PODESTA, Agostino
PODESTÀ, Agostino. – Nacque a Novi Ligure (Alessandria) il 27 giugno 1905, primogenito di Giuseppe, macellaio, e di Antonietta Bailo. Esponente provinciale della generazione che non avendo potuto partecipare alla guerra vide nel movimento fascista un’occasione non solo di sfogo al vitalismo giovanile ma anche di ascesa sociale, entrò nel Fascio novese il 23 novembre 1920 e partecipò alla marcia su Roma (1922).
Da allora, intraprese un articolato percorso dentro gli apparati di regime. Si distinse presto in ruoli ufficiali nelle province alessandrina e pavese. Da iscritto nell’Ateneo di Pavia – dove si laureò in fisica – tra studenti che si sentivano antesignani dell’‘uomo nuovo’ fascista e in un clima di polemica giovanilistica, animò le attività dei Gruppi universitari fascisti (GUF): ne fu segretario tra il 1924 e il 1929, sedendo anche nel direttorio federale del partito fascista locale. Vi aggiunse l’attività di pubblicista, intrapresa insieme agli studi e sempre coltivata: già a 22 anni con Annibale Carena, altro noto ‘guffino‘ locale, pubblicò un volume propagandistico promosso dai GUF d’ateneo (I giorni e le opere del fascismo, Pavia 1927); nel 1928-29 diresse Il Campanaccio, bollettino del GUF pavese, chiuso dal regime poiché poco incline a seguire direttive dall’alto. La carriera proseguì sul doppio binario negli anni successivi: mentre nel Partito nazionale fascista (PNF) giunsero la nomina a segretario del Fascio di Novi (1927) e l’ingresso nel direttorio provinciale di Alessandria, fu da guffino che riuscì a guadagnare incarichi di maggiore spicco. Nel 1929 fece parte della delegazione italiana al congresso annuale di Budapest della Confédération internationale des etudiants (CIE), guidandola poi durante l’assise di Bucarest nell’estate del 1931, quando venne eletto vicepresidente dell’organizzazione. Nel novembre 1930 aveva intanto assunto la vicesegreteria generale dei GUF, con delega all’Ufficio organizzazione, propaganda e assistenza.
Sposatosi il 18 giugno 1931 con Ida Morali, dalla quale ebbe cinque figli tra il 1928 e il 1940, riscosse dal suo brillante apprendistato la nomina a federale del PNF in provincia di Avellino, il 29 dicembre 1931. Salutato come appartenente alla «schiera dei promotori del movimento intellettuale fascista» (Corriere dell’Irpinia, 2 gennaio 1932), sbarcava perciò in una realtà interna del Sud un giovane assai diverso per nascita e formazione, intriso di fascismo, fustigatore della pigrizia per cui «le idee rivoluzionarie non [avevano] permeato le masse» (Il primato. Quindicinale fascista, 15 giugno 1931). L’esperienza durò fino al 19 agosto 1932: lotta alla crisi economica, consolidamento dei deboli organismi di partito, organizzazione di eventi eclatanti come la prima fiera irpina del giugno 1932 alla presenza dei principi di Piemonte, furono i cardini di ciò che egli appellò Risveglio in Irpinia, e che gli procurò la nomea di «segretario federale non dell’ordinaria amministrazione» (Corriere dell’Irpinia, 26 marzo e 20 agosto 1932).
Il 5 settembre 1932 venne nominato federale di Verona, come uomo di mediazione con il compito di sanare le rissosità tra ceti dirigenti veronesi e fascisti delle origini. Al momento dell’addio, il 21 maggio 1934, lasciò in effetti un ambiente avviato verso una stabilità formale, ma comunque rara nella galassia dei fascismi locali, frutto del compromesso di potere tra le due anime: per raggiungerlo aveva agito di conserva con il prefetto, occupando anche territori non sempre usuali (dal 15 dicembre 1932 nel consiglio d’amministrazione del principale giornale scaligero, L’Arena).
