Akrasia. Debolezza morale e uomini malvagi
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Impiegato per la prima volta da Aristotele, il termine akrasia indica propriamente la mancanza di forza etica (a-kratos, assenza di forza). Incapacità di dominio del proprio sé corporeo a cui segue una azione contraria alle credenze morali del soggetto, l’akrasia assume nel pensiero antico fisionomie diverse che variano a seconda delle definizioni che gli interpreti danno al logos, alle passioni e al gioco combinato di entrambi. Antenata del concetto paolino di peccato, essa esprime una delle facce del male morale, anche se non la peggiore o la più biasimevole.
L’analisi del male morale come problema rilevante dal punto di vista filosofico nasce insieme alla fondazione dell’etica, e propriamente nella polis del V secolo a.C, quando una nuova classe egemone, arricchitasi attraverso il commercio, va a sostituirsi all’antica nobiltà terriera e Socrate e i sofisti introducono un nuovo concetto di virtù inteso come eccellenza morale di fatto slegata dalla nobiltà di stirpe.
Mentre nel mondo omerico dell’Iliade i numerosi casi di condotta sconsiderata e inesplicabile venivano ricondotti all’ate, a un temporaneo stato di annebbiamento della mente causato da una operazione demonica esterna all’individuo, con la tragedia attica la questione etica del perché gli uomini si comportino in modo sbagliato assume una nuova fisionomia e inizia a ricevere nuove risposte che prendono in considerazione la responsabilità dell’individuo e i suoi moventi. E se già con la grandezza di personaggi sofoclei come Antigone o Edipo si inizia a percepire la profondità dell’anima umana, seppure ancora spezzata a piacimento della volontà degli dèi, è propriamente con Euripide, erede del passo di Eraclito, ethos anthropoi daimon (il demone dell’uomo è il carattere), che il male non viene più considerato una forza estranea che dall’esterno aggredisce la mente degli uomini, ma diventa parte del loro stesso essere. Le vicende terribili che capitano a Edipo accadono tutte suo malgrado: egli uccide il padre e sposa la madre in virtù di un’antica punizione degli dèi che grava sul suo genos – Edipo agisce senza sapere, all’interno di un disegno divino. Al contrario, Medea nell’omonima tragedia euripidea è ben consapevole non solo delle azioni che compie ma anche del loro valore morale: “e capisco quali mali dovrò compiere, ma più forte dei miei propositi è la passione, la quale per gli uomini è causa dei mali più tremendi” (Euripide, Medea, 1078). Con queste parole Medea, mentre è sul punto di uccidere i propri figli per desiderio di vendetta nei confronti di Giasone, sancisce la lacerazione dell’anima, psyché, affermandone la debolezza: i buoni propositi (bouleumata) possono essere vinti dalla passione (thymos) e causare un’azione biasimevole non solo agli occhi degli altri ma anche ai propri.
Mostrando il superamento della concezione arcaica di giustizia, che non teneva conto delle intenzioni dell’agente e giudicava esclusivamente l’azione in sé compiuta, Euripide è il primo a mettere in scena quella che successivamente Aristotele definirà akrasia, quella mancanza di dominio di sé che induce ad agire contro quel che si ritiene essere il meglio.
La tradizione antica ha fatto di Socrate il primo filosofo del bios, del modo di vivere dell’uomo, e delle virtù intese come valori etici. La psyché, abbandonato il suo carattere sovraindividuale assunto nei contesti religiosi di orfismo e pitagorismo, conosce proprio con Socrate un processo di individualizzazione diventando il vero fulcro del discorso morale: la conoscenza di sé e la cura della propria anima diventano i capisaldi di una nuova forma di fare filosofia che mette la ricerca e la pratica della vita virtuosa al proprio centro. Nel dialogo platonico del Protagora, pur non fornendo mai una definizione delle singole virtù (come la giustizia, la temperanza o il coraggio…), Socrate enuncia la dottrina positiva secondo cui ogni virtù è conoscenza, episteme: così come basta conoscere bene la grammatica per essere un bravo grammatico, è anche sufficiente conoscere cosa sia, per esempio, il coraggio per essere coraggiosi; basta sapere cosa è bene fare, per comportarsi di conseguenza. Da ciò si ricava che ogni azione malvagia (non virtuosa) è frutto di ignoranza, e in particolare di una doppia ignoranza, amathia, termine che indica non soltanto un deficit cognitivo ma, accanto ad esso, anche la credenza, la pretesa di sapere. Il male morale diventa così una forma di insipienza, ignoranza e stoltezza insieme e quindi in qualche modo involontario: “Nessuno tende spontaneamente al male o a ciò che si ritiene tale. Questo, a quanto pare, non è nella natura umana, tendere volontariamente a ciò che si ritiene male invece che al bene” (Platone, Protagora, 345 d-e). Per Socrate il potere della conoscenza è talmente forte che la akrasia unita alla consapevolezza dell’errore è una pura aporia logica, oltre che una impossibilità psichica: chi come Medea ritiene di commettere il male perché incapace di dominare le proprie passioni, non conosce davvero cosa è il bene e la sua credenza di sapere come sarebbe corretto comportarsi è solo una sorta di illusione ottica causata dalla passione immediata e accecante che sconvolge l’ordine assiologico vigente; perché conoscere la cosa giusta da fare è anche la condizione sufficiente per farla e in questo senso chi commette il male, lungi dall’essere vicino alla verità, è solo vittima dell’apparenza.
