DORIA, Agostino
Nacque a Genova attorno al 1540 da Giacomo e da Bettina De Marini ed ebbe tre fratelli (Nicolò, Stefano e Gerolamo) e cinque sorelle, tutte sposate con esponenti delle principali famiglie nobili (Eliana ad Ambrogio Di Negro, Sobrana a Francesco Pallavicini, Ginevra a Francesco Maria Imperiale, Orietta a Isnardo Cattaneo, Isolta a Battista Giustiniani).
Il D. fu il terzo doge della famiglia Doria, dopo lo zio Giovanni Battista (1537-39) C il fratello maggiore Nicolò. Il ramo della famiglia discendeva in linea diretta dal celebre ammiraglio Lamba, possedeva patrimoni tra i più cospicui dentro e fuori Genova (il nipote del D., Giovanni Stefano, cui nei primi decenni del Seicento si attribuirà un reddito annuo di 100.000 scudi, sarà ritenuto l'uomo più ricco d'Italia), era strettamente legato ad Andrea Doria prima e a Giovan Andrea poi, oltre che da vincoli di parentela, da precisi interessi politico-economici.
Nella orazione ducale Ansaldo Cebà sottolineava anche le vaste attività filantropiche del D.; ma tale riferimento sembra maliziosamente correlato a un esercizio dell'ampio patrimonio tanto parsimonioso nei confronti dei consumi personali quanto aperto alle altrui "necessità", con espressioni che si possono intendere riferite si alle elemosine, ma anche all'attività finanziaria di prestiti alla Spagna. Certo il D. raggiunse fin dalla giovane età autorità e prestigio nell'ambito della nobiltà "vecchia", con la quale ovviamente si schierò nella guerra civile del 1575. E quando, nel marzo 1576, a Casale, dopo la stesura dei nuovi statuti, i legislatori riempirono per la prima volta l'urna del seminario con i nomi dei più autorevoli cittadini, tra i quali scegliete i membri del nuovo governo, vi furono inclusi i nominativi del D. e del fratello Nicolò. I due risultano anche tra i nobili più ricchi: infatti nel contemporaneo elenco dei patrimoni sottoposti alla tassazione del 2 e 1/2% (tassazione stabilita dai nobili stessi per ripartizione delle spese di guerra) il D. figura con un patrimonio valutato 73.750 scudi e il fratello 162.500, secondo solo ai 200.000 del principe Giovan Andrea Doria. Nello stesso 1576 il D. fu inscritto sia fra i 400 componenti del nuovo Maggior Consiglio, sia fra 1100 dei Minore, il quale ultimo, in quel periodo di attuazione delle nuove normative, e per i compiti che il nuovo sistema gli affidava, era diventato e resterà il centro del sistema politico di governo.
Nei successivi vent'anni, per lo più anni di inerzia, anche se di relativa tranquillità per la Repubblica, il D. esplicò gli incarichi amministrativi consueti alla nobiltà: tra i Padri del Comune nel 1578, nel magistrato dei Cambi nel 1580, nell'ufficio di Abbondanza nel 1581, proprio dopo che una delle grandi epidemie di peste aveva reso critico l'approvvigionamento di Genova e delle Riviere. Nell'82 gli venne affidato l'incarico di provvedere alla riforma del magistrato dei Rotti, cioè dei fallimenti, magistratura che la costituzione del 1528 aveva affidato alla giurisdizione del Senato e una riforma del 1573 aveva restituito a uno specifico Collegio composto di cinque patrizi. Lo studio del D. non dovette comunque avere applicazione nell'immediatg, poiché nuove riforme a questo istituto verranno solo dal 1622 in poi. Nello stesso 1582 il D. venne estratto senatore, e perciò ascritto tra i dodici governatori per un biennio. In questo periodo assunse la direzione di alcuni lavori di ristrutturazione urbanistica, tra cui la costruzione della nuova chiesa di S. Pietro in Banchi e la sistemazione della zona tra la piazza e la strada di Soziglia, che restò solo parziale. Nel 1585, con Antonio Grimaldi Cebà, diresse il magistrato di Terraferma. avente competenza giudiziaria sui residenti extra moenia e sugli stranieri. Quindi fece parte del magistrato degli Straordinari, con la stessa competenza del precedente, ma riferita ai residenti in Genova, e una seconda volta di quello dei Cambi. Tra il 1588 e 1593 il D. fu prescelto tra i conservatori della Pace, istituzione genovese il cui scopo era impedire i duelli, e in varie altre magistrature a carattere filantropico, quali la cura dei carcerati e la procura delle doti alle ragazze da maritare o da monacare.
