al-Mah¿duun
al-Mah̠du῾ūn
(Siria 1972, Gli ingannati, bianco e nero, 120m); regia: Tawfiq Salih; produzione: Organisme du Cinéma Syrien; soggetto: dal romanzo Riǧāl fī al-šams (Uomini sotto il sole) di Ghassan Kanafani; sceneggiatura: Tawfiq Salih; fotografia: Bahjat Haydar; montaggio: Salah Haddad; scenografia: Labib Raslan; musica: Solhi Al Wadi.
L'anziano Abu Qais attraversa a piedi il deserto; camminando nella terra arida si avvicina ai resti di una persona, presagio di morte, e rivive nella memoria alcuni attimi della sua vita nel villaggio d'origine. Il presente e il passato si confondono in un delirio febbrile. Come molti altri palestinesi, Abu Qais ha lasciato la famiglia per tentare di raggiungere il Kuwait, e cercare lavoro. Sulle rive del fiume Shatt El Arab fa la conoscenza di altri due palestinesi ‒ un giovane promesso sposo e un adolescente costretto dal padre ad abbandonare la scuola per sfamare la famiglia ‒ che, come lui, stanno cercando un passaggio clandestino, anche pagando una consistente somma di dinari. I tre incontrano un vecchio camionista che accetta, dietro compenso, di portarli in Kuwait, facendo loro superare il confine iracheno a bordo del suo camion-cisterna. Il viaggio si rivela un vero e proprio inferno a causa delle condizioni climatiche e della prova cui i tre uomini sono, per due volte, sottoposti: per aggirare altrettanti posti di frontiera devono infatti nascondersi per pochi minuti nella cisterna, dove la temperatura raggiunge un livello insostenibile. Il primo controllo viene superato. La seconda volta, però, l'autista è trattenuto troppo a lungo negli uffici doganali. La sua lotta contro il tempo per salvare i tre uomini è inutile. I cadaveri vengono abbandonati in un cumulo di immondizie.
al-Mah̠du῾ūn è un capolavoro di cinema apolide e senza tempo che, con uno stile crudo e visionario, un realismo privato di ogni riferimento didascalico e una narrazione anti-convenzionale, racconta la disperazione e la tragedia di un popolo, quello palestinese, senza terra e doppiamente abbandonato: tradito dalle istituzioni politiche arabe e invaso, massacrato dai sionisti, come ricorda la voce fuori campo, alla quale spesso è dato il compito di descrivere i fatti politico-sociali preesistenti, con un tono che si mantiene espressamente anti-realistico. La scelta di girare un'opera dove l'aspetto militante scaturisce da un discorso filmico quasi sperimentale ha reso possibile il perdurare della straordinaria modernità di al-Mah̠du῾ūn. L'inizio, in tal senso, è esemplare. Poche inquadrature sono sufficienti per rendere evidente il dolore della perdita, della mancanza di un territorio, che obbliga all'erranza individui che simboleggiano un'intera popolazione. I totali del deserto e gli zoom indietro e avanti su di esso aprono al-Mah̠du῾ūn, così come la presenza implacabile del sole, l'avanzare lento e faticoso di un uomo, la scoperta di uno scheletro umano (segno ulteriore della lotta di un popolo cui è negata anche la sepoltura), le panoramiche e i carrelli, che si fondono in un gesto semantico unico, fra le piante dell'oasi raggiunta dal personaggio.
