AGRO (lat. ager)
È in senso lato, nell'età romana, il territorio di uno stato politicamente costituito, sia che si tratti dello stato di Roma, sia che si tratti di uno stato straniero. In tal senso Livio ci parla dell'ager Romanus, Albanus, Capenas, Paelignus, ecc., e, fuori d'Italia, dell'ager Corinthius, Pellenensis; nella lex Antonia de Termessibus del 71 a. C. (Corp. inscript. lat., I, 1ª ediz., 204; 2ª ediz., 589) è parola dell'ager Thermensium (II, lin. 8) e nel decreto di L. Emilio Paolo del 189 a. C. (Corp. inscript. lat., II, 5041; I, 2ª ediz., 614) dell'ager Hastensium.
Ager romanus. - Questo termine col proceder del tempo si cristallizzò (se prescindiamo da pochi luoghi, nei quali esso comprende tutto il territorio romano capace di proprietà quiritaria: Varr., De lingua lat., V, 32-55; Rer. rust., I, 10, 1) nel designare il territorio che ebbe Roma città-stato in una prima fase del suo sviluppo, nel periodo regio; s'identifica, cioè, coll'ager antiquus (Serv., Ad Aeneid., XI, 316). Il confine di quest'antico territorio può esser fissato, sulla sinistra del Tevere, verso SO., al sesto miglio della via Laurentina, ove ogni anno si faceva un sacrificio al dio Termino (Ovid., Fast., II, 679 segg.); verso SE. al quinto miglio della via Latina, ove gli Albani posero il loro campo nella guerra contro Tullo Ostilio (Liv., I, 23; Dionys. Halic., III, 4; pare che le fosse Cluilie siano da identificare con la marrana dell'Acqua Mariana e coi fossi del Calice e dello Statuario, che si riuniscono a formare quello dell'Acqua Santa); sulla destra del Tevere, al quinto miglio della via Campana, ove si trovava il bosco sacro alla dea Dia, nel quale era il luogo di riunione dei fratelli Arvali, e quindi una delle tappe della processione delle Ambarvalia, che si svolgeva lungo i limiti dell'antico territorio (Strab., V, 230); e verso N. non giungeva nemmeno a due miglia dalla porta Collina, ove, al confluente del Tevere coll'Aniene, sorgeva Antemne. Per stabilire il confine sulla linea orientale manca ogni punto d'appoggio, ma è congetturabile che anche verso questa direzione non si sia inoltrato per più di 4 o 5 miglia dalla città; di guisa che il diametro di quest'antichissimo territorio romano va calcolato da N. a S. a circa 9 miglia (13 km.), e a un po' meno forse da E. a O.; laonde la sua estensione complessiva può computarsi a circa 150 kmq. (v. J. Beloch, Der italische Bund unter Roms Hegemonie, Lipsia 1880, p. 45 segg. e Römische Geschichte, p. 169 segg. con la carta n.1; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, p. 377).
L'ager Romanus in questa estensione rimase sempre, anche quando lo stato romano si allargò via via con le successive conquiste, il solo territorio nel quale si potessero compiere certi atti solenni della vita pubblica, sia di carattere religioso, sia di carattere politico, come gli auspici, la convocazione dei comizî curiati e centuriati, la nomina del dittatore, e solo quando circostanze speciali rendevano difficile o pericolosa la celebrazione di qualcuno di questi atti entro quei limiti, fu possibile trasformare per mezzo di una finzione in ager Romanus anche un territorio collocato di là da essi (Serv., Ad Aen., II, 178; T. Mommsen, Staatsrecht, 3a ediz., I, p. 100, nota 3; cfr. Liv., XXVII, 29, 5).
Ager peregrinus. - Mentre l'espressione ager Romanus si andò così circoscrivendo, quella di ager peregrinus venne tecnicamente e giuridicamente a significare il territorio di quegli stati che erano stretti a Roma da determinati vincoli internazionali, precisati con trattati; il territorio, insomma, degli stati politicamente riconosciuti da Roma. Il riconoscimento politico, che Roma faceva di uno stato, portava con sé il reciproco riconoscimento della proprietà secondo il rispettivo diritto, l'inviolabilità reciproca dei territorî e il diritto di esilio, come appare da quei documenti nei quali Roma concedeva simili privilegi a territorî che prima non ne godevano (v., oltre la lex Armonia de Termessibus, I, lin. 11 segg., II, lin. 8 segg. ed il decreto di L. Emilio Paolo, già citati, il senatoconsulto de Thisbaeis del 170 a. C., in Ephemeris Epipraphica, I, p. 278; Inscr. gr., VII, 2225; Dittenberger, Sylloge inscript. graec. 3a ediz., 646; Bruns, Fontes iuris romani antiqui, 7a ediz., I, p. 166; e quello de Aphrodisiensibus, del 42 a. C., in Corp. inscr. graec., 2737; Dittenberger, Orientis graeci inscr., 453, lin. 5; Bruns, op. cit., p. 185).
Principale caratteristica dell'ager peregrinus rimase la sua incapacità di proprietà quiritaria, il quale principio fu tenacemente osservato, soprattutto per mantenere all'Italia la sua posizione dominante e impedire la costituzione, fuori d'Italia, di comuni cittadini con pienezza di diritti, in tutto pari a quelli italiani.
