Agostino di Ippona
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Un percorso di ricerca sempre aperto che si sviluppa in un approfondimento costante dell’interiorità del soggetto, del suo rapporto con la felicità e con Dio, della storia e delle situazioni che Agostino si trova a vivere. Fede e filosofia si intrecciano in modo indissolubile in uno dei massimi pensatori medievali.
Agostino d’Ippona
Concetto di Dio
De libero arbitrio, Libro I, cap. II, 5
Avere di Dio un altissimo concetto è il più vero inizio di religiosità. E non se ne ha un concetto altissimo, se non si crede che è totalità del possibile e assolutamente immutabile, creatore inoltre di tutti i beni, ai quali è superiore, ordinatore di tutte le cose che ha creato, non aiutato nel creare da altra natura, quasi non fosse l’assoluto.
Agostino d’Ippona, De libero arbitrio
Agostino d’Ippona
La ricerca riguarda Dio e l’anima
Soliloquia, Libro I, cap. II, 7
R. - Che cosa dunque vuoi sapere?
A. - Tutte queste cose che ho chiesto nella preghiera.
R. - Riassumile in poche parole.
A. - Desidero avere scienza di Dio e dell’anima.
Agostino d’Ippona, Soliloquia
Agostino d’Ippona
Importanza del ritmo
De musica, Libro VI, cap. VIII, 20
Ciò che inibisce e trattiene da passi ineguali nel camminare, da intervalli ineguali di colpi nel battere, da movimenti ineguali delle mascelle nel mangiare o bere, da tratti ineguali delle unghie nel grattare, e per non elencare molte altre operazioni, ciò insomma che ci inibisce e trattiene da movimenti ineguali e ci impone tacitamente una determinata concordanza nell’attendere a compiere un’azione con le membra, è appunto una non so quale facoltà di giudizio. Ed essa ci inculca che Dio è creatore dell’essere vivente e che egli quindi si deve ritenere autore di ogni armonizzata concordanza.
Agostino d’Ippona, De musica
Agostino d’Ippona
Profondità della memoria
Confessioni, Libro X, cap. XVII, 26
La facoltà della memoria è grandiosa. Ispira quasi un senso di terrore, Dio mio, la sua infinita e profonda complessità. E ciò è lo spirito, e ciò sono io stesso.
Agostino d’Ippona, Confessioni
Agostino d’Ippona
Il mondo come armonia musicale
Epistolae, Lettera 166, 5.13
Se pertanto l’uomo, abile a comporre un canto, sa quali tempi di pausa intervallare alle singole voci in modo che il canto possa snodarsi e scorrere nel modo più bello, con suoni che cessano e si riprendono alternativamente, quanto più Dio, la cui sapienza, con la quale ha creato ogni cosa, sorpassa di gran lunga ogni arte, non permette, rispetto agli esseri che nascono e che muoiono, che in quella specie di meraviglioso cantico di cose che passano, scorra, con movimento più breve o più lungo di quanto lo richieda il ritmo conosciuto in antecedenza, alcuno degli attimi di tempo che appartengono come altrettante sillabe e parole ai brevi periodi di questo mondo.
