Kurosawa, Akira
Regista e sceneggiatore cinematografico giapponese, nato a Tokyo il 23 marzo 1910 e morto ivi il 6 settembre 1998. A K. spetta innanzi tutto il merito di aver aperto al cinema giapponese le porte dell'Occidente, grazie all'inatteso Leone d'oro che il suo Rashōmon (1950; Rashomon) ottenne alla Mostra del cinema di Venezia del 1951, inaugurando così una stagione di importanti riconoscimenti attribuiti ad altri film giapponesi in diversi festival internazionali. Appartenente alla generazione dei registi del secondo dopoguerra più impregnati di spirito umanistico (v. Giappone), K. concentrò la sua opera sul personaggio, spesso un uomo in caparbia lotta contro i mali e le ingiustizie della società. Gli eroi del regista, tuttavia, non sono mai dei personaggi piatti o manichei, al contrario si caratterizzano per la loro complessità e contraddittorietà, per l'impulso quasi irrazionale che li spinge ad agire e che talvolta si confonde con una dimensione oscura e ambigua. Regista di uomini, più che di donne ‒ come invece fu per molti altri maestri del cinema giapponese ‒, K. realizzò sia gendaigeki (drammi contemporanei) sia jidaigeki (drammi storici), anche se la sua fama internazionale è soprattutto dovuta a questi ultimi. A differenziarlo dai suoi colleghi è anche il carattere spesso spettacolare, il ritmo sostenuto, il dinamismo quasi esasperato che caratterizza molti suoi film. L'influenza del cinema americano e dei modelli occidentali è chiara, così come lo è, nello stesso tempo, la capacità di guardare alle forme della tradizionale estetica giapponese. Si pensi, per es., e solo in ambito teatrale, al nō, da cui riprende certi effetti di ieraticità, stilizzazione, recitazione e narrazione ellittica, e al kabuki, cui s'ispira per i toni picareschi, gli effetti comico-burleschi, le atmosfere espressionistiche. Questa varietà di fonti e forme non è, del resto, che uno dei tanti elementi che determinano la forte tensione del cinema di K. e che dà vita a quel dinamismo che è, forse, il marchio di stile e poetica più importante del regista. Ed è proprio attraverso il suo ruvido e diseguale montaggio, le frequenti e costanti giustapposizioni di primi piani e campi lunghi, l'alternanza di inquadrature statiche e altre piene di movimento, i raccordi che giocano su conflitti di linee e direzione, che K. riesce a dar vita a uno stile assai peculiare pari, per intensità espressiva e originalità di risultati, a quello dei grandi maestri della tradizione, come Ozu Yasujirō e Mizoguchi Kenji. Il premio ottenuto da Rashōmon non fu che il primo di una lunga serie di riconoscimenti attribuiti al regista (tra cui la Palma d'oro vinta a Cannes per Kagemusha, 1980, Kagemusha ‒ L'ombra del guerriero), che culminarono nel Leone d'oro alla carriera, conferitogli alla Mostra del cinema di Venezia nel 1982, e nell'Oscar, sempre alla carriera, del 1990.
Dopo aver studiato pittura occidentale e aver lavorato come illustratore per alcune riviste popolari, K. entrò, nel 1936, negli studi della casa di produzione PCL (Photo Chemical Laboratory, successivamente assorbita dalla Tōhō), dove lavorò come assistente di Yamamoto Kajirō e scrisse alcune sceneggiature, attività, quest'ultima, che continuò per tutta la carriera. Risale al 1943 il suo film d'esordio, Sugata Sanshirō. Si apriva così il periodo bellico del cinema di K., in cui il regista, pur già rivelando le sue indubbie qualità, non poté sottrarsi alle esigenze della politica nazionale e dei suoi dettami, in particolare quelli relativi all'esaltazione della fedeltà, dell'abnegazione, dello spirito di sacrificio, del senso del gruppo. Ne è un esempio lo stesso Sugata Sanshirō, dove l'allievo di un maestro di judo, per ottenere la fiducia di quest'ultimo e dimostrare il proprio temperamento, trascorre un'intera notte immerso in uno stagno. Eppure, già in questo film, la battaglia finale tra il protagonista e il suo rivale, in mezzo a un campo battuto dal vento, è contrassegnata da quella dialettica di stasi e movimento che avrebbe contribuito a rendere grande l'opera futura del regista. Ancor più legato alle necessità di un Paese in guerra è Ichiban utsukushiku (1944, La più bella), che verte sul duro lavoro di un gruppo di operaie in una fabbrica di forniture militari. Il periodo bellico di K. si chiuse con Tora no o o fumu otokotachi (1945, Gli uomini che calpestano la coda della tigre), anomalo adattamento di un austero classico della letteratura teatrale giapponese sul tema della fedeltà del servo al suo padrone, che, parzialmente, K. irrise, inserendo nel cast Enomoto Ken'ichi (noto come Enoken), un attore comico di grande successo. Il film fu prima bloccato dalle autorità giapponesi e poi da quelle americane: per le prime era troppo irriverente, per le seconde troppo feudale. Fu con la fine della guerra che K. poté finalmente esprimersi con maggior libertà, anche se Waga seishun ni kui nashi (1946, Senza rimpianto per la mia giovinezza), storia delle vicissitudini della figlia di un professore antifascista negli anni Trenta, è un evidente tributo pagato agli ideali democratici imposti al Paese dagli occupanti americani. Fu con Yoidore tenshi (1948; L'angelo ubriaco) e Nora inu (1949; Cane randagio) che K. dimostrò finalmente appieno il proprio talento. I due film, che coniugano insolitamente