Particolare importanza ha per definire la natura dell'ager peregrinus di fronte alle altre categorie di territorî, secondo le rispettive condizioni politiche, il passo di Varrone, De ling. lat., V, 33; donde vedesi che l'ager Gabinus, che sta ad esemplificare il territorio degli stati aventi comunanza nazionale con Roma, cioè le città latine, mentre politicamente è eguagliato all'ager peregrinus, ne differiva appunto, in omaggio a quella comunanza di stirpe, nei riguardi della dottrina e della prassi augurale. L'ager hosticus è invece il territorio non solo dello stato che si trovi in guerra con Roma, ma di qualunque stato non abbia concluso con Roma un trattato e non abbia quindi veruna comunione giuridica con lei. Sono note, del resto, le formalità che venivano adempiute per la dichiarazione di guerra a simili stati (Liv., I, 32, 12) e la finzione giuridica con la quale per il compimento di tali formalità si conferiva la qualità di ostile a un tratto dell'ager Romanus; Serv., Ad Aen., IX, 53; Ovid., Fast., VI, 205; Festo, Epit., p. 33; Dio Cass., L, 4, 5; LXXI, 33, 3.
Ager publicus. - È demanio dello stato romano, essenzialmente costituito dalle terre confiscate in misura maggiore o minore ai vinti. E poiché, secondo ogni verosimiglianza intrinseca di sviluppo storico, lo stato romano, da un minimo nucleo primitivo, si allargò via via per successive conquiste, pressoché tutte le terre del territorio romano furono in origine ager publicus, e in tanto poterono divenire proprietà privata in quanto lo stato lo consentì, e nella misura in cui lo consentì. In questo senso ha ragione la tradizione, quando dice che Numa avrebbe diviso individualmente tra i cittadini le terre conquistate da Romolo (Cic., De rep., II, 14, 26; Plut., Numa, 16). Anzi la tradizione attribuisce allo stesso Romolo una prima distribuzione di due iugeri di terra (bina iugera) a ciascun cittadino (Plin., Nat. hist., XVIII, 2, 7; Varr., Rer. rust., I, 10, 2; Fest., s. v. Centuriatus ager), e sembra rappresentarsi per tal guisa la proprietà privata come originariamente derivante da una proprietà collettiva, statale, e da essa preceduta. A questa concezione corrisponde tutta una moderna teoria storica e giuridica, secondo la quale appunto la proprietà individuale del diritto romano sarebbe stata preceduta dal regime collettivistico. Ma da questa questione conviene ora prescindere, come dalle altre con essa connesse: se, cioè, quella proprietà individuale sia stata preceduta da quella gentilizia, e se in origine abbia avuto carattere sovrano, o se sia stata ordinata per finalità prettamente economiche. Conviene prescinderne e considerare l'agro pubblico come il demanio di Roma (campi coltivati, pascoli, foreste, miniere, saline, laghi e fiumi; cfr. Plin., Nat. hist., XVIII, 11), il quale da un suo nucleo originario si andò via via allargando con le successive conquiste prima in Italia, poi nelle provincie.
L'agro pubblico in Italia. - Gl'impieghi che i Romani fecero dell'agro pubblico in Italia sono elencati con completezza e con precisione sufficienti da Appiano, (Bell. Civ. I, 7) "I Romani, sottoponendo ad una ad una le varie regioni dell'Italia, usavano prendere per sé una porzione dei varî territorî, e fondarvi città e dedurre in quelle esistenti già prima loro coloni; e questi provvedimenti prendevano per assicurare il loro dominio. Delle terre da loro a volta a volta confiscate, quelle coltivate o assegnavano a coloni, o vendevano, o davano in affitto. Per quelle invece che a causa della guerra giacevano incolte (e costituivano queste la grande maggioranza), non volendo e non potendo spender tempo ad assegnarle, emanavano un editto, col quale dichiaravano che, chiunque volesse, poteva nel frattempo coltivarle, pagando la decima pei terreni seminati, e la quinta per quelli arborati e le vigne. Anche sul pascolo delle greggi imponevano una tassa che variava in corrispondenza della varia natura dei capi di bestiame".
Quattro, dunque, erano le forme o, almeno, le forme principali d'impiego dell'agro pubblico: 1. assegnazione, 2. vendita, 3. locazione, 4. cessione in possesso.
1 L'assegnazione veniva deliberata con una legge che definiva il territorio da distribuire, ed era eseguita da una commissione, che procedeva alla misurazione e alle distribuzione del suolo. E due erano le forme dell'assegnazione: la coloniaria e la viritana. La coloniaria (onde ager colonicus: v. Frontin., p. 35, 14, 17; 36, 1, in Schriften der röm. Feldmesser editi da Blume, Lachmann e Rudorff, I, Berlino 1848, dalla quale edizione citiamo tutti gli altri gromatici; Agenn., p. 62, 20, 23; Lex Man., p. 264, 13) aveva per effetto la fondazione di una colonia, e in questo caso la legge (lex colonica) stabiliva il numero delle persone che vi dovevano partecipare, formando un comune per sé stante, e la misura dei lotti che dovevano essere assegnati ai singoli coloni per mezzo del sorteggio, e che appunto per ciò si chiamavano sortes. La viritana (onde ager viritanus: Fest., Ep., p. 373; Sic. Flacc., p. 154, 9 segg.; Lib. col., p. 238, 5, 18; 239, 2, 5, 12; Varr. Rer. rust. I, 10, 2; cfr. I, 2, 7; Cic., De rep., 2, 14, 26) veniva fatta invece a singoli cittadini senza costituzione di un nuovo comune, e la legge, in questo caso, non determinava né il numero dei partecipanti, né la grandezza delle assegnazioni, le quali poi non eran fatte per mezzo del sorteggio, ma nominativamente. Le terre assegnate con l'una o con l'altra forma divenivano piena proprietà privata degli assegnatarî (agri privati optimo iure, fatta, pare, qualche eccezione per qualche caso di assegnazione viritana); erano libere da ogni vectigal, e dovevano, all'incontro, essere iscritte nel territorio di una delle 35 tribù e denunciate nel censo (censui censendo sunt). Diventavano, cioè, agri privati ex iure Quiritium, e dal punto di vista giuridico-gromatico si dicevano divisi et adsignati (v. agrimensura).
