Agricoltori schiavi e soldati. L'eta dei Gracchi
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nella seconda metà del II secolo a.C., si aggrava la crisi della repubblica. Da una parte, Roma deve affrontare pericolose rivolte servili in Sicilia; dall’altra, si pone il problema agrario, con la crisi dei piccoli proprietari. Tiberio Gracco, tribuno della plebe nel 133 a.C., cerca di proporre una legge che distribuirà larghe porzioni di ager publicus ai nullatenenti: la reazione dei notabili è molto violenta e si conclude con l’uccisione dello stesso Tiberio. Dieci anni dopo, suo fratello Caio riprende il progetto, arricchendolo con proposte ben più rivoluzionarie. Ma l’esito è ancora una volta tragico.
Le strutture dello stato mostrano ora limiti che solo le guerre continue sono riuscite a mascherare; ma la divaricazione sociale rende intollerabili ai diseredati gli abusi dei magistrati in materia militare. Anche i tribuni della plebe non sono senza colpe. Se negli anni tra la fine del III e gli inizi del II secolo alcuni di loro hanno dato voce alla stanchezza del popolo, in seguito si sono posti al servizio delle fazioni nobiliari, ricevendo il diritto di entrare tra i senatori. Intorno alla metà del secolo, però, essi volgono di nuovo l’attenzione verso i problemi sociali. Tale solerzia non è disinteressata: è ormai evidente che il malumore delle masse favorirà l’attacco al predominio della nobilitas.
Benché neppure lui sia esente da secondi fini e gli si debba il primo tentativo di rafforzare la potenza tribunizia, Tiberio Gracco sembra perseguire davvero la tutela dei meno abbienti, non l’interesse personale. È lui ad affrontare il problema più evidente: quello agrario, nato all’indomani del conflitto annibalico, quando, a causa del depauperamento demografico, non è stato possibile colonizzare i territori confiscati ai socii nel sud dell’Italia.
L’ager publicus si concentra così sempre più nelle mani di alcuni possidenti, via via che migliorano le prospettive di sfruttamento. Le regioni meridionali si prestano all’avvio delle colture specializzate; la vite sui terreni migliori, l’olivo su quelli più poveri. Le zone collinose si adattano all’allevamento che, secondo la prassi della transumanza interna di spostare greggi numerose su lunghe distanze, ha bisogno di spazi senza barriere.
L’occupazione abusiva di parti crescenti dell’agro pubblico da parte dei ricchi è però una minaccia per una piccola proprietà cui spesso solo lo sfruttamento di porzioni del terreno demaniale consente di sopravvivere. Investimento sicuro, quello agrario è sentito altresì come il solo capace di garantire rispettabilità. Ad esso dunque si volgono per convertire parte degli immensi profitti anche i nuovi ricchi, mercatores e banchieri, pubblicani e usurai, accrescendo la richiesta di terre. Oltre che nell’ager publicus si comincia ad investire nel privato. Indotti a trasferirsi in città, soprattutto a Roma, o desiderosi di cambiar vita, utilizzando il ricavato per tentare la fortuna nel commercio (magari in quell’Oriente verso cui è cominciato un forte flusso migratorio), i piccoli proprietari disposti a vendere abbondano. Ma, in mancanza di vendite spontanee, non si esita a ricorrere all’intimidazione e alla violenza, fenomeno diffuso nell’Italia del tempo.
Accanto al latifondo e alla piccola proprietà esistono le tenute di medie dimensioni, tra i 100 e i 300 iugeri, condotte con sistema misto – pascolo e colture specializzate – cui guarda il De agri cultura di Catone. Ai coltivatori diretti sono tuttavia preclusi fondi simili, con dimensioni che superano l’azienda familiare e richiedono investimenti a lungo termine.