Agostino d’Ippona, Epistolae
Agostino d’Ippona
La sapienza di Platone e l’autorità di Cristo
Contra Academicos, Libro III, cap. XVII, 37
Platone fu l’uomo più sapiente e colto del suo tempo e parlò in maniera da render grandi le teorie che esponeva e ne espose di tali che, comunque le avesse esposte, non sarebbero divenute piccole. (3.17.37)
Tutti sanno che noi siamo stimolati alla conoscenza dal duplice peso dell’autorità e della ragione. Io ritengo dunque come certo definitivamente di non dovermi allontanare dall’autorità di Cristo perché non ne trovo altra più valida. Riguardo poi a ciò che si deve raggiungere col pensiero filosofico, ho fiducia di trovare frattanto, nei platonici, temi che non ripugnano alla parola sacra. Tale è infatti la mia attuale disposizione che desidero di apprendere senza indugio le ragioni del vero non solo con la fede ma anche con l’intelligenza. (3.20.43)
Agostino d’Ippona, Contra Academicos
Agostino d’Ippona
Gratuità della grazia e incomprensibilità della predestinazione
Sermones, 26, 12
Anche se non lo troviamo così chiamato in nessun passo dalla Scrittura, chiamiamo pur grazia il dono d’essere stati creati, in quanto ci è stato dato gratis; ma lasciate che vi dimostriamo come sia maggiore la grazia per cui siamo cristiani. Statemi attenti! Prima d’essere creati non avevamo alcun merito buono, e quindi è grazia il dono d’essere stati creati senza che avessimo alcun merito. Se però è una grazia grande quella che abbiamo ricevuto quando eravamo senza meriti buoni, quanto non sarà grande quella che ricevemmo avendo tanti demeriti? Colui che non esisteva era sprovvisto di meriti, il peccatore accumulava demeriti. Colui che sarebbe stato creato, prima non esisteva. Non esisteva, ma non aveva nemmeno offeso [Dio]. Non esisteva e fu creato; ha offeso [Dio] ed è stato salvato. Colui che non esisteva, non sperava nulla e fu creato; il colpevole viceversa si attendeva la dannazione e ne fu liberato. (26.12)
Dirai: "Ma m’impressiona il fatto che uno si danna mentre l’altro è battezzato. M’impressiona, mi colpisce in quanto sono uomo". Se vuoi che ti dica la verità, ciò impressiona anche me, essendo io pure un uomo. Ma se tu sei uomo e io pure sono uomo, ascoltiamo tutt’e due colui che dice: O uomo! Certo se ci lasciamo impressionare perché siamo uomini, è questa nostra natura umana, fragile e debole, che l’Apostolo apostrofa quando dice: O uomo, chi sei tu che vuoi discutere con Dio? Forse che l’oggetto plasmato dice a chi l’ha modellato: Perché mi hai fatto così? (Rm 9, 20). Se, potendo parlare, un bruto dicesse a Dio: Perché costui l’hai fatto uomo e me bestia, non saresti tu mosso da giusto sdegno e replicheresti: O bruto, chi sei tu che discuti con Dio? Così anche tu: sei un uomo e di fronte a Dio sei un bruto. (26.15)
Agostino d’Ippona, Sermones
Agostino d’Ippona
Inesauribilità della ricerca
De trinitate, Libro IX, cap. I, 1
Abbiamo dunque questa intima convinzione e conosceremo che è più sicuro il sentimento che ci spinge a cercare la verità di quello che ci fa presumere di conoscere ciò che non conosciamo. Cerchiamo dunque con l’animo di chi sta per trovare e troviamo con l’animo di chi sta per cercare.
Agostino d’Ippona, De trinitate
Agostino d’Ippona
Tempo e inquietudine
La vera religione, cap. XXXV, 65
Lo spazio ci presenta cose da amare, che poi il tempo ci porta via, lasciando nell’anima una folla di immagini che stimolano la cupidigia ora verso un oggetto ora verso un altro. Così l’animo diviene inquieto e travagliato nel suo vano desiderio di possedere ciò da cui è posseduto.
Agostino d’Ippona, La vera religione
Le Confessiones rappresentano un punto di vista privilegiato per affrontare lo studio del pensiero agostiniano, in quanto scritte negli anni centrali della vita di Agostino, dopo la sua consacrazione a vescovo di Ippona, nel periodo in cui matura una svolta nel suo percorso esistenziale, con l’accettazione di responsabilità politiche e istituzionali destinate a incidere fortemente sul suo pensiero e sulla sua produzione letteraria.
Capolavoro di stile e di sapienza retorica, sono sicuramente l’opera più letta di Agostino, che per secoli ha saputo parlare a storici, filosofi e teologi, per la straordinaria capacità di costruire un racconto autobiografico che è al tempo stesso esperienza di formazione culturale e religiosa, e profonda analisi dell’interiorità dell’autore. Gli anni fra il 395 e il 400 sono quelli in cui Agostino, forse per la prima volta, porta in primo piano il problema del rapporto fra grazia divina e salvezza umana; le Confessiones possono allora essere viste anche come riflessione consapevole sul cammino che, attraverso i vari episodi significativi della vita, lo ha condotto fino alla conversione.
