AIDS
È la sigla dell'inglese Acquired immune-deficiency syndrome, "sindrome da immunodeficienza acquisita", malattia causata da un virus che lede il sistema immunitario. In realtà, il termine medico sindrome (dal greco συνδρομή, "concorso, affluenza", composto da σύν, "con" e dal tema di δρόμος, "corsa") non indica una malattia, ma un complesso (un concorso, appunto) di sintomi che possono anche essere originati da malattie di natura diversa. Nel caso dell'AIDS le manifestazioni cliniche della malattia sono le conseguenze del declino funzionale del sistema immunitario, che lascia l'organismo indifeso nei confronti di aggressori esterni (batteri, funghi, virus ecc.) non conosciuti come patogeni in condizioni normali e detti perciò 'opportunisti' e, a maggior ragione, nei confronti dei microrganismi abitualmente causa di malattie. Endemica tra gli animali superiori da tempi immemorabili, l'infezione è stata trasmessa alla specie umana intorno alla metà del 20° secolo, ed è esplosa, a partire dagli anni Ottanta, come una delle più temibili epidemie dell'era moderna, carica, in quanto indissolubilmente legata nell'opinione comune alla sfera sessuale, di riferimenti simbolici che la società e la cultura non hanno tardato a registrare.
1.
Il 5 giugno 1981 il bollettino Morbidity and mortality weekly report dei Centers for disease control (CDC) di Atlanta, nel segnalare l'anomala comparsa a Los Angeles di parecchi casi di pneumocistosi, una malattia infettiva fino ad allora rarissima, dava notizia dell'inizio dell'epidemia di AIDS. A partire da allora, le segnalazioni di nuovi casi della sindrome sono aumentate vertiginosamente. I casi segnalati provenivano dapprima da alcuni stati dell'Est e dell'Ovest degli USA e da Haiti; in seguito dalla Francia, dall'Europa centro-settentrionale e meridionale; infine, dall'intero continente americano.
Nel 1982 venne accertata l'origine virale dell'epidemia, attribuita da R. Gallo, ricercatore del National cancer institute di Bethesda, all'azione di un retrovirus, cioè di uno dei virus appartenenti a una particolare famiglia da lui stesso identificata qualche anno prima.
L'anno successivo il gruppo di scienziati dell'Istituto Pasteur di Parigi, guidato da L. Montagnier, confermando le intuizioni di Gallo, riusciva a identificare lo specifico retrovirus responsabile della malattia. Insieme a esso veniva individuato uno degli anticorpi specifici prodotti contro questo virus, rendendo possibile la preparazione di un test sierologico utile a diagnosticare l'infezione nei malati e a escludere il rischio nelle trasfusioni di sangue.Altre scoperte sul nuovo morbo si sono succedute, in campo epidemiologico, virologico, immunologico e clinico, con un'intensità che non ha precedenti nella storia della medicina. A tutt'oggi queste scoperte riguardano: le modalità di trasmissione, diffusione e prevenzione dell'epidemia; la struttura molecolare del virus; i meccanismi da esso utilizzati per attaccare le cellule dell'ospite e per moltiplicarsi; la natura del difetto immunitario provocato dall'aggressione virale e le sue conseguenze sul piano clinico; i vari tipi di sovrainfezione, cioè le cosiddette 'infezioni opportunistiche', provocate da batteri, da altri virus (tumorigeni e non), da funghi e da protozoi, che più facilmente colpiscono i soggetti con deficit del sistema immunitario; i sistemi più rapidi ed efficaci per diagnosticare, prevenire e curare queste sovrainfezioni; i farmaci capaci di bloccare la replicazione virale e di rallentare la progressione dell'infezione nelle cellule del sangue e del sistema nervoso centrale.
Nei paesi economicamente più avanzati, queste acquisizioni hanno già consentito di ridurre l'incidenza dell'infezione (cioè la comparsa di nuovi casi), di anticipare l'epoca della diagnosi, di prolungare il periodo libero da sintomi della malattia e il periodo di sopravvivenza dei pazienti. Nonostante questi progressi, l'obiettivo fondamentale della ricerca, cioè la scoperta di una cura capace di eliminare il virus e di arrestare la progressione della malattia evitandone l'esito infausto, non sembra ancora raggiunto.
2.
L'AIDS è causata dal virus HIV (Human immunodeficiency virus), agente della famiglia Retroviridae, appartenente al gruppo Lentivirus. I retrovirus umani sono suddivisi in due gruppi: quelli capaci di danneggiare le cellule da essi infettate (effetto citopatico), come i virus HIV-1 e HIV-2 che provocano l'AIDS, e quelli dotati della proprietà di 'trasformare' le cellule (effetto oncogeno), come i virus HTLV-1 e HTLV-2 che provocano rispettivamente una forma di leucemia e una malattia del sistema nervoso. L'HIV-1 è il responsabile della maggioranza dei casi di AIDS nel mondo, mentre l'HIV-2, isolato principalmente in Africa occidentale, è più raro e probabilmente meno patogeno del primo, con il quale presenta molte omologie nella struttura molecolare; mostra inoltre strette analogie anche con il virus dell'AIDS della scimmia (SIV, Simian immunodeficiency virus). Entrambi i tipi di HIV misurano circa 100 nm e sono costituiti da un involucro fosfolipidico sferico (envelope), da cui sporgono strutture formate dalla glicoproteina gp 120. All'interno vi è un nucleocapside a forma di goccia (core), che contiene due filamenti uguali di RNA a elica singola e il frammento 'chiave', tipico ed esclusivo dei retrovirus, la transcriptasi inversa (così chiamata perché capace di far procedere la trascrizione dell'informazione in senso inverso a quanto generalmente avviene; v. acidi nucleici). Questo enzima è in grado di sintetizzare una molecola di DNA utilizzando come stampo l'RNA virale, permettendo così l''integrazione' del virus, cioè il suo inserimento in un cromosoma della cellula ospite.Esaminando la struttura molecolare dell'HIV, notiamo che il suo genoma è formato dai geni gag, pol ed env, che sono comuni agli altri retrovirus e che, nella cellula invasa, codificano la produzione, rispettivamente, delle proteine del core, della transcriptasi inversa e dell'involucro; altri geni codificano invece le proteine regolatrici, tat, rev, nef, vif, vpr e vpu; esistono, infine, due sequenze identiche, poste agli estremi del genoma chiamate LTR (Long terminal repeat), anch'esse dotate di funzione regolatoria.L'HIV 'maturo', per mezzo della glicoproteina gp 120, che è in grado di legarsi al recettore CD4 presente sulla membrana di alcuni tipi di cellule con funzione immunitaria, aderisce alle cellule bersaglio. La penetrazione del virus avviene però grazie all'intervento di un secondo recettore (o co-recettore), rappresentato dal CxCR-4 nei linfociti e dal CCR-5 nei macrofagi, che induce la fusione della membrana virale con quella cellulare. Circa l'1% della popolazione bianca (caucasica) è privo, per una mutazione genetica, del co-recettore CCR-5 e risulta quindi 'naturalmente' resistente all'infezione da HIV, e in special modo a quella trasmessa per via sessuale.