L’ultimo fattore è l’incremento degli schiavi. Stabile a lungo, il loro numero subisce un aumento con la guerra annibalica, e cresce poi a dismisura grazie ai conflitti oltremare; né il flusso accenna a diminuire, se è vero che il mercato di Delo ne vende fino a 10 mila in un giorno. Quelle guerre che hanno tenuto lontani dall’Italia 100 mila Italici offrono ora una soluzione al problema della mano d’opera: crollato per l’abbondanza a un terzo circa il prezzo d’acquisto, la convenienza è totale, fornendo lavoratori che si possono mantenere con poco, far lavorare senza sosta, far accoppiare a piacere aumentandone il numero. E non soggetti alle armi.
È, tuttavia, un utile carico di rischi. Forti del numero, percorse da idee libertarie, le masse servili prendono ad agitarsi, spinte dalle intollerabili condizioni di vita. Dopo una serie di tumulti si infiamma, nel 136 a.C., la Sicilia, i cui latifondi sono gremiti di schiavi. La sommossa appare subito grave. Gli insorti mostrano coesione e disciplina e ai moti si unisce la plebe rurale, in condizioni di miseria e disperazione talvolta persino peggiori. A complicare le cose, le truppe di Roma appaiono incapaci. Dopo anni di lotte, la rivolta è soffocata dal console Rupilio, che può disporre di veterani reduci dalla presa di Numanzia. È il 132 a.C., e Tiberio Gracco è morto da mesi.
Considerati volta a volta reazionari, riformatori o rivoluzionari, Tiberio e Caio Gracco dividono il giudizio degli storici. Certo, mostrano personalità diverse, che occorre tenere distinte; così come bisogna distinguere tra i fini perseguiti e i mezzi impiegati per raggiungerli. In una fase di crisi politica e sociale entrambi esprimono, ciascuno per la propria parte, alcune delle istanze emergenti e adeguano il tribunato ai tempi, dotandolo di nuove prerogative.
Offeso coi suoi pari per un episodio della guerra di Spagna e risoluto a vendicare il suo onore, Tiberio Gracco non è però spinto ad agire solo da motivi personali. Dalle masse contadine si reclutano le legioni e senza il loro apporto Roma rischia di perdere la posizione di egemonia mediterranea: questa, secondo Appiano, la preoccupazione espressa in senato per motivare la sua proposta di legge.
Pur ridotti di numero, i piccoli proprietari terrieri sono, in realtà, una presenza ancora cospicua e non sono minacciati d’estinzione. È però in gioco l’identità di uomini che, senz’essere soldati di mestiere, si prestano a divenire professionisti, pronti a rimanere sotto le armi per anni. Provenienti dalla terra, se ne sono allontanati perché costretti: occorre assicurar loro, almeno al congedo, la condizione di proprietari (François Hinard), restituirli cioè alla dignità passata.
Le considerazioni di Tiberio Gracco si fondano sulle cifre dei censimenti, che, difficili da respingere, parlano di un calo nella popolazione, non solo tra gli abbienti. Se infatti sono sempre più numerosi gli Italici nelle armate di Roma e, al tempo stesso, si riducono i requisiti patrimoniali richiesti, sono meno consistenti anche le flotte e ciò dimostra che è diminuito il numero dei proletarii, e dunque della popolazione in generale. L’intera base di reclutamento si assottiglia proprio mentre l’impopolarità delle guerre oltremare allontana i Romani dalle insegne. È questo il problema che infiamma il dibattito politico all’interno della città.
Secondo una parte della moderna storiografia Tiberio Gracco non avversa il latifondo, le cui dimensioni private contribuisce anzi ad aumentare. Alla grande proprietà terriera egli guarda come al polo di aggregazione su cui ricostruire l’antico sistema delle clientele. La nuova turba forensis che vive a Roma non è più composta infatti, come in passato, di artigiani e piccoli commercianti, ma soprattutto di nullatenenti, i quali, indifferenti alla natura di chi li nutre e liberi dai vincoli più tradizionali, costituiscono il principale serbatoio di voti per le ambizioni del ceto emergente, per quegli homines novi che hanno cominciato a far sentire la loro presenza politica. Una volta allontanati da Roma per divenir contadini, i proletarii sarebbero forse difficili da richiamare in occasione dei comizi, ma tornerebbero istintivamente a cercare di preferenza i patroni entro il tradizionale ambito agrario.
