subordinava l'invio di aiuti, e al posto dei carabinieri che egli chiedeva, il D. vedeva arrivare gli agitatori e i volontari dirottati in Sicilia dallo stesso governo sardo per tenerli lontani dal fronte. All'Amari, che da parte del D. gli sollecitava aiuti, il Cavour rispose: "La Sicilia domanda molte cose, ma se essa vuole davvero aiuti dal Piemonte faccia o per dir meglio, s'incammini per fare la pronta annessione, e tutto avrà". Un anticipo di mezzo milione di lire, mandato di lì a poco per tramite di G. B. Bottero, era infatti accompagnato da direttive precise, praticamente da un ultimatum.
Scrivendo a Cavour il 1º settembre, il D. ribadiva il suo proposito di bandire il plebiscito, ma denunciava anche "l'abbandono nel quale fui lasciato per quaranta giorni". "Se il Governo m'avesse ajutato come m'era stato promesso, aggiungeva, le cose della Sicilia sarebbero in assetto ben migliore, la annessione sarebbe a quest'ora un fatto compiuto". Di fatto, la situazione gli sfuggiva ormai di mano e in quei giorni concitati di settembre, in cui il D. appariva ormai stanco e svuotato, si consumava il fallimento della sua missione. Scrisse nuovamente a Garibaldi per convincerlo. La lettera raggiunse il generale al campo, tra Lagonegro e Sala Consilina, e ricorda Bertani che Garibaldi aveva già dettato la sua autorizzazione ("Caro D., fate l'annessione quando volete"), quando lo stesso Bertani lo convinse a non farlo. Il 5 settembre, quando il diniego di Garibaldi raggiunse Palermo, la situazione era divenuta ancora più difficile per i contrasti tra Crispi e gli emissari di Cavour, tra i quali invano il D. tentava di mantenersi equidistante. Le dimissioni di Crispi e con lui dell'intero gabinetto gli impedirono di partire subito per il campo. Scrisse ancora, questa volta offrendo le sue dimissioni, e il 9 Garibaldi (per lui in realtà Bertani) gli rispose invitando i siciliani alla pazienza ("Voi comprendete che l'annessione significa lo staccare un paese dalla solidarietà rivoluzionaria con gli altri") e il 10 proclamò ai Siciliani che il D., rappresentante non solo suo ma "della santa idea nazionale", avrebbe annunciato l'annessione determinandone l'epoca, "fedele al mio comando e agli interessi d'Italia", ma "sulle vette del Quirinale". L'11 settembre il D. partì per Napoli insieme al Crispi. A Napoli tentarono ancora di convincerlo a tornare a Palermo. Ma il 14, dopo un ennesimo rifiuto alle sue richieste, rassegnò ancora le dimissioni, che questa volta furono accettate.
Si spezzava così il collegamento ufficiale tra il governo di Torino e la dittatura siciliana. Il 17 il generale stesso andò a Palermo a insediarvi il Mordini, proclamando di voler incontrare Vittorio Emanuele a Roma per marciare di là sul Veneto. Era il momento culminante del conflitto tra Garibaldi e Cavour, e il D., che ne era rimasto travolto per qualche giorno credette ancora di poter giocare le sue carte negli spazi aperti da quel contrasto. Si trattenne a Napoli, dove erano tutti i maggiori esponenti delle varie correnti democratiche, da Mazzini a Cattaneo, da Saffi a Ferrari. Nella gran confusione, c'era addirittura chi prevedeva che fosse il D. a sostituire Cavour se questi avesse ceduto a Garibaldi. Ma alcune lettere di Casalis e di Cordova al Cavour, scritte allo scopo di chiedere per lui un sussidio finanziario, affermavano che egli voleva conservarsi nell'intimità del generale nel momento in cui "le cose precipitano verso uno scioglimento" per servirvi ancora la causa annessionistica coltivando i rapporti con quegli esponenti garibaldini che non avrebbero seguito il generale contro Cavour. Pare d'altronde che egli accarezzasse l'idea di tornare in Sicilia come commissario regio, ed effettivamente c'era tra gli annessionisti a Palermo chi aveva progetti del genere. Si imbarcò a fine mese per partecipare al dibattito parlamentare sulle annessioni, e quando da Livorno telegrafo che lo si aspettasse, il Cavour annotò: "temo qualche tranello del quale si faccia, sciente od isciente, istrumento quel tentennante, fallito tribuno".
Ma ancora una volta il giudizio di Cavour era eccessivamente malevolo e i suoi timori infondati. Il D. aveva agito lealmente in Sicilia per realizzare un accordo tra piemontesi e garibaldini, e se poi tardò qualche giorno a prender partito misurando le occasioni che si offrivano, l'evolversi stesso della situazione a favore di Torino decise per lui. La discussione nella quale Cavour sottopose al Parlamento la sua politica ne segnò il trionfo e diniostrò la debolezza dello schieramento di Sinistra. Anche il D., parlando in chiusura della discussione l'11 ottobre, annunciò quindi, come la stragrande maggioranza dei deputati, il suo voto favorevole, e soltanto ne approfittò per contestare La Farina sottolineando le difficilissime condizioni in cui aveva trovato la Sicilia, e quindi per difendere la sua amministrazione e con essa la decisione del generale di "non precipitare" l'annessione.
Passati quei tempi eccezionali, il D. ritrovò il suo posto nell'arena parlamentare, che si era fatta intanto più larga e autorevole. Egli stesso, che era già membro tra i più noti della deputazione subalpina e forte ora della sua collaborazione con i governi dell'Unità nazionale e insieme intimo di Garibaldi, doveva facilmente primeggiarvi. Nell'ambito poi dell'opposizione, il D. rappresentava una delle voci più aperte alla collaborazione governativa anche se distinta dalla "opposizione amministrativa", più possibilista e vicina al re, guidata da Rattazzi. Fu al centro del processo di riorganizzazione del partito tentato alla fine del '61, quando dopo varie riunioni il gruppo parlamentare lo elesse suo presidente, con Crispi e Zanardelli vicepresidenti, Saffi e Cadolini segretari. Il tentativo non fu in realtà molto efficace, e la Sinistra era ancora in cerca di una guida unitaria quando, nel marzo seguente, caduto Ricasoli, il Rattazzi formò un governo con la Destra piemontese e l'ala garibaldina della Sinistra. In quell'occasione il D. tenne i contatti con Garibaldi e si adoprò non solo perché riuscisse la coalizione ma anche per portarvi compatta la Sinistra che egli andava riorganizzando. L'operazione non riuscì, e il D. soltanto entrò nel gabinetto, al ministero dei Lavori Pubblici, quasi come garanzia a Sinistra nonostante il parere contrario della maggior parte del partito. Scelse come segretario generale G. Guerzoni, che seguì poi Garibaldi in Sicilia.
Come ministro, entrò in trattative con diversi gruppi per la concessione delle ferrovie meridionali, e il 15 giugno firmò la convenzione con i Rothschild-Talabot. Presentata il giorno successivo alla Camera e approvata in commissione, la convenzione stava per essere discussa in aula quando fu presentata la proposta Bastogi. Il D. parlò allora in difesa del proprio operato e della convenzione, sottolineando la solidità del gruppo interessato e rifiutando di considerare preferibile la proposta Bastogi solo perché italiana, anche se più onerosa per lo Stato ("se vogliamo dare più alle società italiane sol perché sono italiane, allora quali regole avremo nelle opere pubbliche? Che sorta di teoria mettiamo in campo?": così il 4 ag. '62). Finì tuttavia per accettare la convenzione con Bastogi e per enfatizzare anch'egli "questo fatto notevolissimo di una compagnia nazionale, che si forma per la prima volta per costruire una gran rete di strade ferrate italiane" (cosi parlando al Senato il 18 agosto) quando poté affermare che le modificazioni apportate in itinere all'accordo lo avevano reso conveniente quasi quanto il primo.
Data la posizione che il D. occupava nel ministero Rattazzi - come di rappresentante della Sinistra garibaldina -, la crisi d'Aspromonte colpì in modo particolare la sua posizione personale e il suo prestigio. Al termine della lunga e sofferta discussione parlamentare che seguì quei fatti e che si concluse con le dimissioni del gabinetto, il 30 novembre e il 10 dic. 1862 parlò a difesa sua personale, e di Rattazzi e della coalizione, con toni a momenti impetuosi e drammatici a lui del tutto inconsueti, specie quando, giunto a commentare i fatti di Sarnico e di Aspromonte, riaffermò la sua devozione a Garibaldi ma, aggiunse, "l'amicizia ha i suoi diritti, ma ha anche i suoi confini, e questi sono là dove cominciano i doveri verso il Re e verso la patria".