Tra tutti gli elementi del nostro corpo, meno di una decina di tipi cellulari sono infettabili dall'HIV: essi sono in primo luogo i linfociti T-helper, e inoltre i macrofagi, i monociti, i linfociti B, i dendrociti ecc. Tutte queste cellule esprimono il recettore CD4 e possono quindi essere infettate, costituendo il veicolo per il passaggio del virus dal sangue agli organi bersaglio. Particolarmente suscettibile è il sistema nervoso centrale, dove il virus infetta gli astrociti e i dendrociti.Le diverse modalità di interazione tra l'HIV e i vari tipi cellulari infettati sono alla base della grande varietà di espressioni cliniche della malattia. Bassi livelli di moltiplicazione virale, senza morte delle cellule invase, si hanno in genere quando queste cellule sono in stato di quiescenza, mentre alla loro 'attivazione' (per es. per stimoli chimici o immunitari) corrisponde un'intensa ripresa della replicazione virale. In effetti, una volta che il virus è integrato sotto forma di 'provirus' nel DNA dell'ospite, ha due possibilità: può essere attivato e tornare a riprodursi massivamente, provocando la morte della cellula per lisi, cioè per scomposizione, come avviene spesso in seguito alle stimolazioni immunitarie provocate da altre infezioni; oppure può restare integrato e latente anche per anni, senza provocare alcun danno.
3.
La causa prima del difetto immunitario nell'AIDS è la perdita quantitativa e qualitativa dei linfociti T4 (T-helper o CD4+), in quanto questo particolare tipo di cellula funziona da 'regista' del sistema immunitario. Durante un lungo periodo (che va in media dai 4 ai 7 anni) corrispondente allo stadio asintomatico della malattia da HIV, l'organismo è in grado di riprodurre e sostituire i linfociti CD4 distrutti, il cui livello si mantiene perciò abbastanza stabile nel sangue. A un certo punto però questa capacità si esaurisce e il loro numero inizia ad abbassarsi rapidamente. Mancando dei 'registi', il sistema immunitario perde di efficienza e l'HIV è così in grado di replicarsi liberamente causando un'ulteriore perdita di linfociti CD4. Tuttavia, a fronte dell'enorme riduzione del loro numero, pochissimi sono i linfociti CD4+ infettati dal virus e ancora meno, comunque, quelli che vanno incontro a distruzione. Ciò ha fatto ipotizzare l'esistenza di meccanismi di amplificazione dell'effetto lesivo del virus nella cellula.Il più noto di questi meccanismi è la formazione di 'sincizi', cioè la fusione di più cellule sane tutt'intorno a quella invasa dall'HIV.
L'ammasso di cellule che ne risulta non è in grado di sopravvivere ed è rapidamente distrutto. Un altro meccanismo è quello per cui il virus induce le cellule dell'ospite a innescare prematuramente il naturale processo di autodistruzione programmata (apoptosi) che porta alla morte della cellula. Il meccanismo con cui il virus riesce a stimolare (anche senza un intervento diretto) questo processo rimane ancora oscuro. In conclusione, quale che sia il meccanismo coinvolto, la conseguenza della sua azione è che il sistema immunitario del soggetto colpito dall'infezione da HIV è privato degli elementi più importanti: di quelle cellule, cioè, che programmano le difese nei confronti del mondo esterno. In condizioni di normalità, il sistema immunitario ha facilmente ragione degli invasori che ha già conosciuto e con i quali ha imparato a combattere da centinaia di migliaia di anni. Quando invece viene meno l'apparato di guida, le unità operative del sistema immunitario si scoordinano e 'impazziscono'.
Nell'impossibilità di organizzare un sistema di difesa efficiente, gli organi subiscono facilmente l'invasione di aggressori normalmente non patogeni, chiamati perciò 'opportunisti', la cui presenza era fino a quel momento tollerata dall'organismo. A maggior ragione, le difese alterate vengono sopraffatte dai microrganismi abitualmente patogeni (per es. il bacillo tubercolare) e dalle cellule divenute tumorali in seguito alla stimolazione di oncogeni, in particolar modo di quelli di natura virale, che inducono lo sviluppo di sarcomi e di linfomi.
4.
Fortunatamente, l'HIV è un virus piuttosto debole. Scarsa è, infatti, la sua capacità di resistenza alle temperature elevate e in genere agli agenti fisici, chimici e biologici presenti, per es., nella pelle e nella maggior parte delle mucose, se integre; inoltre la sua capacità infettante è modesta. La via d'ingresso abituale per l'uomo è quella che passa attraverso la cute e le mucose, quando in esse vi siano soluzioni di continuità, come nel caso di ferite, ulcerazioni o piaghe, oppure la diretta immissione nel circolo, mediante trasfusioni, iniezioni endovenose ecc. Le congiuntive, invece, sembrano essere recettive anche se integre.
Nei soggetti infetti, il virus è abitualmente presente nel sangue e nello sperma, in forma libera o integrato in linfociti e macrofagi. L'unica via naturale di eliminazione dell'HIV è perciò lo sperma nell'uomo e il sangue mestruale nella donna; il virus è stato però trovato, in condizioni patologiche, anche negli essudati e nelle secrezioni infiammatorie, come il pus ecc. È anche presente nelle feci, nella saliva, nel secreto nasale, nel latte materno, nel sudore, ma in quantità così scarsa da rendere praticamente impossibile il contagio. Infine, il virus non è eliminato con le urine.
Da ciò consegue che le vie abituali di trasmissione dell'infezione da HIV sono tre.
La prima è la trasmissione sessuale, sicuramente più efficace nel passaggio da 'donatore' (di sperma) maschio infetto a 'ricevitore' sano, uomo o donna (il rischio di contrarre l'infezione sarebbe di 1 su 100 rapporti vaginali o anali), piuttosto che nel caso opposto, da 'donatore' maschio sano a 'ricevitore' infetto (1 su 1000). Per il 'ricevitore', sono sotto accusa anche i rapporti genito-orali, ma si tratta di segnalazioni sporadiche che non consentono di dare a questa via un concreto significato epidemiologico.
La seconda via di trasmissione è quella trasfusionale o parenterale (compresa la somministrazione, per via endovenosa o intramuscolare, di derivati di sangue), ed è senz'altro la più efficace. Il sangue trasfusionale, per es., contiene quantità tali di virus da garantire al 100% la trasmissione dell'infezione. Minori, ma pur consistenti, sono le probabilità che la trasmissione avvenga attraverso le poche gocce di sangue che restano nelle siringhe scambiate tra tossicodipendenti; la frequente ripetizione di questi scambi porta ovviamente a un aumento notevole del rischio.
