MOSTI, Agostino
MOSTI, Agostino. – Nacque il 30 luglio 1505 a Modena.
I Mosti erano da tempo impegnati al servizio degli Este (un Bonaventura risulta tesoriere ducale dal 1490 al 1502, un Giuliano fattore ducale a Ferrara nello stesso periodo), e appunto nei primi decenni del XVI secolo questi servigi vennero ripagati con il castello di Medola e una contea sulle montagne di Ferrara. Al suo consigliere Vincenzo Mosti e ai suoi discendenti Alfonso I concesse l’arma ducale, il cognome estense e il castello di Fossadalbero (Solerti, 1892, pp. 183 s.). Di Vincenzo (o di suo fratello Tommaso), a testimonianza del rilievo goduto, rimane un celebre ritratto di Tiziano (Firenze, Galleria di Palazzo Pitti).
All’età di sette anni Mosti entrò alla corte di Ferrara come paggio del piccolo Ercole d’Este (nato nell’aprile 1508); condivise con il principe l’infanzia e gli studi, come si ricava da una relazione sulla vita e i costumi della corte estense stesa in età avanzatissima (il documento, significativo per più aspetti, fu compilato da Mosti su richiesta di Benedetto Manzuoli, vescovo di Reggio, in data 30 luglio 1584 e fu pubblicato da Angelo Solerti sulla base del manoscritto autografo conservato nell’Archivio di Gherardo Molza a Modena, oggi alla Biblioteca Estense e universitaria, nella Raccolta Molza). Entro un ampio e generale resoconto degli anni Dieci e Venti a Ferrara, Mosti rievocava il suo ingresso a corte, i primi anni trascorsi con Ercole e il fratello Ippolito («sebbene eravamo paggi, udivamo e facevamo però le medesime lezioni, versi, et epistole latine et greche», Solerti, 1892, p. 184), ma anche la figura del duca e la sua condotta di governo, le occasioni di una vita culturale dominata dalla personalità dell’Ariosto, la cui «prima bozzatura» dell’Orlando furioso era oggetto di pubbliche letture accanto all’Inamoramento del Boiardo (ibid., p. 171). A testimonianza di una collocazione prossima al giovane principe, Mosti lo accompagnò nel viaggio verso Roma dell’autunno 1522, in occasione dell’elezione di Adriano VI, e il suo resoconto descrive la dimora romana presso i Colonna nel palazzo dei Ss. Apostoli, l’orazione latina tenuta da Ercole, così come anche il passaggio a Firenze presso Giulio de’ Medici, il futuro Clemente VII. Un paio d’anni dopo, nel settembre 1525, era ancora a fianco di Ercole in un tentativo di viaggio verso la Spagna, tentativo finito «dopo un dannoso naufragio sul Po sopra Monferrato», ibid., p. 177).
A partire dai secondi anni Venti, dopo le nozze di Alfonso con Renata di Francia, Mosti dovette passare a un ufficio stabile a corte, quale gentiluomo di camera, con una serie di mansioni interne e di fiducia, come si deduce anche da un inciso entro il resoconto a Manzuoli: «perché così è vero ch’io maneggiava un cotal libruzzo nel camerino dorato, che così si chiama, ov’erano notati tali danari» (ibid., p. 173). Del rapporto con il duca Alfonso negli ultimi anni del suo governo informano un gruppo di lettere di Mosti (conservate autografe presso l’Arch. di Stato di Modena, Archivio per materie, Letterati, Mosti Agostino, b. 39): in una prima serie, del novembre 1532, aggiornava il duca allontanatosi da Ferrara su piccole questioni quotidiane, che andavano dalla gestione delle terre agli avvenimenti più minuti che si registravano in città, professandosi «minimo servitore» e tuttavia intimo al punto di conservare un tono familiare e autoironico. Testimonianza analoga in una lettera del 20 ottobre 1536, quando al governo di Ferrara era subentrato Ercole d’Este; ancora una lettera dell’Archivio di Stato di Mantova (Serie Particolari, b. 960, ad nomen) attesta una missione a Trento nel gennaio 1540, in un viaggio verso Innsbruck, e poi, alla fine del decennio, un passaggio a Venezia, mirato all’acquisto di preziosi per il duca. A questa posizione contigua ai principi Mosti dovette una visione privilegiata della politica e degli equilibri della corte estense, probabilmente riversata in un’opera storica che, citata di passaggio nel resoconto a Manzuoli («e di ciò ne parla più la mia istoria», Solerti, 1892, p. 170, con riguardo alla morte del cardinale Ippolito) rimane allo stato senza un riscontro puntuale.