Asceso a ruoli nazionali – nel direttorio del PNF per un anno, dal 29 dicembre 1933 – diventò federale di Padova il 23 maggio 1934. Era ormai un professionista della politica fascista, che il Partito poteva inviare nelle province a sanare problemi locali e, come nel caso padovano, contrasti tra federazioni e prefetti. In quegli anni, ulteriori benefici alla sua carriera gli vennero dalla partenza volontaria per la guerra d’Etiopia da tenente delle camicie nere (il 14 marzo 1936). Come federale dovette fare i conti con mugugni locali, un partito poco radicato, prefetti che gestivano il potere assieme all’élite padovana, campagne (anonime o diffuse da informatori di Achille Starace) denigratorie nei suoi confronti. Pur in un dinamismo burocratico fine a se stesso, cucì però buone relazioni con il prefetto Elfrido Ramaccini, produsse sforzi instancabili specialmente nel settore assistenziale, sviluppò la dimensione quantitativa del tesseramento al PNF, curò la mai sopita passione pubblicistica da direttore-controllore (e corsivista di prima pagina con il suo antico pseudonimo di Mastro campanaro) del giornale dei GUF patavini, Il Bo, destinato a divenire – ma solo dopo aver lasciato Padova, il 23 luglio 1936 – strumento di relativo anticonformismo sotto la dittatura.
Il testimone dell’«incessante continuità della Rivoluzione» (Il Bo, 1° maggio 1935) poté così rientrare nelle infornate di fidati uomini del PNF non di carriera ministeriale e ritrovarsi prefetto di II classe. Aveva appena superato i trent’anni: la sua nomina ad Arezzo, il 1° agosto 1936, ne fece il secondo prefetto più giovane dagli inizi del Novecento e l’unico federale elevato al ruolo nel biennio 1935-36. Vi rimase tre anni, fino al 21 agosto 1939, in un noviziato di rappresentanza senza squilli (fu lui, però, ad affidare nel 1936 al grande architetto Giovanni Michelucci la sua prima progettazione di rilievo, il palazzo del governo). Il suo itinerario prefettizio proseguì a Perugia dal 21 agosto 1939: non vi lasciò segni eclatanti, ma spiccò il salto verso i giorni di maggior esposizione pubblica, da prefetto di Bolzano (17 febbraio 1940).
In un’area di tensioni tra italiani e tedescofoni, acuite da anni di forzata italianizzazione fascista e dalla firma (23 giugno 1939) degli accordi italo-tedeschi che spingevano i sudtirolesi a optare per il trasferimento nella Germania nazista ormai giunta al Brennero, occorrevano uomini che non «odia[ssero] gli allogeni», come scriveva al duce il 14 novembre 1939 una nota anonima contro il predecessore Giuseppe Mastromattei (Roma, Archivio centrale dello Stato, Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, b. 36, f. 242). Podestà «seppe conquistarsi molte più simpatie presso i sudtirolesi» (Scarano, 2012, p. 214). Promosso prefetto di I classe il 4 luglio 1940, a guerra in corso, dal 26 ottobre 1941 venne ritenuto la scelta migliore come alto commissario per l’esecuzione degli accordi italo-tedeschi per l’Alto Adige (ruolo sanzionato con legge 26 gennaio 1942 n. 57). La retorica di regime si appellò al suo «cuore aperto che appianasse con la legge della sana bontà fascista […] tutti gli ostacoli» (La Provincia di Bolzano, 15 ottobre 1941), ma la realtà registrava uno smacco per il fascismo, con oltre l’80% di opzioni a favore del Reich. Tra frizioni con i tedeschi e in contrasto con gli accordi, egli convinse molti a rioptare per l’Italia; si sforzò di dimostrare, all’opposto di quanto facevano i nazisti, l’italianità storico-culturale dell’Alto Adige (curò a tal fine tre volumi sgraditi alla propaganda tedesca: L’Alto Adige: alcuni documenti del passato, Bergamo 1942); provò a mantenere la sovranità italiana sull’ingente numero di tedescofoni che, optanti, non partirono però per la Germania (di fatto la raggiunse meno di un terzo); blandì i Dableiber che avevano scelto di rimanere, nella memoria dei quali suscitò gratitudine «fino alla morte ed oltre [per aver] risparmiato loro molte sofferenze» (Volgger, 1985, p. 73).