Agostino nasce a Tagaste, nell’Africa del Nord, da Patrizio, pagano, e da Monica, convertita al cristianesimo, religione che egli dunque conosce da sempre e dalla quale non si allontana mai del tutto, pur non riuscendo ad accettarla pienamente. Il succedersi degli episodi narrati nei primi nove libri delle Confessiones ripercorre la storia di una ricerca, strettamente intrecciata al processo di formazione di Agostino, in un dialogo serrato tra Ragione e Fede, che in lui rappresentano dimensioni non contrapposte ma complementari della conoscenza umana. Dopo avere studiato grammatica e retorica a Madaura e a Cartagine, la lettura di Cicerone suscita in lui l’amore della sapienza che lo spinge a leggere la Scrittura da cui viene tuttavia respinto, a causa dei contenuti dell’Antico Testamento così lontani dall’insegnamento cristiano e dello stile assolutamente non all’altezza degli autori classici studiati.
Agostino si allontana allora decisamente dalla Bibbia e cerca nel manicheismo una spiegazione puramente razionale del mondo e una risposta al problema del male, che la dottrina di Mani spiegava ipotizzando due principi tra loro contrapposti. In questi anni si trasferisce a Roma e quindi a Milano dove, mentre svolge la professione di maestro di retorica, ha modo di ascoltare le prediche di Ambrogio e apprezzarne la lettura allegorica dell’Antico Testamento. Ormai incerto sulla possibilità di raggiungere qualche verità, Agostino si sente ora vicino alle posizioni scettiche sostenute da taluni rappresentanti dell’Accademia platonica, ma se ne distacca per l’influenza decisiva della lettura di testi neoplatonici – Plotino e Porfirio probabilmente –, che gli consentono di acquisire concetti fondamentali, grazie ai quali si riavvicina nuovamente al cristianesimo.
La continua oscillazione fra gli strumenti della Ragione e quelli della Fede, rappresentata vivacemente nel racconto autobiografico, è anche un’indicazione metodologica a proposito dell’andamento costante della riflessione agostiniana. La fede richiede di essere approfondita e inserita in una visione complessiva fondata sulla ragione che, a sua volta, trova nella fede possibilità e intuizioni che non potrebbe esaurire in se stessa. La ricerca della verità è, in Agostino, un percorso inscindibile dalle vicende esistenziali e, più in generale, la sua proposta teorica, la sua speculazione filosofica non possono mai porsi come indipendenti dal soggetto che le sviluppa. Le conclusioni che di volta in volta sembrano risultati definitivi vengono successivamente rimesse in discussione perché, osservate da punti di vista differenti, rivelano nuovi problemi, pongono nuove domande, si presentano come oggetti nuovi di indagine.
L’itinerario filosofico agostiniano segue due direzioni fondamentali, così come quello biografico descritto dalle Confessiones: dall’esteriorità delle sensazioni del mondo in cui ci si trova a vivere verso l’interiorità del proprio modo di giungere alla conoscenza intellettuale e, nello stesso tempo, di vivere intimamente la ricerca di verità e felicità; questo movimento implica simultaneamente anche un movimento dal livello inferiore, su cui la conoscenza e l’anima conducono la propria ricerca, a un livello superiore, nel quale intravedere le ragioni e le risposte ultime.
Al centro delle Confessiones si colloca l’episodio della conversione alla piena fede nel Dio cristiano, che rappresenta in un certo senso anche la forma pura del mutamento di punto di vista che si ripete continuamente nella sua vita e nel suo pensiero. Si può anche osservare che in realtà si tratta di una conversione intellettuale al neoplatonismo che prepara – o si completa in – una conversione morale o di fede. Molte sono state le discussioni fra gli studiosi a proposito della conversione di Agostino, del suo rapporto con la filosofia neoplatonica, del suo modo di concepire la relazione fra cristianesimo e filosofia, a testimonianza di un intreccio, di una vitale convivenza e armonia di livelli e direzioni di pensiero che ogni interpretazione può certo illuminare, con il rischio tuttavia di lasciare in ombra altri aspetti essenziali.
Basti pensare che subito dopo la conversione Agostino afferma con grande nettezza di non avere più alcun dubbio sull’esistenza di Dio, per chiedersi tuttavia nelle righe successive che cosa sia quel Dio di cui e a cui parla: la ricerca si riapre, è mutato il punto di vista, si è avuta l’esperienza della conversione, ma la ricerca deve comunque riprendere. Neoplatonismo, conversione e ritorno alla Scrittura grazie ad Ambrogio avvicinano Agostino alle Lettere di Paolo, destinate ad avere grande influenza sul suo pensiero, e che forse hanno provocato la stessa composizione delle Confessiones.