Prendendo la sola ragione come vettore delle azioni dell’uomo, la tesi socratica, oltre a porsi come molto radicale per noi moderni, si potrebbe considerare la formulazione in forma esplicita di quell’antico e radicato abito mentale che sin da Omero tendeva a oggettivare gli impulsi irrazionali e attribuiva l’avvento di squilibranti passioni alla causa esterna dell’ate o alla trasmissione del menos. Tuttavia, già a Platone risulta bene evidente come una teoria secondo la quale nessuno fa il male di proposito faccia poca presa sugli uomini. La rinuncia platonica all’idea esposta nel Fedone di un’anima pura, sola in sé medesima, per acquisire nella Repubblica una concezione di psyché come unità articolata in maniera tripartita (logos, thymos, epithymia), non solo segna una cesura tra discepolo e maestro, ma inaugura una tradizione sulla divisone dell’anima dell’uomo e sul conflitto tra le sue diverse parti che troverà larga eco nei pensatori successivi. Chi conosce il Bene può anche trasgredirlo, e tutto ciò in base all’esito di un conflitto: il logos è come un auriga che può sì guidare il carro ma da solo non può muoverlo: l’anima irascibile e quella concupiscibile diventano vettori di azione. La conoscenza non è più così onnipotente e la cattiva condotta non dipende esclusivamente da difetto di sapere: ogni parte della psyché è autonomamente motivante e risulta pertanto possibile desiderare forme di gratificazione inacettabili alla ragione e agire di conseguenza.
Con Aristotele l’analisi della condotta umana assume una propria specificità metodica e il problema morale viene collocato all’interno di un’etica in sé autonoma e disgiunta dalla sfera teoretica: la virtù non è più conoscenza come intendeva Socrate e non è nemmeno correlata alla definizione del Bene in sé come voleva Platone. Infatti, nota Aristotele, il bene come sostanza non ha alcuna funzione regolativa della prassi dell’uomo: affinché esso sia praticabile e desiderabile, deve potersi dire in tutte le categorie, e in questo senso “il bene in sé non sarà bene in misura maggiore per il fatto di essere eterno, se è vero che ciò che è bianco per lungo tempo non è più bianco di ciò che lo è per un solo giorno. […] Il bene non è qualcosa di comune e che si dice secondo una sola idea” (Arist. EN 1096b 5-25). L’etica aristotelica ha quindi la peculiare caratteristica di occuparsi delle azioni buone e dei beni pratici, ossia delle virtù. Esse esprimono il modo corretto di provare una passione che si sedimenta in uno stato abituale; sono l’habitus grazie al quale gli uomini sono in grado di compiere azioni moralmente belle.
Delineando una inedita e originale teoria dell’azione basata sulla scelta (proairesis) in vista del perseguimento di un fine che si reputa un bene, Aristotele fa delle virtù il centro della propria etica e indica nel loro esercizio la realizzazione dello scopo dell’uomo in quanto tale. In questo senso il suo opposto, il vizio, viene ad essere la peggiore condizione in cui versa l’individuo e la più biasimevole, dal momento che esso non solo genera azioni malvagie ma distoglie completamente l’uomo dalla realizzazione di sé (eudaimonia). Il vizio è l’esito una tensione dell’anima, orexis, verso fini sbagliati e moralmente deprecabili che l’individuo – a causa del vizio insito in lui – scambia per qualcosa di buono.