Infine, vi è la trasmissione del virus per via materno-fetale, che si realizza nel 25-30% circa dei casi di madri sieropositive. Finora si è parlato del rischio di trasmissione del virus tra soggetti esenti da altre malattie infettive. In realtà, il rischio di contagio cresce sensibilmente quando il ricevitore o il donatore siano anche portatori di altre malattie infettive che alterino le barriere cutanee e mucose.
5.
Attraverso le tre vie sopra ricordate è esplosa, negli anni Ottanta, una delle più temibili epidemie dell'era moderna; pari a quella della tubercolosi, della lue o del vaiolo come incidenza di colpiti, ma sicuramente assai più temibile per il suo esito, al momento attuale inesorabilmente infausto.Malattia endemica da tempi immemorabili tra gli animali superiori (sono stati finora identificati un retrovirus dell'AIDS dei felini [FIV], e uno dei bovini [BIV], oltre a quello delle scimmie [SIV]), l'infezione è stata probabilmente trasmessa alla specie umana intorno alla metà del 20° secolo, dando così inizio alla prima fase dell'epidemia. Il fenomeno sarebbe avvenuto nell'Africa centroccidentale, per una di quelle continue, e più o meno spontanee, variazioni strutturali tipiche dei retrovirus, favorite da fattori epidemiologici. Tra questi vanno considerati, da un lato, il crearsi di più stretti contatti ambientali tra uomo e scimmia (a seguito della progressiva coltivazione della savana) e, dall'altro, la macellazione di scimmie per uso commestibile, a opera di alcune popolazioni rurali africane.Nella seconda metà del 20° secolo, la malattia ha cominciato a diffondersi in Africa, dapprima lungo la costa occidentale, con il tipo 2 dell'HIV che è più simile al SIV, e poi lungo quella centro-equatoriale con l'HIV tipo 1.
La via di trasmissione interumana era, all'epoca, esclusivamente eterosessuale; a questo proposito va ricordato che proprio in quegli anni era stata identificata in Africa una cosiddetta slim disease ("mal sottile"), che portava misteriosamente a morte i malati per progressiva consunzione e che probabilmente era l'AIDS.Con gli anni Settanta ha inizio la seconda fase dell'epidemia, quando la malattia passa dall'Africa alla costa orientale del continente americano (Haiti, New York e Brasile), contagiando, soprattutto nelle prime due aree, le comunità omosessuali maschili. A questo punto, si rese evidente quella particolare modalità epidemiologica della via sessuale, erroneamente chiamata la 'via omosessuale' dell'AIDS. Nel Nord America il tipo di organizzazione delle comunità omosessuali e la sessualità fortemente promiscua che all'epoca era in esse praticata, insieme alla facilità delle comunicazioni, ha dato un fortissimo impulso al diffondersi dell'epidemia che, in pochi anni, ha raggiunto anche le comunità omosessuali residenti nella costa occidentale degli USA, in Canada e infine nell'Europa centrosettentrionale.La terza fase dell'epidemia, divenuta ormai una vera pandemia in quanto diffusa in tutti i continenti, ha colpito, dalla seconda metà degli anni Ottanta, l'Europa centromeridionale e di nuovo gli USA, la Thailandia, l'India e molte altre regioni asiatiche e africane; la principale via di trasmissione è stata quella parenterale, conseguente al frequente scambio delle siringhe tra tossicodipendenti.
Dal punto di vista epidemiologico, questa fase, ovviamente legata al problema sociale ed economico della droga, rappresenta però soltanto una via alternativa della diffusione della pandemia da HIV, la quale ha continuato comunque a propagarsi per via prevalentemente etero- e omosessuale nei continenti già colpiti.Fino a pochi anni or sono l'epidemia si configurava, a seconda delle aree geografiche interessate, in tre differenti scenari epidemiologici: l'insieme dei paesi industrializzati, l'Australia e il Sud-Est Asiatico compongono il cosiddetto 'scenario 1'; l'Africa subsahariana e l'America Latina lo 'scenario 2'; l'Europa dell'Est, il Nord Africa, il resto dell'Asia, il Medio Oriente e il Pacifico sono riuniti nello 'scenario 3'. Oggi le cose sono parzialmente cambiate, in quanto gran parte dell'Asia va inclusa nello 'scenario 2'. Premettendo che le cifre relative ai casi di AIDS non esprimono le reali dimensioni del problema, in quanto rappresentano soltanto la punta emergente della quantità totale degli infetti, sulla base dei dati forniti dall'Organizzazione mondiale della sanità relativi all'anno 1996, la situazione dell'epidemia può essere riassunta come segue .
a) Scenario 1: oltre 3,5 milioni di infetti, omosessuali e bisessuali di sesso maschile, o tossicodipendenti, prevalentemente nelle grandi città. Il contagio da madre a figlio è basso, trascurabile quello da trasfusione. La tendenza è verso una riduzione globale dell'incidenza, cioè del numero di nuovi infetti, nettissima tra gli omosessuali, ma evidente anche tra i tossicodipendenti, mentre è in aumento relativo l'incidenza nelle donne e nei soggetti a contagio eterosessuale, specie per quanto riguarda la trasmissione da uomo a donna.
b) Scenario 2: oltre 12 milioni di infetti, quasi esclusivamente eterosessuali, con trasmissione di pari frequenza tra i due sessi ed elevata incidenza nei bambini (contagio perinatale) e nei trasfusi. La tendenza è verso un'incidenza in crescita esponenziale.
c) Scenario 3: oltre 1 milione di infetti, con casi sporadici o microepidemici e con osservazione di tutti i tipi di contagio. Anche in questo caso si prevede una crescita esponenziale dell'incidenza.
6.