Dopo la conversione Agostino si ritira in una villa in Brianza, proponendosi, come emerge programmaticamente nei Soliloquia, di abbandonare l’ansia di soddisfazioni esteriori – onori, ricchezze, piaceri sensibili –, per avviare invece un processo di purificazione intellettuale e spirituale e dedicarsi alla ricerca della verità. Cercare la sapienza coincide, per Agostino, con la ricerca di felicità e bontà, come sostiene nel De beata vita e in molti altri passaggi dei Dialoghi di questo periodo, condotti insieme ad alcuni allievi e alla madre Monica che, quando appare nelle conversazioni filosofiche, rappresenta sempre il punto di vista della fede che si integra con quello della filosofia.
La compresenza di due vie per la ricerca – l’intelletto e l’autorità della fede – si ritrova anche nella discussione sviluppata nel Contra Academicos a proposito delle posizioni scettiche maturate nella tradizione platonica. Partendo dalla domanda se, per raggiungere la felicità, sia necessario arrivare alla verità o sia sufficiente cercarla senza mai pretendere di possederla in via definitiva, Agostino si misura con il dubbio scettico, che non può essere approvato nella sua formulazione radicale, così come non si può ammettere l’assenso precipitoso di fronte ad apparenti conclusioni.
Seguire con attenzione il percorso tracciato dalle sette arti liberali, che rappresentano i modi in cui per gli antichi si è organizzata la conoscenza del mondo, consente di dare un certo ordine anche al processo di formazione culturale individuale. Il De ordine, proponendo tale itinerario, pone anche la questione della possibilità umana di afferrare l’ordine del creato nella sua totalità e di ricondurre la molteplicità della conoscenza a quell’unità già affermata dall’antica filosofia di Pitagora.
Nel periodo trascorso a Roma prima del ritorno in Africa, Agostino scrive altre opere significative in cui prosegue la sua ricerca filosofica. Nel De quantitate animae vengono sollevate diverse questioni relative all’anima, ma la riflessione si concentra quasi esclusivamente sulla sua grandezza, da intendersi in termini puramente spirituali, e sul suo rapporto con il corpo. L’anima, che è anche il soggetto della conoscenza, non può avere un ruolo puramente passivo nel momento della conoscenza sensibile. Dapprima Agostino afferma che l’anima si rende conto, perché attenta a quanto accade al corpo, che questo ha subito qualcosa dall’esterno e il “non sfuggire all’anima che il corpo subisce” (De quantitate animae 23.41) è appunto la conoscenza sensibile.
Più articolata è la tesi esposta nel De musica, composto nello stesso periodo: l’azione vivificatrice operata dall’anima sugli organi di senso viene aiutata oppure ostacolata da quanto proviene dall’esterno e si produce così una sensazione piacevole oppure spiacevole. Particolare attenzione viene data, nel corso dell’opera, ai temi del suono, della percezione uditiva e del giudizio intellettuale derivante dall’ascolto. L’analisi agostiniana propone una dottrina che si può in certa misura definire "estetica", al centro della quale si colloca il tema della proporzione, della misura e dell’armonia.
In questi stessi anni si colloca il De libero arbitrio, in cui Agostino sostiene, a proposito della libertà umana, una posizione che abbandonerà successivamente, in occasione della disputa con i pelagiani, in quanto caratterizzata da uno spazio eccessivo concesso alla responsabilità e all’iniziativa dell’uomo.
Tornato in Africa dopo la morte della madre Monica, oltre a portare a termine alcuni degli scritti iniziati in Italia, scrive il De magistro, contributo essenziale per comprendere la sua teoria della conoscenza e in particolare quell’aspetto spesso ricordato come dottrina dell’illuminazione. La prima parte dell’opera, dedicata a una minuziosa analisi della funzione segnica dei termini del linguaggio, rappresenta forse il primo esempio, nella cultura latina occidentale, di una vera e propria "semiologia". Nella seconda parte, spostando l’attenzione sull’uso del linguaggio per comunicare e insegnare, Agostino, secondo un modo di procedere a lui consueto, conduce il ragionamento fino a una contraddizione apparentemente insolubile: dapprima dimostra che non si può insegnare nulla se non per mezzo di segni, ma subito dopo osserva che propriamente i segni non sono in grado di insegnare nulla, in quanto li si può considerare segni solo se già si conosce il loro significato.
