Agrimensura
Conosciuta sin dall'Antichità, la pratica della limitatio (da limes, letteralmente 'confine') nacque probabilmente in Egitto, dove le periodiche inondazioni del Nilo rendevano necessaria una continua ridefinizione dei confini agricoli. La ricerca di soluzioni metriche via via più raffinate che ne scaturì favorì la formazione di un consistente patrimonio di conoscenze tecnico-pratiche, sulle quali si sarebbero fondati i primi studi di geometria speculativa maturati nel pensiero greco.
Certamente utilizzata e perfezionata anche nelle aree mediterranee di cultura greca, alle quali la tradizione antiquaria latina avrebbe attribuito l'origine, il nome e gli strumenti fondamentali della tecnica, l'ars gromatica (dal gr. γνῶμα, attraverso l'etrusco gruma, al lat. groma) conobbe un'eccezionale fortuna nel mondo romano, che utilizzò i principi di calcolo delle superfici propri dell'a. nella distribuzione della terra delle colonie, nella pianificazione urbanistica delle città e nel tracciato delle grandi vie di comunicazione; operazioni dalle quali sarebbe nato il catasto del territorio che ricadeva entro i confini dell'Impero.
Strutturate nei canoni di una vera e propria disciplina solo nei secoli dell'Impero, le tecniche agrimensorie scaturivano da una prassi certamente consolidata già in età repubblicana, momento al quale possono riferirsi con sicurezza le centuriazioni più antiche. Nella società romana il calcolo delle superfici agrarie era affidato a una classe di tecnici specializzati, organizzati in una corporazione; a questa il mensor accedeva dopo aver acquisito un complesso bagaglio professionale, nel quale trovavano spazio nozioni di geometria applicata, elementi di sapere astronomico e una discreta competenza in campo giuridico, connessa all'esercizio dell'ars e codificata nelle norme di una rigida deontologia professionale.
Il nucleo fondamentale di queste conoscenze fu raccolto tra la fine del 4° e l'inizio del sec. 6° in un corpus di scritti che rivela il carattere di un eterogeneo zibaldone, arricchito da una vasta casistica di soluzioni tecniche esemplari; questo singolare condensato di letteratura ed esperienza pratica specializzata avrebbe dato origine alla tradizione medievale del Codex agrimensorum.
Ricostruiti sulla base di numerosi ritrovamenti archeologici, il procedimento e gli strumenti utilizzati dagli agrimensori romani sono ormai noti. Attrezzo fondamentale era la groma, perfezionamento di un utensile di origini egizie, costituita da una croce dai bracci di uguale lunghezza alle cui estremità erano sospesi quattro fili a piombo; montata su un'asta di sostegno mediante un segmento mobile che permetteva la libera sospensione dei pesi, la groma consentiva di riportare al suolo rette rigorosamente perpendicolari.
Definito, con l'aiuto della meridiana, l'orientamento dei due assi di riferimento fondamentali - cardo e decumanus - rispettivamente tracciati sulle direttrici E-O e N-S, la divisione poteva articolarsi in diversa maniera, adottando soluzioni più o meno conformi alla destinazione o alla morfologia dell'area limitata. La partizione dei terreni poteva seguire una suddivisione per centurie - il sistema più semplice a pezzatura quadrata - o per strigas et scamna, strisce di terreno rettangolari con il lato corto parallelo o perpendicolare al cardo.
L'articolazione del sistema metrico utilizzato conservava chiara l'impronta dell'originale funzione agricola; all'unità più piccola corrispondeva il pes, il piede romano, pari a cm. 29,6 ca., progenitore di molte varianti regionali che sarebbero entrate in uso nell'Alto Medioevo europeo: poco dissimili le misure del piede bizantino, di quello gallico e di quello carolingio. Su scala più ampia erano utilizzati l'actus, pari all'estensione di 120 piedi e, per la misura delle superfici, l'actus quadrato (120 x 120) e lo iugero, calcolato sulla base della quantità di terreno arabile da un uomo alla guida di un paio di buoi nel corso di un giorno di luce.
