NANI, Agostino
– Nacque a Venezia il 23 luglio 1555 da Giorgio, del ramo insediatosi a Cannaregio, e da Maria Vitturi.
Fondò la sua formazione sugli studi filosofici, sulla filologia latina e sull’eloquenza, manifestando un precoce interesse per l’attività politica che lo portò a collezionare una discreta raccolta di trattati politici contemporanei. Ciò nonostante non produsse alcuno scritto, a eccezione di una dedicatoria di maniera a Marco Antonio Priuli a premessa della sua curatela del De recta philosophandi ratione (Verona 1577) di Agostino Valier. Allontanatosi in anno da Venezia sconvolta dalla peste, si recò a Verona, accolto dall’amico e letterato Pier Francesco Zini, che lo introdusse nella cerchia dello stesso Valier, stimato e colto vescovo della città.
Dopo l’ingresso nel Maggior Consiglio da estratto nel 1575, iniziò la sua carriera politica nel 1580 come savio agli Ordini. In una prima fase dedicò una parte rilevante della sua attività al servizio diplomatico, ottenendo il 16 agosto 1586 la nomina ad ambasciatore straordinario presso Carlo Emanuele duca di Savoia, in occasione della nascita del principe Filippo Emanuele (avvenuta dopo il matrimonio con l’infanta di Spagna Caterina) e del battesimo nel maggio 1587. È priva di fondamento la notizia di un incarico da ambasciatore ordinario presso la stessa corte dal 1589 al 1591. Di tale incarico venne invece investito il 6 novembre 1594 con l’elezione in Spagna presso la corte di Filippo II. Giunse a Madrid il 29 maggio 1595, succedendo a Francesco Vendramin, e vi rimase sino al 27 giugno 1598, appena un mese e mezzo prima della morte del sovrano.
Durante la sua permanenza, contrassegnata da una reciproca e marcata diffidenza con gli ambienti di corte, profuse grande impegno, in collaborazione con il nunzio in Spagna Camillo Caetani, nell’avviare prima una tregua militare tra le Corone francesi e spagnole e quindi nel favorire vere e proprie trattative di pace, con l’esclusione, dopo l’attacco e il saccheggio inglese di Cadice nel luglio 1596, della regina Elisabetta Tudor. Alla chiusura dei conflitti in campo cattolico, come gli veniva spesso ricordato da Venezia – interessata a costruire pazientemente un fronte antiottomano – era indissolubilmente legata la questione dell’assoluzione di Enrico IV. Sul versante della politica italiana della Repubblica Nani contenne l’attivismo della diplomazia del duca di Savoia per la sorte del marchesato di Saluzzo, così come non mancò di penetrare le intenzioni spagnole circa i preparativi della devoluzione alla S. Sede del Ducato estense e l’occupazione delle truppe pontificie di Ferrara del febbraio 1598. I timori per l’aggressività mostrata dagli spagnoli lo indussero, sin dall’autunno 1596, a una metodica e vivace protesta contro gli attacchi indiscriminati che i viceré don Pedro de Toledo e don Pedro Téllez Girón, III duca di Osuna, andavano compiendo contro il naviglio commerciale veneziano nel Mediterraneo.
Il suo soggiorno alla corte spagnola non fu apprezzato sia per il progressivo deteriorarsi delle relazioni ispano-venete, sia per i sospetti, non infondati, di una sua spiccata propensione a privilegiare in politica estera un avvicinamento alla Francia, sia per l’inconsueta veemenza e imprudenza dei suoi atteggiamenti. Un incidente avvenuto a Madrid il 25 febbraio 1597, originato dall’aver accolto nell’extraterritorialità della sua residenza un uomo inseguito da un alguacil e dai suoi sbirri, portò addirittura alla violazione della residenza diplomatica, alla confisca temporanea di carte di Stato e all’aggressione fisica a Nani, che si difese spada alla mano, nonché alle dure condanne comminate ad alcuni membri dell’ambasciata, tra cui il suo affezionato gentiluomo Giorgio Badoer. Ne seguì un caso diplomatico complesso che, accanto alle inevitabili proteste ducali espresse all’ambasciatore spagnolo Iñigo de Mendoza, si concretizzò negli ambienti più influenti del patriziato in una crescente freddezza nei confronti di Nani, che visse segregato nella sua residenza rifiutandosi sdegnosamente di assolvere alle proprie funzioni, ivi comprese le udienze reali, sino alla completa soddisfazione delle sue richieste. La situazione imbarazzante, che non aveva mancato di eccitare il confronto fra ‘giovani’ e ‘vecchi’ patrizi e le differenti opinioni sulle direttrici della politica estera veneziana, si risolse con la nomina del nuovo ambasciatore Francesco Soranzo (luglio 1597) e il richiamo di Nani, che lasciò Madrid l’anno successivo.