Secondo la legge proposta da Tiberio, appena eletto tribuno della plebe nel 133 a.C., si possono conservare, in proprietà, 1000 iugeri di ager publicus al massimo per famiglia, mentre il resto sarebbe ridistribuito in lotti da 30 a 60 iugeri inalienabili per evitare vendite o espropri. Forse conservatore nei fini, Tiberio è rivoluzionario nei mezzi. Decide dunque prima di presentare la legge direttamente ai comizi, senza sottometterla all’approvazione del senato; provvede poi, con un gesto senza precedenti, a far esautorare dalla plebe un collega, Marco Ottavio, che ha posto il veto alla votazione del provvedimento. Infine, di fronte al boicottaggio economico della legge, riesce a sottrarre al senato la gestione del tesoro di Pergamo (lasciato da Attalo allo stato romano), destinandolo all’attuazione del progetto.
Di fronte ad avversari che attendono lo scadere della carica per chiamarlo in giudizio, Tiberio decide però di candidarsi al tribunato anche per l’anno seguente: illecito grave, poiché la consuetudine vieta sia di essere eletti per due anni di seguito alla stessa magistratura, sia l’iterazione di alcune cariche, tra cui il tribunato. Al nuovo strappo verso la legalità contro il tribuno, che si cinge di guardie del corpo, i conservatori reagiscono con la forza. Dopo che il console Scevola rifiuta i poteri speciali conferitigli da un senatus consultum, definito poi s. c. ultimum, è il cugino dei Gracchi, Publio Cornelio Scipione Nasica, pontefice massimo, che lo attacca alla testa dei senatori e dei loro seguaci: nel tumulto che segue, Tiberio e 300 dei suoi vengono uccisi. I corpi sono gettati nel Tevere.
Fino a questo momento a Roma il confronto politico si è limitato alla dialettica, ora la violenza fa irruzione nella vita politica. Da chiarire sono i motivi che conducono alla tragedia, preludio alle guerre civili. Sulla linea seguita dalla maggior parte della critica è schierata anche la tradizione antica: questa riconosce al provvedimento graccano, che si limita a riprendere misure precedenti, non solo legittimità e giustizia morale, ma persino una sostanziale moderazione. Vi sono, tuttavia, forti motivi di frizione. Ci si è chiesti spesso come mai il ceto abbiente, che non ha protestato per precedenti requisizioni, reagisca questa volta compatto. I motivi sono molteplici: il fenomeno agli inizi del secolo è localizzato e di portata ridotta, e il possesso delle terre demaniali non è consolidato, sicché per gli occupanti sarebbe difficile avanzare obiezioni plausibili.
Ora la situazione è cambiata. Innanzitutto la ridistribuzione riguarda l’intero ager publicus. Inoltre gli occupanti hanno investito cifre spesso ingenti nella miglioria dei terreni, gestiti dalle famiglie da generazioni e ormai considerati proprietà e, poiché appunto li ritengono parte delle sostanze familiari, li dividono talvolta persino tra gli eredi, complicandone la situazione giuridica. Per di più, come componente del patrimonio, queste proprietà vengono computate nelle operazioni di censo, contribuendo a determinare un rango sociale cui le famiglie non intendono rinunciare.
Attraente in linea di principio, l’idea di spartire l’ager publicus tra i più poveri piace dunque assai meno non appena si passa all’attuazione pratica, dividendo terre che, di fatto, sono tutte saldamente occupate. Nel biasimare, come è giusto, la grettezza e la cecità politica degli abbienti occorre por mente anche alla loro nuova composizione: nella terra, come in ogni altro settore, sta ora investendo il ceto emergente, che è ben più attento al profitto della nobilitas tradizionale, e che, comunque, ha contaminato con la sua mentalità anche gli aristocratici di vecchio stampo.