Poiché molti indicavano come causa prima del disastro gli accordi poco chiari intercorsi tra la Destra e la Sinistra garibaldina, egli doveva innanzi tutto allontanare il sospetto d'esserne stato in certo senso il pegno: "è duopo ch'io dica alla Camera che credo di non aver mai assistito neppure una volta a colloquii che ebbero luogo tra il generale Garibaldi e l'onorevole Rattazzi"; "entrando nel Gabinetto, non vi poteva entrare e non vi sono entrato se non come doveva un uomo politico, colle sue convinzioni, col suo passato, colle sue opinioni senza farne abdicazione in mano a nessuno e nemmeno senza farne abdicazione in mano al generale Garibaldi". La coalizione governativa, disse il D., era piuttosto lo sviluppo di una politica di "conciliazione" di stampo cavouriano, una politica che egli veniva così a lodare - pronunciando il già citato bilancio autocritico di tutta la sua opposizione a Cavour - per cercarvi legittimazione alle scelte di Rattazzi e sue proprie.
La sua preminenza in seno alla Sinistra era per il momento gravemente compromessa. L'anno successivo la Sinistra parlamentare eleggeva suo presidente il Crispi, che andava rafforzandosi anche grazie alla netta dissociazione dalle posizioni repubblicane e rivoluzionarie, ma che pur sempre rappresentava, rispetto a quelle del D., posizioni più a sinistra.
Rimasto così in disparte sulla scena politica nazionale nel corso dell'VIII legislatura (1863-65), il D. partecipò regolarmente ai lavori parlamentari, tra l'altro intervenendo sulle leggi di unificazione amministrativa che furono allora discusse e alle quali aveva sempre prestato particolare attenzione.
Membro della commissione che aveva elaborato la legge del 1859, egli l'aveva poi applicata in Sicilia e la riteneva "forse la migliore e la più liberale delle leggi amministrative dell'Europa continentale", come ebbe a dire alla Camera il 5 luglio 1861 intervenendo sui disegni Minghetti che aveva esaminato come membro della commissione. Sostenitore di larghe forme di autonomia locale, del suffragio universale amministrativo e dell'elettività delle cariche locali, egli si era però dichiarato nettamente ostile - forse anche'in base alla sua esperienza siciliana - a ogni forma di regionalismo, e quindi contrario ai progetti Minghetti e fautore semmai di un potenziamento dell'istituto provinciale. Per gli stessi motivi, e sempre ribadendo la sua ostilità per il decentramento burocratico e in genere per l'ingerenza dello Stato e degli apparati burocratici, egli era contrario all'aggregazione forzosa dei piccoli comuni, oppure a sottrarre alla deputazione provinciale elettiva la tutela sui comuni. Riprese queste argomentazioni intervenendo, nel luglio del '64, sul progetto Peruzzi, e poi, decaduto quello, annunciando nel gennaio seguente il voto contrario sulla legge di unificazione amministrativa, che nella parte riguardante la materia comunale e provinciale egli riteneva, nei molti dettagli in cui si discostava da quella del 1859, meno liberale di quella, che con più vantaggi avrebbe potuto, egli disse, essere migliorata negli aspetti tecnici e resa più liberale negli aspetti politici. Particolarmente impegnati, in quello scorcio di legislatura, anche gli interventi che il D. pronunciò tra il marzo e l'aprile 1865 sul riordinamento delle reti ferroviarie del Regno.
Ritrovò il suo posto all'opposizione nella campagna elettorale del 1865 e il 7 dicembre all'aprirsi della IX legislatura, venne eletto vicepresidente della Camera grazie agli sforzi per riorganizzare le proprie file compiuti dalla Sinistra, che puntava sui nomi di Crispi e di De Luca ma contribuì anche all'elezione del D., candidato del "terzo partito" di Rattazzi. Il 19 febbr. 1866 fu quindi eletto presidente della speciale commissione scelta dalla Camera a scrutinio segreto e a maggioranza assoluta per esaminare il piano di riforma delle imposte dirette presentato dal ministro Scialoia. La relazione, a firma Correnti, fu presentata il 24 aprile e la discussione in aula si svolse tra il 7 maggio e il 6 giugno. Di particolare impegno, tra gli interventi del D., furono quelli del 16 maggio sulla tassazione dei titoli della rendita pubblica e del 22-23 maggio sulla tassa straordinaria sull'imposta fondiaria.
In quei giorni il D. era in predicato per tornare sui banchi del governo poiché, in previsione che la guerra con l'Austria destinasse al fronte il presidente del Consiglio in carica gen. La Marmora, Ricasoli aveva avuto dal re l'incarico di sondare la possibilità di dar vita a un ministero a più larga base e che perciò includesse esponenti della Sinistra. Si parlò in quei giorni del D., di Crispi e di Mordini, e Ricasoli offrì infatti il ministero di Agricoltura, Industria e Commercio al Mordini, e al D. la Marina. L'inserimento di esponenti di Sinistra, espressamente richiesto dal re e da Cialdini, era però inteso dal Ricasoli come sostanziale loro subordinazione alla Destra, e dalla Sinistra invece come forma di collaborazione paritaria, di "conciliazione nazionale". Perciò gli esponenti interpellati della Sinistra, il D. compreso, rifiutarono la proposta, e all'ultimo momento accettò il solo D., "il quale tramezza il centro-sinistra colla Sinistra", come spiegò G. Dina sull'Opinione, fornendoci una buona formula per definire la sua posizione intermedia tra il "terzo partito" di Rattazzi e la Sinistra parlamentare pura.
Il ministero Ricasoli si costituì il 20 giugno 1866, il giorno stesso in cui iniziarono le ostilità con l'Austria. Comunicando la propria nomina al conte Persano, comandante della flotta, il D. gli assicurava il pieno appoggio, e il 21 ordinava alla flotta di lasciare Taranto e di dirigersi verso la base di Ancona, dove egli stesso si recò segretamente a riceverla il 25, per conferire con Persano.
Il ruolo svolto dal D. nei successivi trenta giorni, quelli che portarono a Lissa, ci e noto nei molti dettagli rilevati nel processo e nelle polemiche che seguirono. Nessuna responsabilità egli ebbe, né poteva avere, né mai gli fu attribuita, nelle cause più remote del disastro, riguardanti l'organizzazione della flotta o la nomina di Persano. Egli stesso nelle note autobiografiche oggi smarrite avrebbe scritto: "Questa data [della costituzione del ministero] dimostra che non ebbi parte alcuna nella nomina dei Comandanti della flotta e che certo non poteva far altro che provvedere come amministratore a che la flotta non mancasse di mezzi, e tutte le forze si riunissero". La determinazione che egli mise nel raggiungere sollecitamente questi obiettivi, e poi nel sospingere la flotta all'azione, può essergli addebitata solo perché si accompagnò ad una sicurezza di sé, dei propri pareri e orientamenti -anche strategici e tecnico-operativi - che era senz'altro eccessiva, e comunque destinata ad avere effetti perniciosi di fronte da un lato al difetto di coordinamento nella conduzione militare e politica della guerra, dall'altro agli atteggiamenti poco lineari di Persano. L'ingerenza diretta nella gestione della flotta, dei suoi movimenti e operazioni non poteva infatti che concretizzarsi in direttive generiche, facilmente eluse e che però toglievano la responsabilità ai comandi militari.
I primi giorni infatti il D. esortò l'impaziente Persano alla calma e alla preparazione, ma già ai primi di luglio, allorché Napoleone III propose la cessione del Veneto e il governo italiano volle che una vittoria anticipasse e rafforzasse la conclusione del conflitto, dapprima telegrafò al Persano "ragioni gravissime consigliano affrettare completo allestimento flotta (...) urge compiere allestimento", e subito dopo ordinò di muoversi immediatamente per cercare la squadra nemica, attaccarla e distruggerla, e contemporaneamente di "rendersi padroni dell'Adriatico". La flotta compì una inutile crociera tra l'8 e il 13 luglio, al termine della quale il D. fece ad Ancona una rapida indagine tra i vari comandanti - dalla quale il Persano uscì certo indebolito, ma confermato nell'incarico - e dopo un consiglio di guerra riunitosi a Ferrara il 14 luglio - e dal quale venne a Persano l'"ordine perentorio" di far cessare l'inazione della flotta, ma nessun vincolo operativo - tornò ad Ancona, incontrò vari ufficiali, nuovamente sollecitò Persano e concordò con lui l'obiettivo di Lissa, dando nuova prova - così sostengono i suoi critici - di ingerirsi eccessivamente e insieme confusamente nella condotta delle operazioni.