È di questa stagione l’avvio anche di alcune amicizie strette entro l’ambiente dello studio ferrarese: con Andrea Alciato, con Alessandro Guarini e ancora con Celio Calcagnini, il quale a Mosti dedicò versi latini (a stampa in G.B. Pigna, Carmina, Venezia, V. Valgrisi, 1553, p. 178). Tali rapporti maturarono anche sulla base di pratiche e interessi letterari di Mosti, testimoniati sia da alcune osservazioni sulle commedie dell’Ariosto in relazione al modello plautino, sia da un paio di lettere dell’Aretino. Nella prima, del febbraio 1537, indirizzata a Ercole II, Mosti e Nicolò Bendidio, altro consigliere del duca, sono ricordati con affetto; nella seconda, del 12 dicembre dello stesso anno, Pietro Aretino si rivolgeva direttamente a Mosti inviandogli dei sonetti in lode dell’Ariosto, sonetti richiesti e destinati evidentemente a infoltire una raccolta che Mosti progettava di dedicare alla memoria del poeta ferrarese (Aretino, 1997, pp. 155, 396 s.; al riguardo anche Catalano, 1930, p. 640).
Non si trattava però solo di culto ariostesco: una testimonianza di esercizi letterari è nella redazione di un resoconto in occasione dell’arrivo a Ferrara di Paolo III (Lettera nuova di tutte l’entrate feste, giostre, commedie et doni per la venuta di P. Paolo III a Ferrara, cosa molto bella, Ferrara, s.t., 1543): l’esemplare della Biblioteca Ariostea di Ferrara segnato E.5.2.2 porta manoscritta sia la dedica «Rev. Fratello Honorandissimo m. Thomaso Mosti» sia la firma in calce all’opuscoletto («Humil. f.llo Agost. Mosti», c. BIIIr).
La paternità di Mosti è stata proposta anche per una breve opera di un quindicennio successiva, uscita a celebrare l’elezione di Alfonso II (La creatione di donno Alfonso II, quinto duca d’Este), senza note tipografiche ma presumibilmente stampata a Ferrara nel 1559 da Giovanni De Rossi, sebbene Tiraboschi (IV, 1783, p. 155; V, 1784, p. 390) propendesse per l’attribuzione ad Alessio Visdomini e il Barotti (Memorie istoriche di letterati ferraresi, II, Ferrara 1793, pp. 185 s.) pensasse a Pigna. Accanto alle dieci carte di questo opuscolo vanno ricordate le sole quattro carte di una Copia di una lettera scritta sopra la entrata fatta nella citta di Ferrara dallo illustrissimo, et eccellentissimo signor Alfonso secondo et duca quinto, pubblicate a Venezia nel 1559, ancora senza indicazione d’autore (per alcune ipotesi cfr. Borso d’Este, Lettera inedita di Borso d’Este..., pref. di G. Antonelli, Ferrara 1869).
I legami con la cultura estense sono poi attestati da una serie significativa di altri elementi: nello scorcio conclusivo dei Dialogi duo de poetis nostrorum temporum (Firenze 1551) Lilio Gregorio Giraldi inserì i nomi di Mosti e di Nicolò Bendidio come degni di figurare nella rassegna dei poeti moderni; in più, in occasione del ricordo di Niccolò Lelio Cosmico, sottolineò come Mosti ne conservasse manoscritti di testi inediti, con lettere e rime, codici non individuati nella bibliografia più recente. Lo stesso Giraldi dedicava a Mosti l’ultimo dei suoi Dialogismi (Venezia 1553): l’argomento – De morte et interitu Aristotelis philosophi – e i numerosi brani in greco informano, sia pure per via indiretta, dell’ampia cultura umanistica su cui Mosti doveva evidentemente poter contare.
L’insieme delle testimonianze, come anche alcune lettere degli anni Cinquanta (aprile 1556 e febbraio 1557, in Arch. di Stato di Modena, Arch. per materie, Letterati, Mosti Agostino), documentano una dimora costante a Ferrara, ma non forniscono elementi sulla vita privata di Mosti: risultano piuttosto mansioni di ordine amministrativo, la collaborazione con Bendidio, ma anche sodalità con figure quali quella di Pirro Ligorio, arrivato a Ferrara nel dicembre 1568. A confermare la prossimità di Mosti con Ligorio, si può citare una nota apposta a un manoscritto linceo, Roma, Biblioteca Corsiniana, S. Maria in Aquiro, XXXIII: «La copia dell’espositione delle medaglie Greche hebbi dal S.re Agostino Mosti quale esso hebbe da M. Pirro Ligorio Antiquario dell’Ecc.mo S. Duca» (un’altra nota nello stesso manoscritto rimanda a un volume ricevuto da Mosti da parte di Sallustio Piccolomini, ambasciatore estense a Firenze).