Nella resistenza al provvedimento vi è poi qualcosa che trascende forse il semplice egoismo economico. Ad opporsi alla legge la classe dirigente è indotta anche dal fatto che la misura allontanerebbe da Roma un gran numero di elettori. Da sempre invisa al ceto di governo, una soluzione del genere deve apparire particolarmente grave, questa volta, alla classe in ascesa. Esiste infatti almeno un’implicazione che i nuovi ricchi non possono non percepire, così come sembra averla avvertita lo stesso Tiberio: lo sgombero del proletariato urbano da Roma prosciugherebbe l’unico serbatoio di voti davvero fruibile, sterilizzandolo o restituendolo alla nobilitas tradizionale, e limiterebbe per loro ogni prospettiva politica.
Netto verso i contenuti della legge, il rifiuto diviene totale di fronte alle sue implicazioni politiche e ai metodi del tribuno. Sono questi ultimi a far degenerare la contesa. Se la scelta di portare la proposta di legge direttamente davanti ai comizi pare oltraggiosa verso il senato, si tratta nondimeno di un atto che lede solo la consuetudine. Ben altro peso ha la pretesa di Tiberio di opporsi a una prerogativa tra le più sacre della carica tribunizia, respingendo il veto del collega Ottavio e arrivando, in nome di un principio di sovranità popolare tratto forse dall’educazione greca, al punto di violare la sacrosanctitas del collega e di chiederne l’esonero. Quando infine cerca di farsi rieleggere, Tiberio si rende colpevole non solo di una incoerenza palese, ma anche dell’atto più rivoluzionario della sua vita. Egli è il primo a comprendere la rilevanza politica di una tribunicia potestas che, entro i limiti del pomerium, prevale sull’autorità dei consoli. Se davvero concepisce l’idea che il suo controllo possa elevare a una posizione di preminenza, Tiberio anticipa una tra le più significative conquiste del principato. Rivolto al passato negli scopi che persegue, il tribuno precorre la "rivoluzione romana", il passaggio all’impero, almeno nei metodi. Pur non giustificabile, il ricorso alla violenza da parte degli avversari politici esprime la reazione a gravi violazioni di procedura.
Comunque sia, Roma è ormai divisa: il Lelio ciceroniano si domanda “cur in una re publica duo senatus et duo iam paene populi sint”, perché uno stato abbia ormai due senati e due popoli distinti, e incolpa le scelte di Tiberio. Se c’è un rivoluzionario, tuttavia, è il fratello Caio. Rientrato in Italia nell’autunno del 132 a.C. assieme a Scipione Emiliano, ai cui ordini ha militato sotto Numanzia, Caio si pone subito in urto con lui e con il senato. Deciso a proseguire l’opera del maggiore, Caio sogna di controllare lo stato attraverso un tribunato rinnovabile capace di mobilitare le masse; Scipione, come il nonno adottivo, l’Africano, cui somiglia senza averne il genio, è l’aristocratico d’eccezione che i suoi pari accettano benché sia fuori degli schemi, a causa della situazione politica, ed è un punto di riferimento per l’oligarchia senatoria.