Lo scontro di Lissa fu sentito come una catastrofe per il governo e il paese. Il D., che al ricevere le prime ambigue notizie aveva trasmesso le sue felicitazioni al Persano, gli chiese sempre più insistentemente una dettagliata relazione sugli avvenimenti: iniziava così la laboriosa ricostruzione che sarebbe poi finita di fronte ai giudici. Nei mesi seguenti, tentò di avviare diverse riforme nell'amministrazione della Marina, tra l'altro trovandosi in un conflitto di attribuzioni col ministro dei Lavori Pubblici sul servizio delle spiagge e dei porti che lo indusse a presentare le dimissioni a Ricasoli, poi, ritirandole, il 10 ottobre e di nuovo il 2 dicembre. Lasciò comunque il ministero della Marina allorché fu chiamato a sostituire alle Finanze il dimissionario Scialoja, il cui progetto sulla liquidazione dell'asse ecclesiastico incontrava forte ostilità. In una congiuntura particolarmente difficile per le finanze italiane, ministro solo dal 7 febbr. al 10 apr. 1867, quando cadde il governo, il D. non fece molto. Il 10 aprile presentò comunque un disegno di legge con misure a favore dei redditi minori di ricchezza mobile e la riduzione dell'aliquota della tassa straordinaria sull'imposta fondiaria, e nei mesi seguenti, escluso dal governo Rattazzi, fu però da questi incaricato di presiedere una commissione straordinaria per lo studio della riforma del sistema tributario.
Nell'ottobre, il ministero Rattazzi si ritirò, incapace di sostenere la situazione creatasi con la nuova iniziativa garibaldina nello Stato pontificio. Allorché il 21 ott. 1867 il re incaricò Cialdini di formare un ministero che sul piano internazionale evitasse l'intervento francese nel Lazio, e sul piano interno coinvolgesse la Sinistra moderata, questi si rivolse tra gli altri al D., che avrebbe destinato alle Finanze. Il tentativo fallì, e mentre si formava un ministero "di corte" presieduto da Menabrea, l'insuccesso della spedizione garibaldina aprì una fase di riorgaffizzazione della Sinistra. Alla ripresa dei lavori parlamentari il "terzo partito" di Rattazzi si fuse con la Sinistra, aprendo così uno spazio che per breve tempo parve consentire la formazione di un nuovo gruppo di Sinistra moderata, nel quale confluirono alcuni ex-seguaci di Rattazzi, indipendenti di centro, e il gruppo del Diritto che si staccava così dalla Sinistra. La frattura fu sottolineata dalla contrapposizione al Diritto del nuovo giornale crispino, La Riforma, nato nel giugno. Questo "nuovo terzo partito" di cui fecero parte insieme al D., Mordini, Bargoni, Cadolini, Correnti, al momento dell'elezione del presidente della Camera fece confluire i suoi voti sul D., che ebbe 45 voti contro 1165 di Lanza e 1141 di Rattazzi. Il risultato parve incoraggiante; ma il gruppo, che fu chiamato "degli agostiniani" dal nome di tre dei suoi capi, il D., il Plutino e il Bertani - ma nelle cronache fu detto anche degli "equilibristi", e dalla Sinistra fu tacciato di scissionismo -, non ebbe vita robusta. Diretto da lontano da Mordini, cercò di guadagnare un suo spazio chiedendo al ministero una politica di riforme in cambio del proprio appoggio ai provvedimenti finanziari di Cambray-Digny. Ma nelle votazioni succedutesi sui vari provvedimenti, come il macinato e la Regia cointeressata dei tabacchi, la compattezza del gruppo presto venne meno. Il D. stesso non votò la Regia il 6 ag. 1868, con ciò lasciando di fatto il gruppo. L'anno seguente entrò nella Sinistra parlamentare ora presieduta da Rattazzi, abbandonando definitivamente l'ipotesi a lungo e in vario modo perseguita di poter costituire un polo d'attrazione riformista esterno al partito.
In quel periodo la presenza del D. sulla scena politica nazionale fu meno incisiva. Nel '68 lo sappiamo membro della commissione d'inchiesta sulla Sardegna. Nella X legislatura (1869-'70) non prese la parola se non per dimettersi da deputato, il 27 luglio 1870, insieme a Valerio e a Consiglio, per dissensi sulla politica ferroviaria del governo, e nella XI (1870-'74) parlò soltanto, in più occasioni, come relatore del bilancio dei Lavori Pubblici. Sempre impegnato nel sostenere lo sviluppo ferroviario (il settore meno documentato della sua attività, e dove uno studio riempirebbe la maggior lacuna), in questi anni il D. vi dedicò i suoi sforzi anche come presidente del Consiglio provinciale di Pavia.
Anche dopo l'unificazione non era mai venuto meno, infatti, il suo impegno negli enti locali, che pure non è stato sufficientemente studiato. È documentata, ad es., la sua presenza, come vicesindaco, nel Consiglio comunale di Mezzana Bottarone tra il 1859 e il 1862, mentre a partire dal 1864 e fino al 1880 presiedette il Consiglio provinciale di Pavia, la provincia alla quale dal '59 erano aggregati Stradella e i territori contigui. In quella sede il D. si impegnò soprattutto per dotare la provincia di una fitta rete di comunicazioni, e in particolare per la costruzione della linea ferroviaria Stradella-Broni-Bressana-Mortara-Vercelli, proponendo per il finanziamento dei consorzi tra enti locali che poi affidassero alla società Alta Italia la costruzione.
Il 3 giugno 1873 moriva U. Rattazzi. Il 5 il D. ne dava l'annuncio alla Camera con brevi parole con le quali lodava, oltre che il grande cittadino, oltre che la guida della Sinistra, "un fratello primogenito, un soldato veterano" accanto al quale egli aveva mosso i primi passi nelle lotte parlamentari e accanto al quale si era ritrovato negli ultimi tempi. Anche Crispi dettò quel giorno parole da protagonista e da erede: era palese la concorrenza tra i due esponenti democratici alla guida del partito. Crispi era in quel momento più in vista del D., e certo meglio caratterizzato politicamente; fu scelto il D., che peraltro avrebbe dovuto ancora consolidare la sua guida di fronte alla costellazione delle personalità, dei gruppi e degli interessi che la trasformazione dei partiti e degli schieramenti storici andava liberando. Per il momento, egli rimaneva esponente del gruppo più moderato espresso dal Diritto. Non a caso, quando questo giornale dette la notizia che il comitato dell'opposizione parlamentare aveva nominato all'unanimità e a scrutinio segreto suo presidente il D., dapprima Nicotera e poi la crispina Riforma precisarono che egli era stato soltanto eletto a rimpiazzare Rattazzi nel comitato, e non altro.
Era allora in pieno svolgimento la battaglia delle opposizioni contro il ministero presieduto da Lanza, che veniva attaccato sia da Destra che da Sinistra in particolare per i provvedimenti finanziari presentati da Sella. Il D., vistasi dapprima respinta una proposta di rinvio, si schierò al fianco della Destra minghettiana nell'attaccare il ministero fino al voto del 25 giugno che lo costrinse alle dimissioni. Parve allora delinearsi un'alleanza tra il D. e Minghetti, tanto più che il re stesso, nel conferire a quest'ultimo l'incarico, gli indicò, tra i nomi di cui tener conto, l'intero gruppo del Diritto col D. in testa. Questi era pronto a entrare nella combinazione insieme a Coppino e De Luca, ma la Sinistra, e in particolare Nicotera e Crispi, forzandolo a presentarsi alle trattative come capo del partito e con richieste più elevate, le fece fallire.
Privo di chiari appoggi a Sinistra e nato in contrapposizione alla Destra selliana, il governo Minghetti assunse l'aspetto di un gabinetto "tecnico", aperto al contributo delle varie parti politiche su singoli provvedimenti di riforma.
L'importante legge bancaria fu ad esempio votata agli inizi del 1874 da una larga maggioranza di Centro-Sinistra. Il D., benché prodigo di aperture e di riconoscimenti verso il governo, votò con l'opposizione. In quell'occasione, l'avvicinamento al governo avveniva infatti ad opera non del vecchio gruppo del Diritto, che ormai tendeva a non differenziarsi troppo dall'opposizione, ma di numerosi deputati della Sinistra meridionale, guidati in questo caso da De Luca, e segnalava fenomeni del tutto nuovi, legati appunto alla vivacità e alla forza raggiunte dalla deputazione meridionale. Nel corso della campagna per le elezioni del 1874 - che dettero la dimostrazione di quella forza - il nuovo orientamento emerse con la pubblicazione di un manifesto elettorale - che fu detto della "Sinistra giovane", e contrapposto ad un altro manifesto, finnato dai rappresentanti della Sinistra "storica" - che raccolse le istanze di una opposizione "amministrativa", una opposizione che cioè lasciava sullo sfondo le maggiori questioni ideali e politiche per concentrarsi su alcuni concreti temi amministrativi e finanziari particolarmente sentiti nel Mezzogiorno.
