Nifo, Agostino
Filosofo, nato a Sessa Aurunca intorno al 1469-70 e ivi morto nel 1538 (Palumbo 2013). Concluso il 3 ottobre 1522 a Sessa, edito a Napoli il 26 marzo 1523, ripubblicato una sola volta nel Seicento, da Gabriel Naudé, bibliotecario del cardinale Mazzarino, prima dell’edizione critica curata da Simona Mercuri per Les Belles Lettres (2008), il De regnandi peritia di N. è praticamente sempre stato bollato d’infamia. Fino al Novecento ben pochi machiavellisti si sono presi la briga di darvi una scorsa: ignorandolo o sbarazzandosene sbrigativamente, come anche l’ultimo biografo di lungo corso del Segretario, per il quale fino all’ultimo restò solo un «famoso e infame plagio» e «una gibbosa contraffazione del Principe» (Ridolfi 19787).
Che si trattasse innegabilmente di un plagio, basterà a dimostrarlo la sommaria tavola di concordanza (v.) tra il Principe e il testo di Nifo.
Anche se, rispetto soprattutto alla statura del plagiato, fino a epoca recente N. è stato, se non proprio sempre disprezzato, deprezzato e ridotto alle dimensioni squalificative di «un abile, intraprendente e sfrontato mestierante della filosofia» (Dionisotti 1980), ciò non toglie che non solo egli resti uno dei maggiori esponenti dell’averroismo nel suo secolo, ma anche che, fin dai tempi del pontificato di Leone X, egli fosse nel milieu romano giudicato atto ad affrontare Pietro Pomponazzi di cui, con il consenso del papa, fu sollecitato a confutare il De immortalitate animae (1516). E non toglie neppure che, dopo la pubblicazione a Venezia, sul finire dell’ottobre 1518, del suo De immortalitate animae libellus adversus Petrum Pomponatium mantuanum ad Leonem Xm pontificem maximum, egli facesse un’entrata promettente nell’orbita medicea romana, essendo ricompensato da Leone X con il prestigioso privilegio di aggiungere al suo nome quello dei Medici, nonché, dal 1519 al 1522, di insegnare prima nel Collegio della Sapienza di Roma, poi nell’Università di recente istituzione, e particolarmente cara al papa, di Pisa (Procacci 1995). Proprio negli stessi anni – dalla morte di Lorenzo duca d’Urbino nella primavera del 1519, a quella di Leone X il 1° dicembre 1521 e alla fallita congiura antimedicea della primavera 1522 – il cardinale Giulio de’ Medici, un tempo incaricato di reggere Firenze in nome del papa e poi rimasto il solo padrone della città, si era lasciato convincere, dagli amici degli Orti Oricellari, a riassumere finalmente M. come storiografo della patria, commettendogli intanto un Discursus florentinarum rerum, da presentarsi al papa, il quale andava cercando consigli sul modo di assettare lo Stato di Firenze, rimasto nelle mani di due ecclesiastici senza eredi legittimi (Ridolfi 19787).
M., si sa, «per esser [con la morte di Lorenzo] mancato lo instrumento» atto a farvi un «principato vero», nel suo Discursus aveva proposto a Leone X di farsi in Firenze promotore e «institutore» di una «repubblica perfetta»; un’ultima scommessa sull’azione di un redentore mediceo della patria, altrettanto vanamente ripresa pochi mesi dopo la morte del papa nella dettagliatissima Minuta di provisione per la riforma dello stato di Firenze l’anno 1522 consegnata al cardinale Giulio un paio di mesi prima della scoperta della congiura antimedicea.