L’Emiliano, tuttavia, scompare poco dopo il suo ritorno in Italia. Schieratosi apertamente contro la legge agraria di Tiberio, viene trovato morto in casa. Le fonti parlano tanto di decesso naturale, quanto di suicidio o di assassinio (di cui sono accusati lo stesso Caio e il suo amico Fulvio Flacco, la sorella Cornelia e la moglie Sempronia): un’ipotesi, quest’ultima, accreditata sia dagli oscuri accenni fatti da lui stesso a una congiura contro la sua vita, sia dalla pubblica voce. Scipione ha 56 anni. La sua morte spiana la strada a Caio Gracco. Nei due successivi tribunati (123 e 122 a.C.) da lui ricoperti (è adesso possibile essere rieletti) egli promuove numerose iniziative. Alcune – la distribuzione di grano a prezzo politico; un pacchetto di misure "militari"; persino la ripresa della legge agraria di Tiberio, modificata con l’accresciuta estensione dei lotti e con la fondazione di colonie – hanno sapore demagogico e sembrano rappresentare solo i presupposti all’ultimo e più importante caposaldo della sua strategia, il potere al tribunato. Questo trae forza da altre misure. Se la condanna di Ottavio riabilita l’operato di Tiberio (e, in particolare, la sua condotta verso il collega), la legge secondo cui a un tribuno esonerato dalla plebe – come Ottavio, appunto – è d’ora in poi preclusa ogni successiva carriera politica, infligge un colpo mortale alla facoltà di veto, che il più carismatico tra i membri del collegio può in tal modo bloccare e, con ciò, alla collegialità della carica.
Occorre, però, un appoggio e devono assicurarlo i cavalieri, che hanno peso crescente nel panorama politico. Lusingati sul piano del prestigio e favoriti su quello economico, questi ottengono, grazie alla lex iudiciaria, il controllo dei tribunali de repetundis, le corti sul peculato, sino ad ora composte di senatori. Emanata con l’intento dichiarato di privare i governatori provinciali del privilegio di esser giudicati dai loro pari, sottoponendone la condotta a un vaglio teoricamente imparziale, la legge concede in realtà agli equestri un nuovo e forte potere di condizionamento nei confronti dei magistrati, un potere di cui essi si servono senza scrupoli per i propri scopi: i cavalieri “erano stati trasformati da Caio Gracco in una travolgente forza politica” (Ronald Syme).
Anche la parabola di Caio Gracco viene brutalmente interrotta. "Re senza corona", egli vede popolarità e prestigio logorarsi nella contesa con il senato. Pretesto per l’attacco definitivo è la vicenda di una delle colonie previste dalla legge agraria, la colonia Iunonia. Essa deve sorgere oltre il mare, sul territorio della distrutta Cartagine e questa scelta espone sin dall’inizio Caio Gracco all’accusa di sacrilegio per aver egli – si dice – ignorato l’interdetto religioso che grava sullo spazio urbano della città. Quando, sotto il pretesto di segni infausti, prima gli auguri, poi un tribuno propongono che si rinunci a dar vita al nuovo centro, Caio Gracco, in difficoltà, decide di opporsi anche con la forza; ma, avendo il console Opimio, suo avversario, ottenuto il senatus consultum ultimum, i gruppi che lo appoggiano vengono schiacciati dalla reazione. Caio Gracco si fa uccidere da uno schiavo.
Il suo progetto non rappresenta la continuazione di quello di Tiberio. Questi cerca la soluzione ai problemi sociali del suo tempo nel passato e continua forse a vedere come fulcro dello stato un’aristocrazia che, semmai, deve esser costretta ad accettare i sacrifici che le permetterebbero di sopravvivere. Mentre Tiberio è, come si è detto, rivoluzionario soltanto nei metodi, Caio avvia un indirizzo nuovo, volto a sostituire il senato alla guida della res publica o, almeno, a condizionarne le scelte attraverso l’intervento degli equestri, che dovrebbero issarsi al vertice della politica con l’appoggio della componente popolare. Gestione democratica del potere attraverso le assemblee? Sostituzione dell’oligarchia con un gruppo ristretto comprendente lui e gli alleati? Controllo della res publica attraverso le potenzialità della carica tribunizia? Non sappiamo a quale soluzione Caio pensi, ma è evidente che, come tramite dell’intesa tra popolari ed equestri, si propone di divenire arbitro dello stato.