2. La vendita di porzioni dell'agro pubblico avveniva o subito dopo la conquista di un territorio nemico, o per provvidenza dei censori, o per decreto del senato, o per legge (Liv., XXVIII, 46, 4; Cic., De leg. agr., II, 14, 36), e, poiche dell'esecuzione della vendita erano incaricati i questori (v., per l'ager Campanus, Livio, loc. cit., cfr. 32, 7), i campi così venduti erano detti agri quaestorii (Hygin., p. 115, 15; Sic. Flacc., p. 136, 14; 152, 23). L'acquirente acquistava il possesso stabile del fondo, ma non la proprietà, e doveva perciò pagare un vectigal reale o nominale a testimoniare che la proprietà ne rimaneva allo stato (Sic. Flacc., p. 136, 20; 151, 17; 152, 23; 154, 8; Hygin., p. 125, 19). Dunque, il contratto era formalmente di vendita, ma sostanzialmente di enfiteusi, avendo durata indeterminata, in genere perpetua, ed essendo l'agro questorio ereditario, ma non passibile di vendita.
Una categoria affine agli agri quaestorii, detti anche privati vectigalesque, è costituita dall'ager in trientabulis fruendus datus. È noto che, mentre infieriva la seconda guerra punica, lo stato aveva dovuto contrarre un prestito, impegnandosi a restituirlo in tre rate. Le prime due rate furono versate regolarmente, ma quando nel 200 a. C. scadde il termine pel pagamento della terza, l'erario non fu in grado di tener fronte al suo impegno, essendo nel frattempo scoppiata la guerra con la Macedonia, e allora il senato stabilì di dare ai creditori, invece del denaro, porzioni equivalenti di agro pubblico per entro tutto un raggio di 50 miglia da Roma, obbligandoli al pagamento di un tributo nominale di un asse per iugero, al fine di testimoniare che i fondi ceduti erano dello stato, e reciprocamente obbligandosi a riprenderli, quando i creditori lo avessero desiderato, senza che lo stato avesse rispettivamente il diritto di risolvere di sua autorità il contratto (Liv., XXXI, 13: trientabulumque is ager, quia pro tertia parte pecuniae datus erat, appellatus, cfr. XXVI, 36; XXIX, 16; 33, 42; Fest., p. 364; lex agraria del 111 a. C. lin. 31, 32, in Corp. Inscr. Lat., I, 2 ed., 585).
3. La locazione censoria fu applicata a quelle parti dell'agro pubblico che lo stato riservò alla sua amministrazione diretta. Plutarco nel cap. 8 della vita di Tiberio Gracco dà al sistema dell'affitto dell'agro pubblico una larghissima applicazione e, anzi, considera l'accumularsi dell'agro pubblico nelle mani dei ricchi come la risultante di affitti, e la questione agraria come germinante da una gara di appalti, insostenibile dai poveri: ὕστερον οἱ γειτνιῶντες πλούσιοι ὑποβλήτοις προσώποις μετέϕεροξ τὰς μισϑώσεις εἰς ἑαυτούς: "ma ben presto poi i ricchi proprietarî confinanti riuscirono a trasferire a sé gli appalti (dell'agro pubblico) per mezzo di persone fittizie". Ma questa concezione è in contraddizione insanabile con Appiano, Bell. Civ., I, 7, e sostanzialmente erronea. Plutarco o la sua fonte deve aver confuso l'appalto dei vectigalia per il possesso dell'ager publicus con un vero e proprio appalto di esso.
Messo da parte questo equivoco, resta pur sempre certo che la locazione censoria fu applicata non di rado:
a) per campi coltivati particolarmente redditizî: più importante tra tutti l'ager Campanus, che, confiscato dopo la presa di Capua, nella seconda guerra punica, venne messo a frutto, oltreché con la vendita, le assegnazioni coloniarie e possesso, con l'appalto (Liv., XXVII, 3: agro, qui publicatus fuerat locando, espressione da intendersi nel senso del dare in appalto la riscossione di vectigalia dell'ager Campanus, vectigalia derivanti sia dall'appalto, sia dal possesso; Liv., XLII, 19: eodem anno quia per recognitionem Postumii consulis magna pars agri Campani, quem privati sine discrimine passim possederunt, recuperata in publicum erat, M. Lucretius tribunus plebis promulgavit, ut agrum Campanum censores fruendum locarent, quod factum tot annis post captam Capuam non fuerat, ut in vacuo vagaretur cupiditas privatorum, ove non è da intendersi col Neumann e col Mommsen che da quel momento in poi fosse applicato l'appalto a tutto l'ager Campanus, ma certo l'appalto parziale ne resta confermato; Gran. Lic., p. 9 dell'edizione Flemisch del 1909, secondo la ricostruzione del Kubitschek in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. f. class. Altertumswiss. III, col. 1442: (P. Lentulo) praetori urbano senatus permisit agrum Campanum... coëmeret [u]t publicus fieret... agrum [e]um in [fundos] minu[t]os divisunt [mox ad pr]et[i]um indictu[m locavit]).
b) per pascoli (silva pascua, Gai., Dig., L, 16,30, 5; saltits, Varro, De l. l., V, 36; Fest., p. 302) che venivano dati in appalto a pubblicani, con l'incombenza di riscuotere dagli utenti i diritti relativi (scriptura);
c) per boschi di speciali categorie ed usi (p. es. le picariae di cui è parola nel Dig., L, 16, 17, 1);
d) per laghi e fiumi, dei quali era data in appalto la pesca (Pol., VI, 17, 2; Dig., I, 8, 4, 1; XLIII, 14, 1, 7, oltre Serv., Ad Virg. Georg., II, 161 e Fest., Epit., p. 121, i quali due ultimi passi si riferiscono ai laghi di Averno e di Lucrino nella Campania).