Le manifestazioni cliniche dell'infezione da HIV sono molteplici e vanno dalla totale assenza di sintomi fino all'AIDS conclamata. Come già detto, esse sono, prevalentemente, le conseguenze dei danni derivanti dal declino funzionale del sistema immunitario (evidenziato dalla diminuzione dei linfociti T-helper o CD4+) e, sebbene in minor misura, dalle lesioni direttamente prodotte dal virus nel sistema nervoso centrale.L'infezione acuta, o primaria, passa di solito inavvertita perché abitualmente priva di sintomi. Solo qualche volta essa si manifesta, da 2 settimane a 3 mesi dal contagio, con febbre alta, tumefazione dei linfonodi e, talora, con una reazione cutanea (o esantema). L'infezione primaria si risolve sempre spontaneamente ed è causata dall'azione diretta del virus. A 2-16 settimane dal contagio compaiono nel sangue gli anticorpi anti-HIV. La persona che possiede questi anticorpi è comunemente definita sieropositiva per HIV; essa è portatrice del virus, e quindi potenzialmente in grado di trasmetterlo. Questa fase, in cui il paziente non accusa disturbi riferibili all'azione del virus, è detta di infezione asintomatica e dura mediamente da 8 a 10 anni. Alcuni pazienti, per il resto asintomatici, sviluppano una linfoadenopatia sistemica (LAS), cioè l'ingrossamento dei linfonodi soprattutto al collo e alle ascelle; questa manifestazione non dà disturbi ed è la prova della continua replicazione del virus nel sistema linfatico. I pazienti colpiti da ARC (AIDS related complex, "complesso correlato all'AIDS"), che in genere si sviluppa da 5 a 10 anni dopo l'infezione primaria, cominciano invece a presentare problemi che incidono negativamente sulla qualità della loro vita: disturbi generali come astenia, perdita di peso, febbricola, sudori notturni, diarrea; oppure segni di infezioni 'minori', cioè non gravi, come il cosiddetto 'mughetto', provocato dall'invasione della bocca da parte di un fungo simile al lievito, la Candida albicans, o il 'fuoco di s. Antonio', causato dal virus della varicella riattivato dallo stato di latenza.Nell'AIDS conclamata prendono forma i quadri clinici più gravi e caratteristici della malattia: da un lato, alcuni tumori, come il sarcoma di Kaposi, caratterizzato dalla comparsa sulla cute di macchie e noduli rosso-bluastri e i linfomi non Hodgkin, e, dall'altro, le ben note infezioni opportunistiche maggiori.
Le manifestazioni cliniche di queste infezioni sono sempre gravi e non c'è organo o apparato che non possa esserne colpito: i tessuti del polmone o del cervello, della retina o dell'intero apparato digerente, delle ghiandole surrenali o del cuore, sono invasi da batteri, protozoi, funghi e virus che, come già detto, pur essendo quasi innocui per l'uomo sano e ben difeso, manifestano la loro violenza devastante nell'ospite immunodepresso. Anche le malattie del sistema nervoso sono molto frequenti nei pazienti con AIDS. La più comune, causata direttamente dall'HIV, è definita 'AIDS dementia complex' ed è molto simile alla demenza presenile: progressiva atrofia di alcune aree cerebrali, difficoltà di concentrazione, indebolimento della memoria fino a quadri di vera malattia mentale.Negli anni Novanta, in Italia, i quadri più frequenti sono: una particolare polmonite causata da un microrganismo a metà tra i protozoi e i funghi, lo Pneumocystis carinii, che, in epoca precedente all'AIDS, colpiva esclusivamente i neonati prematuri e gli immunodepressi in genere; la tubercolosi, che assume spesso forme disseminate, e la candidosi esofagea. Seguono poi la toxoplasmosi cerebrale, la meningite causata dal fungo Cryptococcus neoformans, l'infezione retinica e quella disseminata, provocate dal cytomegalovirus (della famiglia dei virus erpetici), l'infezione disseminata da altri micobatteri (cosiddetti atipici) ecc.
7.
A tutt'oggi, non esiste ancora una terapia né per l'infezione né per la malattia da HIV: sia per l'una sia per l'altra vi sono delle cure, ma non c'è ancora una possibilità di guarigione. Nell'attesa della scoperta del farmaco risolutivo, gli attuali tentativi sono rivolti a trasformare l'AIDS in una malattia cronica accettabile, tale da non influire in modo significativo sulla qualità e sull'attesa di vita delle persone colpite.Diverse sono le terapie che si praticano nelle fasi asintomatica e sintomatica dell'AIDS. Al momento attuale non sono previste cure per la prima fase dell'infezione, quando cioè il paziente, oltre a non presentare sintomi, ha difese immunitarie efficienti, come sta a indicare il numero ancora elevato dei linfociti CD4+. Quando queste cellule cominciano a diminuire (oggi, per es., il limite è rappresentato da 500 CD4+/mm3), si inizia il trattamento con i farmaci anti-retrovirali. Se i CD4+ scendono al di sotto dei 200/mm3, si aggiungono le misure della cosiddetta profilassi primaria, che sono rivolte a prevenire le più comuni infezioni opportunistiche.
Riguardo alla malattia sintomatica, che si tratti di fase ARC o di AIDS conclamata, la terapia si basa sull'associazione delle cure anti-retrovirali con altri farmaci capaci di tenere sotto controllo, e talora persino di guarire, le infezioni e le neoplasie tipiche di questa fase. Nei casi favorevoli, al trattamento a dosi piene seguirà quello a dosi ridotte, allo scopo di realizzare la cosiddetta profilassi secondaria, ovvero la prevenzione delle ricadute di quelle infezioni.Oltre alle terapie sopra elencate, che sono universalmente accettate, esistono i trattamenti sperimentali, tra i quali possono essere ricordati i tentativi di trapianto di midollo osseo, ormai da tempo applicati, con grande successo, nelle leucemie, e la terapia genica, dalla quale si spera di ottenere un risultato definitivo. In ogni caso, come già detto, con le cure attuali - ma in particolare da quando sono stati introdotti gli inibitori della proteasi - è possibile prolungare la durata globale della sopravvivenza e attenuare le sofferenze dei malati di AIDS, migliorando la qualità della loro vita. Il risultato di gran lunga più evidente è stato, comunque, quello di ritardare in modo significativo, negli infetti da HIV, la comparsa dei sintomi della malattia.
8.
Nel primo quinquennio dell'epidemia, gli scienziati sono stati impegnati a individuare la natura della malattia e i meccanismi del contagio. Una volta scoperto il virus e le sue modalità di trasmissione, si è dato inizio all'applicazione delle misure di prevenzione primaria, che si basano sulla diffusione di una corretta informazione riguardo ai vari aspetti della malattia che, per essere nuova e apparentemente misteriosa, è spesso oggetto di infondati timori; sulla promozione di un'adeguata educazione sanitaria e sessuale, soprattutto a livello dei giovani e delle donne; sull'esclusione delle donazioni di sangue a rischio, attraverso l'esame obbligatorio di ciascun campione di sangue da trasfondere.
Questa politica sta dando i suoi frutti: alla fine del secondo quinquennio, anche in Italia, come nelle altre aree economicamente più avanzate, l'incidenza dei nuovi infetti comincia a diminuire, pur essendo tuttora in aumento quella dei nuovi casi di AIDS, che sono poi rappresentati dai pazienti infettatisi dieci anni or sono. Tuttora insufficienti appaiono invece le misure preventive nei paesi in via di sviluppo colpiti dall'epidemia. Per essi le maggiori speranze sono riposte nella preparazione di un efficace vaccino, il cui studio procede con progressi lentissimi. Si sono infatti finora incontrate notevoli difficoltà, da un lato per l'enorme capacità di trasformazione - spontanea e indotta - dell'HIV, e dall'altro per la necessità di organizzare adeguate campagne di vaccinazione sulla massa delle popolazioni esposte (per i dati sulle campagne di prevenzione, v. oltre).