Tornato a Venezia, dopo essere stato savio di Terraferma e savio cassier, il 3 aprile 1600 fu nominato bailo a Costantinopoli, succedendo a Vincenzo Gradenigo, lì deceduto.
Il bailaggio presso Mehemed III, «di ingegno stupido e di una grassezza incomparabile» (Relazioni di ambasciatori veneti, XIII, Costantinopoli, p. 399), fu di ordinaria amministrazione. Si adoperò contro le incursioni fastidiose della pirateria con base a Valona, Durazzo e Santa Maura, ma soprattutto per limitare e contenere l’azione predatoria del rinnegato Scipione Cicala (Čigala-Zade Yūsuf Sinān) nelle sue imprese piratesche e gestire, non sempre brillando per tempestività e oculatezza, le ingenti somme destinate ai riscatti dei molti veneziani fatti schiavi.
Tornato in patria nel gennaio 1603, fu nominato ambasciatore ordinario presso il papa Clemente VIII. A Roma, dove giunse soltanto l’8 maggio 1604, trascorse due anni intensissimi in un quadro di aperto contrasto con la Curia.
Già dalla prima udienza concessagli il 15 maggio e per tutta la fase finale del pontificato si trovò immerso in clima molto teso di confronto su vecchie e nuove tematiche giurisdizionaliste e politiche tra lo Stato veneziano e la S. Sede: nomine di abati a Venezia, giuspatronati a Candia, tentativi di controllare a spese dell’autorità diocesana l’amministrazione degli immobili dei monasteri femminili padovani, la richiesta di contribuzione coatta del clero bresciano per le necessità pubbliche, l’annoso conflitto sulla difesa dei diritti consuetudinari laicamente garantiti degli stampatori veneziani, la giurisdizione su Ceneda, l’insofferenza romana per il clima generale di tolleranza veneta nei confronti della comunità ebraica, per la presenza rispettata degli inglesi nello Studio padovano, per la spregiudicata alleanza con i Grigioni, infine la rivendicazione del ruolo di ‘antemurale’ della Cristianità in risposta alle accuse di Clemente VIII di non impegnarsi adeguatamente di fronte alla minaccia ottomana.
In questi conflitti Nani, esponente di spicco del patriziato ‘giovane’ anticuriale e antiasburgico, incarnò la volontà di opposizione alle pulsioni clementine a estendere le prerogative romane. Dopo aver coltivato qualche speranza di abbassamento della tensione con l’avvento del brevissimo pontificato di Leone XI, morto il 26 aprile 1605, si impegnò invano per la candidatura in conclave del cardinale Valier, fieramente osteggiato dalla fazione spagnola. L’elezione di Paolo V rappresentò il momento apicale della crisi politica romano-veneta, che culminò nell’Interdetto scagliato contro Venezia.
Le materie di frizione spaziarono in una prima fase dalla richiesta di aiuti finanziari a Rodolfo II contro i turchi, ai problemi confinari e fluviali, alla contestazione delle pretese veneziane sul ‘dominio del Golfo’ che pregiudicava la navigazione commerciale anconetana, alla richiesta papale di ‘esaminare’ il patriarca Francesco Vendramin. Nani difese e argomentò con notevole pazienza e fermezza le consuetudini giurisdizionali, stendendo relazioni e informative di indubbia competenza e costruendo peraltro con la propria corrispondenza un prezioso giacimento di notizie per Paolo Sarpi, futuro storico dell’Interdetto, a cui venne concessa la consultazione delle carte diplomatiche.