Non parliamo di miniere, perché nell'Italia peninsulare non ve ne furono di rilevanti, e comunque l'uso ne fu limitato con un antico senatoconsulto (Plin., Nat. hist., III, 138).
4. Cessione in possesso. - L'uso più frequente dell'agro pubblico, per quanto concerne l'Italia, fu quello della cessione in possesso. Quando un territorio nemico veniva conquistato, i Romani, secondo il passo di Appiano che abbiamo sopra riportato, consentivano con un editto che chi volesse, e avesse i mezzi necessarî per gl'impianti, occupasse tratti dei terreni incolti, pagando un vectigal annuo. Il mezzo dunque col quale il possesso veniva affermato, era l'occupazione, consentita dal detto editto, o autorizzata con legge o con senatoconsulto. L'intervento dello stato nei casi normali non giungeva alla divisione e all'assegnazione dei terreni in possesso, sebbene qualche volta si siano potute verificare tali assegnazioni, come poi procedette di fatto per assegnazione la divisione di terre ordinata dalle leggi Sempronie.
Chi dunque col consenso dello stato occupava porzioni disponibili di agro pubblico, ne diveniva il possessore, e possidere, possessio sono i termini tecnici che indicano la relazione giuridica dell'individuo di fronte al terreno occupato.
Come è noto, nel linguaggio giuridico possessio significa uso di una cosa, e chi possiede non ha la giustificazione in un diritto, ma in uno stato di fatto, può disporre della cosa posseduta a suo talento, ma non può chiamarla sua secondo il diritto quiritario. Il possessore dell'agro pubblico è così colui il quale ne gode l'usufrutto, senza averne la proprietà. Possessio est, definit Gallus Aelius, usus quidam agri et aedificii, dice Festo, p. 233, e Iavolen., in Dig., L, 16, 115: possessio ab agro iuris proprietate distat. Quidquid enim apprehendimus, cuius proprietas ad nos non pertinet, aut nec potest pertinere, hoc possessionem appellamus: possessio ergousus, ager proprietas loci est. E mentre questi autori definiscono la differenza giuridica tra proprietà, mancipium e possesso (usus), ad essa si riportano molti luoghi letterarî; i quali dimostrano come i due istituti ebbero un'applicazione in tutto analoga per antichità e per estensione, sì da potersi considerare compenetrati entrambi nella concezione romana della potestà sulle cose. Più ancora dei luoghi frequenti di Livio, ove si narra delle lotte agrarie, sono significativi a questo proposito quei passi di scrittori, nei quali il contrasto tra i due concetti sboccia spontaneo, come Lucret., III, 969: vita mancipio nulli datur, omnibus usu; Horat., Sat., II, 2, 134: (is ager) erit nulli proprius sed cedet in usum Nunc mihi nunc alii; Seneca, Ep., 72, 7: nihil dat fortuna mancipio.
Proprietario è e rimane lo stato, che ha il diritto di revocare il possesso quando e come crede, giacché, infatti, i giuristi esclusero sempre che l'usucapione potesse valere a creare il diritto di proprietà quanto all'ager publicus (Agenn., p. 82, 30; Frontin., p. 50, 16, Gai.; Dig., XLIII, 3, 9; si noti pure che Cicerone, anche là ove riproduce più fedelmente il punto di vista degli ottimati, non sa appellarsi contro la legge agraria di Tiberio Gracco a ragioni di puro diritto, ma solo di equità, De off., II, 79, o di opportunità, Pro Sest., 48, 103, cfr. De lege agr., II, 21, 57 e III, 3, 11).
D'altra parte, lo stato offriva protezione al possessore dell'agro pubblico, contro turbative e usurpazioni di terzi, per mezzo degl'interdetti uti possidetis e unde vi, che vietavano di ostacolare o d'impedire con la violenza al possessore legittimo il godimento del possesso. La formulazione più antica dell'interdetto uti possidetis è quella che dà Elio Peto, attraverso Festo, p. 233; possessio est, definit Gallus Aeltus, usus quidam agri et aedificii... itaque in legitimis actionibus nemo ex iure Quiritium possessionem suam vocare audet, sed ad interdictum venit, ut praetor his verbis utatur: "uti nunc possidetis eum fundum, quo de agitur, quod nec vi nec clam nec precario alter ab altero possidetis, uti ita possideatis, adversus ea vim fieri veto", nella quale formulazione, come si vede, è parola espressamente di fundi, mentre la formulazione più recente che ne dà Ulpiano (Dig., XLIII, 17,1, pr.) parla solamente di case.
La formulazione più antica dell'interdetto unde vi risulta da Cicerone, Pro Tull., 19, 44 e 45; Pro Caec., 19, 55 segg. e 30,32; Gai., IV, 154, mentre è certamente interpolata la formulazione che ne dà Ulpiano, in Dig., XLIII, 16, 1. È vero che in queste formulazioni non vi ha riferimento esplicito al possesso dell'agro pubblico, ma è certo che a questi due editti era affidata la protezione anche di questa categoria di possessi.