Alla groma, nel corredo di un mensor o di un'équipe di mensores, si accompagnavano di norma il chorobates, una sorta di livella, la misura di un pes, una piccola meridiana, necessaria per l'orientamento degli assi regolato sull'Oriente equinoziale, e infine tavolette cerate e calami per scrivere.
Affidate a una strumentazione solo apparentemente rudimentale, le pratiche dei gromatici stando a recentissime ricostruzioni (Tibiletti, 1972) consentivano in realtà di ottenere dati di rilievo sorprendentemente precisi, applicando una conoscenza non solo intuitiva di problemi trigonometrici e di proiezione geometrica su piano.
Circa l'educazione di un agrimensore classico si possiedono solo notizie indirette, che provengono soprattutto dal Corpus agrimensorum, il cui nucleo fondamentale, probabilmente contemporaneo al primo stabilizzarsi dell'iter di formazione professionale, risale ai secc. 1°-2° dopo Cristo. Si trattava di un corso di studi superiori, parallelo e probabilmente alternativo all'asse retorico-letterario degli otia dell'aristocrazia. Raccolti in scuole dislocate nei grandi centri dell'Impero, gli allievi vi acquisivano quelle nozioni più raffinate in materia di calcolo, astronomia e diritto che costituivano l'ossatura del loro bagaglio professionale.
Ben documentate sino agli ultimi secoli dell'Impero d'Occidente, le notizie circa l'uso di pratiche agrimensorie si fanno più rade e frammentarie nel Medioevo.
Informazioni relative alla continuità dell'istruzione di agrimensori regolata dall'autorità pubblica si possono seguire sino al sec. 5°-6°, sino a quando cioè rimasero in funzione le scuole e l'insegnamento pubblico. Non è probabilmente frutto di un caso che le ultime tracce di tale insegnamento, da ritenersi grosso modo contemporanee alla prima sistemazione del Codex agrimensorum - corrispondente alla recensione testimoniata dai mss. Arceriani A e B - siano legate a due figure chiave dell'ultima riorganizzazione delle scuole propria della 'rinascenza gota': Cassiodoro e Boezio. Al primo, del quale è noto l'interesse per le discipline tecniche - più che degnamente rappresentate nella biblioteca di Vivarium (presso Squillace) - appartiene un singolare elogio del mensor come figura ideale d'intellettuale pratico, modello positivo di un uso non teoretico del sapere (Variae, III, 52). Al nome di Boezio è invece collegata la più antica contaminazione medievale del Corpus agrimensorum, attestata dall'inserimento dell'Euclide latino nel prototipo della Miscellanea Palatina.
È possibile che, non senza difficoltà, la formazione di agrimensores professi a Roma sia continuata almeno sino alla fine del 6° secolo. Ancora nel 597, da Roma, Gregorio Magno poteva assicurare al vescovo di Siracusa l'invio di un agrimensore destinato a dirimere una controversia territoriale tra due monasteri siciliani (Ep., VII, 36).
Una situazione abbastanza diversa, sebbene non se ne abbiano notizie precise, dovette determinarsi nei secoli immediatamente successivi. Fortemente compromesso dall'interruzione dell'istruzione pubblica, l'insegnamento della gromatica cessò con buona probabilità con la fine dell'Impero d'Occidente. Del resto, vocazionalmente legata com'era alla presenza di un potere centrale, la funzione stessa dell'agrimensore classico doveva avere conosciuto una non facile convivenza con i particolarismi della tarda età imperiale.
La riprova della scomparsa dal tessuto sociale altomedievale dell'agrimensore la forniscono, per diverse vie, due fatti. Innanzitutto la sostanziale irriducibilità a un referente comune che caratterizza la metrologia medievale. A questo dato risponde, nella documentazione medievale, il proliferare di una miriade di indicazioni topografiche più o meno empiriche.