Semplice coincidenza temporale? Ammettendo pure che i due uomini in questi quattro anni non s’incrociassero mai, a incontrarsi furono indubbiamente le loro strade. Dall’arrivo di N. a Pisa nel 1520 in poi si prospettano almeno due punti principali di convergenza: la casa editrice dei Giunti, dalla quale nell’agosto 1521 sarebbe uscita l’Arte della guerra, mentre di N. avevano pubblicato fin dal 1520 due edizioni del De falsa diluvii prognosticatione e una della Dialectica ludicra, nonché nell’aprile 1521, sempre dello stesso, un Libellus de his quae ab optimis principibus agenda sunt dedicato ai principi della sua città natale (De Bellis 2005). Secondo punto di convergenza sarà poi – dopo la morte di Leone X – proprio la persona del cardinale, al quale, il 13 maggio 1522, N. dedicò «il rifacimento, concluso a Pisa il 1° maggio 1520, della sua giovanile Collectanea in libris de anima» (Dionisotti 1980). D’altronde, mentre il cardinale in nome del papa commetteva all’uno un Discorsus florentinarum rerum sull’avvenire auspicabile per Firenze, non sarebbe inverosimile – anche se finora non provabile – che contemporaneamente, a Roma, il papa in cerca di ‘consigli’ potesse affidare all’altro lo stesso compito. O magari che più tardi – deluso dalle nuove proposte machiavelliane, quanto lo era forse stato prima da quelle del Principe al punto da intimare a Giuliano di «non s’impacciar con Niccolò» – fosse perfino stato lui a procurare a N. una copia del trattato e a chiedergli di rimaneggiarlo. Oppure, per finirla con le ipotesi attendibili anche se non verificabili, non sarebbe immaginabile che fu il cardinale in persona a sollecitare un intervento del filosofo e perfino a segnalargli il precedente machiavelliano? Comunque, nell’impossibilità di accertare da dove o da chi gli potessero venire sollecitazioni o proposte, non si può fare a meno di osservare che una risposta di N. ai problemi del momento non era, in sé, né più fuori luogo né più fuori tempo, che quella di M. di fronte a una «verità effettuale» fiorentina che non era più quella del decennio precedente. E se nel clima di allora può legittimamente considerarsi «un’immediata e deliberata reazione all’opera di Machiavelli», stampata dai Giunti, ma (prudentemente?) dedicata a una coppia di principi lontani presumibilmente ignoti al pubblico sia fiorentino sia romano, il pur «di poco più breve del Principe» Libellus de his quae ab optimis principibus agenda sunt, in fondo, non poteva essere, e non fu, che un esercizio propedeutico al gran plagio del De regnandi peritia, poi «perpetrato a man salva, lontano da Pisa, da Firenze e anche da Roma, quando il Nifo era ormai tornato ai paesi suoi, in un altro mondo» (Dionisotti 1980).
Dalla tavola di concordanza tra i due testi risulta per prima cosa l’assenza nel De regnandi peritia di qualsiasi traccia di quattro capitoli del Principe: xv e xxiv-xxvi. Ma se possono riuscire convincenti le ragioni filosofico-ideologiche ipotizzate da Giuliano Procacci per spiegare l’esclusione del capitolo xv, che fornisce la chiave non solo di un metodo (la «verità effettuale»), ma di un’etica («non si curi di incorrere nella fama di quelli vizii sanza quali e’ possa difficilmente salvare lo stato») agli antipodi sia del metodo sia della morale di N.; e se può apparire plausibile anche l’inopportunità in un «trattato scientifico» di un capitolo dedicato alla questione «strettamente filosofica» dei rapporti fra virtù e fortuna (xxv), tale inopportunità, per quanto riguarda i capitoli xxiv e xxvi, risulta molto meno convincente delle ragioni di carattere storico – suggerite da chi scrive – in relazione a un momento, il 1523, in cui «certe considerazioni riguardanti i principi italiani e l’eventualità di una riscossa italiana» suonavano già anacronistiche ed erano «scarsamente opportune in un volume destinato a Carlo V» (Procacci 1995).
All’infuori di questa assenza di quattro capitoli, presumibilmente frutto di un’esclusione deliberata piuttosto che risultato di un testo fonte diverso da quello poi edito, principi e modalità del lavoro effettuato da N. sul trattato machiavelliano rispondono a ragioni logiche e ideologiche. Da filosofo e professore avvezzo agli esercizi scolastici vigenti fra i suoi pari, egli procede a una ridistribuzione generale della materia del Principe, dividendo accuratamente, nei primi undici capitoli, quanto concerne la conquista del potere da quanto riguarda la conservazione; o al contrario, riunendo i contenuti di capitoli che egli ritiene indebitamente separati, come il capitolo xx – sull’utilità delle fortezze – giudicato meglio collocato vicino ai capitoli (xii-xiv) dedicati ai problemi militari: una ristrutturazione esplicitamente destinata a ristabilire una partizione tradizionale da M. trascurata. La nuova struttura si presenterà in cinque libri, ciascuno dedicato a un contenuto specifico annunciato fin dalla dedica all’imperatore:
Nel primo si espongono i modi in cui uomini privati conquistarono il trono; nel secondo si parla di armi e di soldati e delle maniere in cui ci si difese dalle invasioni nemiche; nel terzo delle leggi, degli accorgimenti e delle astuzie grazie alle quali i sovrani si guardarono dalle offese, dai tradimenti e dalle ribellioni dei sudditi; nel quarto si espongono cose egualmente utili tanto al re quanto al tiranno; nel quinto infine si mostra la maniera onesta di governare (trad. Firpo 1969, p. 351).