Infatti il passo di Cicerone, De leg. agr., III, 3, 11: (haec tribunus plebis promulgare ausus est, ut, quod quisque post Marium et Carbonem consules possidet, id eo iure teneret, quo qui optimo privatum? etiamne si vi eiecit? etiamne si clam, si precario venit in possessionem? ergo hac lege ius civile, causae possessionum, praetorum interdicta tollentur) e il paragrafo della legge agraria del 111 a. C. lin. 18: [Sei quis eorum quorum age]r s(upra) s(criptus) est, expossessione vi eiectus est, quod eius is quei eiectus est possederit, quod neque vi neque clam neque precario possederit, ab eo, quei eum ea possessione vi eiec[erit: quem ex-h(ac) l(ege) de ea re ious deicere oportebit, sei is quei ita eiectus est, de ea re in ious adierit ante eidus Mart]ias, quae post h(anc) l(egem) rog(atam) primae erunt, facito, utei is, quei ita vi eiectus e(st, in eam possessionem, unde vi eiectus est, restituatur) dimostrano l'esistenza, in relazione al possesso dell'agro pubblico, di un interdetto nel quale doveva trovarsi la clausola nec vi, nec clam, nec precario, che era la clausula propria degl'interdetti uti possidetis e unde vi.
Come è noto, fu primo il Niebuhr (Römische Geschichte, II, p. 168) ad enunciare questa teoria: che l'interdetto possessorio fosse applicato in difesa dei possessi dell'agro pubblico, e che anzi la protezione interdittale in genere avesse tratto origine dal bisogno appunto di tutelare questi possessi. Questa teoria fu ulteriormente illustrata dal Savigny (Das Recht des Besitzes, 6a ediz., p. 215 segg.) e prevale anche oggi tra i romanisti, sebbene il Puchta (Cursus der Institutionen, II, p. 551) abbia al contrario sostenuto che tra il possesso dell'agro pubblico e quello pel quale è testimoniata l'applicazione dell'interdetto possessorio, vi sia una diversità essenziale, e che a quel possesso debba invece riferirsi l'interdetto de loco publico fruendo (Dig., XLIII, 9, 1, pr.) e le sue idee sieno state riprese dallo Jhering (Besitzwille, 1889).
A testimoniare la natura giuridica del possesso, quale qui l'abbiamo illustrata, gli occupanti dell'agro pubblico erano obbligaii, come abbiamo visto, al pagamento di una tassa (vectigal), che consisteva, come risulta da Appiano, nella decima dei prodotti dei campi e nella quinta di quelli delle vigne e dei terreni arborati. Dionigi di Alicarnasso (VIII, 73 e 76) attribuisce l'introduzione di questa tassa alla legge Cassia; secondo Livio invece (IV, 36), essa non esisteva ancora nel 424 a. C.; ma, poiché la tributarietà dell'agro pubblico era un principio essenziale e costituiva, come si è detto, il segno più tangibile della natura giuridica del possesso, è da credere che essa fosse originaria, che s'immedesimasse, cioè, con le origini stesse dell'istituto.
Il possesso dell'agro pubblico diede luogo ad agitazioni notevolissime nella storia sociale di Roma, le quali culminarono nell'età dei Gracchi, né è possibile, come qualche ipercritico si è spinto a credere, che tutte le agitazioni precedenti, di cui è traccia nella tradizione, non sieno che anticipazioni di quelle graccane. Non è invece da escludere che già nel sec. V a. C. la questione agraria, sebbene altra ne debba essere stata essenzialmente l'indole, traesse qualche elemento anche dalle competizioni per il possesso dell'agro pubblico, dalle aspirazioni, cioè, della plebe ad opporsi all'esclusivismo egoista o alle usurpazioni dei patrizî (Liv., IV, 48: cum rogationem promulgassent, ut ager ex hostibus captus viritim divideretur, magnaeque partis nobilium eo plebiscito publicarentur fortunae - nec ferme quicquam agri, ut in urbe alieno solo posita, non armis partum erat, nec quod venisset adsignatumve publice esset praeterquam plebs habebat - atroxplebi patribusque propositum videbatur certamen; cfr. Cass. Hemina presso Non., p. 149 [Peter, Hist. Rom. fr., 17]: quicumque propter plebita(t)em agro publico eiecti sunt; cfr. Sall., Hist., ed Maurenbrecher, I, 11); e, checché si voglia pensare quanto al V sec. a. C., certo è che, presso a poco ai tempi voluti dalla tradizione delle leggi Licinie Sestie (367 a. C.), o, almeno, non molti decennî dopo, si sentì il bisogno di emanare una legge che metteva un limite (forse quello stesso di 500 iugeri indicato dalla tradizione) alle occupazioni di agro pubblico, sicché il resto potesse andare a vantaggio dei non abbienti o essere adibito a pascoli demaniali. Presto la legge fu trasgredita e continuarono a verificarsi abusi di ogni genere, ma di tempo in tempo lo stato inflisse punizioni ai trasgressori e rivendicò possessi abusivi.
Per intendere bene come la questione agraria venisse accumulando materia di conflitti e ingrossandosi col tempo per gli abusi nelle occupazioni di agro pubblico da parte dei più abbienti a danno dei meno, sì da esplodere poi, in modo imponente a tempo dei Gracchi e da diventare il punto di partenza della crisi decisiva degli ordinamenti repubblicani, conviene tener presente che, dalle prime conquiste in poi, la parte delle terre che i Romani assegnarono in proprietà con la fondazione di colonie e di tribù dovette sempre essere notevolmente inferiore a quella delle terre confiscate, di cui potevano disporre, e che quindi i Romani ebbero sempre un rilevante margine di agro pubblico, e la maggior parte di questo affidarono al regime del possesso. il che si può statisticamente dimostrare a partire dalla conquista di Veii in poi.