Distorsione della mente che porta a non sapere distinguere il male dal bene e ad agire in maniera totalmente casuale assecondando di volta in volta le passioni senza rimorso alcuno, il vizio è però un habitus volontario dell’anima. L’individuo è infatti responsabile del suo inizio, anche se, una volta acquisito e sedimentato, non è più padrone di estirparlo come e quando vorrebbe, così “come non è possibile per chi ha lasciato cadere una pietra riprenderla di nuovo, eppure dipendeva da lui raccoglierla e scagliarla” (Arist. EN III 7, 1114a 17-19). Conoscere i giusti fini cui le azioni dovrebbero tendere è un dovere morale del cittadino della polis; non conoscerli, e di conseguenza non perseguirli, è ciò che di più biasimevole esiste, dal momento che nel vizioso non solo il comportamento è guasto, ma anche i suoi principi morali.
Nel VII libro dell’Etica Nicomachea Aristotele discute anche di un’altra condizione di natura diversa che conduce l’uomo a commettere azioni sbagliate: la akrasia. Diversamente da quanto riteneva Socrate, agire contro le proprie credenze morali perché non si riesce a dominare le passioni è un episodio dell’anima non solo possibile, ma anche molto comune tra gli uomini. La passione può far sì che la conoscenza di cosa è bene fare, che pure si possiede, non venga messa in atto ma rimanga in potenza. Nonostante l’esito sia sempre il medesimo, un atto moralmente malvagio, la mancanza di autocontrollo tuttavia non è grave quanto il vizio. In primo luogo perché presuppone la bontà dei fini cui vorrebbe tendere l’azione (anche se poi, per debolezza, non vengono perseguiti) e in secondo luogo perché non è un habitus, un costume. Se il vizioso ritiene lecito tutto ciò che brama e in lui la passione cui è associata un più forte componente tendenziale diventa automaticamente l’ordine assiologico vincente, chi non si controlla asseconda sì le proprie passioni, ma non senza senso di vergogna, dal momento che in lui il principio corretto (orthos logos) si è salvato.
Con l’Ellenismo la trattazione del male morale da parte degli esponenti della Stoà prende le distanze dall’etica aristotelica ed esprime una radicalizzazione della tesi di Socrate nella misura in cui la psyché, l’anima – che diviene materiale e ha sede nel cuore – si identifica interamente con la ragione e l’etica diventa perlopiù una terapia volta allo sradicamento delle passioni, considerate in se stesse un male (a differenza di Aristotele che le riteneva moralmente neutre). Non esiste un modo buono e corretto di provare una passione: l’apatheia (la loro assenza) diviene l’unica condizione morale degna di lode.
Tutta l’etica stoica è inoltre basata su una teoria dell’azione che non ha precedenti e che riconosce unicamente all’assenso il motore della prassi: nulla – nemmeno il desiderio – può determinare un’azione indipendentemente dall’assenso, libero e volontario, che l’individuo dà alle impressioni (phantasia) che il mondo ci fornisce. In questo senso, anche provare passioni è imputabile al soggetto morale.
In merito al problema della genesi delle azioni malvagie, lo stoico Crisippo sostiene che “tra gli errori umani, alcuni vanno ricondotti a un difetto di giudizio. Altri alla fiacchezza e alla debolezza dell’anima” (Crisippo – SVF III 473). Sono le credenze morali errate – scaturite dall’assenso volontario a una rappresentazione fallace del mondo – a portare l’uomo ad agire male. Oltre a ciò, essendo l’anima unica, indivisibile e sostanzialmente logos, per l’uomo malvagio non ci sono alibi che tengano, anime concupiscibili o irascibili che in laceranti conflitti devino l’individuo lontano dai retti propositi: il male morale è una diatriba tutta interna al logos e la passione è uno stravolgimento della mente. Del resto per la scuola stoica, così come l’uomo virtuoso altro non è che l’uomo saggio, colui che conduce una vita secondo ragione perché ha estirpato tutte le passioni, l’uomo moralmente da poco è un faulos, uno stolto, un insipiente (figura che comunque gode di maggior biasimo anche nelle Etiche aristoteliche e per Socrate). Il saggio ha imparato a sospendere l’assenso di fronte alle rappresentazioni mentali errate, il malvagio no.