1.
Il fondamento su cui si basano tutti i sistemi di monitoraggio è la registrazione dei casi, che a sua volta dipende strettamente dalla definizione stessa di AIDS. Idealmente, tale definizione dovrebbe essere sufficientemente sensibile (per identificare tutti i casi che sviluppano malattie in conseguenza dell'infezione da HIV) e specifica (per includere solo quelli la cui malattia derivi dall'infezione da HIV), nonché semplice da usare per gli operatori sanitari e le agenzie di sanità pubblica. La formulazione di questa definizione ideale, però, non è facile, sia per la rapida crescita delle conoscenze su questa malattia, sia per le differenze tra i vari paesi negli standard di diagnosi, cura e assistenza. Con il chiarirsi dell'eziologia virale (HIV), il termine stesso di AIDS è diventato, strettamente parlando, uno stadio clinico di una malattia a definizione eziologica.Le prime segnalazioni di casi di AIDS erano basate su una definizione clinico-patologica, formulata nel 1981, dato che fino al 1985 non erano disponibili indagini di laboratorio per identificare l'infezione da HIV. Nel 1985 è stata introdotta una classificazione basata sulla comparsa, in soggetti con evidenza sierologica di infezione da HIV, di una serie di patologie. Tra esse erano incluse infezioni opportunistiche e neoplasie (il sarcoma di Kaposi, il linfoma di Burkitt, il linfoma primitivo cerebrale e alcuni linfomi immunoblastici a grado alto e intermedio) altrimenti molto rare in giovani adulti non immunodepressi.
Tale definizione è stata nuovamente rivista nel 1987, per includere, soprattutto, la polmonite da Pneumocystis carinii e la toxoplasmosi encefalica, ed è rimasta operativa praticamente in tutti i sistemi di sorveglianza dell'AIDS dei paesi occidentali fino al dicembre 1992 (Dal Maso et al. 1995). Un cambiamento radicale nella definizione di AIDS è stato introdotto dai Centers for disease control negli Stati Uniti a partire dal 1993, con la proposta di includere tra i casi di AIDS tutti i soggetti HIV positivi con un numero assoluto di linfociti T CD4+ inferiore a 200/mm3 (o, inferiori, in percentuale, al 14% dei linfociti totali). Ciò ha comportato, tra il 1992 ed il 1993, un raddoppio dell'incidenza di AIDS negli Stati Uniti (da 18,4 a 40,8/100.000, considerando insieme i due sessi). Tale decisione, basata in parte su considerazioni di ordine assistenziale negli Stati Uniti, non è, però, stata accolta in Europa, dove, dal luglio 1993, la nuova definizione di caso comprende solo l'aggiunta di tre patologie: tubercolosi polmonare, polmonite ricorrente e carcinoma invasivo della cervice.
È evidente che tale differenza sostanziale nella definizione di caso tra Stati Uniti ed Europa rende difficili, dal 1993, confronti nell'evoluzione geografica e temporale.Oltre alla definizione di caso, un problema molto importante di sorveglianza dell'AIDS riguarda la sua completezza, cioè l'impatto della sottonotifica e del ritardo di notifica. A causa della sottonotifica, le dimensioni dell'epidemia di AIDS risultano minori di quanto siano in realtà. Gli studi che hanno cercato di quantificare tale fenomeno hanno evidenziato, nei paesi sviluppati, almeno un 10-20% di sottonotifica, con una notevole variabilità, però, tra aree e tra nazioni diverse (da 0 a 45%; Gertig-Marion-Schechter 1991). In Italia, è ragionevole presupporre che il 15% circa dei casi non venga notificato. L'effetto più evidente del ritardo di notifica è, invece, l'apparente decremento nel numero di nuovi casi di AIDS che si osserva nei periodi più vicini all'analisi dei dati di sorveglianza, e che porta spesso i mass-media e, a volte, anche gruppi di esperti, a interpretazioni troppo ottimistiche. Per ovviare a tale inconveniente, che ha importanti implicazioni sull'interpretazione dell'andamento dell'epidemia, la distribuzione temporale del numero di nuovi casi viene corretta tramite appropriate procedure statistiche (Dal Maso et al. 1995).
Nel seguito di questo testo, i tassi di incidenza si intendono sempre corretti per il ritardo di notifica mentre il numero cumulativo dei casi di AIDS si riferisce alle cifre effettivamente notificate al 30 giugno 1997.
2.
Dall'inizio dell'epidemia al 30 giugno 1997, i casi di AIDS notificati nel mondo sono stati 1.644.183 e negli Stati Uniti 581.429, l'82% dei quali nei maschi e il 18% nelle femmine; nella regione europea dell'OMS, 191.005 complessivamente. In Europa la maggioranza dei casi si è verificata in cinque paesi: Francia, Italia, Spagna, con circa 40.000 casi ciascuno, e Germania e Gran Bretagna con circa 15.000. Notevoli sono le variazioni nelle percentuali delle diverse categorie di trasmissione. Nei maschi, la quota degli omosessuali si attesta mediamente intorno al 50% raggiungendo punte massime dell'82% e del 97% nei paesi del Nord Europa. I tossicodipendenti sono più del 60% in Italia e Spagna e più del 40% in Polonia e Serbia-Montenegro. L'incidenza fra gli eterosessuali maschi è sensibilmente minore nella maggioranza dei paesi; si registrano percentuali di eterosessuali piuttosto elevate in Belgio e Portogallo, due aree fortemente influenzate dall'epidemia di AIDS nelle rispettive ex-colonie africane, con cui persistevano stretti rapporti economici e sanitari.
Tra le donne il numero di casi attribuiti alla tossicodipendenza, mediamente più alto di quello tra i maschi, è superiore al 60% in Italia, Spagna e Polonia. La trasmissione eterosessuale riguarda più del 50% dei casi nelle donne in diversi paesi del Nord ed Est Europa.Inoltre, sono da rilevare quote elevate di AIDS a seguito di trasfusioni, oppure di trasmissione nosocomiale per uso di materiale non adeguatamente sterilizzato, in Romania (23%) e, in misura minore, in altri paesi dell'ex-blocco comunista. Questa situazione sottolinea gli attuali rischi dell'epidemia di AIDS nei paesi dell'Europa dell'Est, che in teoria si trovano ancora, per il basso numero di casi e la bassa prevalenza di sieropositivi, nonché per la possibilità di attingere dall'esperienza di altri paesi, in una fase ideale per controllare efficacemente l'epidemia. La situazione dell'Est Europa mostra, tuttavia, un potenziale di diffusione della malattia molto allarmante, per l'incremento della tossicodipendenza, della prostituzione (femminile e maschile), dell'uso di sostanze stupefacenti per via endovenosa e per il persistere delle attuali carenze sanitarie riguardo al materiale a perdere e alle procedure di sterilizzazione nelle strutture sanitarie. Si ricordi, a questo proposito, che l'incidenza di epatite B, che con l'HIV condivide le modalità di trasmissione, è dieci volte più elevata nei paesi dell'Est Europa che nel resto del continente (Balter 1993).