In virtù di questa conquista lo stato romano raddoppiò, e più, il suo territorio con un acquisto di circa 120.000 ettari di terreno: ebbene, la fondazione avvenuta nel 377 a. C. delle 4 tribù, Stellatina, Tromentina, Sabatina, Arnensis, dovette lasciare già essa un margine di 20 o 30.000 ettari non assegnati, e, in gran parte almeno, liberi ai possessi. L'ager Pomptinus, annesso, secondo la tradizione, nel 387 a. C. coi suoi 40.000 ettari circa di estensione, non fu davvero tutto assorbito dalle due tribù Publilia e Pomptina fondate nel 358. A Cere nel 353 a. C. (o, al più tardi, nel 273) fu tolta la metà del territorio, cioè circa 20.000 ettari, che non risultano assegnati, e non piccola parte delle terre, strappate ai Latini e ai Campani dopo la guerra latina, dovettero sfuggire alle assegnazioni degli anni successivi. Di guisa che già nel IV sec. a. C., come chiarisce il Cardinali, (Studi Graccani) dovette essere rilevante la estensione dell'agro pubblico passibile di occupazione, e questa disponibilità dovette poi aumentare nelle conquiste successive sino all'unificazione dell'Italia. Si pensi che nei primi decennî del III secolo a. C. fu quasi completamente abbandonato all'occupazione l'ager Gallicus strappato ai Senoni nel 283 a. C., che pure aveva un'estensione di circa 530.000 ettari; e dell'estensione dell'agro pubblico nel Sannio possono far testimonianza le assegnazioni fatte ai veterani di Scipione (Liv., XXXI, 3) e soprattutto quelle ai Liguri Bebiani Corneliani (Liv., XL, 38).
Si potrà dunque giungere alla conclusione che il regime terriero in Roma sino ai tempi dei Gracchi si fondava sul largo possesso dell'agro pubblico, almeno altrettanto quanto sulla proprietà. Intorno all'agitazione agraria del periodo graccano non può essere qui parola: basti il ricordare che la legge di Tiberio stabilì che nessuno potesse possedere più di 500 iugeri di terreno pubblico, elevabili a 750 nel caso di possessori con un figlio, e a 1000 nel caso di possessori con due o più figli. Tutto ciò che eccedeva la misura stabilita doveva essere restituito allo stato, e quanto invece era contenuto entro i limiti legali doveva essere confermato e diventava possesso esente da tributo, stabile, inviolabile. Le terre demaniali confiscate dovevano essere divise in lotti e distribuite ai cittadini poveri, sotto ia condizione dell'inalienabilità e del pagamento di un tributo. L'esecuzione della legge era affidata ad una commissione di triumviri, eletti annualmente dal popolo, ai quali spettava l'ufficio della ricognizione dei terreni rivendicabili, la conferma dei possessi legittimi, la delimitazione della proprietà privata delle terre demaniali, pienezza di giurisdizione per tutte le contestazioni, e finalmente la distribuzione delle terre confiscate ai non abbienti. La legge inoltre constatava la presenza di possessi nelle mani dei Latini e degli altri federati italici, e applicava ad essi le stesse norme di riconoscimento o di confisca, mentre escludeva il proletariato italico dalle distribuzioni dei triumviri. La legge ebbe un primo grado di applicazione, fino a che gl'interessi cospiranti di quelli tra i possessori romani ed italici che erano riusciti a salvare ancora le loro terre trovarono in Scipione Emiliano un patrono, il quale, facendo togliere la giurisdizione ai triumviri e trasferendola ai magistrati ordinarî, rese impossibile l'ulteriore applicazione della legge. Seguivano nuove agitazioni, veniva al primo piano la questione del conferimento della cittadinanza agli Italici, e si giungeva così al tribunato di C. Gracco, che rinnovò la legge, sostanzialmente confermandola. Ed ecco di nuovo furiosa l'opposizione, ecco la caduta del secondo dei Gracchi, ed ecco che con la prima di tre leggi successive (App., Bell. Civ., I, 27) veniva abolito il divieto di alienazione dei lotti distribuiti dai triumviri, sì da porgere di nuovo ai ricchi il mezzo di assorbirseli nel loro latifondi; la seconda ordinava la cessazione delle distribuzioni, e consentiva il godimento di tutti i possessi ancora esistenti, sottoponendoli però al pagamento di vectigal; la terza sopprimeva il tributo. Questa terza legge è molto probabilmente quella a noi pervenuta in un'epigrafe frammentaria, in quella, cioè, che si chiama appunto la lex agraria del 111 a. C., la quale sopprimeva il vectigal, ma in pari tempo reintegrava o manteneva i limiti graccani, e trasformava in proprietà tutti i possessi che li rispettavano, sì da segnar quasi il termine dell'istituto del possesso dell'agro pubblico.
I possessi dell'agro pubblico in Italia, tenuti da singoli cittadini, di cui abbiamo qui discorso, si possono designare col termine di agri occupatorii (Sic. Flacc., p. 137, 19, cfr. 248, 9-17); ma si noti che, accanto a questo significato particolare, il termine ager occupatorius ne ha un altro, pel quale comprende in genere il terreno occupato dal vincitore per effetto della conquista sia per le armi, sia per dedizione (Agenn., p. 2, 19; Hygin., 115, 4; Sicul. Flacc., 138, 3).