Inoltre, agire contrariamente alle proprie credenze morali è spiegabile solo nella misura in cui l’anima perde la propria tensione nervosa. In quanto materiale, la psyché possiede un tono, dal cui funzionamento corretto o sbagliato dipendono il vigore etico o la debolezza morale. L’atonia crisippea corrisponde così in certa misura alla akrasia aristotelica, con l’unica differenza che essa è ricondotta a un momentaneo deficit fisico, a una improvvisa mollezza e mancanza di tensione nervosa dell’anima; sicché, quando essa va giù di tono, essendosi le maglie del logos indebolite, l’individuo non è in grado di dominarsi. Non è dunque un caso che la radicalizzazione della teoria stoica della passione come malattia conduca tra il I e il II secolo a una analisi del problema morale dal punto di vista medico: se con Areteo, Rufo e Sorano affiora l’idea che i desideri dell’anima siano patogeni rispetto al corpo e che il medico debba occuparsi dei primi per guarire il secondo, Galeno arriverà a scrivere un intero trattato volto a dimostrare come “i costumi dell’anima dipendano dai temperamenti del corpo”; un’ultima eco del rapporto platonico tra etica e scienza, che però sbiadisce quasi definitivamente il problema della responsabilità morale del soggetto.
Se nel mondo greco la genesi delle azioni umane viene spiegata solamente attraverso la ragione, i desideri o il gioco combinato di entrambi, l’akrasia inizia ad assumere una nuova fisionomia con la concezione neotestamentaria di volontà. Già Aristotele aveva fornito una descrizione dell’atto volitivo, parlando di boulesis nei termini di una tensione naturale verso il bene o ciò che si ritiene tale: è proprio questo appetitus verso determinati fini a rendere alcuni uomini buoni, altri malvagi. Detto questo, essa rimane comunque una tensione naturale dell’anima subordinata alle credenze morali del soggetto: non è di per sé razionale ma può diventarlo nella misura in cui obbedisce al logos, come un figlio obbedisce al padre.
Con il Nuovo Testamento, in particolare con le lettere di Paolo e poi con la filosofia agostiniana, la volontà assume invece una fisionomia sua propria, diventando facoltà dell’anima indipendente da ragione e passione e soprattutto connessa alla libertà del soggetto. “Non il bene che io voglio faccio, ma il male che non voglio” (Rom, 7, 19): con queste parole Paolo di Tarso esprime il concetto di peccato come un’azione risultante dal conflitto della volontà con la volontà stessa. Al di là delle giuste credenze morali e dei desideri, nell’uomo esiste una facoltà in virtù della quale egli può liberamente e senza costrizione alcuna dire “sì” o “no”. La akrasia non esprime quindi più una vittoria delle passioni nei confronti della ragione, ma si riflette in un’azione malvagia frutto della debolezza della volontà. Lo stesso peccato originale ne esprime bene la natura: il male morale è una trasgressione volontaria del Bene, nel caso dell’episodio biblico di Adamo ed Eva di consapevole violazione del comandamento divino.
Tutto ciò viene compiutamente analizzato da Agostino di Tagaste che, integrando neoplatonismo e rivelazione cristiana e identificando l’anima con l’interiorità del soggetto (“Tu chi sei? Un uomo. Ecco qui corpo e anima, l’uno esterno e l’altro interiore. Quello interiore è migliore” – Confessioni X 6,9), considera il peccato come deviazione della volontà umana che, invece di dirigersi verso Dio quale vero bene, brama beni temporali a esso inferiori. Tali beni materiali e terreni, tuttavia, non sono in se stessi un male; è la voluntas dell’uomo a renderli tali, dal momento che, nella sua intrinseca libertà, li ama come se fossero il Bene supremo. Esattamente in questo sta il peccato, nel volere (amare) qualcosa invece di qualcos’altro. Peccare non significa recare danno a Dio o all’ordine naturale. Significa danneggiare se stessi corrompendo la propria natura, perché chi commette una colpa ha già in questo la sua punizione: essersi privati del Sommo Bene (da qui la ripresa del concetto già platonico del male ontologico come steresis, mancanza). Nell’ottica neotestamentaria la volontà umana ha inoltre il compito di uniformarsi alla volontà divina (Giovanni 14, 15 sgg): in ciò sta il “dovere” dell’uomo sulla terra, e, dal momento che le verità della rivelazione religiosa eccedono l’ambito della ragione, la fede stessa diviene un atto volitivo che non può essere giustificato o supportato dall’intelletto.