Gli Stati Uniti assomigliano, in generale, per ripartizione di casi tra le categorie di trasmissione, all'Europa centrale e all'Europa del Nord (alte quote di omosessuali nei maschi e ripartizione simile delle donne tra tossicodipendenti ed eterosessuali). Per l'AIDS, come per altre malattie di rilievo, è importante rapportare le dimensioni del fenomeno e la sua evoluzione alla dimensione della popolazione mediante l'uso di tassi di incidenza. Dal raffronto dei tassi, calcolati per milione di individui e standardizzati per età sulla popolazione mondiale, negli uomini e nelle donne, nel 1985, 1989 e 1992 ‒ l'ultimo anno per cui un confronto tra paesi europei e Stati Uniti è pienamente valido (Dal Maso et al. 1995) ‒ si è evidenziato che le più alte incidenze di AIDS in Europa all'inizio dell'epidemia si registrarono in Svizzera e Francia (circa 20 nuovi casi per milione di uomini nel 1985), mentre successivamente i tassi più elevati si sono osservati in Spagna (243 per milione nei maschi nel 1992) e in Francia (164 per milione).
L'incidenza dell'AIDS nelle donne in Europa ha fatto registrare sensibili aumenti, soprattutto nei paesi in cui l'epidemia si è diffusa rapidamente tra i tossicodipendenti. In Spagna, si è passati da meno di 1 caso per milione nel 1985 a più di 60 nel 1992, e in Francia da 3 a 33 casi. In Italia, l'incidenza dell'AIDS nelle donne è praticamente raddoppiata ogni anno dal 1985 al 1989 (da 2 a 16 casi), per poi aumentare in maniera più graduale fino a 33 casi per milione di donne nel 1992. L'aumento più brusco si è riscontrato, in entrambi i sessi, in Romania dal 1989 al 1990: la causa può essere ravvisata nel frequente contagio in ospedali e orfanotrofi.
Dal confronto fra i tassi di incidenza rilevati per l'AIDS e quelli corrispondenti per altre malattie importanti, è emerso che, già nel 1992, incidenze comprese tra 50 e 300 per milione di maschi nei paesi industrializzati più colpiti erano analoghe a quelle dei tumori dell'esofago, della laringe o del rene (Levi et al. 1993). Nei giovani adulti di sesso maschile, tassi fino a 500 per milione, per es. in Spagna (Dal Maso et al. 1995), erano paragonabili o superiori a quelli di qualunque altra patologia o gruppo di patologie considerate in quella fascia di età, inclusi il totale dei tumori o delle malattie cardiovascolari (Levi et al. 1993; La Vecchia et al. 1994). Nelle donne, tassi di incidenza di AIDS nell'ordine di 10-60 per milione sono simili a quelli dei tumori di pancreas, vescica o tiroide.
3.
Come già detto, ai suoi esordi l'epidemia di AIDS negli Stati Uniti e, in larga misura, in Europa, ha coinvolto così specificatamente gli uomini omosessuali o bisessuali da condurre, prima del 1983, a denominare la nuova patologia come gay-related immune deficiency syndrome (Grmek 1989). Per quanto riguarda le cause dell'AIDS, per alcuni anni è perdurata l'illusione di non essere davanti a una patologia contagiosa. Furono sospettati di provocare la sindrome vari prodotti chimici, anche perché nei primi anni Ottanta era vivo il ricordo di alcune centinaia di morti verificatesi in Spagna per una sindrome tossica da olio adulterato. Il principale sospettato fu il nitrito d'amile, potente vasodilatatore che era utilizzato dagli omosessuali come potenziatore dell'orgasmo.
Molte caratteristiche della diffusione dell'epidemia contraddicevano, però, già allora, l'ipotesi chimica, tra le quali il marcato aumento di altre malattie veneree che si era riscontrato negli anni Settanta tra gli omosessuali americani.Il coinvolgimento graduale di ulteriori gruppi di persone chiarì rapidamente le vie di trasmissione dell'agente dell'AIDS (che in sé rimaneva ancora oscuro), ma rappresentò anche, per l'opinione pubblica, un notevole trauma, non tanto per il rapido e massiccio dilagare dell'epidemia tra i tossicodipendenti, quanto, soprattutto, per il coinvolgimento dei soggetti trasfusi, gli emofilici e gli eterosessuali.L'AIDS fu diagnosticato prima (1982) in soggetti emofilici, i quali ricevono quantità massicce di sostanze organiche estranee derivanti da migliaia di donatori, che in soggetti che avevano ricevuto trasfusioni di sangue. La cognizione che sangue ed emoderivati trasmettessero l'AIDS fu accettata con molta riluttanza e utilizzata a fini pratici solo dal 1985 (Grmek 1989). Tra il 1985 ed il 1993 quasi 6000 casi di questo tipo si sono verificati in Europa, 8000 negli Stati Uniti tra il 1985 e il 1992 (Franceschi-Dal Maso-La Vecchia 1995). La maggioranza dei paesi europei mostra tassi che si aggirano intorno a 1 per milione, o anche inferiori. Incidenze molto più elevate si evidenziano in Romania (a causa della grave epidemia di AIDS tra i bambini), negli Stati Uniti e in Francia. Ritardi e insufficienze nel controllo dell'infezione da HIV nel sangue e negli emoderivati si sono verificati per quanto riguarda l'esclusione dalle donazioni di sangue di soggetti a rischio (per es. detenuti), lo screening delle donazioni mediante test ELISA (Enzyme linked immuno sorbent assay; ritardato, per es., di alcuni mesi in Francia nell'attesa della disponibilità di un test prodotto in Francia e non negli Stati Uniti) e il riscaldamento degli emoderivati per la neutralizzazione del virus (ancora in Francia, nel 1985, si attesero alcuni mesi per smaltire le scorte di emoderivati non riscaldati; Grmek 1989; Franceschi-Dal Maso-La Vecchia 1995).
Anche il propagarsi dell'AIDS alla popolazione 'generale' mediante rapporti eterosessuali fu a lungo illusoriamente negato, nonostante già nel 1984 fosse chiaro il rapido diffondersi dell'epidemia in Africa tra prostitute ed eterosessuali di ambedue i sessi. In particolare, si tendevano a considerare i rapporti vaginali, soprattutto nel caso di presenza del virus nelle donne, molto meno pericolosi che quelli anali. Nonostante sia sempre difficile quantificare il rischio di infezione da singole pratiche sessuali, la trasmissione sia da uomo a donna sia viceversa è chiaramente dimostrata. Il tasso di effettivo contagio per rapporto sessuale potrebbe essere, però, decine di volte più elevato nei paesi poveri (3-5% circa per rapporto) che in quelli ricchi (1-2‰), per la maggiore frequenza, nei primi, di abrasioni e di altre infezioni del tratto genitale (Prevots et al. 1994).