Dal godimento in possesso sorgono altre categorie di agri, pei quali abbiamo le seguenti particolari designazioni:
Ager publicus civitatibus fruendus datus. - Terreni, dei quali per mezzo di leggi o di senatoconsulti o di foedera, dietro il pagamento di un vectigal reale o nominale, veniva consentito il possesso a comuni romani o federati. Le lin. 31 e 32 della lex agraria del 111 a. C.: [sei quei colonieis seive moinicipieis seive quae pro moinicipieis colo(nieisve sunt civium Rom(anorum)] nominisve Latini poplice deve senati sententia ager fruendus daius [est] fanno testimonianza di possessi in mano di colonie latine e romane e di municipî in Italia (a questa categoria di possessi collettivi di colonie pare appartenessero specialmente quei tratti di agro pubblico, che nei gromatici sono chiamati subseciva, v. Sic. Flacc., p. 162, 20; cfr. Hygin., p. 116, 5; 117, 21 segg.: e si ricordi che possessi collettivi di agro pubblico romano in mano di colonie e municipî troviamo pure fuori di Italia, p. es. nella colonia Iulia Genetiva, per lui vedi la lex relativa, in Corp. inscr. lat., II, 5439; Bruns. Fontes, I, p. 122, LXXXII; in Cirta, per cui v. Corp. inscr. lat., VIII, 7084, 7086, 7087, 7089, 8211, 10.821, 18.768, 19.104, 19.327, 19.133; nel municipio di Sigus per cui v. Corp. inscr. lat., VIII, 19.132, 4). Ma è pure ad ogni modo da ritener certo che possessi di agro pubblico romano fossero collettivamente consentiti anche a città federate italiche, analogamente a quelle provvidenze, che da Cicerone (De lege agr., I, 4, 10; II, 22, 58) sappiamo che furon prese, o avrebbero, almeno, dovuto esser prese nei riguardi dell'ager publicus populi Romani in Africa nei trattati coi re di Vumidia, e a quanto epigraficamente è dimostrato per le città alleate di Genua (Corp. inscr. iat., V, 7749; I, 2 ed., 584 lin. 14 cfr. 24) e di Hasta (II, 5041).
Non è però consigliabile di volere piegare a dar testimonianza di dati possessi collettivi di città italiche federate il passo succitato delle lin. 31 e 32 delle lex agraria del 111 a. C., con l'inserirvi prima delle parole nominisve Latini, la parola sociis, come propone Ed. Meyer (Kl. Schriften, I, p. 385, nota 2), perché questo supplemento non si armonizza col contesto e nemmeno forse con le possibilita dello spazio. Da questi possessi collettivi di municipî, colonie e città federate vanno ad ogni modo tenuti distinti i possessi consentiti a singoli federati italici, ai quali si riferiscono le disposizioni della lin. 21 della lex agraria (cfr. anche lin. 29): infatti, mentre i primi restano ager publicus anche dopo la legge del 111 a. C., pei secondi si stabilisce invece la trasformazione in proprietà privata di quelli che siano stati dati in cambio di antichi possessi evacuati per far luogo alla fondazione di qualche colonia, il che implica il trattamento uguale di tutti gli altri.
Ager publicus viasiis vicanis datus. - Di esso è parola alle lin. 11 segg. della legge agraria del 111 a. C., ove si stabilisce che rimanga in quella stessa condizione giuridica, che aveva precedentemente, cioè nella condizione di ager publicus in possesso. Par certo si tratti di terreni demaniali concessi in possesso agli abitanti di borgate adiacenti alle vie pubbliche (viasii vicani = viarii vicani) con l'obbligo di provvedere alla manutenzione delle vie, o direttamente con l'opera personale, o per mezzo di un vectigal devoluto a quel fine (v. Cat., De re r., II, 4 c; Corp. inscr. lat., IX, 6072, 6075, 6954; cfr. VIII, 10.327, 19.328).
Ager compascuus. - Pascoli demaniali, dei quali è concesso l'uso ad un numero determinato di privati col permesso di pascolarvi gratuitamente un certo numero di capi di bestiame, fissato dalla legge, e un numero superiore solo dietro pagamento di un vectigal (v. la legge agraria del 111 a. C. alla lin. 14; cfr. lin. 25, 26, dalle quali ultime risulta che dall'ager compascuus sono diversi i pascoli pubblici, poiché in questi il diritto di pascolo, gratuito sino ad un certo numero di capi di bestiame, a pagamento poi, è riconosciuto a tutti e non già a un determinato numero di persone). Come vi erano agri compascui demaniali, così ve ne erano in città federate (v., per Genua, Corp. inscr. lat., I, 2a ed., 584; V, 7794 b, 32-35), in colonie e municipî (Hygin., p. 116, 25; 201, 10 segg.; 202, 4 segg.), ed anche di proprietà privata (Dig., VIII,
L'agro pubblico nelle provincie. - Nelle provincie tutto il suolo, che non sia assegnato a colonie romane, o, viritanamente, a singoli cittadini romani, e che non appartenga a civitates foederatae o a civitates liberae et immunes, è ager pubblicus populi Romani, ma la maggior parte di esso resta nelle mani dei provinciali. Il popolo romano, cioè, ne diventa dal punto di vista del diritto pubblico il proprietario (Gai., X, 2, 7: in eo (provinciali) solo dominium populi romani est vel Caesaris), ma ai provinciali ne lascia per la massima parte il possesso e gli utili, e si limita a chiedere in compenso di essi il tributo (il luogo or ora citato di Gaio continua: nos autem possessionem tantum et usufructum habere videmur, cfr. Frontin., p. 36: possidere enim illis (stipendiariis) quasi fructus tollendi causa et praestandi tributi condicione concessum est).
Sorge così la categoria dell'ager publicus stipendiariis datus assignatus (v. la legge agr. del 111 a. C., lin. 77, 80).