Si aggiunga che il «metodo peripatetico», cui N. dichiara esplicitamente di ricorrere, non di rado modifica la dispositio stessa e il tono del discorso machiavelliano. Alla perentorietà espositiva del quondam Segretario, osservabile nei capitoli del Principe in cui l’enunciazione di giudizi e di regole non di rado precede quella degli esempi, che così hanno l’aria di essere semplici illustrazioni a posteriori di convinzioni intangibili, N. oppone un paio di volte espressamente (II i e IV preambolo) il proprio «metodo peripatetico», il quale implica l’enunciazione liminare di una questione, seguita dall’esposizione di esempi (eventualmente contraddittori) e di un giudizio che non può essere se non finale. Ed effettivamente, tranne nel libro I, che vuol essere un’esposizione senza commenti di esempi storici, e tranne casi di ricorso puntuale a formule o testi autorevoli (spesso aristotelici) assunti come verità illustrabili ma non discutibili, il De regnandi peritia segue regolarmente lo schema «peripatetico», concatenando (spesso all’inizio dei capitoli) questioni, dubbi o ipotesi nuove con le conclusioni del ragionamento precedente.
Fondamentale nel libro V, il solo che non debba nulla a M., è – all’apertura del primo capitolo – la definizione della tirannide:
È tirannica ogni maniera di regnare che non avviene per via né di successione né di elezione, ma per uno qualsiasi dei mezzi che abbiamo elencati nel libro I: grazie alla fortuna, per mezzo di scelleratezze, con le armi, la forza, la frode, le sedizioni, le fazioni e il favore dei cittadini.
È su questa base, insieme rigorosamente e banalmente monarchica e legalistica, che N., con i materiali mutuati dal trattato machiavelliano, nei libri precedenti ha gradualmente approntato quello che ora diventa il suo speculum principis. Da tale definizione è derivata l’applicazione del qualificativo di tirannico tanto all’invio di colonie in un regno conquistato da un altro re (III ii), quanto alla deportazione degli abitanti (III v), alla conquista del principato da un Oliverotto da Fermo (I v), al comportamento di un Agatocle o di un Silla (III viii), e perfino all’arrivo al potere di un principe civile (III x) come Lorenzo il Magnifico, «tiranno di Firenze» (IV xii): indizi di una coscienza terminologica (e, sotto i termini, concettuale) assai differente da quella che sorregge il ragionamento del Segretario, il quale aderisce alla distinzione aristotelica tra «costituzioni che perseguono la pubblica utilità» e quelle che «mirano solo al vantaggio dei reggitori» (re, oligarchi o altri) considerate delle degenerazioni «a carattere dispotico» delle costituzioni buone (Politica 1279a-b); per cui, anche se come uomo condanna senza esitazione «una potestà assoluta, la quale dagli autori è chiamata tirannide» (Discorsi I xxvi), in quanto politico la sua esecrazione delle «vie di mezzo» lo predispone ad ammetterla e ad ammettere la violenza in uno «che abbia questo animo di volere giovare non a sé ma al bene commune, non alla sua propria successione ma alla commune patria» (I ix). Mentre per N. e gli «autori» ogni violenza, e più generalmente ogni minima violazione della legalità, è per definizione tirannica, i criteri usati da M. – che, sintomaticamente, impiega poco questa parola – per definire la tirannia sono insieme molto più politici, indipendenti dalle considerazioni morali che come uomo può capitargli di formulare, e più incerti (Sasso 1988). La violenza contro gli uomini e le istituzioni, in particolare, non ne costituisce un criterio determinante, dal momento che esiste una violenza costruttiva, creatrice o restauratrice che sia. Di modo che il solo criterio decisivo resta la finalità personale o collettiva dell’azione, violenta o meno, e più precisamente – visto che le intenzioni, i fini perseguiti, sono per lo più insondabili prima e anche durante l’azione – l’effetto risultante dall’azione: la verità effettuale che oggettivamente ne risulta.