Attraverso tali incarichi, che obbedivano alla logica politica del mantenimento rigoroso dell'ordine interno in un periodo in cui la tensione sociale era tornata a crescere, il D. doveva confermare la propria dimensione di uomo d'ordine, garante della restaurazione nobiliare. Perciò quando nel 1597 si trattò di scegliere il nuovo doge, nonostante la proclamata ritrosia del D., egli fu presentato come il candidato del principe Giovan Andrea Doria e della sua fazione. E, proprio in quanto tale, il D. fu respinto dalla maggioranza, che gli preferì Lazzaro Grimaldi Cebà, candidato del marchese Ambrogio Spinola. Il D. si era cioè trovato ad essere una pedina del gioco serrato che in quegli anni si combatteva a Genova tra il principe Doria e lo Spinola, entrambi influenti, entrambi legati alla Spagna, e separati piuttosto da una rivalità personale che da un diverso progetto politico.
L'ostilità diffusa nei confronti dell'autoritarismo del principe Doria costò al D. non solo la mancata elezione ducale, ma anche l'esclusione dal Minor Consiglio, nel quale il partito del principe preferì per dispetto far entrare Davide Vaccaro. Il D. si ripresentò candidato quattro anni dopo e venne eletto doge, con 245 voti, il 24 febbr. 1601: comunque, tra le voci degli agiografi, non manca quella di chi, come il Roccatagliata, parla di elezione avvenuta tra vivaci contrasti.
Il D. non poté presenziare alle operazioni elettorali perché malato; ma, a elezione avvenuta, si fece subito portare in lettiga a palazzo ducale. L'incoronazione in duomo si tenne il 19 maggio alla presenza di Stefano Baliano vescovo di Brugnato e con orazione del teatino Gerolamo Coleta; l'orazione nella cerimonia in Senato fu tenuta da Ansaldo Cebà: entrambe furono date alle stampe dal teologo Antonio Prato, con dedica a Marco Antonio Doria, figlio del Doria.
L'elezione era avvenuta in un periodo di irrigidimento autoritario, la cui accentuazione appariva giustificata dal difficile momento apertosi nelle relazioni con la Spagna dopo la morte di Filippo II. La nobiltà "vecchia" dovette trovare opportuno ribadire, con l'elezione del D., le linee più conservatrici, all'interno e all'estero, della propria tradizione politica: poteva significare intanto una riconferma della riconosciuta funzione di "sostegno della libertà" a quella casa Doria che si valeva dei suoi inequivocabili legami politico-militari con la Spagna; certo significava sottolineare quella svolta autoritaria con cui il regime degli ottimati si garantiva dai tentativi tanto dei popolari come dei gruppi nobiliari dissidenti. Significativamente, un mese prima dell'elezione del D., era stato deciso di non procedere alle previste nuove ascrizioni alla nobiltà, poi, solo dopo numerose proteste (e dopo la congiura del Leveratto, espressione tra le altre dei generico malcontento dei non ascritti), il D., da doge, diede incarico a Giovan Battista Sisti e a Bernardo Clavarezza Cibo, governatori della Repubblica, di compilare tre libri per "sistemare meglio" le nuove ascrizioni, seguendo comunque le norme fissate nel 1576: nei primi due libri dovevano essere elencati i nominativì, nel terzo tutte le deliberazioni prese attorno alle singole iscrizioni. A evidente come un simile provvedimento, di natura esclusivamente amministrativa, consentisse un più razionale controllo della situazione esistente ed eludesse qualsiasi aspettativa politica. Del resto tutte le inquietudini interne, sotto il dogato del D., furono inesorabilmente represse, tanto quelle evidenti come quelle supposte. Venne giustiziato Genesio Gropallo, giovanissimo figlio di un tessitore di lana, riconosciuto colpevole dell'uccisione di Lorenzo Sauli, doge immediatamente precedente il D. e procuratore perpetuo, e decapitato anche il cugino, che lo avrebbe protetto nella fuga. L'omicidio, che aveva suscitato grande agitazione nell'ambiente nobiliare (anche perché i Sauli ritenevano responsabile Lorenzo Fieschi, prima che un Marcello Voltaggio denunciasse il vero colpevole) consentì al D. e al governo di introdurre misure d'emergenza nel dominio e di giustificare una delle operazioni più complesse intraprese in questi anni contro il banditismo: e la riorganizzazione amministrativa comportò l'elevazione a capitanati per le vecchie podestarie di Recco, Bisagno, Polcevera e Novi, con il conseguente affidamento delle cariche direttive ai nobili invece che ai cittadini non ascritti.