Una difficoltà che si supera grazie al maestro interiore: si tratta della capacità di misurare quanto ci viene comunicato, sapendo che esiste una possibilità di giudizio che consente di comprendere la fondatezza di quanto sentiamo, grazie appunto a una sorta di illuminazione. Agostino afferma che il maestro interiore è Cristo, dimostrando la stretta connessione tra filosofia e fede: una dottrina esplicitamente filosofica trova un punto di appoggio sulla convinzione religiosa secondo cui, almeno in un momento della storia, il Verbo, la sede dei significati delle cose create, si è fatto uomo, cioè segno fra gli altri segni.
La questione del rapporto tra fede cristiana e cultura pagana è molto discusso nei primi secoli del cristianesimo e Agostino è certamente uno degli autori che maggiormente contribuiscono a creare un atteggiamento di grande apertura del cristianesimo nei confronti della cultura precedente. Accanto a un evidente utilizzo della filosofia neoplatonica, egli propone di ricorrere, senza pregiudizi, alle arti liberali provenienti dal mondo classico. Si è già visto come nel De ordine venisse proposta una specie di gerarchia fra le arti, capace di condurre al principio del tutto. Lo stesso tema ricompare nel De doctrina christiana accompagnato dalla metafora del furto sacro, destinata a grande fortuna nei secoli successivi: come gli Ebrei, fuggendo dalla prigionia in Egitto, furono autorizzati a sottrarre agli Egiziani le ricchezze e i mezzi necessari per tornare alla loro terra, così i cristiani possono appropriarsi dei tesori della cultura pagana per costruire una nuova visione del mondo in cui quegli stessi tesori acquisteranno un nuovo significato.
Il De doctrina christiana viene iniziato negli anni immediatamente successivi alla consacrazione a vescovo (395-396) e segna in certo modo l’inizio dell’attività pastorale di Agostino, mettendo subito in evidenza la serietà e la decisione con cui assume le nuove responsabilità e intende percorrere il nuovo cammino, esistenziale e intellettuale al tempo stesso. Interrotta e poi completata intorno al 420, l’opera attua la scelta consapevole di inserire, tramite il modello ciceroniano, la dottrina cristiana nel solco della grande tradizione retorica classica, alla quale vengono dunque collegati sia la ricerca dei mezzi con cui diffondere la nuova cultura cristiana sia gli strumenti di interpretazione dei Testi Sacri.
Le Confessiones raccontano le vicende biografiche di Agostino fino agli anni nei quali si collocano la conversione, la morte di Monica e il ritorno in Africa. Dopo il viaggio nella memoria alla ricerca di se stesso, per comprendere il significato del tempo ormai trascorso della sua vita, Agostino negli ultimi libri approfondisce proprio questi temi da un punto di vista teorico.
La memoria è luogo non solo delle immagini provenienti dalla conoscenza sensibile, ma anche dei fondamenti delle scienze, dei sentimenti, della coscienza di sé e consente di costruire la propria identità. Solo nella memoria possono trovarsi tracce di eternità e di verità che spingono alla ricerca di Dio; e Dio viene trovato appunto nella parte più intima di se stessi, che è al tempo stesso anche la più alta: “interior intimo meo et superior summo meo”. Il Dio di cui parla Agostino non può essere del tutto immanente, ma neppure può essere pensato come assolutamente esterno all’uomo, quasi fosse un principio lontanissimo e incomprensibile.
Anche il tempo ha la sua realtà solo grazie alla memoria che collega all’istante presente il passato, che non esiste più, e il futuro, che non esiste ancora; anche in questo caso è il soggetto a conferire unità al tempo, che risulta distentio animi, un protendersi dell’anima verso il passato e verso il futuro. Solo l’individuo con la sua sapienza, la sua cultura può svolgere il compito impegnativo di costruire un significato per la propria esperienza del tempo e del mondo; in questo senso Agostino interpreta il precetto biblico del "crescete e moltiplicatevi": assoggettate il mondo riempiendolo delle vostre interpretazioni.
Nell’ultimo libro delle Confessiones, dedicato all’esegesi dei primi versetti della Bibbia, Agostino fa riferimento alla triplice modalità dell’essere dell’uomo – esistenza, conoscenza e volontà – riprendendo uno schema già usato da autori precedenti, ma riservando un ruolo tutto particolare alla volontà. L’articolazione in tre aspetti distinti ma inseparabili si propone come analogia della Trinità divina, come primo riferimento a quella ricerca di tracce del divino che costituisce gran parte di un altro capolavoro agostiniano, il De Trinitate. Iniziato nel 399 e concluso nel 420, si occupa di problemi esegetici, opponendosi, nella prima parte, a ogni interpretazione che, come quella ariana, introduca rapporti di subordinazione fra le persone della Trinità, e insistendo sul fatto che l’intera Trinità è implicata in ogni opera divina e condivide la medesima trascendenza.