Nel dicembre 1572, in compagnia di Pirro Ligorio ma anche di Torquato Tasso, Mosti si recò a Roma con il duca Alfonso II (Solerti, 1895, p. 102) per rendere omaggio a Gregorio XIII. Pochi mesi dopo, nel giugno del 1573, tornato a Ferrara, dava pubblica manifestazione del suo culto di lunga data per l’Ariosto, facendo erigere un monumento in occasione della traslazione dei resti del poeta nella cappella Estense della chiesa nuova di S. Benedetto (Catalano, 1930, p. 636; Cavara, 1872).
Il progetto della tomba venne affidato a Ligorio, mentre il busto dell’Ariosto fu realizzato da Prospero Clemente; in quell’occasione Mosti scrisse una lettera definendo il poeta del Furioso «mio per lunga conversatione di serie d’anni compagno, et posso dir fratello» e in un passaggio sosteneva di disporre di «alcuni scritti et opere di mano» dell’Ariosto (ibid., p. 238); nel parallelo resoconto del nipote Giulio, indirizzato a Guarino Ariosto, si legge questa testimonianza: «messer Agostino pigliò il capo in mano con la mascella, tanto intero che né anco un minimo dente vi mancava et disse “Già negar non si può che questa sia la testa del poeta”» (ibid., p. 241).
Degli anni Settanta rimangono ancora un paio di documenti amministrativi: l’attestazione di un credito controfirmato da Pigna (Arch. di Stato di Mantova, Archivio per materie, Particolari, b. 962) e una lettera a Pompeo Strozzi, agente del duca di Mantova del 26 settembre 1576 (ibid., b. 1254, c. 310r); conta però soprattutto l’amministrazione dell’ospedale di S. Anna, incarico assegnato a Mosti probabilimente già nel corso del decennio precedente. In quanto priore dell’ospedale, secondo il racconto di Marc’Antonio Guarini, Mosti «ne construsse la detta chiesa, quella nuovamente edificando, ed ordinando con indicibile carità e pietà le cose del detto Spedale» (Guarini, 1621, p. 155). Per singolare giunzione toccò così in sorte all’ammiratore dell’Ariosto di sorvegliare l’altro grande poeta di casa estense, il Tasso, durante la prigionia che lo vide costretto, proprio nell’ospedale contiguo al palazzo ducale, dal 1579 al 1586. In quegli anni Mosti portò a termine la costruzione della chiesa (la consacrazione avvenne nel giugno 1581, nell’ottobre 1583 vi avrebbe trovato sepoltura Ligorio), supportato da Giulio e dall’altro nipote Lodovico, canonico della cattedrale.
Fu in questi ultimi anni, e nell’esercizio della sua mansione, che Mosti diede pubblica prova di «singolarissime qualità, prudenza e religione» (ibid.), nel senso di una moderazione e modestia sulle quali le testimonianze sono concordi. Lo stesso memoriale del luglio 1584, dopo aver ripercorso a margine di storie e costumi ferraresi un’intera biografia all’ombra delle corti, si chiude con la riflessione sull’opportunità di una morte serena. Non doveva essere puntata occasionale se proprio a questo tema si indirizzano quattro dei sei sonetti composti da Tasso prigioniero a S. Anna in onore di Mosti; vi si tratteggiava l’elogio di una vecchiaia tranquilla, frutto di un vita trascorsa all’insegna di quiete e rettitudine (Rime, n. 847), e ancora la «fronte ognor serena e lieta» (ibid, n. 848, v. 5) e la «mente serena e luminosa» (ibid., n. 849, v. 10), in linea con la figura di «molta bontà e pietà», disponibile verso gli infermi, descritta da Guarini. Malgrado la condizione precaria della reclusione, Tasso riconobbe dunque in Mosti (definito un «devoto e pio coltor de’ sacri tempi», ibid., n. 849, v. 12; e cfr. anche Tasso, 1855, nn. 133, 288) una figura composta e ammirevole, con la quale poteva anche inclinare al gioco in versi in un paio di sonetti su alimenti e vino (Rime, nn. 851 s.; da segnalare che il sonetto successivo, n. 853, venne dedicato dal Tasso a Ercole Mosti, altro membro della famiglia e maggiordomo di Alfonso II).
Morì a Ferrara, a poche settimane dalla firma del memoriale, il 31 agosto 1584.