All'interno di questa operazione, nel 1602, il D. presiedette la commissione appositamente istituita per studiare i mezzi più efficaci contro la malavita e nominò deputati per lo sterminio dei banditi Giorgio Centurione (che aveva favorito la sua elezione a doge) e Bernardo Clavarezza. Nel secondo anno di dogato, la sventata congiura del medico Giovan Giorgio Leveratto e del cognato Giovan Battista Vassallo di Portofino, che avrebbero tramato di consegnare Genova alla Francia (anch'essi giustiziati, nonostante l'inconsistenza delle accuse) contribuì ulteriormente a giustificare la politica di controllo e difesa del territorio attuata dal D. e dal Senato con la costruzione di nuove fortificazioni e il potenziamento delle forze militari.
Anche nei confronti della amministrazione marittima l'elezione ducale del D. ebbe funzione risolutiva: infatti la sua prima delibera fu l'approvazione dei nuovi capitoli dei conservatori del Mare, già proposti al Senato dagli stessi ufficiali dei conservatori dopo un lungo periodo di elaborazione, in cui era risultata alla fine decisiva la relazione di Bernardo Clavarezza e di Bartolomeo Garibaldi. La nuova magistratura, corrispondente all'antico officium maris, praticamente un tribunale del commercio marittimo, ora affidata a cinque patrizi da eleggersi dai Collegi e dal Minor Consiglio, assicurò il pieno controllo su tutto il settore ai grandi gruppi armatoriali.
Nell'ambito delle relazioni diplomatiche durante il dogato, il D. ebbe modo di ricevere tra gli altri la visita di Efet bey, ambasciatore del re di Persia arrivato a Genova di passaggio per la Spagna, con quattordici persone al seguito: visita che, al di là della enorme curiosità popolare provocata, non sembra aver avuto risonanze economiche, anche se l'ambasciatore si rammaricò col D. per aver fino ad allora ignorato la grandezza della Repubblica di Genova.
Terminato il dogato il 25 febbr. 1603, il D., secondo la prassiabituale, entrò fra i procuratori Perpetui; fu quindi tra i protettori dell'ospedale di Pammatone e, nel 1607, tra i protettori del S. Offizio, magistratura con funzione di controllo su questo tribunale ecclesiastico.
Morì il 1º dic. 1607 ed ebbe sepoltura in S.Matteo, chiesa gentilizia dei Doria, dove ancor oggi è visibile un suo busto marmoreo, collocato di fronte a quello del fratello Nicolò, in un atrio annesso al chiostro.
Dal matrimonio con Eliana Spinola di Goffredo aveva avuto sei figli, tutti ascritti alla nobiltà nel 1579: Marcantonio che ebbe fama di buon letterato e di filantropo grazie alle cospicue donazioni all'ospedale degli incurabili, Giovan Luca, Giacomo Massimo, Giovan Carlo (tutti e tre sposati a donne di famiglia Spinola, rispettivamente Paola di Antonio, Brigida di Gaspare e Veronica di Ambrogio), Virginia, poi sposa a Stefano Doria, e Battina.
Contemporaneo al D. opera nella vita politica genovese un Agostino fu Bartolomeo, che venne eletto commissario contro i fuorusciti nella Riviera di Levante nel 1582, tra i governatori nel 1587 e tra i procuratori nel 1592.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, ms. 520, c. 33; Genova, Bibl. civ. Berio, m. r. X, 2, 168: L. Della Cella, Famiglie di Genova, II, c. 58; A. Cebà, Orazione nell'incoronazione del serenissimo doge A. D., Genova 1601 (rist. 1617, con ritratto); G. Croce, Ragionamenti nell'anniversario dell'unione della Ser.ma Repubblica di Genova ... avanti il duce A D., Genova 1601; F. Casoni, Annali della Repubblica di Genova, Genova 1800, IV, pp. 96, 206, 228; N. Battilana, Genealogie delle famiglie nobili di Genova, Genova 1825, p. 53; A. Roccatagliata, Annali della Repubblica di Genova, Genova 1873, pp. 14, 220, 245; L. M. Levati, Dogi biennali della Repubblica di Genova, Genova 1930, I, pp. 27, 171, 227-285, 364; II, p. 465 (con bibl.); F. Poggi, Le guerre civili di Genova, in Atti d. Soc. ligure di st. patria, LIV (1930), p. 123; G. Guelfi Camajani, Il Liber nobilitatis Genuensis, Firenze 1965, p. 159; V. Spreti, Enc. storico-nobiliare ital., II, p. 625.