Al-Qaida si tinge di nero
Nella regione sahariana si annidano qaedisti, trafficanti di droga e di armi. Nonostante l’intervento militare francese in Mali, la stabilizzazione della regione rimane problematica per la radicalizzazione dei gruppi ribelli e i loro legami con terroristi di Libia, Tunisia, Nigeria e Somalia.
Una gigantesca tortuga di sabbia, rocce e canyon. Un’area delimitata – solo geograficamente – dalla parte meridionale dell’Algeria, dai bordi di Libia e Tunisia, dal nord del Mali. Confini labili, perché questa regione ha diramazioni che si allungano a est verso la Mauritania e a ovest sino al Niger. È qui che si combatte una guerra, poco visibile e con rari testimoni, contro un trittico letale: qaedisti, trafficanti di droga, contrabbandieri di armi. In mezzo guerriglieri, soldati rinnegati, ribelli tuareg e opportunisti.
Il centro di gravità, per tutto il 2013, è stato il Mali. In gennaio, agendo sotto il mandato dell’ONU, la Francia ha lanciato l’operazione Serval inviando circa 4000 soldati, caccia ed elicotteri da combattimento. Al suo fianco 3000 soldati forniti da un buon numero di paesi africani. Più defilati ma presenti gli americani, con droni, aerei-spia e un nucleo di forze speciali. Compiti addestrativi, in supporto all’esercito maliano, per un contingente di istruttori dell’Unione Europea.
La coalizione – non sempre compatta – si è mossa inseguendo un duplice obiettivo. Uno immediato e un altro a lungo termine. Il primo: Parigi ha impedito il crollo del governo maliano, incapace di tenere testa all’avanzata di un nemico agguerrito formato da insorti tuareg, islamisti locali/africani (Ansar Dine e Tawhid), falangi di al-Qaida nella terra del Maghreb islamico (AQIM). Lo schieramento variegato, dopo aver conquistato tutto il nord, puntava verso il centro del Mali.
Un successo legato in parte alle tensioni createsi con la caduta dei regimi libico e tunisino, all’abbondanza di armi portate via dai depositi di Gheddafi, all’inesistenza di una vera opposizione.
Con l’operazione Serval la progressione non solo è stata bloccata, ma gli estremisti hanno dovuto ritirarsi, cercando rifugio nei numerosi ‘santuari’ realizzati nelle aree desertiche algerine e libiche. Dunque una missione coronata da successo, almeno nella prima fase, con perdite contenute (6 francesi, un centinaio di militari africani) e un costo di oltre 200 milioni di euro.
Più problematico il secondo obiettivo, quello di stabilizzare la regione. Le caratteristiche del territorio aiutano gli estremisti a sparire e poi a tornare. Le sponde locali fanno il gioco dei qaedisti che, grazie al denaro acquisito attraverso decine di sequestri di cittadini occidentali, possono comprarsi complicità. Se Parigi ha i suoi interessi – sfruttamento di risorse minerarie, mantenimento della propria influenza – i seguaci di Osama non ne hanno di meno. AQIM si propone: difesa del rifugio nel nord del Mali; rapporti con organizzazioni radicali in Libia e Tunisia; nascita di un polo regionale che la trasformi in un punto di riferimento operativo e ideologico. Ambizioni che si spingono fino in Nigeria, dove sono cresciuti i vincoli con gruppi islamisti feroci, quali Boko Haram e Ansaru.
I suoi metodi sono copiati dagli estremisti che hanno agito in modo devastante dalla Somalia al Kenya.
La strage del 21 settembre in un centro commerciale di Nairobi e attribuita al gruppo al-Shabaab somalo ha certamente aperto una nuova fase per il terrore nel Corno d’Africa.
Il piano qaedista è favorito dalla mancanza di coesione dei governi locali. Da una parte sono preoccupati, ma dall’altra provano a guadagnarci qualcosa. Il sistema di illegalità cronico e storico lungo le piste del deserto, dove molti vivono da sempre di ‘nero’, aumenta le possibilità di AQIM. I militanti, quando non trafficano direttamente, forniscono protezione. È il caso dei carichi di cocaina proveniente dal Sud America: entrano da ovest, attraversano la zona contesa, finiscono in Europa. E i terroristi impongono il pizzo. Soldi che si aggiungono ai riscatti (un bottino che ha superato nell’ultimo decennio i 50 milioni di euro).