Attualmente la diffusione dell'infezione da HIV tra gli eterosessuali rappresenta, nei paesi ricchi, l'incognita più importante per quanto concerne l'evoluzione dell'epidemia. Praticamente ovunque, Stati Uniti compresi, la crescita dei casi di AIDS tra gli eterosessuali è più rapida che per le altre categorie (Dal Maso et al. 1995). Vi è, inoltre, anche un aumento dei casi attribuiti alla categoria di trasmissione indefinita, in parte rappresentata da soggetti infettati da partner eterosessuali insospettabili (Dal Maso et al. 1995); è quindi essenziale comprendere meglio la dinamica dell'infezione tra gli eterosessuali. Aspetti decisivi sono la durata dell'infettività dei soggetti, la trasmissibilità dell'HIV, fortunatamente molto meno elevata che, per es., quella della gonorrea (Prevots et al. 1994), e la frequenza con cui si cambia partner sessuale. Indagini estese sul comportamento sessuale sono molto difficili, per ragioni sia pratiche sia politiche; tuttavia, negli Stati Uniti e in Europa si è potuto appurare che il 10-20% dei giovani adulti riferiva di aver avuto due o più partner nell'anno precedente, con un utilizzo subottimale del preservativo (10-30% dei rapporti; Prevots et al. 1994).
4.
Lo sviluppo di sistemi di monitoraggio epidemiologico dell'infezione da HIV nella popolazione generale costituisce una priorità nella sorveglianza dell'AIDS, in quanto offre una misura diretta del diffondersi dell'epidemia. L'andamento delle notifiche di AIDS conclamata risente, infatti, della lunghezza e della notevole variabilità della durata del periodo di incubazione dell'infezione.
In nessun paese europeo è stato attuato un vero e proprio screening obbligatorio sulla popolazione generale, anche se screening 'volontari' sono stati incoraggiati con una certa insistenza (per es. in Svezia). Esiste, tuttavia, una tendenza verso screening obbligatori in segmenti della popolazione (per es., detenuti, prostitute e pazienti con patologie veneree), soprattutto nei paesi dell'Europa dell'Est e nei paesi scandinavi (Wellings 1994).Gli unici gruppi oggetto di un sistematico monitoraggio sierologico in quasi tutti i paesi europei sono stati i tossicodipendenti (Rezza et al. 1994) e i donatori di sangue (European centre for the epidemiological monitoring of AIDS 1994). I dati europei sulla percentuale di tossicodipendenti sieropositivi nei vari paesi sono, tuttavia, sparsi e non ben confrontabili. Si distinguono alcune nazioni, come Gran Bretagna, Grecia e Portogallo, dove meno del 10% dei tossicodipendenti sono risultati positivi al test per l'HIV. Esiste poi un blocco di paesi a rischio intermedio (per es., Germania, Danimarca, Olanda e Svizzera), con percentuali intorno al 20-30%. In Italia, Scozia, Francia e, soprattutto, Spagna, alcune indagini hanno rivelato percentuali di sieropositività tra i tossicodipendenti pari o superiori al 50-60% (Rezza et al. 1994).
Lo screening anonimo (unlinked anonymous survey), rivolto a vari gruppi di soggetti (per es., degenti in ospedale, gestanti, neonati ecc.), si è abbastanza diffuso negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, suscitando, invece, critiche e discussioni in molti paesi europei (Franceschi-Serraino-Dal Maso 1995). Il vantaggio principale di questo tipo di monitoraggio consiste nel non essere distorto (in quanto anonimo) dal selettivo rifiuto a partecipare dei soggetti a più alto rischio.Tra il 1990 e il 1992, in Francia e in Gran Bretagna sono state avviate due ricerche su larga scala tramite test anonimi condotti in vari ospedali e cliniche per malattie a trasmissione sessuale (European centre for the epidemiological monitoring of AIDS 1993). La prevalenza dell'infezione è risultata più alta in Francia (dal 5,4% al 6,1%) rispetto alla Gran Bretagna (2,9%) e, ovunque, più elevata nelle rispettive capitali che nelle città minori.Per quanto concerne l'infezione da HIV nelle donne in gravidanza e nei neonati, nel 1988 in Italia è stato avviato uno studio, unico in Europa, sulla prevalenza dell'infezione da HIV nei neonati. Tale studio ha raggiunto nel 1990 una copertura nazionale, utilizzando i campioni raccolti per gli screening neonatali per patologie metaboliche e ormonali. Su più di 20.000 campioni provenienti da 9 regioni italiane negli ultimi 6 mesi del 1988, la prevalenza cumulativa di infezione da HIV era dello 0,29%, e la distribuzione geografica dei campioni positivi per gli anticorpi anti-HIV era in armonia con la distribuzione dei casi di AIDS riportati dalle stesse regioni.
La prevalenza oscillava dallo 0,16% dei primi mesi del 1989 allo 0,12% del periodo ottobre-dicembre 1990 (Commissione nazionale per la lotta contro l'AIDS 1992).Lo screening che fornisce la quantità maggiore di dati è quello effettuato sulle donazioni di sangue (25 milioni circa in Europa nel solo 1992). I risultati di questo tipo di screening mostrano forti differenze tra i diversi paesi e sono riconducibili a tre situazioni principali. Le nazioni del Sud Europa (Grecia, Italia, Spagna) mostrano una prevalenza di donazioni positive per HIV di oltre 0,05‰. Un gruppo di paesi (Germania, Austria e Svizzera) mostra valori intermedi tra 0,01 e 0,05‰. Infine, in alcuni paesi del Nord Europa (Gran Bretagna, Belgio, Svezia), si osservano valori di sieropositività inferiori a 0,01 per mille donazioni sottoposte a test (Franceschi-Serraino-Dal Maso 1995). 5. Le campagne di prevenzione È estremamente difficile fornire un quadro completo della strategia di prevenzione dell'AIDS nei vari paesi europei a causa della grande varietà di iniziative e, in generale, dello scarso coordinamento e valutazione delle stesse (Franceschi-Serraino-Dal Maso 1995).