In parallelo al loro progressivo esaurirsi come disciplina pratica i principi della gromatica finirono col divenire sempre più decisamente oggetto di un interesse erudito; lo documenta l'arricchimento in chiave squisitamente matematico-speculativa delle miscellanee agrimensorie. Un processo, quest'ultimo, avviato già nei primi decenni del sec. 7° e ormai perfettamente compiuto in età carolingia, al momento della redazione del Pal. lat. 1564 (Roma, BAV).
Risponde in modo coerente ai canoni di questo sostanziale mutamento di pubblico il richiamo alla tradizione gromatica che guidò gli studi scientifici di Gerberto d'Aurillac. Alla corrispondenza dello stesso Gerberto, grande figura di matematico, intellettuale curioso e pervicace bibliofilo, sono tuttora legate le sole notizie possedute sui centri di copia presso i quali rimase viva nell'Alto Medioevo la tradizione manoscritta degli Agrimensores: Bobbio, dove Gerberto ebbe modo di studiare scritti di agrimensori, e dove si ritiene comunemente che sia rimasto a lungo il volume degli Arceriani, e Ripoll, residenza giovanile di Gerberto, monastero all'interno del quale questi completò la sua formazione, sede di una tradizione di studi matematici, testimoniata dalla copia del Ripoll 106 (Barcellona, Arch. Cor. Arag., Bibl. Auxiliaria), singolare collazione di excerpta gromatici compilata da un Gisemundus, di pochi decenni anteriore al soggiorno dello stesso Gerberto (Toneatto, 1982).
Scomparse o fortemente ridimensionate nella loro incidenza sul panorama agricolo, le pratiche agrimensorie videro probabilmente affidata la loro sopravvivenza a discipline o tradizioni tecniche a esse parallele. Sotto questo profilo, la storia medievale dell'a. richiederebbe un'analisi sistematica delle fonti ancora tutta da affrontare. Tuttavia, documenti certi di una persistenza dell'uso di procedimenti gromatici sono rintracciabili nella storia dell'architettura. Risale al sec. 10° una notizia - riportata da Rosvita - circa l'uso della groma nella fondazione della basilica abbaziale di Gandersheim (Primordia coenobii Gandeshemensis, p. 236).
Nozioni sull'uso della groma filtrarono certamente nella formazione degli architetti attraverso gli scritti di Vitruvio, del quale soltanto da poco si comincia a ricostruire la tradizione medievale, soprattutto in relazione al problema delle conoscenze matematiche, delle tecniche e degli strumenti della progettazione architettonica.
Alla storia dell'urbanistica appartengono infine alcuni episodi di reviviscenza delle pratiche agrimensorie che dall'età romanica si spingono al Basso Medioevo. Precise testimonianze di una continuità nell'uso di schemi centuriati in chiave urbanistica sono riconoscibili nei tracciati di fondazione del mondo anglosassone (dove non è improbabile che sia connesso all'importazione di tradizioni tecniche e costumi liturgici mediterranei conseguenti alla colonizzazione gregoriana dell'Inghilterra) e nell'impianto di città e terrae muratae di fondazione medievale, soprattutto dell'Europa centrale.
La principale fonte di conoscenza dell'a. romana risiedeva sino a poco tempo fa quasi esclusivamente nella tradizione manoscritta medievale degli Agrimensores, insieme che per molti versi merita un capitolo a sé. Si tratta, come ricordato, di un corpus di manoscritti miscellanei molto differenti per caratteristiche testuali, datazione, origini geografiche e corredo illustrato. Gli esemplari più noti e autorevoli, ai quali la storiografia tende in generale a fare riferimento, sono due splendidi codici miniati, l'Arceriano (Wolfenbüttel, Herzog August Bibl., Guelf. 36.23; sec. 5°-6°) e il Pal. lat. 1564 (Roma, BAV; 820-830).