Il D., che rimaneva estraneo, lui in tutto e per tutto lombardo e legato alla tradizione subalpina, ai maggiori problemi del Mezzogiorno e aveva scarsa dimestichezza personale con gli esponenti meridionali, rimase per il momento estraneo anche a quel dibattito, e forse non firmando nessuno dei due manifesti volle anche rinviare una sua presa di posizione.
Apertasi la XII legislatura, fu candidato della Sinistra alla presidenza della Camera, raccogliendo 172 voti contro i 236 del Biancheri, che fu eletto. In seno alla Sinistra, la sua candidatura prevalse grazie all'appoggio della "giovane Sinistra" e per la connotazione più debolmente caratterizzata rispetto alla candidatura di Cairoli, avanzata dai gruppi "storici", e a quella di Mancini, nettamente meridionalista. In una fase di intensa trasformazione dei partiti, la fortuna del D. sempre più sarebbe stata affidata a questa sua debole caratterizzazione politica, che faceva di lui il punto di riferimento di gruppi anche eterogenei. Dopo le elezioni, pare che egli tentasse ancora di dar vita a un nuovo connubio con Minghetti, ma senza successo. L'anno seguente si trovò invece ad essere uno degli interlocutori decisivi di una complessa manovra avviata nell'ambito della nuova opposizione meridionale da G. Nicotera. Parlando il 4 luglio 1875 a Salerno, Nicotera aveva proposto una netta rottura con la tradizione radical-repubblicana e la formazione d'una "Sinistra costituzionale" con l'obiettivo - incoraggiato, pare, dal re - di aggregare un gruppo della Destra dissidente e conquistare così la maggioranza. Era però necessario il consenso dei vari gruppi della Sinistra, e in particolare di quella settentrionale e del D. che, sollecitato da Nicotera, convocò il 1º agosto a Torino una riunione di deputati per discutere la fusione della deputazione piemontese con la costituenda Sinistra costituzionale. Fu tra l'altro decisa in quell'occasione la creazione d'un giornale, Il Bersagliere - che nacque alla fine dell'anno, ma fu organo personale di Nicotera e non del nuovo raggruppamento, com'egli sperava -, fu votata una risoluzione con la quale si incaricava il D. di "concertarsi coi deputati di opposizione delle altre provincie sulle questioni principali che si agiteranno nella prossima sessione della Camera"; e fu deciso che sul progetto della nuova Sinistra il D. avrebbe parlato in un successivo discorso a Stradella. L'attenzione degli ambienti politici fu perciò tutta concentrata su ciò che il D. avrebbe detto a Stradella il 10 ottobre, giorno fissato per il discorso.
Si trattava di sapere se la rottura con l'estrema Sinistra proposta da Nicotera era accettata dai settentrionali, e se le rivendicazioni dei meridionali potevano costituire la piattaforma d'una nuova maggioranza. Ma non solo per questo il discorso del D. era destinato ad avere vasta eco. Esso fu il primo di una serie di tre "discorsi di Stradella" pronunciati tra il '75 e l'82 nei quali si sarebbe compendiato il programma della Sinistra al governo. Pronunciati, com'era costume del tempo, nel corso di affollati banchetti, davanti a un uditorio attentamente selezionato nel quale gli inviti, gli arrivi o le assenze erano scrupolosamente notati come altrettanti segnali politici, quei discorsi erano perciò enfatizzati anche da una accorta organizzazione e da una pubblicità adeguata che ne moltiplicavano la risonanza nazionale.
Rispetto alle attese della vigilia il discorso del '75 fu deludente, sia per Nicotera la cui proposta era sostanzialmente respinta, sia per quanti avrebbero voluto una maggiore incisività politica. "Un discorso tanto di Destra, quanto di Sinistra" riportò L'Opinione. "Il discorso di D. è veramente un po' fiacco, scrisse Cairoli a Bertani, ma additando almeno agli aspiranti al potere un programma di riforme, ed una via dignitosa, ebbe l'approvazione dei giornali d'opposizione". Così era stato: elencando i vari punti d'un programma di riforme - istruzione elementare obbligatoria e gratuita, allargamento del suffragio elettorale, decentramento amministrativo, riforma tributaria e della magistratura, ecc. - il D. venne a incarnare, dell'esigenza tutta pragmatica e amministrativa che si stava imponendo a larghi settori dell'opposizione, una versione insieme più distaccata dalle motivazioni localistiche che sembravano proprie della deputazione meridionale, e insieme più organica e completa, meglio collegata a tutta la tradizione di riformismo moderato che egli poteva a buon diritto rappresentare, nonché allo stesso patrimonio ideale della Sinistra "storica" verso la quale non esprimeva alcuna ripulsa.
Nel programma del D. molte rivendicazioni liberali potevano essere condivise anche dai moderati, com'era certamente per il proposito di concedere maggiore autonomia alle amministrazioni locali, o di regolamentare i casi di incompatibilità parlamentari. Ma soprattutto il D. non ripeteva le richieste di spesa consuete all'opposizione - e a quella meridionale in ispecie - dichiarando anzi di far suo l'obiettivo del pareggio, e a questo apprezzamento della politica della Destra univa una calda professione di fede monarchica, che dava alla Sinistra il profilo di una "opposizione di sua maestà", com'egli disse. A tutto ciò non seguiva infatti la ricerca di un accordo con i moderati, ma al contrario l'adozione di una strategia "frontale" del tutto estranea al D., e della quale infatti egli stesso si dichiarava debitore al Crispi: "l'opposizione non ha e non deve avere nessuna fretta di andare al potere (...) Quando un partito politico va al potere, e lo assume nell'interesse della Corona e del paese deve giungervi per la strada diritta, a tamburo battente, colla sua bandiera spiegata, per la breccia aperta nelle file dei suoi avversari".
Già nel marzo successivo, caduto il 18 del mese il governo Lanza, il D. fu incaricato dal re di formare il nuovo governo, che fu governo di partito, interamente formato da rappresentanti della Sinistra, molti dei quali per la prima volta ministri, e con una marcata presenza di meridionali, primo fra tutti Nicotera, che dopo avere stabilito un'intesa con una frazione della Destra e stretto una alleanza col D., diventava ministro degli Interni. Fautore convinto d'una strategia di convergenze al Centro, da tempo convertito al connubio, paradossalmente il D. si trovò così artefice dell'unico caso che la storia parlamentare italiana a tutt'oggi conosca in cui l'opposizione è subentrata al governo secondo la logica bipartitica che molti - non lui - a quell'epoca invocavano. Ma il paradosso era destinato a chiarirsi. A imporre la "rivoluzione parlamentare" del 18 marzo 1876 era un impasto d'innovazione e di continuità di cui proprio il D. sarebbe divenuto con gli anni l'artefice insuperabile.
Riprendendo, nel presentare il suo primo dicastero alla Camera il 28 marzo, il programma enunciato a Stradella, il D. illustrò la gamma vastissima di materie sulle quali l'opposizione divenuta governo intendeva misurarsi. In linea generalissima, il suo programma può esser compendiato nel proposito di ridurre, o di ricondurre entro limiti più chiari e corretti, la pressione esercitata dallo Stato sulla società civile, e quindi di garantire a questa autonomi spazi di espressione e nuove possibilità di crescita. Ciò valeva sia nel campo delle riforme politiche e amministrative, sulle quali spiccava la rivendicazione democratica classica, l'allargamento del suffragio, sia in quello economico e finanziario, in cui il D. ribadiva la sua ispirazione privatistica e liberistica.
Si trattava di riforme in nessun caso particolarmente ardite, decantate e insieme temprate dall'esperienza dell'opposizione: "In molti anni di discussioni parlamentari, disse il D., noi abbiamo avuto occasione di esporre e di svolgere le nostre idee: il tempo ha potuto temperarne alcune, ma ne ha raffermate e chiarite molte altre". Complessivamente, doveva accomunarle un'idea di progresso, secondo la formula usata più tardi a Stradella ("noi siamo, o signori, un ministero di progressisti"); un progresso, andrebbe aggiunto, di stampo "borghese", cioè principalmente collegato allo sviluppo delle forze produttive, intimamente laico, civile e pragmatico, alieno dagli eccessi. A fronte infatti della vastità del programma di governo, del suo carattere necessariamente onnicomprensivo, stavano le dichiarazioni di prudenza: "tutti questi concetti, concluse alla Camera, tutti questi doveri dovranno, voi lo comprenderete, essere soggetti a quella legge della prudenza, della successione, della gradualità, che s'impone ad ogni cosa pratica". Da qui non solo la cautela che accompagnò lo studio e la proposta di molte delle riforme, ma anche il fondamentale realismo che temperò i principi dottrinari professati; realismo e cautela che di volta in volta furono poi invocati per sottolineare la profonda aderenza della sua politica alle condizioni del paese o viceversa la funzione conservatrice e di freno svolta da quella politica.