In ogni provincia però, accanto a quello che è agro pubblico solamente dal punto di vista strettamente giuridico, vi è quello che tale è di fatto, che, cioè, ha veramente e propriamente carattere demaniale. Lo costituiscono, oltre i demanî degli stati, ai quali quello romano è succeduto o si è sostituito (v. per es. per la Sicilia Liv., XXV, 28, 3; per la Bitinia, l'Asia e la Macedonia Cic., De lege agr., II, 10, 50; per Cirene, ibid., II, 19, 50, Tacit., Ann., XIV, 18, Hygin., p. 122, 15), i territorî confiscati a quelle città, che erano state ridotte con le armi sotto la dominazione romana (tale per esempio il territorio delle 26 civitates censoriae della Sicilia, Liv., XXVI, 40, 14; il territorio di Corinto, Cic., De lege agr., I, 2, 5; II, 19, 51; Pausan., II, 2, 2; Strab., VIII, p. 381, e la legge agraria del 111 a. C., lin. 96 segg.; tutta la Beozia, Cic. De nat. deor., III, 19, 49, e l'Eubea, senatuscons. de Asclepiade, in Corp. inscr. lat., I, 1 edizione, 203; 2 ediz., 588, lin. 6 del testo latino; i territorî di Olympus e Phaselis nella Licia, di Oroanda nella Pisidia, di Attaleia nella Pamfilia, Cic., De lege agr., I, 2, 5; II, 19, 50; In verr., I, 21, 56; i territorî di Cartagine e di quelle località africane, che erano rimaste fedeli ai Cartaginesi, Appian., Pun., 135, e la legge agraria del 111 a. C., lin. 45 e seguenti).
Questo agro demaniale era amministrato e sfruttato direttamente dallo stato in quelle stesse forme che abbiamo già vedute in uso per l'agro pubblico in Italia, è cioè:
Vendita fatta per mezzo dei questori, dalla quale nasce, come in Italia, la categoria degli agri quaestorii o privati vectigalesque (v. per l'Africa la lex agraria del 111 a. C., lin., 49, 66, che usa anche i termini ager emptus, lin. 45, 47, 57, 65; o ager civis Romani ex lac lege factus, lin. 76) con le stesse caratteristiche già accennate per l'Italia.
Appalto, fatto per mezzo dei censori in Roma, durante il periodo repubblicano, onde la categoria ager qui a censoribus locari solet. Si applica l'appalto pel territorio di quelle città che, al momento della costituzione della provincia, non erano state addirittura distrutte o, per lo meno, soppresse, con l'incorporamento a città vicine, ma non erano nemmeno state risparmiate, sino al punto da lasciarne le terre in mano agli antichi proprietarî, nella forma, che abbiamo vista, di possesso permanente: invece di applicare l'uno o l'altro di questi procedimenti, il territorio ne era stato confiscato e ceduto poi, generalmente, agli antichi proprietarî, non però nella forma di proprietà o di possesso, ma in quella di affitto a lunga scadenza, spesso di cento anni (Hygin., p. 116 secondo l'emendazione del mommsen in Staatsrecht, II, p. 452: qui superfuerunt (ex- hoste capti) agri vectigalibus subiecti sum alii per annos... alii per annos centenos pluresve: finito illo tempore iterum veneunt locanturque ita ut vectigalibus est consuetudo). La condizione degli appaltatori era certamente inferiore a quella dei possessori, nel senso che l'appalto era sempre revocabile, e il canone probabilmente più elevato di quello che si doveva pagare per il possesso (v. Cicerone, In Verr., V, 21, 53 con le osservazioni del Marquardt, Staatsverw., II, 250, 3).
L'appalto, come si è detto, era spesso fatto agli antichi proprietarî (Cicer., In Verr., III, 6, 13: perpaucae Siciliae civitates superiori bello a maioribus nostris subactae: quorum ager cum esset publicus populi Romani factus, tamen illis est redditus: is ager a censoribus locari solet, secondo la lettura del Mommsen in Corp. inscr. latinar., I, 1a ediz., p. 101, e l'interpretazione del Marquardt, op. cit., II, 249 segg.), ma naturalmente poteva anche esser fatto a cittadini romani, in certi casi sino dalla prima sistemazione di un territorio debellato, in altri specialmente in occasione dei successivi rinnovamenti dei contratti.
L'appalto si usava anche pei terreni che avevano fatto parte dei demanî dei regimi precedenti (Cic. De lege agr., II, 19, 50: adiungit agros Bithyniae regios, quibus nunc publicani fruuntur; deinde Attalicos agros in Cherroneso, in Macedonia, qui regis Philippi sive Persae fuerunt, qui item a censoribus locati sunt), e soprattutto si adoperava pei pascoli (Plin., Nat. hist., XVIII, 11; Varro, Rer. rust., II,1) e per le miniere di proprietà dello stato (Plin., Nat. hist., XXXIII, 78, 118, 120; XXXIV, 165; Liv., XLV, 18, 3; 29, 11; Vitruv., VII, 9, 4 ecc.).
La partizione, che nel 27 a. C. fu fatta da Augusto tra provincie senatorie e provincie imperiali, ebbe per conseguenza che i demanî delle prime rimasero all'erario, quelle delle seconde passarono al fisco. E così, fino a che sussistette la carica censoria come carica imperiale, cioè sino ai Flavii, si continuò a sentir parlare in Italia (Hygin., p. 114, 6; Sic. Flacc., p. 137, 1) e nelle provincie senatorie di ager publicus populi Romani, e restò in vigore il sistema della locatio censoria, specialmente per i pascoli (Plin., Nat. hist., XIX, 39). Ma da allora in poi l'espressione ager publicus populi Romani scompare, e ad essa subentra esclusivamente quella di loca fiscalia, fundi fiscales (vedi il titolo del Digesto de iure fisci, XLIX, 14).
Continuò il sistema dell'appalto dei terreni coltivati per periodi di cinque anni (Dig., XLIX, 14, 3, 6), o più lunghi (anche in perpetuum: Dig., XXXIX, 4, 11, 1) e si ebbero pure appalti ereditarî (che si riconnettono col colonato). Continuò parimenti la concessione dell'uso di pascoli pubblici, dietro pagamento di una tassa, ma tali vectigalia non furono più riscossi per mezzo di pubblicani, decumani e scripturarii, ma per mezzo di procuratori imperiali.
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