Con al-Mah̠du῾ūn, suo sesto lungometraggio, il regista egiziano Tawfiq Salih ha portato il suo cinema di dichiarato impegno civile, ma fino ad allora saldamente radicato in una struttura ben più tradizionale, negli spazi di una rigorosa ricerca formale, utilizzando al meglio strumenti rischiosi come lo zoom e il flashback che, in questo film, diventano elementi ricorrenti e funzionali alla descrizione rapsodica del delirio interiore e fisico dei personaggi. Salih usa lo zoom come gesto che sottolinea la condizione drammatica e le situazioni allucinate, come atto fisico per soffermarsi su dettagli e particolari (soprattutto le mani, quella di un soldato morto o degli uomini che si calano nella cisterna, e che anticipano il braccio e la mano rigidi del cadavere del vecchio nell'ultima inquadratura, dove i corpi senza vita diventano macabre e commoventi sculture tragiche). E usa i flashback per inserire, come lampi visivi, pensieri, episodi familiari che tornano alla mente di quegli uomini disposti a tutto pur di godere, per sé e per le persone che amano, una vita accettabile. Lo sguardo di Sâlih aderisce al disorientamento, alla paura, alla deriva cui vanno incontro i personaggi. Il film si pone così come una soggettiva di questi stati d'animo e fisici. Il bianco e nero restituisce il contrasto fra la luce accecante del deserto e i corpi sempre più sporchi e senza forze degli uomini. al-Mah̠du῾ūn è un film inscritto nel bianco e nel nero più accecanti. Entrambe sono tonalità di morte in spazi esterni infiniti (il deserto) o interni claustrofobici (la cisterna del camion). A tale proposito, la sequenza nella quale il veicolo fa la sua apparizione è premonitrice di morte, come se sorgesse da un film dell'orrore. La macchina destinata a trasportare gli sventurati è avvicinata con leggero movimento circolare, che svela il suo denso e minaccioso colore nero e la sua usura, quasi fosse uno strumento infernale ancora una volta avviato alla ripetizione del suo compito.
al-Mah̠du῾ūn (noto anche con il titolo internazionale di Les dupes) ha avuto una singolare vicenda produttiva ed è nato nel periodo in cui Salih, le cui opere sono state spesso colpite dalla censura, ha lasciato la sua patria per recarsi a lavorare in Siria, nel 1969. L'istituzione pubblica dell'Organisme du Cinéma Syrien di Damasco ha finanziato il progetto, tratto dal romanzo Riǧāl fī al-šams (edito in Italia con il titolo Uomini sotto il sole) dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani (quasi un film già scritto, rapsodico ed essenziale quanto al-Mah̠du῾ūn). Il luogo delle riprese è stato, invece, il confine tra Iraq e Kuwait. Un set dove il deserto ha un ruolo fondamentale, anche se non esclusivo; infatti, in esso si incastrano le scene di città e fiume, luoghi di attesa prima della partenza, filmati con sguardo rosselliniano, e il breve inserto di immagini fisse ‒ fotografie di massacri, esodi, riunioni politiche, volti di potenti ‒ descritte dalla voce fuori campo, che compongono uno scarto documentario e storico da cui riaffiora, in maniera originale, la questione mediorientale. al-Mah̠du῾ūn divenne immediatamente un film fondamentale. Nel 1972 vinse il Tanit d'or alle Journées Cinématographiques de Carthage di Tunisi (ex aequo con l'angolano Sambizanga, Sarah Maldoror 1972), ma dopo appena tre giorni di programmazione fu ritirato dalle sale tunisine in seguito alle proteste degli Emirati Arabi Uniti. A causa del suo modo di affrontare le questioni politiche e le responsabilità dei Paesi arabi nei confronti della Palestina, anche Siria ed Egitto proibirono a lungo il film.
Interpreti e personaggi: Muhammad Kheir-Halaouani (Abu Qais), Abdul Rahman Al Rashi (Abul Khaizaran), Bassan Abu Ghazala (Assad), Sakeh Koloki (Marwan), Sana Dibsi (Om Qais).
T. Chérîaa, Tewfik Saleh et 'Les dupes', in "Positif", n. 151, juin 1973 (trad. it. in Undici film, quaderno informativo n. 10 della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pesaro 1974).
G. Hennebelle, Les dupes, in "Écran", n. 17, juillet- août 1973.
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I film dei Paesi arabi. Tawfiq Salih, a cura di F. Bono, Pesaro 1993.
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Cine e Islam, a cura di A. Elena, San Sebastián 1995.
G. Gariazzo, Poetiche del cinema africano, Torino 1998.