Le elezioni del 1876 segnarono il trionfo del "partito progressista" che ovunque - ma particolarmentre nel Meridione - sbaragliò gli oppositori moderati. "La maggioranza è numerosa, commentò il D., forse troppo numerosa, e il mantenerla compatta nelle sue diverse gradazioni è estremamente difficile". L'ampiezza stessa di quel successo, caratterizzato tra l'altro da un accentuato rinnovamento della rappresentanza parlamentare, appariva infatti come un segno non dell'alternanza tra i partiti ma della loro "disgregazione", del fatto cioè che l'avvento al potere della Sinistra sanciva il definitivo tramonto delle distinzioni tra i gruppi storici e la nascita di un assetto nuovo, che attendeva d'esser definito e modellato. Il D. seppe forse intuire meglio di altri la natura di quel processo, e comunque ne divenne l'elemento centrale. Nel nuovo discorso di Stradella dell'8 ott. 1876, in cui il programma fu esposto in una più curata e più imponente cornice, esordi auspicando "quella concordia, quella feconda trasformazione dei partiti, quella unificazione delle parti liberali della Camera, che varranno a costituire quella tanto invocata e salda maggioranza, la quale, ai nomi storici tante volte abusati, e forse improvvidamente scelti dalla topografia parlamentare, sostituisca per proprio segnacolo un'idea comprensiva, popolare, vecchia come il moto, come il moto sempre nuova: il progresso". Ad operare quella trasformazione il D. avrebbe da allora dedicato intera la sua umana vocazione per la politica e per il tessuto delle relazioni parlamentari.
L'unico avvenimento di rilievo da registrare nella sua vita privata si colloca peraltro proprio in quell'anno 1876. Il 16 novembre sposò Amalia Flarer. Non ancora trentenne - era nata il 22 maggio 1847 - la Flarer era figlia d'un professore d'oculistica dell'università di Pavia, Francesco Flarer, e vedova di Enrico Grassi, un ingegnere da lei sposato nel '70 e dal quale aveva avuto una figlia, Bice, che fu poi allevata dal D. accanto all'unico suo figlio, chiamato anch'egli Agostino, che gli nacque a Stradella il 26 ag. 1877 e divenne più tardi funzionario del ministero degli Esteri.
La concordia all'interno della maggioranza del 18 marzo fu di breve durata. La scarsa iniziativa riformatrice mostrata dal governo col rinvio dei più qualificanti punti del programma - primo fra tutti la riforma elettorale - o il cedimento alle ragioni conservatrici, come nel caso del progetto sul decentramento amministrativo, che fu ritirato; o ancora, sul terreno del costume politico, le pesanti interferenze rimproverate al ministro degli Interni, nonché i contrasti emersi in campo economico e ferroviario: tutto ciò alienò al governo, e particolarmente ai suoi esponenti più in vista, il D. e il Nicotera, l'appoggio dei gruppi della Sinistra facenti capo al Bertani, al Cairoli e allo Zanardelli. Quest'ultimo, ministro dei Lavori Pubblici, rassegno le dimissioni a metà novembre 1877; un mese dopo un incidente politico mise sotto accusa il Nicotera, e il D. stesso dette le dimissioni. La crisi fu precariamente risolta, il 16 genn. 1878, con l'ingresso in un secondo ministero Depretis di F. Crispi, il maggior esponente del partito rimasto escluso dalla coalizione del 18 marzo, poi presidente della Camera e reduce da una discussa missione a Berlino. Ma quando pochi mesi più tardi lo stesso Crispi fu oggetto di una campagna diffamatoria - alimentata dal suo predecessore agli Interni, Nicotera - e dové ritirarsi, fu giocoforza per il D. cedere la mano a un governo guidato da Cairoli.
Il governo Cairoli ebbe vita breve e travagliata, durando fino al dicembre dello stesso 1878, quando il D. riassunse la presidenza del Consiglio. Esso rappresentò tuttavia la più marcata alternativa alla direzione depretisina, alternativa sinteticamente raffigurabile come tentato recupero di una originaria coerenza liberaldemocratica di fronte alla tendenza, che sembrava innata nel D., alla cautela paralizzante, al compromesso, al coinvolgimento "affaristico".
Per valutare appieno la natura di questa contrapposizione, la più seria tra quelle che i governi depretisini ebbero a subire, occorrerebbe esaminare le complesse questioni della politica economica e finanziaria, e in particolare di quella ferroviaria, che aveva avuto parte non piccola nella stessa svolta del '76. In quell'occasione infatti, di fronte ai progetti di statalizzazione del governo Minghetti, la posizione privatistica della Sinistra - più congeniale, sembrava allora, alla sua tradizionale difesa delle libertà - era stata anche tale da guadagnarle nuovi consensi nell'opinione "borghese", oltre che tra i rappresentanti della finanza italiana ed europea, come quelli presenti nella deputazione toscana, che fu corresponsabile della "rivoluzione" del 18 marzo, o come il barone Rothschild, ben presente nelle cose italiane e del D. estimatore. Guadagnata così la maggioranza parlamentare e rigettata la statizzazione delle ferrovie, il D. si orientò verso l'accordo con i gruppi finanziari maggiori - il gruppo Rothschild, col quale il governo Minghetti aveva già firmato la convenzione di Basilea per il riscatto della linea dell'Alta Italia, che il D. rinegoziò, accettandone l'impostazione, o il gruppo facente capo a D. Balduino, col quale il D. concordò poi la costituzione di due grandi compagnie per la gestione dell'intera rete. Questa scelta a favore dei grandi gruppi finanziari già coinvolti nei maggiori investimenti e speculazioni del decennio precedente, dispiacque all'opinione democratica, che seguiva un ideale modello di capitalismo concorrenziale non monopolistico. Il contrasto apparteneva dunque alla complessa molteplicità d'orientamenti e di interessi che si muovevano attorno alla maggiore questione politica del tempo, quella costituita dal ruolo dello Stato nella sfera dell'economia, nella quale accanto alla questione ferroviaria rientravano quella tributaria e bancaria, nonché il problema del rinnovo dei trattati commerciali e dell'adozione di una tariffa generale - occasioni tra le tante in quegli anni nelle quali venne delineandosi una opinione protezionistica più o meno concettualmente elaborata -, oppure la minore ma significativa vicenda della abolizione del ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, decisa agli inizi del '78 e subito dopo annullata da Cairoli.
Su tali materie il D. professava una fondamentale adesione ai canoni del liberismo e del laisser-faire, alla difesa della ricchezza privata, del risparmio e dell'accumulazione, nonché alle ragioni del "consumatore" e in genere di una più larga ed equa distribuzione della ricchezza. Tipiche in questo senso le sue argomentazioni a favore del pareggio del bilancio - che pure contribuivano a rinviare i propositi di riforma tributaria -: "Nessuna permanente diminuzione delle entrate, disse parlando come ministro delle Finanze il 27 marzo 1877; trasformazione del nostro sistema tributario, da eseguirsi senza turbare l'assetto dei bilanci; provvedimenti per riescire all'abolizione del corso forzoso; provvedimenti per aiutare lo sviluppo delle forze economiche del paese; (...) quindi (...) resistere alla foga di chi mi chiede diminuzione di imposte da una parte, e di chi mi domanda, dall'altra, eccessive spese per opere pubbliche". Maggiore flessibilità già nelle enunciazioni programmatiche egli dimostrava invece nel campo della politica commerciale. "L'esaine delle tariffe doganali, aveva detto il 28 marzo, non si può sottoporre ai criteri di un solo e rigido principio"; per ribadire poi a Stradella: "Sarò fedele alle dottrine economiche", aggiungendo: "se poi ci fosse giuoco di tariffe contro il nostro commercio e la nostra produzione, che volete, mi rassegnerò a difendere gli interessi del paese con le tariffe". Tali aperture non giungevano però in alcun modo ad accogliere le richieste di protezione: "per me, signori, le dogane moderne non hanno che uno scopo finanziario", dichiarò al Senatol nel luglio del '76, manifestando con inconsueta decisione il suo dissenso da A. Rossi. Il favore per la produzione si indirizzava infatti in lui, cavourianamente, al mondo rurale, semmai al mondo del credito e della finanza, più che a quello dell'industria, e comunque tendeva a non coinvolgere l'intervento diretto dello Stato.