Nel suo sforzo di sostenere e chiarire la dottrina trinitaria Agostino fornisce un contributo decisivo alla trasformazione del concetto di Dio nel mondo occidentale latino. Notevoli sono le implicazioni anche di carattere filosofico: mentre secondo la tradizionale dottrina aristotelica un predicato può essere unito a un soggetto per dirne la sostanza oppure una qualità accidentale, solo nel caso di Dio i predicati di persona – Padre, Figlio e Spirito – sono predicati di relazione che non dicono dunque tre sostanze diverse e, malgrado ciò, non sono accidentali.
La concezione del principio, o di Dio, che nel mondo classico era una sorta di assolutizzazione della categoria di sostanza, diventa in Agostino, e nella tradizione che a lui si richiamerà, una assolutizzazione della categoria di relazione: si parla di Dio come amore perché l’idea di due soggetti che si amano e dell’amore che li unisce rappresenta proprio la struttura pura della relazione.
Se l’uomo è immagine e somiglianza di Dio, qualcosa nella sua natura deve essere segno del modo trinitario con cui pensiamo a Dio. La seconda parte del De Trinitate è una straordinaria ricerca di analogie sempre più perfette tra la conoscenza dell’uomo e la Trinità divina, a partire dall’articolazione della visione sensibile – soggetto, oggetto e attenzione del soggetto verso l’oggetto – fino alla suprema analogia con le facoltà della conoscenza – memoria, intelligenza e volontà –, che non sono sostanze separate ma relazioni interne al processo di conoscenza: una sola vita, di una sola sostanza che, nel momento in cui opera, stabilisce relazioni tra i movimenti cui dà origine.
Nella memoria, come si è detto, si trovano i fondamenti delle diverse scienze costruite dall’uomo; l’intelletto lavora sui dati provenienti dalla memoria e li considera analiticamente; la volontà collega intelletto e memoria, rappresentando la relazione che fra loro intercorre. Emerge in modo molto chiaro il ruolo dell’analogia, strumento fondamentale della ricerca agostiniana e, al tempo stesso, struttura del mondo che questa ricerca si trova di fronte. L’analogia, che non è un rapporto di somiglianza, ma una somiglianza di rapporti, consente di dare unità alla molteplicità dei dati della conoscenza e ai diversi livelli dell’Essere, senza per questo dover superare le distinzioni, le dissomiglianze e le diversità di perfezione. Si tratta di una fondamentale conquista intellettuale che illumina tutto il percorso della ricerca agostiniana, mostrandolo dominato proprio dalla logica del desiderio che altro non è che una logica di relazioni costruite sul modello della Trinità divina.
Quando Agostino, tornato in Africa, diventa vescovo, la sua scelta è netta e decisa; si rende perfettamente conto delle responsabilità che si assume e del ruolo politico e istituzionale che la Chiesa sta progressivamente conquistando, in un mondo in cui sono incerti sia il potere centrale di Roma sia i poteri locali nelle province dell’impero. Nell’Africa del Nord, in particolare, è presente il movimento scismatico dei donatisti, di origine incerta, fortemente intollerante nei confronti di quanti vorrebbero rientrare nella Chiesa dopo averla abbandonata sotto le pressioni delle ultime sanguinose persecuzioni, precedenti al riconoscimento della religione cristiana da parte di Costantino.
Agostino respinge decisamente anche le posizioni teologiche dei donatisti, cioè il rifiuto della validità del battesimo ricevuto fuori della Chiesa donatista, il rifiuto della validità dei sacramenti celebrati da sacerdoti indegni, l’interpretazione della Chiesa come istituzione composta di puri e santi, circondata da un mondo di peccato e corruzione.