Praticamente tutti i paesi europei hanno organizzato campagne di prevenzione rivolte alla popolazione generale, che differiscono, tuttavia, sostanzialmente per tempi, dimensioni e stile dei messaggi diffusi. In particolare, alcuni paesi (per es., Danimarca e Svizzera) hanno nettamente abbracciato l'opinione che l'epidemia di AIDS sia un problema per l'intera popolazione, mentre altri hanno indirizzato campagne preventive unicamente a segmenti della popolazione a più alto rischio di infezione. Il contenuto dei messaggi preventivi si basa, in alcune aree, su un approccio molto pragmatico (per es., la raccomandazione dell'uso di profilattici in Svizzera e Danimarca); altrove il messaggio è stato più graduale, prendendo le mosse dai pericoli dell'AIDS e passando, poi, a descrivere i vari passi per evitare il contagio, con enfasi spesso sulla riduzione della promiscuità sessuale piuttosto che sull'uso del profilattico.In generale, non si nota un rapporto preciso tra la precocità e la gravità dell'epidemia nei vari paesi e le campagne di prevenzione (Wellings 1994). Ci sono esempi di nazioni, come la Svizzera, dove, al precoce emergere dell'AIDS, ha fatto seguito, sin dal 1986, uno sforzo massiccio e ben coordinato di educazione sanitaria. Si trovano, poi, nazioni dove sia la diffusione dell'AIDS sia l'inizio delle campagne di prevenzione sono stati ritardati (per es., Finlandia e Portogallo). Non mancano, infine, esempi di nazioni in cui l'AIDS è molto diffusa, ma le campagne sono state poco tempestive (per es., Francia e Italia) e, all'opposto, di nazioni nelle quali lo sforzo preventivo ha quasi preceduto il fenomeno AIDS (per es. la Norvegia). Un'ampia indagine condotta da Gallup nel 1987-88 e citata da Wellings non ha mostrato una precisa relazione tra dimensione dell'epidemia e percezione del pericolo tra le popolazioni di 17 paesi europei (Italia esclusa). Infatti, aree come la Gran Bretagna e i paesi scandinavi (tutte a rischio relativamente basso) attribuivano all'AIDS un'urgenza molto maggiore rispetto a paesi nei quali il rischio era più elevato come Francia e Spagna (Wellings 1994).Il livello delle conoscenze sull'AIDS nella popolazione generale è stato indagato da vari studi in diversi paesi europei (Wellings 1994). Generalmente, per quanto attiene alle modalità di trasmissione esiste un grado di conoscenza buono, spesso precedente le campagne pubbliche, il cui ruolo principale sembra essere stato di 'rafforzamento' più che di informazione di base. Persiste, tuttavia, un certo grado di confusione sulle problematiche connesse alla trasmissione attraverso le trasfusioni di sangue: una quota non trascurabile di soggetti in Europa, infatti, continua erroneamente ad attribuire rischi non solo alla trasfusione, ma anche alla donazione di sangue (Wellings 1994).
Molte campagne europee si sono specificatamente rivolte agli omosessuali e ai tossicodipendenti.
Per i primi, sia in Europa sia negli Stati Uniti, le iniziative di prevenzione sono partite direttamente dalle comunità gay. Per i secondi, invece, le campagne di prevenzione, soprattutto in Europa, si sono concentrate sull'eliminazione dell'uso di siringhe contaminate e sono ricorse, per la distribuzione di siringhe sterili, a canali tradizionali (farmacie, centri di trattamento per i tossicodipendenti) o a canali creati ad hoc (per es. programmi di scambio di siringhe usate con siringhe nuove). Inoltre, i due principali gruppi ad alto rischio si distinguono, dal punto di vista delle strategie di prevenzione, per il fatto che gli omosessuali sono stati soprattutto oggetto di studi sulle abitudini sessuali e le modificazioni comportamentali successive all'AIDS, al contrario dei tossicodipendenti che sono stati prevalentemente sottoposti a indagini di sieroprevalenza e poco studiati dal punto di vista dei comportamenti e delle attitudini verso l'AIDS (Dubois-Arber-Paccaud 1994).
AIDS 1995, "World Health Organization Global Statistic", 1995, 9, pp. 409-10.
M. Balter, East Europe: a chance to stop HIV, "Science", 1993, 262, pp. 1964-65.
S. Broder, T.C. Merigan jr., D. Bolognesi, Textbook of AIDS medicine, Baltimore, Williams & Wilkins, 1994.
Commissione nazionale per la lotta contro l'AIDS, Ministero della Sanità, Il sistema di sorveglianza dell'AIDS, "Giornale Italiano dell'AIDS", 1992, 3, pp. 149-62.
L. dal Maso et al., Trend of AIDS incidence in Europe and the United States, "Sozial und Präventivmedizin", 1995, 40, pp. 239-65.
V.T. de Vita jr., S. Hellman, S.A. Rosenberg, AIDS. Etiology, diagnosis, treatment and prevention, Philadelphia, Saunders, 1985 (trad. it. Padova, Piccin, 1992).
F. Dubois-Arber, F. Paccaud, Assessing AIDS/HIV prevention: what do we know in Europe?, "Sozial und Präventivmedizin", 1994, 37, suppl. 1, pp. 3-13.
European centre for the epidemiological monitoring of Aids, AIDS surveillance in Europe, Quarterly Report N. 40, Quarterly Report N. 42, Paris, WHO-EC Collaborating Centre on AIDS, Hôpital National Saint-Maurice, 1993, 1994.
S. Franceschi, L. dal Maso, C. La Vecchia, Trends in incidence of AIDS associated with transfusion of blood and blood products in Europe and the United States, 1985-93, "British Medical Journal", 1995, 311, pp. 1534-36.
S. Franceschi, D. Serraino, L. dal Maso, L'AIDS in Europa, in Rapporto sulla salute in Europa, a cura di M. Geddes, Roma, Ediesse, 1995, pp. 71-96.
D.M. Gertig, S.A. Marion, M.T. Schechter, Estimating the extent of underreporting in AIDS surveillance, "AIDS", 1991, 5, pp. 1157-64.
M.D. Grmek, AIDS. Storia di una epidemia attuale, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 1-60.
C. La Vecchia et al., Impact of the AIDS epidemic on mortality of young men in Italy, "Journal of Acquired Immune Deficiency Syndrome", 1994, 7, pp. 873-74.
F. Levi et al., Cancer incidence and mortality in Europe, 1983-87, "Sozial und Präventivmedizin", 1993, 38, suppl. 3, pp. 155-29.
D.R. Prevots et al., The epidemiology of heterosexually acquired HIV infection and AIDS in Western industrialized countries, "AIDS", 1994, 8, suppl. 1, pp. 109-17.
G. Rezza et al., Assessing HIV prevention among injecting drug users in European Community countries: a review, in Assessing AIDS/HIV prevention: what do we know in Europe?, "Sozial und Präventivmedizin", 1994, 37, suppl. 1, pp. 61-78.
G. Visco, E. Girardi, AIDS, epidemia del secolo? Il punto sulla situazione in Italia e nel mondo, Roma, Editori Riuniti, 1989.
K. Wellings, General population, in Assessing AIDS/HIV prevention: what do we know in Europe?, "Sozial und Präventivmedizin", 1994, 37, suppl. 1, pp. 14-46.
World health organization, Global AIDS surveillance, "Weekly Epidemiological Record", 4 luglio 1997.