Destinato a prevalere sull'alternativa "democratica" di Cairoli perché più aderente forse alle effettive esigenze e condizioni del momento, il progetto sociale del D. doveva però misurarsi con la variegata espressione degli interessi che esso intendeva ascoltare e sollecitare, e qui manifestare una sua propria originale strategia politica. Privo, com'era sempre stato e come sempre rimase, di un proprio autonomo gruppo politico e di un proprio esclusivo organo di stampa (anche se a partire dal 1878, orientandosi IlDiritto a favore di Cairoli, fu Il Popolo romano di C. Chauvet a fungere da suo portavoce), il D. tendeva a sottrarsi alla contrapposizione più cruda tra le varie correnti della Siffistra e a rappresentarvi un elemento di concordia e di mediazione, in genere agitando la bandiera della "unità del partito" e quindi rifiutando, insieme con la logica delle esclusioni interne, anche quella che sovente avvicinò, sempre all'insegna della "trasformazione", qualche gruppo di Sinistra - ora quello di Cairoli, ora quello di Nicotera - alla Destra selliana. La sua stessa contrapposizione con Cairoli venne perciò smussandosi, e anche quando nel dicembre 1878, dopo l'attentato Passanante, il D. si unì allo schieramento che fece cadere Cairoli, fu di proposito assai moderato nelle critiche. Incaricato della successione, volle costituire d'accordo con Crispi un governo "di partito" - anche se ne rimasero fuori gli esponenti nicoterini e cairoliani - e già l'anno successivo, dopo l'esperienza di un nuovo breve governo presieduto da Cairoli, raggiunse finalmente un accordo col suo concorrente e nel novembre 1879 divenne suo ministro degli Interni, avendo a fianco, come titolare delle Finanze, il suo più stretto collaboratore A. Magliani.
Come ministro degli Interni il D. organizzò le elezioni del 1880, le ultime svoltesi secondo la legge elettorale sarda. Più volte era tornato a raccogliere le file del partito attorno alla necessità di riformare quella legge, dopo che a più riprese egli stesso aveva contribuito a "insabbiare" l'iter dei vari progetti via via presentati sull'argomento. Egli era assertore d'un ampliamento delle basi sociali del regime, ma lo concepiva in modo graduale e paternalistico, saldamente controllato dai ceti dirigenti; diffidava perciò, in epoca di montante radicalismo, di un allargamento troppo deciso del suffragio politico (era stato invece un sostenitore di quello universale amministrativo, anche se vi escludeva gli analfabeti), e quando la riforma giunse in discussione nella primavera del 1881, e sia per le pressioni della Sinistra, sia per l'evolversi stesso del dibattito, il censo e le capacità richieste per il voto furono abbassati ben oltre i limiti da lui indicati inizialmente, finì coll'accettare e col difendere il testo conclusivo come estrema concessione, come ardito gesto di fiducia nei confronti del paese.
Oltre che ministro degli Interni, il D. era a quel punto anche presidente del Consiglio, tornatovi nel maggio 1881 alla testa di una forte coalizione: con Zanardelli, relatore del progetto di legge elettorale, ministro della Giustizia, Berti, firmatario di vari progetti di legislazione sociale, all'Agricoltura, e Mancini, che dopo la crisi tunisina doveva dare un nuovo e più energico indirizzo alla politica estera, settore peraltro per il quale il D. non ebbe mai competenza alcuna né interesse. Varata la legge elettorale, accingendosi a indire elezioni eccezionali da tenersi secondo le nuove norme, il D. riteneva necessario, "dinanzi ai pericoli che minacciavano le istituzioni" di "formare un partito compatto", come testimoniò il Minghetti, col quale s'incontro e s'intese. Si presentò quindi l'8 ott. 1882, nell'ultimo e nel più rituale dei suoi "discorsi di Stradella", come capo di un partito che con la riforma del suffragio - "quella che, con paterna e veramente magnanima fiducia, chiama tutti i cittadini capaci all'esercizio del diritto sovrano dell'elettorato politico, sanzionando il suffragio universale possibile" -vedeva "compita la parte più importante e sostanziale del programma che aveva annunziato al paese".
Benché dedicasse dettagliate e rassicuranti parole a tutto il complesso delle materie ancora in progetto o allo studio, egli sottolineò nella prima parte di quel discorso il carattere di bilancio che esso doveva assumere; anzi di "testamento", aggiungendovi il vezzo di presentarsi come un patriarca che solo le necessità del paese potevano distogliere dalla sua "antica e prediletta professione di agricoltore".
Doveva infatti entrare a far ormai parte della sua immagine politica l'atteggiamento rustico e patriarcale con cui amava presentarsi al paese nel momento in cui si impadroniva saldamente della sua vita politica. Lo stesso aspetto fisico lo sottolineava, con l'abbigliamento da sempre trasandato, la lunga barba scarmigliata e ormai bianca, una gotta fastidiosa e insistente. "Sono mezzo malato, sono un po' di malumore, abbiate un po' di pazienza": con simili intercalari dominava gli accenni d'insofferenza della Camera. Capo del governo fino alla morte, sempre più spesso riunì il Consiglio dei ministri nel salotto di casa sua, a via Nazionale a Roma, dove "non c'era che un piccolo tavolinetto tondo, spesso senza carta né calamaio", cosicché raramente si redigevano verbali, come ricorda F. Martini. Così il D. governava il processo di trasformazione e di convergenza al centro del sistema politico italiano.
Suscitati spontaneamente in periferia dalla nuova dislocazione dell'elettorato o sollecitati dal centro con opportuni interventi prefettizi, processi di fusione tra "progressisti" e moderati avvennero già alle elezioni del 1882, che non solo furono vinte dal governo, ma mandarono alla Camera ben 173 nuovi deputati "ministeriali", non più classificabili nemmeno formalmente per appartenenza di partito. Fu questa la base del "trasformismo". Rispondendo nel maggio 1883 a quanti gli rimproveravano l'insensibilità per la questione sociale e la gestione illiberale del dicastero degli Interni, accusandolo di essersi ormai allontanato dalla Sinistra e di non avere più una maggioranza definita, il D. invocò l'estrema difficoltà dei tempi, i rapidi progressi dell'emancipazione popolare e la radicalizzazione dello scontro politico che richiedeva concordia, chiarezza di propositi e forza politica sufficiente per elaborare e varare i Provvedimenti necessari. Chiese perciò "una larga ed esplicita approvazione" del suo programma al di fuori di qualsiasi logica di schieramento di partito. Riprendendo, come sempre più spesso gli capitava di fare, la catena delle autocitazioni, ricordava la "feconda trasformazione" dei partiti da lui auspicata nel '76, e poi l'invito ripetuto, sempre a Stradella, nel 1882 "Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se qualcheduno vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?") e con quelle parole rispondeva a chi gli rimproverava il trasformismo, "questo benedetto trasformismo, che è non solo vecchio fisicamente, ma vecchio anche parlamentarmente, ed in continua applicazione". Volle che dall'ordine del giorno fosse cancellato ogni riferimento alla Sinistra, ed ottenne 348 voti a favore contro 29 contrari e 5 astensioni.
È stato detto che quella maggioranza formò il "partito unico della borghesia italiana". Un partito la cui principale caratteristica fu di mancare quasi programmaticamente di qualsiasi forma consociativa di tipo partitico, anche nel senso ottocentesco, e di basarsi piuttosto su di una convergenza di gruppi, interessi e singole personalità privi di connotazioni ideologiche, di volta in volta legati da singoli provvedimenti, concessioni, favori. Questo tipo di rapporto tra Parlamento e governo, che tendeva a riprodursi dal centro alla periferia, sulle grandi questioni di indirizzo come sulle minute questioni locali, influenzò anche la vita e il profilo dei cinque diversi gabinetti che il D. guidò tra il 1882 e il 1887 mutandone la composizione con abili giochi di dimissioni, di "rimpasti" e di reincarichi secondo le esigenze del momento.