Neorealismo ed Espressionismo, rappresentano la realtà di degrado e miseria del Giappone del dopoguerra, attraverso la storia del rapporto fra un anziano dottore e uno yakuza (affiliato alla mafia giapponese) malato di tubercolosi, il primo, e quella di un detective alla ricerca dell'uomo che gli ha rubato la pistola, il secondo. Yoidore tenshi sancì anche l'incontro di K. con Mifune Toshirō, l'attore che, a partire dalla sua nervosa recitazione, sarebbe divenuto parte integrante del cinema del regista nei suoi anni più felici. Del 1950 è Rashōmon, tratto da due racconti di Akutagawa Ryūnosuke, che narra la storia dell'omicidio di un samurai, raccontata più volte attraverso gli occhi di coloro che hanno partecipato al fatto o ne sono stati testimoni. Il carattere discordante delle diverse versioni è l'evidente segno dell'impossibilità dell'uomo di guardare in modo oggettivo a ciò che gli accade. Il successo del film spinse K. a cimentarsi in un altro jidaigeki, questa volta di ampie proporzioni produttive, Shichinin no samurai (1954; I sette samurai). La storia è quella di un gruppo di samurai che sceglie di difendere un villaggio contadino da una banda di briganti. Il carattere spettacolare del film ‒ memorabile la battaglia finale sotto la pioggia battente e in mezzo a un mare di fango ‒ non impedì l'attenta caratterizzazione dei vari personaggi e l'acuta rappresentazione di una classe, quella dei guerrieri, nel momento del suo ineluttabile declino. Il successo fu tale che gli americani ne girarono un remake western con The magnificent seven (1960) di John Sturges. Fra questi due grandi jidaigeki, K. realizzò prima Hakuchi (1951, L'idiota), una trasposizione del romanzo di F.M. Dostoevskij, e poi uno dei suoi più importanti gendaigeki, quasi un'opera manifesto del suo umanesimo: Ikiru (1952, Vivere). Il film è la storia di un umile e servile impiegato che, scopertosi malato e vicino alla fine dei suoi giorni, intraprende una disperata battaglia contro la burocrazia per trasformare un campo paludoso in un parco giochi per i bambini poveri del quartiere. Alla metà degli anni Cinquanta, K. godeva ormai di un'indiscussa fama sia nel proprio Paese sia in Occidente. Tra i film che egli realizzò nella seconda metà del decennio e nei primi anni di quello successivo, si possono citare, nell'ambito del jidaigeki, Kumonosu jō (1957; Il trono di sangue), dal Macbeth di W. Shakespeare, Kakushi toride no san akunin (1958; La fortezza nascosta), Yōjinbō (1961; La sfida del samurai) e Tsubaki Sanjurō (1962; Sanjuro), film, questi ultimi, in cui K. fece appello a un'ancora inedita vena comico-umoristica e che influenzarono i primi western di Sergio Leone. Nell'ambito del gendaigeki, invece, si collocano Ikimono no kiroku (1955, Testimonianza di un essere umano), sulla paura per la bomba atomica, Warui yatsu hodo yoku nemuru (1960; I cattivi dormono in pace), sulla corruzione nel mondo dell'alta finanza, e Tengoku to jigoku (1963; Anatomia di un rapimento), da un romanzo di E. McBain. Sempre in questo periodo girò anche Donzoko (1957; Bassifondi), dal dramma di M. Gor′kij. Nel frattempo, dopo la realizzazione di Kakushi toride no san akunin, K. aveva lasciato la Tōhō per dar vita a una propria casa di produzione indipendente, la Kurosawa Production. Del 1965 è Akahige (Barbarossa), che riprende il tema classico del rapporto fra maestro e allievo, ambientandolo in un lazzaretto. Il film determinò la clamorosa rottura fra K. e Mifune Toshirō, e il suo parziale insuccesso aprì un momento di difficoltà nella carriera del regista. K. reagì fondando, insieme a Kinoshita Keisuke, Ichikawa Kon e Kobayashi Masaki, una nuova casa di produzione indipendente, la Yonki no kai (Società dei quattro cavalieri), che portò alla realizzazione di Dodesukaden (1970; Dodes'ka-den), un film corale ambientato in una bidonville, in cui lividi toni espressionistici, ma anche vivaci e fiabeschi colori, danno vita a una grottesca rappresentazione del mondo dei diseredati. L'insuccesso del film determinò una grave crisi nel regista, che arrivò addirittura a tentare il suicidio. Quasi dimenticato in patria, K. riuscì a realizzare i suoi film successivi grazie all'intervento di finanziamenti provenienti dall'estero: nacquero così gli epici Dersu Uzala (1975; Dersu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure), sulla vita di un solitario cacciatore mongolo; quindi Kagemusha, storia di un brigante che deve prendere il posto di un importante signore feudale; Ran (1985), libero adattamento del Re Lear di Shakespeare; infine Konna yume o mita (1990; Sogni), un film a episodi che il regista costruisce intorno alle proprie personali ossessioni: dalla paura dell'ignoto a quella della bomba atomica. Dopo questi film di ampio respiro spettacolare, K. chiuse la propria carriera con due opere più intimiste: Hachigatsu no kyōshikyoku (1991; Rapsodia in agosto), ancora una riflessione sul tema dell'atomica, e Maada da yo (1993; Madadayo ‒ Il compleanno), che rievoca la vita di un anziano professore vicino ormai alla fine dei suoi giorni.Ha lasciato un libro di memorie, Gama no abura: jiden no yō na mono (Olio di rospo: qualcosa come un'autobiografia, 1983; trad. it. dall'ingl. L'ultimo samurai: quasi un'autobiografia, 1995).
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