È il ricorrente problema di chi si sente l’avanguardia di altri, di chi si sente più perfetto di altri che si ripresenta nei secoli alle Chiese, ai partiti politici, ai gruppi rivoluzionari. Agostino difende l’idea di una Chiesa che contiene in sé anche le imperfezioni del mondo esterno e che trova la propria identità di gruppo nella consapevolezza della propria missione e non nella chiusura in se stessa. Non senza ironia osserva: “Le nubi del cielo affermano con voce di tuono che la casa di Dio sta costruendosi su tutta la terra, e dalla palude alcune rane gracidano: Noi soltanto siamo cristiani” (Expositio in Psalmos 95, 11). Dopo una fase di confronto amichevole e dialettico con i donatisti, Agostino arriva anche ad ammettere l’uso della violenza da parte del potere statale, senza tuttavia assumere mai atteggiamenti di tipo fondamentalista, ma come necessità imposta dalle condizioni storiche.
Agostino è sempre molto sensibile ai segni dei tempi, alla storia e alle condizioni in cui si trova a operare come responsabile della propria comunità. Per comprendere quale potesse essere la percezione che in quegli anni si ha della situazione complessiva dell’impero, si può ricordare una data che ebbe un impatto devastante sui contemporanei: il 24 agosto 410 un’armata gotica al comando di Alarico per tre giorni mette a sacco la città di Roma, che è il centro di una civiltà millenaria e il cui impero si è venuto di fatto identificando con l’idea stessa di civiltà, di ordine, di storia. “Se Roma può perire, che cosa può esservi di sicuro?” chiede Girolamo in una delle sue lettere. Agostino reagisce con forza a questa situazione, sapendo perfettamente di essere riferimento importante sia dal punto di vista religioso sia da quello istituzionale e politico, e sapendo anche che proprio in questo momento si gioca una partita decisiva per il futuro del cristianesimo, accusato di essere causa dell’indebolimento di Roma e della sua cultura.
Agostino capovolge il ragionamento, presentando il cristianesimo come la novità che anzi può dare nuovo vigore all’Impero romano, la cui decadenza si deve piuttosto ai suoi vizi, alle sue ipocrisie, alla sua incapacità di essere fedele a quelle grandi virtù descritte dai suoi letterati. Questo impegno di difesa del cristianesimo si colloca entro un’opera grandiosa, il De civitate Dei, in cui viene ripercorsa la storia di Roma che si trasfigura quasi nella storia dell’umanità. In essa convivono, mescolati in modo inestricabile, gli uomini che mettono al primo posto la ricerca di Dio, cioè dell’assoluto e della virtù, e gli uomini che mettono l’amore per se stessi davanti a ogni altra cosa, cercando solo di soddisfare i propri desideri terreni.
Si tratta delle famose due città – quella di Dio e quella terrena – che mai vengono identificate con Stato e Chiesa, ma rappresentano due modelli di vita che in ogni caso sulla terra sono destinati a convivere. I grandi valori della tradizione romana sono fondati su quelli della città terrena, sulla sete di dominio – libido dominandi – e sull’arrogante ricerca dell’ammirazione e della lode. Il De civitate Dei è una lunga e articolata riflessione sui rapporti fra cristianesimo e cultura pagana e sulla funzione anche provvidenziale della storia di Roma per l’affermarsi e il diffondersi della religione cristiana. È il primo complesso tentativo di proporre entro la nuova cultura una filosofia della storia, che Agostino riesce a costruire grazie alla capacità di pensare l’umanità come un unico organismo vivente sulla base di una propria legge di sviluppo e l’intero corso della storia come dotato di significati comprensibili e governato da un’ordinata successione di età. In ogni epoca gli uomini si orientano intorno alle due città, in una tensione presente fin dall’inizio nello scontro fra Caino e Abele, che si ripropone in circostanze diverse, alle origini della civiltà romana, nello scontro emblematico fra Romolo e Remo.
Anche l’appartenenza a una delle due città si potrebbe dire che non è un dato scontato, un carattere ontologico dell’individuo, ma risponde alla tipica logica relazionale agostiniana: dipende dal rapporto con gli altri, dalla proporzione fra attenzione ai beni del mondo e desiderio di novità radicali, di un altro modo di essere. Questo tratto molto caratteristico dell’ispirazione agostiniana – centralità delle relazioni, delle proporzioni, delle analogie e delle mediazioni – è forse quello che lentamente si perde negli scritti dell’ultimo periodo della vita di Agostino, soprattutto in quelli composti nel vivo della polemica contro il pelagianesimo.