Di altro il D. non si occupava. E nel momento in cui la sua biografia aderisce perfettamente alla pratica quotidiana della trama amministrativa e parlamentare, essa scompare e subisce una sorta di sublimazione. Dalla somma delle singole, pragmatiche transazioni, e proprio nella misura in cui in esse sembra risolversi tutta la tensione ideale e politica del tempo, si levano le astrazioni concettuali che definiscono una fase storica e secondo alcuni autori addirittura una tipologia del comportamento politico, per cui il nome del D. si identificherà definitivamente col trasformismo. Ma se come categoria del politico il trasformismo è fenomeno di lunga durata, intrinseco forse al trapianto del meccanismo parlamentare unitario in un paese come l'Italia eterogeneo e composito, di tutto ciò il D. ebbe soltanto una consapevolezza intuitiva e mai teoricamente dispiegata, limitata poi alle forme e ai modi di una sua applicazione, quella degli anni Ottanta, che di fatto fu assai breve e presto messa in crisi.
Per sua natura tendente ad occupare il centro dello schieramento politico, una maggioranza trasformista non tollera la costituzione di robusti raggruppamenti concorrenti dei quali deve continuamente erodere le frange. Il martellante, esclusivo riferimento ai discorsi di Stradella che veniva fatto dal D. - e che nel gergo del tempo li fece chiamare "gli evangelii di Stradella" -, il suo costante richiamarsi al periodo di governo della Sinistra come a un unico ciclo politico, doveva avere questa funzione: di evitare che il suo insediamento al centro facesse sorgere - o risorgere, con le bandiere della Sinistra - una forte opposizione. Una simile tendenza, anch'essa costante nel sistema politico del tempo, tornò infatti a manifestarsi negli anni del trasformismo, giacché fin dal 1883, in certo senso ricalcando la frattura del '77, due ministri, Zanardelli e Baccarini, abbandonarono il governo e costituirono con altri capi storici della Sinistra come Crispi, Nicotera e Cairoli un gruppo d'opposizione, che fu detto "la pentarchia". Priva di interna coesione, come gruppo la pentarchia si sgretolò presto, ma le sue diverse componenti segnalavano realtà sociali che il trasformismo, depretisino non sapeva coinvolgere nella direzione dello Stato e che alla lunga ne avrebbero provocato lo sfaldamento.
I capisaldi della strategia depretisina - l'allargamento delle basi dello Stato e lo sviluppo della ricchezza privata, soprattutto di quella agricolo-commerciale, in una gestione di tipo liberistico dello Stato ma in un quadro sociale e politico stabile, saldamente nelle mani del ceto dirigente borghese - subirono infatti le conseguenze dei profondi mutamenti che proprio negli anni Ottanta si stavano verificando. La crisi dell'agricoltura, della proprietà e del mondo rurale, l'acuirsi dello scontro sociale e la crescita delle organizzazioni popolari, la germinale affermazione della produzione industriale occuparono i governi Depretis in lunghi e complessi dibattiti parlamentari che gradualmente mutarono il quadro politico a lui familiare. Nascevano ad esempio nuovi orientamenti protezionistici, e la richiesta di una nuova e più esigente politica estera e coloniale, tendenze nelle quali il D. si trovò alla fine coinvolto in virtù dello stesso meccanismo trasformistico, e della sua disponibilità a mediare tutte le istanze. Quello stesso meccanismo, d'altra parte, basando le sue tendenze espansive su di una costante erogazione di ricchezza e di privilegi, e dunque implicando una forte espansione della spesa pubblica (tipicamente le costruzioni ferroviarie, dove il D. riuscì tra l'84 e l'85 a far votare le convenzioni, ma anche la cantieristica, le spese militari, i lavori pubblici in genere: tutte le "infrastrutture" di cui il periodo depretisino dotò il paese) ricondusse al disavanzo, e dunque a gravi problemi finanziari, facendo crollare un altro dei capisaldi di Stradella. Il Magliani, oggetto di crescenti critiche, dovette essere allontanato dal governo, e tra l'85 e l'86 su questo tema si staccò dalla maggioranza un nuovo gruppo di "dissidenti".Incapace di controllare, e forse di comprendere a fondo, tali fenomeni, l'ultimo D. sembrò rimanerne vittima. Rimase profondamente scosso dall'incidente di Dogali, egli che nell'impresa africana era stato trascinato di cattiva volontà. L'ingresso di Crispi nel suo ultimo ministero, nell'aprile 1887, sancì il mutamento del clima politico e l'ineluttabilità d'un cambiamento. "Subito che il Crispi fu ministro, annotò il Martini, nessuno badò più al Depretis". L'attesa suscitata da Crispi tradiva anche un impietoso bisogno di rimozione nei confronti del D. e per lui del trasformismo, che nella sua totale mancanza di legittimazione ideologica si presentava, alle polemiche dei contemporanei come alla memoria storica, sotto il segno negativo della degenerazione, dell'alterazione "clientelare" e "affaristica" dei meccanismi fisiologici del sistema parlamentare. Vittima di quell'identificazione fu l'uomo Depretis. Trasferito a Stradella per l'aggravarsi della malattia, vi morì il 29 luglio 1887 senza destare rimpianti. "L'elogio più sicuro che si può fare di lui, scrisse Ruggiero Bonghi, è che quelli che rimangono, per sventura nostra, non sono migliori di lui".
Fonti e Bibl.: Le Carte D. sono state versate dagli eredi all'Arch. centr. d. Stato, dove si trovano in 4 serie; una busta di carte residue è conservata presso la città di Stradella, Arch. storico. Lettere del D. sono poi nelle carte di molti suoi corrispondenti: all'Arch. centr. d. Stato le Carte Crispi e le Carte Ricasoli: al Museo d. Risorg. di Roma le Carte Bargoni e le Carte Mancini; al Museo d. Risorg. di Milano l'Arch. Correnti; presso il Comune di Barga l'Arch. Mordini; presso la Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna le Carte Minghetti; o in carteggi editi come, tra i principali, C. Cavour, Lettere edite ed inedite, raccolte e illustrate da L. Chiala, III, Torino 1884; Carteggi di C. Cavour, a cura d. Commissione editrice, Bologna 1926 ss. I Discorsi parlamentari del D. sono stati raccolti, con qualche secondaria lacuna, e pubblicati per deliberazione della Camera dei Deputati in otto volumi, Roma 1888-1892. I discorsi pronunciati dal D. a Stradella nel 1875 e 1876 sono stati pubblicati, insieme al discorso alla Camera del 28 marzo 1876, come Ilprogramma del ministero D., Roma 1876 (rist., Bologna 1972), nonché, insieme al discorso dell'8 ott. 1882, in La politica italiana dal 1848 al 1897- Programmi di governo, a cura di L. Lucchini, I e II, Roma 1899. Completa gli scritti del D. il Discorso al banchetto dell'Unione monarchica del19maggio 1886, Roma 1886.