Circa due secoli più antico dell'altro e quasi certamente di redazione italiana, l'Arceriano è in realtà costituito da due sezioni indipendenti, delle quali soltanto la prima (versione A) è illustrata. Vergati entrambi in onciale, gli Arceriani A e B sono stati variamente attribuiti a diversi centri scrittori della penisola, con datazioni oscillanti tra la fine del 5° e il 6° secolo. La tradizione testuale delle due sezioni è perfettamente parallela, in generale si tende tuttavia a ritenerne l'esecuzione separata da un lieve scarto cronologico a vantaggio della redazione B; è opinione comune che l'assemblaggio delle due parti debba risalire alla redazione di A, probabilmente concepito come integrazione della versione non illustrata. Le ipotesi più recenti circa la cronologia e la collocazione geografica di entrambe hanno indicato come possibili aree di provenienza Ravenna (Butzmann, 1972), alla quale dovrebbe essere attribuita l'elaborazione del prototipo di A, e in alternativa Roma (Bertelli, 1968; Petrucci, 1971; Carder, 1978), che nel sec. 6° era il centro di produzione di una messe piuttosto numerosa di codici di lusso, vergati in una particolare tipizzazione dell'onciale propria di A.
Le vicende medievali del volume restano oscure. A lungo identificato con l'esemplare degli Agrimensores consultato da Gerberto a Bobbio, a partire dal sec. 15° il manoscritto sarebbe passato nelle biblioteche di molti umanisti italiani. Nei primi decenni del Cinquecento il codice è documentato a Roma, dove sarebbe stata eseguita la prima delle due copie rinascimentali che se ne possiedono (Roma, BAV, lat. 3132). Già dal 1527, tuttavia, se ne ritrovano tracce nel Nord Europa; qui, dopo ulteriori passaggi e un nuovo episodio di copia (Jena, Universitätsbibl., fol. 156) sarebbe pervenuto nella collezione di Jan Arcerius - dal quale il codice prende il nome - e infine a Wolfenbüttel.
Del manoscritto carolingio (Roma, BAV, Pal. lat. 1564), confluito nelle raccolte vaticane nel sec. 17° con l'insieme della raccolta Palatina, si dà per acquisita un'ipotesi di provenienza dalla biblioteca del monastero di Fulda, presso il quale nel sec. 15° lo avrebbe consultato Johann Sichardt. Pochi anni più tardi il codice si trovava a Colonia, dove un altro umanista - Metello Siquano (Jean Matal) - sarebbe pesantemente intervenuto sulle miniature, apponendovi un'ingombrante e prolissa annotazione ancora visibile. L'esecuzione dell'opera è oggi attribuita con una certa sicurezza alla scuola palatina attiva presso la corte di Ludovico il Pio. Sul piano stilistico l'Agrimensore Palatino rappresenta una delle manifestazioni più alte dell'umanesimo carolingio, prossima, a giudizio di Mütherich (1974), al volume londinese degli Aratea e al Terenzio Vaticano.
All'Arceriano e al Palatino (P), capostipiti, o piuttosto primi testimoni di due diverse famiglie testuali che da essi prendono il nome, si è associata una variegata compagine manoscritta medievale che da questi dipende, sia pure attraverso canali di trasmissione non del tutto chiariti. Fra questi, accanto a copie dirette - è il caso del Gudianus A 105 (Wolfenbüttel, Herzog August Bibl.), esemplato nel sec. 11° dal Palatino - sono presenti testimoni di una tradizione intermedia tra le due recensioni; a quest'ultimo ramo fanno capo i mss. E ed F (Erfurt, Wissenschaftliche Allgemeinbibl., Ampl. 362, 4, sec. 11°; Firenze, Laur., Plut. XXIX, 32, sec. 9°).
Diversissimo per origini e destinazione, l'insieme si caratterizza per una forte disomogeneità del corredo illustrato, che varia dal ricchissimo apparato decorativo dell'Arceriano A e di P ai semplici grafici a monocromo di E ed F.