Pelagio e altri teologi contemporanei di Agostino, che verranno poi identificati genericamente come pelagiani, ritengono che il peccato originale non si trasmetta da Adamo a tutti i suoi discendenti e che quindi la natura umana abbia la capacità di non peccare. A essi Agostino contrappone l’idea della trasmissione del peccato originale tramite la generazione carnale, con la conseguenza che ne sono investiti anche i bambini appena nati, della cui colpa rimane un segno nel piacere sessuale che ne accompagna il concepimento. Da un punto di vista filosofico è in gioco una complessiva visione antropologica che Agostino costruisce intorno all’idea di un uomo irrimediabilmente segnato dal male e dalla inutilità dei suoi sforzi per sollevarsi da solo. Ricompare, tra i pelagiani, l’idea dei puri, dei migliori, di quelli che sanno trovare in sé le risorse per farcela e ancora una volta Agostino respinge questa concezione, cadendo nell’estremo opposto di considerare l’insieme degli uomini come una massa dannata.
Sembra lontano l’Agostino del dubbio, del mutamento metodico di punto di vista, dell’analogia fra uomo e Dio. Ma a questo punto della vita Agostino ha scelto di fare di questi discorsi degli strumenti di prassi politica, di organizzazione del consenso, di scontro ideologico, trasformandoli in dogmi nel senso pieno del contesto religioso. Il peccato, il male, la morte, la salvezza diventano oggetti definibili, perdono il carattere relazionale di cui in precedenza erano portatori. Non abbiamo di fronte un altro Agostino, ma sempre il pensatore conosciuto nell’ozio filosofico della Brianza che, posto davanti a quelle che ritiene le urgenze della Storia, sceglie di agire, mette in gioco la volontà di operare nel mondo e, forse, di difenderne tutta la complessità. Non si deve dimenticare che un’accusa frequentemente rivolta ai pelagiani è quella di essere superbi, di credere che dipenda dall’uomo la possibilità di superare le proprie imperfezioni e le proprie miserie, cioè, in termini religiosi, di salvarsi. Non è sufficiente il concetto cristiano di Provvidenza per rispondere a tutti i problemi posti dalla riflessione antica sul fato e il destino; Pelagio vuole sottrarsi a questi vincoli, al prezzo di una specie di aristocrazia intellettuale che Agostino non accetta.
Agostino ha sempre ammesso l’idea di un’azione di Dio sull’uomo: quando ne parla, come nel De magistro, in termini di illuminazione interiore, sembra sviluppare un discorso sulle categorie della conoscenza; quando invece ne parla nel contesto delle dispute religiose su salvezza e dannazione, sembra sviluppare un discorso sulla necessità del destino, sulla impossibilità di farcela senza un oggettivo aiuto da parte di Dio. Compare con tutta la sua drammaticità il tema della grazia e della predestinazione. Nel succedersi di numerosi scritti, fra cui si possono ricordare De gratia et libero arbitrio, De corruptione et gratia, De praedestinatione sanctorum e De dono perseverantiae, questi concetti si irrigidiscono e diventano armi di scontro anziché ipotesi di ricerca. Già il neoplatonismo ammetteva una comunicazione continua attraverso i gradi gerarchici dell’essere e, in questo quadro, la grazia altro non è che l’operazione per mezzo della quale gli uomini sono spinti a conoscere e amare Dio; è la piena realizzazione dell’anima, intesa sia come sede della vita spirituale sia come centro della attività conoscitiva. Se il desiderio si disperde nella ricerca delle soddisfazioni terrene, si ha il disordine, perché viene meno il legame analogico tra umano e divino. Ma il legame analogico viene meno anche quando viene spezzato, per così dire, sull’altro versante, quando cioè l’azione di Dio non è più armonicamente connessa con il modo in cui l’uomo la pensa.
Allora l’uomo non può sapere perché alcuni ce la fanno e altri no, perché alcuni si salvano e altri non si salvano; è come se un oggetto – dice Agostino – chiedesse all’artigiano che lo ha fabbricato perché lo ha fatto in quel modo, o una bestia chiedesse a Dio i motivi per cui non è stata fatta uomo. Bastano questi esempi per mostrare che è venuto meno il nesso analogico fra uomo e Dio. Mentre i Goti saccheggiano Roma e i Vandali si avvicinano a Ippona, mentre la civiltà romana sembra tramontare e il cristianesimo si profila come ultima ancora di salvezza, Agostino mette in gioco tutta la forza della propria volontà e sceglie di guidare la comunità, offrendo ai suoi fedeli non più dubbi ma certezze.