Biografie complete del D. non sono mai state scritte. Per i primi profili e bozzetti, lui vivente, cfr.: F. Petruccelli della Gattina, Imoribondi di palazzo Carignano, Milano 1862, 2 ed., Roma 1960; P. Duprat, Il Parlamento italiano, Torino 1862; C. Arrighi [C. Righetti], I450 deputati delpresente..., Milano 1865; A. Calani, D. comm. A. deputato, in Ilprimo Parlamento del Regno d'Italia, II, Milano 1864; G. Faldella, Salita a Montecitorio (1878-1882), I-V, Torino 1883-84, specialm. Iprogrammi di A. D., II, I pezzi grossi, Torino 1883; D. Galati, Gliuomini del mio tempo, Bologna 1882; A.D., in L. Carpi, Il Risorgimento, I-II, Milano 1886; F. L. Santi, A. D. e il suo ministero, Milano 1886; Vamba, Il Barbabianca, Roma 1887 (album di caricature del 1886). Seguono gli scritti commemorativi per la morte, a volte noti in bibliografia ma introvabili: Lewis [L. Brangi], A. D. Saggio biogr. critico, Napoli 1887; P. G. Massimino, A. D. Note funebri e pensieri politici, Torino 1887; E. Di Narbona [B. Arnaboldi], La gioventù di A. D., 1887; R. Bonghi, A. D., in La Perseveranza, 10 ag. 1887, poi in Ritratti e profili di contemporanei, a cura di F. Salata, I, Firenze 1935; G. Stiavelli, A. D., Roma 1887; M. Coppino, Commemorazione di A. D., Torino 1888; J. Grabinski, A. D., Bruxelles 1890. Scritto di particolare interesse è quello di L. Breganze, A. D. ed i suoi tempi. Ricordi storico-biografici, Verona-Padova 1894: amico del D. e della famiglia, utilizzò un "abbozzo di autobiografia" del D. che fu visto ancora da G. B. Festari (La formaz. politica di A. D., Milano-Pavia 1937) ma non è più stato rintracciato. Profili biogr. più recenti sono: M. Vinciguerra, A. D., in Ilcentenario del Parlamento italiano, Roma 1948; A. Moscati, A. D., in Iministri del Regno d'Italia, I, Firenze 1955; M. Brignoli, A. D., in Ipersonaggi della storia del Risorgimento, a cura di R. Rainero, Milano 1976; si terrà ora presente, nel considerare i titoli seguenti, che le carte essenziali per lo studio del personaggio sono state versate all'Arch. centr. di Stato nel 1931, e da quella data gli studi ne tengono conto. Sulla milizia democratica del D. e l'attività politica fino all'Unità, cfr.: Ediz. naz. degli scritti di G. Mazzini, ad nomen secondo gli Indici, II, Imola 1973; T. Grandi, Lettere ined. di Mazzini a D. (1851-55), in Bollett. d. Domus Mazziniana, XIV (1968), pp. 185-204; C. Maraldi, Il partito democratico subalpino e l'azione politico-parlamentare di A. D. durante il decennio 1849-59, in Rass. stor. d. Risorgim, XVII (1930), pp. 105-173; E. Librino, Rapporti tra D. e Mazzini nel quinquennio 1850-55, ibid., XXXIX (1952), pp. 626-30; G. Carocci, La politica di A.D . durante il decennio di preparazione, in Belfagor, VII (1952), pp. 1-12; G. Talamo, La formazione politica di A. D., Milano 1970, opera essenziale, che tra l'altro raccoglie alcuni preced. articoli dell'autore; e, per alcuni aspetti minori, R. Romeo, Cavour e il suo tempo, II, 1842-1854, Bari 1977, e III, 1854-1861, ibid. 1984. Sul D. governatore di Brescia: E. Librino, A. D. governatore di Brescia, in Rass. stor. d. Risorgim., XVIII (1931), pp. 529-561; G. Massari, Diario dalle cento voci 1858-1860, Bologna 1959. Sulla prodittatura siciliana cfr., tra le fonti primarie a stampa, A. Bargoni, Memorie, Milano 1911; F. Crispi, IMille, Milano 1911; G. Guerzoni, Garibaldi, II, Firenze 1882; J. W. Mario, A. Bertani e i suoi tempi, 2 voll., Milano 1888; C. di Persano, Diario privato, Torino 1880; e, tra gli epistolari, Carteggio di M. Amari, a cura di A. D'Ancona, Torino 1896; G. La Farina, Epistolario, a cura di A. Franchi, 2 voll., Milano 1869; e, dei cit. Carteggi di C. Cavour, i 5 volumi su La liberazione del Mezzogiorno, Bologna 1849-54. Tra gli studi: A. Colombo, Contributo alla storia della prodittatura di A. D. in Sicilia nel 1860, Saluzzo 1911; A. Arzano, Il dissidio tra Garibaldi e D. sull'annessione della Sicilianel settembre 1860, in Memorie storiche militari, VIII, Roma 1913; E. Librino, A. D. prodittatore in Sicilia (docc. inediti sulla spedizione dei Mille: lettere di Garibaldi, Cavour, Farini, Crispi, Bixio e Bertani), in Nuova Antologia, 16 dic. 1930, pp. 462-92; C. Maraldi, La prodittatura di A. D. in Sicilia, in Rass. stor. d. Risorg., XVIII (1931), pp. 140-46; Id., La rivoluz. siciliana del 1860 e l'opera politico-amm. di A. D., in Rass. stor. d. Risorgim., XIX (1932), pp. 434-573; D. Mack Smith, Cavour and Garibaldi 1860. A Study in Political Conflict, Cambridge 1954 (trad. ital., Torino 1958); E. Passerin d'Entrèves, L'ultima battaglia politica di Cavour, Torino 1956; R. De Mattei, Dittatura e amministr. in Sicilia nel 1860, in Arch. stor. per la Sicilia orientale, LVI (1960), pp. 16-33, ristamp. in Storia e politica, II (1963), pp. 101-14; A. Scirocco, Governo e paese nel Mezzogiorno nella crisi dell'unificazione (1860-61), Milano 1863; F. Brancato, La dittatura garibaldina nel Mezzogiorno e in Sicilia, Trapani 1965. Un elenco dei decreti prodittatoriali è in C. Pavone, Amministrazione centrale e amm. periferica da Rattazzi a Ricasoli (1859-1866), Milano 1964, pp. 794-99. Per la collocazione del D. nella Sinistra postunitaria, cfr.: G. Pansini, La Sinistra parlamentare, in Rass. stor. toscana, XI (1965), pp. 23-37; A. Scirocco, Idemocratici ital. da Sapri a Porta Pia, Napoli 1969. Su D. ministro della Marina: D. Guerrini, Lissa (1866), II, Come arrivammo a Lissa, Torino 1908; i principali documenti sono in Rendiconti delle udienze pubbl. dell'alta corte di giustizia nel dibattimento della causa contro l'amm. sen. conte Carlo di Persano, Firenze 1867, ristamp. in A. Lumbroso, Il processo dell'amm. di Persano, Roma 1905. Sul successivo periodo fino al 1876: A. Aquarone, Dalle elezioni del 1865 alla costituzione del secondo ministero Ricasoli: incertezze e contrasti nella classe politica italiana e La crisi dell'ottobre 1867 e il fallito tentativo di un ministero Cialdini, ora in Alla ricerca dell'Italia liberale, Napoli 1972; A. Berselli, Un tentativo di combinazione ministeriale fra M. Minghetti e A. D. (24-29 giugno 1873), in Strenna stor. bolognese, VI (1956), pp. 7-15; Id., La Destra storica dopo l'unità, II, Italia legale e Italia reale, Bologna 1965; A. Salvestrini, Imoderati toscani e la classe dirigente ital. (1859-1876), Firenze 1965; A. Capone, L'opposizione meridionale nell'età della Destra, Roma 1970; G. Procacci, Le elezioni del 1874 e l'oppos. meridionale, Milano 1956; C. Morandi, La Sinistra al potere, Firenze 1944. Sulla politica ferroviaria del D.: G. Binello, Le ferrovie piemontesi del Risorgimento, Torino 1940; A. Crispo, Le ferrovie italiane. Storia politica ed economica, Milano 1940; A. Berselli, La questione ferrov. e la 'rivoluzione parlam. ' del 18 marzo 1876, in Riv. stor. ital., LXX (1958), pp. 188-238, 376-420; L. Coppini, P. Bastogi, in La "Soc. Ital. per le strade ferrate merid." nell'opera dei suoi presidenti, 1861-1904, Bologna 1962; M. Brignoli, Un aspetto del problema ferrov. nelle discuss. del Consiglio Prov.le, in Pavia economica, XVIII (1963), 10, pp. 48-52; II, pp. 20-24; 12, pp. 34-37; F. Ippolito, Lo Stato e le ferr. dall'Unità alla caduta della Destra, e Lo Stato e le ferr. dalla caduta della Destra alle convenzioni del 1865, in Clio, II (1966), p. 314; III (1967), pp. 231-248. Sulla vicenda politica dal '76 all'87 e sulla questione del trasformismo: L. Zini, Dei criteri e dei modi di governo della Sinistra nel Regno d'Italia. Lettere e note, Bologna 1880; N. Marselli, La politica dello Stato italiano, Napoli 1882; F. Martini, Confess. e ricordi 1859-1892, Milano 1929; R. De Mattei, Dal trasformismo al socialismo, Firenze 1940; F. Chabod, Storia della politica estera ital. dal 1870 al 1896, I, Le premesse, Bari 1951; C. Giglio, Il secondo gabinetto D. e la crisi balcanica (dicembre 1877-marzo 1878), in Riv. stor. it., LXVII (1955), pp. 181-212; G. Carocci, Nota sul trasformismo, in Nuovi argomenti, III (1955), pp. 43-54; Id., A. D. e la politica interna ital. dal 1876 al 1887, Torino 1956; R. Battaglia, La prima guerra d'Africa, Torino 1958; R. Colapietra, Politica e finanza nel primo decennio parlamentare di G. 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Boccaccini, La Pentarchia e l'opposizione al trasformismo, Milano 1971; G. Farneti, Sistema politico e società civile. Saggi di teoria e ricerca politica, Torino 1971; L. Mascilli Migliorini, La Sinistra storica al potere. Sviluppo della democrazia e direzione dello Stato (1876-1878), Napoli 1979; R. Romanelli, L'Italia liberale (1861-1900), Bologna 1979; L. Graziano, Clientelismo e sistema politico. Il caso dell'Italia, Milano 1980; A. Capone, Destra e Sinistra da Cavour a Crispi, Torino 1981; F. Ghilardi, Politica estera a trasformismo. Le relazioni anglo-italiane dal 1878 al 1888, Milano 1981.