Ai Palleschi
Breve scritto indirizzato ai Medici e ai loro seguaci nell’autunno del 1512, per metterli in guardia contro il rischio di favorire i loro avversari criticando il gonfaloniere Soderini, appena cacciato dal potere. L’autografo è conservato all’Archivio di Stato di Firenze: Manoscritti Torrigiani, busta V, inserto XXV, numero interno 13. Consta di un bifolio di cm 43,5×29,5. Conserva tracce di quattro piegature verticali e di una orizzontale. Legato per testamento dal marchese Carlo Torrigiani con altre carte, venne depositato all’Archivio di Stato di Firenze nel 1866. Il titolo è editoriale.
Nonostante la vittoria riportata nella battaglia di Ravenna (→), i francesi dovettero battere in ritirata di fronte agli alleati della lega Santa (papa, Spagna e Venezia). I fiorentini, protetti dal re di Francia fin dalla cacciata dei Medici nel 1494, non riuscirono a staccarsi da questa alleanza, malgrado le profferte del papa. I Medici, e in particolare il cardinale Giovanni, ritennero che l’occasione fosse favorevole a un loro ritorno a Firenze: con il consenso del papa e il sostegno delle truppe spagnole, marciarono sulla città, provocando la fuga del gonfaloniere a vita Piero Soderini (30 ag.). Nelle prime due settimane il potere dei Medici rimase vacillante: il 1° settembre infatti venne eletto gonfaloniere Giovan Battista Ridolfi, uno dei capi del vecchio ceto aristocratico che, nei secoli precedenti, aveva contrastato il potere dei Medici, mandandoli varie volte in esilio. Accortosi del pericolo di questa soluzione, escogitata dall’inesperto Giuliano de’ Medici, il cardinale Giovanni, effettivo fautore dell’impresa, organizzò un colpo di mano, messo in atto il 16 settembre: il popolo di Firenze, cacciato in piazza da uomini armati, fu costretto a riunirsi ‘a parlamento’ e a eleggere una Balìa, incaricata di riformare le istituzioni e consegnare di fatto il potere ai Medici. Tuttavia, ancora per un paio di mesi, e in particolare dopo la partenza delle truppe spagnole, i Medici stentarono ad assumere il controllo della città, perché costantemente osteggiati da forze provenienti in gran parte dal ceto ottimatizio.
Solo nelle settimane seguenti essi giunsero a consolidare il potere, procedendo, tra l’altro, a epurazioni nell’amministrazione, delle quali sarebbe stato vittima lo stesso M., destituito dall’incarico di segretario e di cancelliere il 7 novembre 1512.
Nello scritto non compare alcun riferimento cronologico esplicito; ma, da come viene descritta la situazione politica, possiamo ritenere che il testo sia successivo alla conquista effettiva del potere da parte dei Medici (16 sett.). Vi si afferma infatti che certi fiorentini «puttaneggiono infra el populo e e’ Medici» (§ 8) e che «alcuni cittadini […] si tirono sotto a’ Medici» (§ 9). Un’ulteriore precisazione cronologica si ricava dalla frase «e’ Medici non possono stare a Firenze resurgendo l’ordine vecchio» (§ 11): essa implica non solo che la nuova Balìa abbia già cambiato le istituzioni, creando un ordine ‘nuovo’, ma che la data di composizione possa essere spostata verso la fine di ottobre 1512, dopo la partenza delle truppe spagnole, visto che sarebbe altrimenti impossibile anche solo ipotizzare un ritorno all’‘ordine vecchio’, magari con Piero Soderini. Proprio in quei giorni, come riportano le cronache, Giulio II minacciava di mutare il governo di Firenze per punire i Medici che accusava di essere più fedeli al re di Spagna che a lui. La data verrebbe inoltre a coincidere con quella dell’invio di una lettera di M. – di cui si conserva solo un frammento – scritta poco dopo il 29 ottobre, che contiene alcuni consigli politici al cardinale Giovanni de’ Medici (cfr. Niccolini 1997). Il termine ante quem non può essere invece che quello del 7 novembre, giorno in cui M. viene rimosso dall’impiego in cancelleria.
Il discorso, cui M. premette le parole «Notate bene questo scritto», si presenta come un ammonimento o un consiglio politico rivolto ai Medici e ai loro fautori. Cesare Guasti (1868), primo editore del testo, ha supposto addirittura che fosse stato indirizzato al cardinale Giovanni, il futuro Leone X, capo effettivo del casato e principale artefice del ritorno della famiglia alla guida di Firenze, dato che la carta proverrebbe dalla segreteria di Leone X. Tale ammonimento, ribadito fin dall’incipit («Io vi voglio avvertire»), è inteso a mettere in guardia i Medici e i loro seguaci dal criticare l’antico gonfaloniere Piero Soderini, dimostrando che tale critica è solo una manovra degli ottimati (sebbene mai esplicitamente nominati in quanto tali) per scagionarsi dalle colpe passate, accattivarsi le simpatie dei nuovi signori e della piccola borghesia (‘il popolo’, l’‘universale’) e cercare di sottrarre ai Medici la vittoria e il potere.