Sotto questo aspetto ci si rende conto dell’abisso concettuale e più largamente ideologico esistente tra M. e N. (e, dietro N., tutti gli assertori della concezione tradizionale della tirannia). Per M. il comportamento di un Cesare Borgia, visti i risultati conseguiti, «l’animo grande e la [...] intenzione alta» che testimoniano, non soltanto non è riprovevole, ma merita di esser proposto «imitabile a tutti coloro che per fortuna e con l’arme d’altri sono ascesi allo imperio» (Principe vii 42). Per N., invece, l’epopea del Valentino si sviluppa nel segno del «tradimento» e della «slealtà» con cui egli si era sbarazzato di Oliverotto da Fermo (De regnandi I v 85): costellata di «crudeltà e scelleratezze» (III vii 33), cosicché un principato «acquistato» in questo modo non poteva poi, morto papa Alessandro VI, che «ignominiosamente» perdersi «per effetto della vendetta divina» (III ix 26). E intanto la stessa sorte era toccata a Oliverotto da Fermo: nel suo caso era stato Cesare Borgia a fungere da strumento della «vendetta divina» (I v 84); di modo che Agatocle resta il solo «scellerato» sul quale N. condivide il giudizio, e praticamente si limita a tradurre la conclusione di M. (I v 1-47).
I pochi esempi precedenti, e il bagaglio concettuale sul quale poggiano, danno un’idea dell’ampiezza della rielaborazione cui N. sottopone il testo machiavelliano: un’operazione prevalentemente ideologica, il cui conservatorismo è reso vieppiù evidente, sia dal moralismo che, per es., tende sistematicamente a deviare e a condannare come errori o difetti tirannici i comportamenti e precetti preconizzati nel capitolo xviii del Principe, sia dall’accuratezza con cui il filosofo suessano censura gli esempi machiavelliani tratti dalle Sacre Scritture, evita di attardarsi sui principati ecclesiastici (I xi), e più generalmente di mescolare religione e politica (Procacci 1965), senza però dimenticare d’introdurre Dio come giudice supremo delle azioni sia buone sia cattive dei principi.
Nel breve capitolo x del suo libro I, parafrasando l’inizio del capitolo ix del Principe, N., evitando per ora l’appellazione civiles domini o principes alla quale ricorrerà più oltre, afferma che gli uomini portati al potere dal favore dei loro concittadini «non si possono in assoluto chiamare dei signori [domini] o dei principi, perché non comandano apertamente, ma con preghiere e consigli». Due capitoli dopo, evocando la successione ereditaria – dagli «storici», idest tra gli altri M., ritenuta legittima – a un trono conquistato tyrannice, egli per inciso si premura di puntualizzare che «l’antichità ammetteva come legittimo successore soltanto chi succedeva a un padre legittimamente re». Quando dopo, nel capitolo x del libro III, torna a evocare il diventare (ora espressamente) «principe», anzi «principe civile», con il favore dei concittadini, e non più per «astuzia», ma più lodevolmente grazie a una «prudenza fortunata», N. prende a nominare tre ben noti civiles dominos – Cosimo e Lorenzo de’ Medici, e il bolognese Annibale Bentivoglio –, e non dimentica, prima di passare alle modalità di conservazione del potere, di ricordare nuovamente che, in assenza sia di una legittima elezione sia di una successione ereditaria, si tratta di un tipo di principato tirannico o tendenzialmente tirannico. Il rapporto tra i due trattati si va poi ulteriormente complicando all’altezza del quarto capitolo consecutivo dedicato al principato civile (III xiii), il cui titolo echeggia precisamente l’inizio e il contenuto dell’ultimo paragrafo del capitolo ix machiavelliano: Quomodo periclitentur civiles principes. Dal De regnandi peritia, infatti, scompare la dicotomia machiavelliana tra principi che «comandono per loro medesimi» e quelli che comandano «per mezzo de’ magistrati»; e N., postulando che i civiles domini «non possono né fare né deliberare nulla senza il consenso della magistrature», approda poi, diversamente da M., non alla conclusione che «uno principe savio debba pensare uno modo per il quale li sua cittadini sempre e in ogni qualità di tempo abbino bisogno dello stato e di lui» (Principe ix), ma alla semplice costatazione che «quelli che hanno lottato per ascendere al potere assoluto hanno accuratamente vigilato che i cittadini membri delle magistrature sempre e in ogni qualità de tempo avessero bisogno di loro e del loro principato»: un’interpretazione riduttiva del testo fonte, volta a mascherare, e più precisamente a censurare, l’esortazione machiavelliana a liberarsi dalla pericolosa dipendenza dalle magistrature e a salire tempestivamente «dall’ordine civile allo assoluto».