Non a Mosti ma con ogni probabilità a un omonimo discendente vanno assegnati i versi che si leggono nel volume di Rime di Fulvio Testi (con un sonetto di corrispondenza Troppo hai tu del mio honor le voglie ardenti, in Rime scelte de’ poeti ferraresi antichi e moderni, Ferrara 1713, pp. 561 s.). Certa invece la parentela di Agostino con Giulio Mosti, suo nipote, figlio di Zenobio, figura sbiadita resa celebre per un breve tratto dalla contiguità con Tasso nel corso della reclusione del poeta a S. Anna. Poco è noto dei primi anni di Giulio, se non che appunto ancora giovane, e certo per incarico ricevuto dallo zio, iniziò ad aiutare Tasso nella copia di manoscritti e lettere: una porzione di questi manoscritti, studiata già da Ezio Raimondi in relazione all’edizione dei dialoghi tassiani, conservata un tempo presso la Raccolta Molza-Viti, proprietà della principessa Beatrice Rospigliosi e ora confluita nell’omonima raccolta della Biblioteca Estense e universitaria (ff. 19, 23-25, quest’ultimo con correzioni autografe di Tasso; codici riguardanti le rime sono invece censiti in Solerti, Appendice alle opere in prosa di Torquato Tasso, Firenze 1892, pp. 61-66). L’attività di Giulio venne apprezzata dal poeta, che in più occasioni, tanto entro l’epistolario quanto nelle rime, lasciò traccia di una stima persino affettuosa: eloquenti, in questo senso, sia la composizione del dialogo Il cavalier amante e la gentildonna amata, ispirato appunto a Giulio e terminato nel 1580, sia i componimenti nn. 396-417 delle Rime di Tasso, versi composti tutti a istanza del giovane. Altrettanto eloquente il caso, illustrato sempre da Solerti, di una poesia di Giulio rivista e migliorata dalla mano di Tasso (Solerti, 1895, p. 375), il quale in una ulteriore coppia di altri sonetti (Rime, nn. 794 s.) sembra alludere a una vita irrequieta e a delle passioni amorose che tormentavano Giulio. Questi, per parte sua, sfruttava la prossimità con il poeta diffondendo quali primizie i testi appena compiuti, come attestano le lettere inviate a Marcello Donati, agente del duca di Mantova, all’inizio degli anni Ottanta (Arch. di Stato di Mantova, Arch. Gonzaga, E.XXXI, 1255, cc. 3r-v, 279r-v, 281r-v; 1257, cc. 369r-v, 377r-v, pubblicate in Solerti, II, 1895, pp. 145-147, 155, 159 s.). Proprio per questa sua importante azione di mediazione lo studio dei suoi manoscritti delle opere tassiane risulta di particolare rilievo, anche in vista di nuovi ritrovamenti (ibid., I, p. 347 per la segnalazione di alcuni codici). Venuta meno la vicinanza a Tasso, Giulio tornò nell’ombra e non si hanno notizie della sua biografia per gli anni successivi, se non l’epistola dedicatoria a lui indirizzata dell’Origine del ducato e della città di Ferrara di Alessandro Sardi, figlio di Gasparo, conservata manoscritta all’Archivio di Stato di Mantova (mss. Bibl. 3).
Fonti e Bibl.: T. Tasso, Lettere, a cura di C. Guasti, II, Firenze 1855, nn. 133, 288; Id. Rime, a cura di A. Solerti, Bologna 1898, passim; P. Aretino, Lettere, a cura di P. Procaccioli, I, Roma 1997, pp. 155, 396 s.; M.A. Guarini, Compendio historico dell’origine, accrescimento, e prerogative delle chiese, e luoghi pii della citta, e diocesi di Ferrara, Ferrara 1621, pp. 65, 155, 211; G. Baruffaldi, Dissertatio de poetis Ferrariensibus, Ferrara 1698, p. 31; F. Borsetti, Historiae almi Ferrariae Gymnasii, II, Ferrara 1735, pp. 373-375; G. Tiraboschi, Biblioteca modenese, IV, Ferrara 1783, p. 155; V, ibid. 1784, pp. 390, 394; L. Ughi, Dizionario storico degli uomini illustri ferraresi, II, Ferrara 1804, pp. 81 s.; C. Cavara, Sulla prima sepoltura di Ludovico Ariosto e su Gregorio Montagnana, in Atti dell’Accademia Olimpica di Vicenza, II (1872), pp. 227-246; A. Solerti, La vita ferrarese nella prima metà del secolo XVII descritta da A. M., in Atti e memorie della R. Deputazione di storia patria per le provincie di Romagna, s. 3, X (1892), pp. 164-203; Id., Vita di Torquato Tasso, Torino-Roma 1895, I, pp. 314 s., 389; II, pp. 145-147, 155, 159 s.; M. Catalano, Vita di Ludovico Ariosto ricostruita su nuovi documenti, I, Genève-Firenze 1930, pp. 636, 640.