Età e caratteri del prototipo comune alle due tradizioni testuali e iconografiche che discendono da A e P costituiscono i nodi di una problematica controversa e tuttora in discussione. L'asse originario di questa ramificata costellazione dovrebbe risalire, secondo studi recenti, alla prima sistemazione del Corpus agrimensorum, riferibile ai secc. 1°-2° dopo Cristo. A partire da questo periodo le due tradizioni sembrano avere seguito percorsi paralleli, inglobando separatamente materiali testuali e iconografici di redazione più tarda. Tuttavia, pur ammettendo la sostanziale genuinità del nucleo testuale originario, l'iter di formazione del ciclo illustrato che intorno a questo si è variamente coagulato resta in buona misura da definire.
È opinione corrente che nel suo complesso - testi e immagini - la raccolta abbia mantenuto il carattere di un prontuario didattico; è difficile però stabilire in quale misura anche i testimoni più antichi riflettano i manuali tecnici degli agrimensori, tanto più che questi sono pervenuti attraverso il filtro di due costose edizioni per bibliofili, con buona probabilità piuttosto lontane, per caratteri e forma libraria, dal modello originario. L'essere questo stesso corpus di scritti un florilegio tecnico, per sua stessa natura suscettibile di modifiche, aggiunte, aggiornamenti, ha reso quanto mai complessa l'analisi del corredo iconografico. Ciò spiega l'insorgere di qualche riserva (Castagnoli, 1944) circa la possibilità di identificare nelle mappe di quest'ultimo una derivazione delle formae ufficiali del catasto romano.
Non va inoltre dimenticato che la riedizione di entrambi i rami della miscellanea gromatica si svolse presumibilmente tra il sec. 3° e il 4°, attraverso cioè la più grande rivoluzione che la storia del libro abbia conosciuto: il passaggio dal rotolo al codice, un passaggio che modificò profondamente tradizioni testuali e modelli grafici d'impaginazione del libro tardoantico e al quale risale di fatto la prima grande selezione del patrimonio letterario classico.
Il tentativo più recente di districare i diversi filoni iconografici del Corpus agrimensorum, procedendo per la prima volta a una lettura analitica dei nuclei tipologici in esso confluiti, appartiene a un contributo di Carder (1978). A quest'ultimo studio, nato da una riflessione sull'Arceriano, si devono alcuni spunti di carattere più generale che possono in realtà essere agevolmente estesi all'intera tradizione illustrata degli Agrimensores. Innanzitutto, la sicura contestualità di alcuni dei nuclei tipologici individuati alla redazione dei trattati più antichi; certamente illustrati devono essere stati concepiti, per es., gli opuscoli di Frontino, provvisti nella forma originaria almeno di un apparato grafico, rimasto comune tanto ad A che a P. Distingue, tra l'altro, questa doppia tradizione testuale una singolare autonomia del tessuto iconografico rispetto al testo. Una significativa distonia di percorso caratterizza l'illustrazione dei trattati di Frontino, che procede dalla soluzione papyrus-style documentata nell'Arceriano, alla formula del fascicolo di 'tavole fuori testo' testimoniata dal Liber Diazographus del Palatino.
Una considerazione a latere sollecita infine la diversa impaginazione che assume, nel ciclo illustrato dell'Arceriano, il trattato di Agennio Urbico, nato probabilmente come unità separata e inserito nel corpus solo al momento della compilazione del prototipo di A, non anteriore alla seconda metà del 4° o all'inizio del 5° secolo. L'opuscolo, in realtà un compendio più tardo di scritti già presenti nella miscellanea, diversamente dai primi fu concepito per il formato del Codex e non a questo adattato come avvenne per i trattati più antichi: lo attestano la presenza del ritratto dell'autore sul frontespizio (in P il fascicolo iniziale presenta invece il circolo dei gromatici) e la diversa disposizione delle immagini, inserite al termine di ciascuna sezione.
L'innesto del trattato di Agennio Urbico nella tradizione di A segna, di converso, l'avvenuta separazione delle due tradizioni; il corredo illustrato del testo più tardo si accompagnò nel prototipo di A a una profonda revisione dell'intera compagine iconografica che rimase estranea al ramo Palatino.
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