Anche se, in assenza di documenti che consentano di decidere, l’evidenza e l’importanza globale del plagio inciterebbero talvolta a chiedersi se gli scarti teorici fossero farina del sacco di N., o se gli venissero da un testo diverso da quello pubblicato, in divergenze come quelle appena esaminate sembra che giochi a favore dell’attribuzione al «filosofo di Sessa» un’innegabile coerenza concettuale e morale, percettibile se non altro nell’ostinazione con cui reiteratamente insiste nella difesa di una sua quattrocentesca idea di optimus civis ispirato al modello platonico dell’ottimo governante (Vasoli 1983). Anzi, un’ultima prova che egli non si è sempre limitato a copiare piattamente si potrebbe forse avvertire nel fatto che, lungo il filo del ragionamento precedente, che verte sulla sicurezza interna, il titolo dato da N. al capitolo successivo (III, xiv: Come un signore civile potrà difendersi contro i nemici esterni), corregge il titolo erroneo (x: Quomodo omnium principatuum vires perpendi debeant/Come si devono misurare le forze di tutti i principati) per cinque secoli invalso nelle edizioni del Principe, fino all’uscita del testo curato da Mario Martelli per l’Edizione nazionale delle opere di M.: Quomodo horum principatuum vires perpendi debeant/Come si devono misurare le forze di questi principati (Martelli 2006).
Tutto sommato, e tenendo conto dell’aggiunta di molti esempi per lo più greci e latini con cui, per così dire, lo rimpolpa, dopo averlo di volta in volta ristrutturato, riassunto, in parte censurato e magari reinterpretato, N. avrà, a quanto sembra, anche più che plagiato, snaturato e sviato il trattato machiavelliano. Resta tuttavia che, considerazioni morali a parte, da questo lavoro complesso di rielaborazione e riscrittura è venuto fuori un documento che forse merita qualcosa di meglio che il disprezzo sterile in cui troppo spesso ancora è tenuto dai più.
Bibliografia: Per una moderna edizione del testo di N. si veda Machiavel, Il Principe /Le Prince, nouvelle édition critique du texte par M. Martelli, introduction et traduction de P. Larivaille, notes de commentaire de J.-J. Marchand, suivi de A. Nifo, De regnandi peritia / L’Art de régner, texte établi par S. Mercuri, introduction, traduction et notes de P. Larivaille, éditions bilingues, Paris 2008. Si vedano inoltre: N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di F. Bausi, Roma 2001; N. Machiavelli, Il Principe, a cura di M. Martelli, corredo filologico a cura di N. Marcelli, Roma 2006, pp. 25, 170 nota 39, 207-09 note 47-48, 347-51.
Per gli studi critici si vedano: G. Procacci, Studi sulla fortuna del Machiavelli, Roma 1965, pp. 3-26; L. Firpo, Le origini dell’anti-machiavellismo, «Il pensiero politico», 1969, 2, pp. 337-67 (in partic. § 4, pp. 348-54); R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Firenze 19787, pp. 320 e 560 nota 23; C. Dionisotti, Machiavellerie, Torino 1980, pp. 128-34; C. Vasoli, Riflessioni sugli umanisti e il principe: il modello platonico dell’“ottimo governante”, in Id., Immagini umanistiche, Napoli 1983, pp. 151-87; G. Sasso, Principato civile e tirannide, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 2° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 351-483; P. Larivaille, Nifo, Machiavelli, principato civile, «Interpres», 1989, 9, pp. 150-95; G. Inglese, Il plagio di Agostino Nifo, in N. Machiavelli, De principatibus, testo critico a cura di G. Inglese, Roma 1994, pp. 18-22; G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995, in partic. cap. 4°, Machiavelli aristotelico, pp. 63-81; E. De Bellis, Bibliografia di Agostino Nifo, Firenze 2005; M. Palumbo, Nifo Agostino, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 78° vol., Roma 2013, ad vocem.