Al-Qaida è abile come pochi a inserirsi nel vuoto politico o nel disagio. Le traballanti strutture di Egitto (in particolare il Sinai), Tunisia e Libia, dove sono crescenti le spinte integraliste, appaiono in difficoltà nel fare da argine. Per questo non sarebbe una sorpresa se ‘la carovana con le bandiere nere’ trovasse nuovi sentieri ben più vicini all’Europa del Mali, dove peraltro l’instabilità resterà una costante.
AQIM, dalle origini al network qaedista
Le radici di AQIM sarebbero rinvenibili nella guerra civile algerina degli anni Novanta, e algerina sarebbe anche gran parte della sua dirigenza e militanza. L’originario Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (GSPC), attivo nella ex colonia francese, optò per l’affiliazione ad al-Qaida per ragioni di carattere strategico, abbandonando così la natura ‘nazionale’ della sua lotta per entrare a far parte di un network jihadista e ampliare il suo spazio d’azione. Nel settembre 2006, Ayman al-Zawahiri annunciò ufficialmente l’unione fra al-Qaida e il GSPC, che nel gennaio 2007 cambiò il suo nome in AQIM per sancire l’affiliazione. Forza prevalentemente attiva in Mauritania, Mali, Niger e Algeria, non esistono numeri certi sui suoi militanti, che ammonterebbero tuttavia a diverse centinaia. Oltre a operare in un contesto geopolitico che accoglie diverse forze islamiste, come Mujao e Ansar Dine, secondo fonti di intelligence AQIM avrebbe anche pericolosi contatti con importanti gruppi terroristici come Boko Haram in Nigeria, al-Shabaab in Somalia e al-Qaida nella penisola araba (AQAP).
di Vincenzo Piglionica
La strage di Nairobi
A Nairobi, sabato 21 settembre, 10-15 uomini armati, appartenenti al gruppo estremista islamico somalo al-Shabaab, hanno preso d’assalto un centro commerciale di lusso, il Westgate Mall, dove si trovava oltre un migliaio di persone. Nello scontro a fuoco che ne è seguito gli assalitori hanno utilizzato armi automatiche e bombe a mano, cercando di colpire di preferenza le persone non musulmane. All’arrivo dei soldati kenyani, mentre si cercava di mettere in salvo il maggior numero possibile di civili, il gruppo terrorista è riuscito a tenere in ostaggio 36 persone. Solo nella notte del 22 settembre i militari, supportati da una squadra delle forze speciali israeliane, hanno portato a segno un blitz per annientare il commando. Il bilancio è tragico: 72 morti e circa 175 feriti.
I manoscritti di Timbuctù
Quando Timbuctù si affermò come centro commerciale e culturale dal 14° al 16° secolo, attirò studiosi sufi che formarono scuole affiliate con le moschee della città. Fu allora che vennero importati manoscritti tramite carovane che connettevano l’Africa del Nord con il Mediterraneo e l’Arabia. Le famiglie benestanti fecero copiare i documenti da scribi locali, riempiendo intere biblioteche con opere su religione, matematica, medicina, astronomia, storia, geografia, ancora oggi in buona parte conservate nelle case e in oltre 60 biblioteche private: si parla di oltre 300.000 manoscritti ancora esistenti. Entrata nel patrimonio UNESCO, la città ha avviato diversi progetti internazionali (dal 2003 con il Sudafrica) per la salvaguardia, la catalogazione e la digitalizzazione dei manoscritti, in collaborazione con il principale centro di studio maliano, l’Istituto Ahmed Baba, nato nel 1973 e nel 2009 completamente ricostruito e dotato di moderne tecnologie per conservare circa 30.000 manoscritti. Proprio questo centro il 26 gennaio 2012 è stato colpito dalla furia iconoclasta dei ribelli jihadisti, che hanno bruciato e distrutto una parte di questo patrimonio di inestimabile valore: sembra che siano andati in cenere quasi 3000 codici. Allo stesso modo, i ribelli avevano raso al suolo molti degli antichi mausolei che contenevano i resti dei venerati ‘santi’ sufi.
di Mariano Delle Rose