Lo scritto inizia con la formulazione della tesi (§ 1):
denigrare il gonfaloniere destituito presso i ceti popolari non favorisce i Medici, ma i loro nemici (la classe magnatizia). Prosegue con un’ampia dimostrazione (§§ 2-12), che si suddivide a sua volta in tre parti.
L’argomentazione principale (§§ 2-7): gli errori rimproverati a Soderini possono essere imputati anche ai Medici; denigrare il gonfaloniere è un’operazione che serve a scagionare chi lo ha fatto cadere, presenta il rischio di rafforzare gli avversari dei Medici e di favorire un colpo di mano contro di loro. La proposta (§ 8): criticare l’antico ordinamento istituzionale, piuttosto che Soderini, permetterebbe di calmare gli animi ostili al nuovo ordinamento voluto dai Medici. L’argomentazione complementare sul rischio di un ritorno all’antico regime (§§ 9-12): il danno sarebbe certo per i Medici, mentre per gli ottimati lo sarebbe solo se tornasse al potere proprio Soderini; denigrarlo faciliterebbe in quel caso la presa di potere da parte della vecchia aristocrazia. Segue una breve conclusione riassuntiva (§ 13).
Dichiarando di voler «fare bene a questo stato» (§ 1), M. utilizza forse l’ambiguità del termine stato, il cui valore semantico slitta nel corso delle numerose occorrenze verso il senso di ‘parte’ o ‘partito dei Medici’, come se ciò che è bene per lo Stato di Firenze lo fosse anche per lo ‛stato’ dei Medici. Approfondendo un ragionamento abbozzato nei Decennali e che verrà ancora maggiormente esplicitato nelle Istorie fiorentine, l’autore esprime diffidenza nei confronti della vecchia classe magnatizia, ostile sia nei confronti del ‘governo largo’, aperto a un’ampia partecipazione del ceto medio, sia nei confronti di una sorta di principato civile o di signoria effettiva in mano a una famiglia.
La lezione che M. intende impartire ai Medici, dal potere ancora vacillante, è quella di identificare i veri oppositori e i veri problemi, senza cadere nei tranelli dei nemici. In questa veste di consigliere, da lui assunta anche nella lettera coeva al cardinale Giovanni, poi in vari scritti posteriori al 1512, nonché nelle dediche delle opere politiche maggiori, M. si prefigge di continuare in qualche modo a esercitare la funzione di consulente politico che aveva assunto presso Soderini. Inoltre, procurando che la memoria dell’antico gonfaloniere non venga più attaccata, egli tenta di affievolire anche il ricordo della sua stretta collaborazione con lui, e il connesso pericolo di cadere in disgrazia presso il nuovo ‘stato’ (come infatti accadrà).
Sul piano formale va rilevato, oltre agli slittamenti semantici già segnalati circa il termine di stato, l’uso dello schema iterativo, a cui M. era già ricorso negli scritti politici degli anni 1503-06, con l’intento di ottenere il consenso delle autorità su una decisione importante.
In questo testo, lo stesso ragionamento di fondo, relativo al rischio di criticare l’operato di Soderini, viene ribadito quattro volte. L’argomentazione è condizionata dal punto di vista considerato: prima quello del ‘popolo’, poi quello dei Medici, poi quello degli ottimati, poi quello che verrebbe determinato da un mutamento delle istituzioni. Ne risulta che, da qualunque prospettiva si consideri il problema, la conclusione sarà la stessa: le critiche a Soderini non giovano ai Medici, bensì ai loro avversari. In tal senso ritroviamo una costante del pensiero machiavelliano, che consiste nell’affrontare ogni problema nella sua globalità e nella sua complessità. Tuttavia, a differenza di quanto avviene in altri scritti, la forte affettività, derivata da un momento di crisi storica e personale, si riflette nell’uso di un lessico semanticamente forte, dai toni talvolta plebei («questi che fanno questa calca», § 5; «farli uno rimbocco addosso», § 7; «questi che puttaneggiono infra el popolo», § 8). Ne è un’altra spia la presenza massiccia del nome di Soderini (citato più di venti volte), più frequente addirittura di quello dei Medici, che tradisce una sorta di incapacità di liberarsi da un passato che gli aveva dato uno statuto particolare nella cerchia del gonfaloniere e l’impossibilità di prendere atto di un mutamento irreversibile della situazione politica.
Bibliografia: Fonti: N. Machiavelli, Ricordo a’ Palleschi del 1512, a cura di C. Guasti, Prato 1868; N. Machiavelli, Arte della guerra e scritti politici minori, a cura di S. Bertelli, Milano 1961, pp. 217-23; N. Machiavelli, L’Arte della guerra. Scritti politici minori, a cura di J.-J. Marchand, D. Fachard, G. Masi, Roma 2001, pp. 579-84.
Per gli studi critici si vedano: J.-J. Marchand, Niccolò Machiavelli. I primi scritti politici (1499-1512). Nascita di un pensiero e di uno stile, Padova 1975, pp. 286-309 e 533-35; R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Firenze, 19787, pp. 210 e 500; E. Niccolini, Di un frammento machiavelliano quasi dimenticato, «Giornale storico della letteratura italiana», 1997, 124, pp. 206-10.