La tempesta politica diede le prime avvisaglie sin dall’udienza del 4 giugno 1605. Nell’ottobre, con l’avvio dell’attacco papale alle leggi ‘antiromane’ (che vietavano, senza la licenza delle autorità veneziane, la costruzione di nuovi luoghi pii, l’introduzione di nuove compagnie e ordini religiosi in tutto il territorio dello Stato e la facoltà di alienare o donare da parte dei laici i beni a favore degli ecclesiastici), Nani dispiegò tutta la sua determinazione nel rintuzzare punto per punto la pessima disposizione dei Borghese schierati in difesa della libertà ecclesiastica. Il dissidio con Paolo V si accentuò nel novembre in seguito alla cattura del canonico vicentino Scipione Saraceni e dell’abate di Nervesa Marcantonio Brandolini. Non servirono a stemperare l’irritazione del papa né l’ambasciata straordinaria di complimento per la sua elezione, né i tentativi di Nani di farlo riflettere sull’inopportunità di una rottura con Venezia in contesto europeo particolarmente difficile per il papato, che si misurava con la perdita di posizioni del cattolicesimo. Nell’approssimarsi della crisi Nani individuò nei cardinali Antonio Maria Sauli e Pompeo Arrigoni gli ispiratori più radicali del sentimento antiveneziano. Il Concistoro del 12 dicembre, ancora interlocutorio, fu un momento di particolare attività per Nani che avvicinò numerosissimi cardinali, tra cui Roberto Bellarmino e Cesare Baronio, nel tentativo di ricomporre il dissidio con un pontefice, ormai infuriato, che riteneva falsi «scartafacci» (Sarpi, Istoria dell’Interdetto, 1940, I, p. 12) gli indulti precedenti presentati a sostegno delle ragioni veneziane. L’elezione al dogado di Leonardo Donà (fine gennaio 1606) venne accolta malissimo da molti cardinali in Curia, con l’eccezione di Valier, e il papa in persona accusò il governo veneziano di macchinazioni tiranniche. A febbraio Nani si illuse di aver ottenuto una vittoria personale quando il papa, in un colloquio privato, offrì un compromesso che ebbe una sponda significativa nel navigato cardinale di Vicenza Giovanni Dolfin: il canonico Saraceni sarebbe stato affidato al nunzio e l’abate Brandolini a Venezia, che avrebbe dovuto consentire anche all’abrogazione delle altre leggi. Vanificata la trattativa, in un estremo tentativo Nani avvicinò persino il cardinal Scipione Borghese nella speranza di frenare la determinazione del papa a proseguire verso la pubblicazione del monitorio dell’Interdetto dopo il drammatico Concistoro del 17 aprile che, nonostante gli inutili sforzi di dilazione dei cardinali veneziani, provocò il ritiro immediato dell’ambasciatore straordinario Pietro Duodo. Di lì a poco, il 10 maggio, lo stesso Nani, dopo aver verificato l’inutilità di una sua ulteriore permanenza e non senza aver segnalato i piani militari elaborati da Mario Farnese per un eventuale attacco alla Repubblica, venne licenziato con la proposta umiliante di un saluto privato e non formale come ambasciatore di Stato.
Tornato a Venezia ricoprì cariche di prestigio con una continuità impressionante e venne considerato uno spigoloso ma infaticabile esponente dei patrizi più prossimi a Sarpi. Fu savio al Consiglio, procuratore de citra, riformatore allo Studio di Padova, provveditore all’Arsenale, savio all’Eresia, provveditore alle Fortezze, savio alle Acque, scansadore delle spese superflue, provveditore alla Sanità, per non ricordare che i ruoli più rilevanti. La dedizione a queste funzioni rappresentò il carattere distintivo del suo talento amministrativo con qualche brevissimo intervallo dedicato a funzioni di rappresentanza diplomatica estemporanea.
Il 28 maggio 1610 insieme ad Andrea Gussoni fu eletto straordinario a Parigi in occasione dell’assassinio di Enrico IV e dell’assunzione al trono di Luigi XIII. Si ammalò però in viaggio e il 30 settembre non poté presenziare come Gussoni alla cerimonia di unzione e intronizzazione del giovanissimo monarca nella cattedrale di Reims, arrivando a Parigi soltanto nel novembre. Sarpi lo considerava un tramite importante con gli ambienti intellettuali francesi e gli avrebbe affidato una copia delle Memorie dell’Interdetto destinata al presidente del Parlamento parigino Jacques-Auguste de Thou e il compito di riportare a Venezia alcune opere dell’umanista protestante Giuseppe Giusto Scaligero; inoltre, venne raccomandato nell’agosto 1610 dallo stesso Sarpi ai suoi corrispondenti come persona affidabile e «colmo di tutte le qualità desiderate per maneggio di gran negozii e compitissimo nella conversazione e desideroso di trattare con persone di senso», di «acutissimo spirito» e come sicuro canale «per continuare segreta intelligenza e confidenza» (Sarpi, Lettere ai protestanti, 1931, II, pp. 100, 102 ). Fu altresì nominato il 6 luglio 1612 ambasciatore straordinario insieme a Francesco Contarini per congratularsi con il neoeletto imperatore Mattia che incontrò effettivamente a Ratisbona il 18 settembre 1613 mentre, seriamente infermo, non poté partecipare con le stesse mansioni di complimento, alle quali era stato designato insieme a Simone Contarini, per il successore Ferdinando II nel 1619.
L’ultima parte della sua vita fu dominata da ripetuti quanto vani tentativi di raggiungere il dogato per il quale si candidò a più riprese: rinunciò nel dicembre 1612, dopo un mese di votazioni da protagonista, a patto che non si votasse per il suo acerrimo rivale Nicolò Sagredo permettendo così l’elezione dell’anziano Giovanni Bembo. Nel 1618 venne sconfitto da Nicolò Donà, poi in sequenza da Antonio Priuli, Francesco Contarini, e infine, con gran scorno, nel 1625 da Giovanni I Corner.
Percepito come altero ed eccessivamente collerico quindi più temuto che amato, colmo di onore e considerazione ma non del dogado, morì il 3 aprile 1627 a Venezia, e venne sepolto nella chiesa di S. Giobbe, in cui si conserva un suo busto, collocato tra i fratelli Polo e Almorò.
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