Il 10 febbraio 1943 il regime dispose il suo rientro nei ranghi prefettizi con la nomina a prefetto del Carnaro. A Fiume, da fascista fedele, eseguì le direttive di un regime alla fine: per alcune fonti nelle politiche antiebraiche mise un surplus di «iniziative personali motivate da eccesso di zelo o […] condivisione incondizionata dell’ideologia razzista» (Bon, 2001, p. 47); per altre, si adoperò presso il comando della 2ª armata affinché venissero «subito liberate le famiglie e le persone elencate» in una sua nota del 18 giugno 1943 (Roma, Archivio dell’Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, M3, b. 67), tanto che il successore Pietro Chiarotti ne criticò la «docile tolleranza» nella gestione dei campi di internamento istriani da cui molti erano fuggiti per unirsi ai partigiani (b. 64, f. 3: lettera al ministero dell’Interno, 2 settembre 1943).
Fu collocato in pensione il 20 agosto 1943. Nella Repubblica sociale italiana non ebbe incarichi: definitivamente esautorato il 16 febbraio 1944 con decreto del duce, attraversò nell’ombra la guerra sul suolo italiano. Deferito all’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo, fu assolto (tra l’altro da accuse di appropriazione di fondi del ministero dell’Interno) e nel gennaio 1946 riottenne il diritto alla pensione. Emigrato in Uruguay nel 1945 e raggiunto anni dopo dalla moglie, divenne imprenditore. Mentre i figli da allora vi rimasero, Podestà e la moglie vissero tra Sudamerica e Italia, specialmente nella fitta rete di amicizie a Bolzano. Rimasto vedovo, contrasse un secondo matrimonio, con Rosetta Basso, della famiglia di imprenditori dolciari novesi Pernigotti. Di ritorno da uno dei suoi viaggi, morì d’infarto a Novi Ligure il 19 dicembre 1969 e fu sepolto a Bolzano.
Aveva avuto, da re e regime, quattro onorificenze: commendatore dell’Ordine coloniale della stella d’Italia (29 ottobre 1936); cavaliere dell’Ordine mauriziano (14 gennaio 1937); grande ufficiale dell’Ordine della corona d’Italia (24 aprile 1938); ufficiale dell’Ordine dei santi Maurizio e Lazzaro (12 settembre 1941).
Fonti e Bibl.: Le testimonianze familiari sono di Renzo e Maria Antonietta Podestà (figlia di Carlo, fratello minore). Roma, Archivio centrale dello Stato, Partito Nazionale Fascista, Direttorio nazionale, Servizi amministrativi, Serie I, b. 35, f. 6; GUF, bb. 1, 3, 39; Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, b. 36, f. 242; Ministero dell’Interno, Direzione Affari generali e del personale, Divisione del personale (versamento 1952), b. 44 bis; Roma, Archivio dell’Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, M3, b. 64, f. 3; b. 67; molta documentazione su Podestà è negli archivi di Stato e nella stampa delle sedi della sua carriera.
E. Savino, La nazione operante, Novara 1937; M. Missori, Governi, alte cariche dello Stato e prefetti del Regno d’Italia, Roma 1973; F. Volgger, Sudtirolo al bivio, Bolzano 1985; E. Savino, Gerarchie e statuti del P.N.F.: Gran Consiglio, Direttorio nazionale, federazioni provinciali. Quadri e biografie, Roma 1986; A. Cifelli, I prefetti del Regno nel ventennio fascista, Roma 1999; B. Garzarelli, Universitari fascisti e rapporti con l’estero: le attività dei GUF in campo internazionale (1927-1939), in Dimensioni e problemi della ricerca storica, XIII (2000), 2, pp. 225-264; S. Bon, Le comunità ebraiche dell’ex provincia del Carnaro 1938-1945, in La Rassegna di Israel, LXVII (2001), 3, pp. 37-56; E. Signori, Minerva a Pavia. L’ateneo e la città tra guerre e fascismo, Milano 2002, ad ind.; L. La Rovere, Storia dei GUF, Torino 2003, ad ind.; A. Baù, All’ombra del Fascio. Lo Stato e il Partito nazionale fascista padovano (1922-1938), Verona 2010, ad ind.; F. Clari, Élite locali, partito e Stato a Verona (1928-1943), in Venetica, XXV (2011), 23, pp. 93-122; C. Saonara, Una città nel regime fascista: Padova 1922-1943, Venezia 2011, ad ind.; F. Scarano, Tra Mussolini e Hitler: le opzioni dei sudtirolesi nella politica estera fascista, Milano 2012.