LESAGE, Alain-René
Romanziere e autore drammatico francese, nato a Sarzeau (Bretagna) il 13 dicembre 1668, morto a Boulogne-sur-Mer il 17 novembre 1747. Rimasto solo al mondo appena quindicenne, continuò a vivere in provincia, finché nel 1692 raggiunse Parigi per continuarvi gli studî filosofici e giuridici. Divenuto avvocato - e questa era stata la professione paterna - e consumata la scarsa eredità, L. fu subito preso dalle necessità quotidiane, senza peraltro preoccuparsene eccessivamente. Anzi, nel 1694, sposava Marie-Elisabeth Huyard, graziosa e amorevole, povera al pari di lui. Fu invece la letteratura, che nei suoi studî e nel suo spirito prevaleva sulla filosofia e sul diritto, a dargli i mezzi per sé e per la sua famiglia, che si accrebbe presto di quattro figli, di cui due si fecero attori: l'arte che egli odiava, e uno sacerdote: la professione che riteneva ipocrita e parassitaria. Così l'arte dello scrivere, che finora era di pochi privilegiati - di coloro a cui la sorte aveva dato agiatezza e di quelli che il mecenatismo dei ricchi favoriva - per L. invece, che non godette mai dell'altrui munificenza né cercò protezioni, costituì un vero e proprio mestiere. Ed egli si fece il suo pubblico: dapprima nei teatri, dove era più facile il contatto e più pronto il successo; poi tra i lettori, con i romanzi, le traduzioni, le compilazioni ingegnose, preoccupato del guadagno anziché della squisitezza formale. Lavorò sistematicamente, con fertilità di talento, nella sua casa raccolta e quieta, senza intemperanze di vita e irrequietezze di spirito, con poche tristezze e poche gioie, fedele alle sue abitudini sedentarie e borghesi, e giustamente pago della sua quotidiana fatica. Anche da quei contrasti destati per il sale di qualche commedia, e da quei momentanei insuccessi a cui qualche volta lo esponeva la fretta, egli si sapeva liberare con prontezza e con sempre nuove risorse. Cosicché componeva ancora negli ultimi anni, con lo stesso alacre entusiasmo, se non con eguale vivacità d'ingegno, anche quando si era ritirato - ormai stanco, affetto da sordità, senza essere riuscito a rendersi comoda la vecchiaia - a Boulogne-sur-Mer, richiamato dall'affetto del figlio canonico.
La letteratura spagnola è la miniera a cui attinse la fantasia del L., di scarsa fecondità inventiva, ma avido di assimilare altre opere per fonderle, riadattarle e temprarle nell'originalità del suo temperamento. Da quello stesso teatro castigliano, che alla Francia aveva offerto pagine di eroica passione, e da quella prosa che conservava la poesia di vecchie leggende, L. trasceglieva intrighi comici, caricaturali e farseschi, mentre derivava dal romanzo picaresco intrecci innumerevoli e caratteri svariati: i due generi, cioè, più schiettamente popolari per il tono della loro arte e per l'ambiente della loro diffusione, entrambi specchio della realtà sociale, senza finzioni liriche. Nella prefazione al suo Théâtre espagnol (1700), L. affermava di voler riprendere dagli Spagnoli quello ch'essi hanno di "brillante e di ingegnoso"; e infatti Le Traitre puni (dalla commedia di Francisco Rojas: La Traición busca el castigo) e Don Félix de Mendoce (desunta da Lope de Vega: Guardar y guardarse) sono i primi tentativi di saggiare il gusto del pubblico. In essi e negli altri (Le point d'honneur, del 1702, ma rimaneggiata ancora nel 1725: ricalcata su No hay amigo para amigo del Rojas; Don César Ursin, del 1707, più debole e più confusa, sul modello calderoniano: Peor está que estava) L. districa il groviglio dell'originale, rende più svelto il dialogo, attenua i colori troppo volgari, avvolgendo il comico e l'avventuroso di quella finezza francese, rapida, briosa, scintillante: sebbene ancora siano da ammirare i meriti del traduttore di talento, anziché le qualità del rielaboratore originale. Ma queste ultime appaiono già pienamente mature in Crispin rival de son maître (attinta in parte a Los empeños de mentir di L. Hurtado de Mendoza e inserita poi nel Gil Blas), dove la comicità è gustosa, incalzante, scoppiettante; e in Turcaret (ideata nel 1707 nell'atto unico di Les étrennes, rifatta con il nuovo titolo nel 1708, e solo permessa l'anno seguente), il suo capolavoro drammatico, che trova precedenti soltanto nell'arte del Molière. È una satira spassosa, a volte aspra e spietata, contro i finanzieri, gli appaltatori, gli uomini di grossi affari, tutti rapacità, senza scrupoli, ambiziosi di onori e di lusso, e, per di più, di crassa intelligenza, di sensibilità ottusa, senza nessuna vita spirituale. Turcaret ne è il prototipo: arricchito con mene illecite, egoista e gretto, ridicolo e pacchiano nella generosità in cui lo trascina la passione per una donna di malcostume. L'ambiente in cui egli si muove ha una sua morale sfacciata, troppo realistica; l'azione in cui opera è tramata di loschi affari, sotterfugi, simulazioni, adulterî, attraverso cui i valori umani più delicati e più vitali si disgregano e si svuotano di qualsiasi senso etico. Questo mondo che alterna la scaltrezza con la dabbenaggine, smaliziato e disincantato, investito da un'immaginazione ironica e caricaturale, ma sempre temperata da una briosa indulgenza, forse anche impertinente e furbesca, ma tuttavia aliena da ogni amarezza e da ogni pessimismo, è quello che ritorna ampliato e moltiplicato nei due romanzi: Le diable boiteux (1ª ed., 1707; 2ª redazione con alcune brevi parti soppresse e altre aggiunte, 1726) e Gil Blas de Santillane (libri I e II, 1715; III, 1724; IV, 1735; ed. definitiva, 1747). Il primo traduce il titolo del Diablo Cjuelo di Luis Vélez de Guevara (Madrid 1641), di cui è seguita la struttura generale, con l'aggiunta di altri episodî e di nuove storie, attinte da varie fonti (e qualche pagina L. confessa d'averla ispirata sul Día y noche de Madrid di F. Santos, 1663). Asmodeo, il "diavolo zoppo" che scopre e dispiega, durante una notte, all'ingenuo studente Cléofas la molteplice vita che si svolge nella città, dentro le case e dentro gli animi, rappresenta la coscienza del poeta, spettatore e pittore di amori, di avventure sentimentali e romanzesche, di beghe tra poeti e attori, visti con maliziosa curiosità e con il gusto del narratore abbondante: tant'è vero che l'opera si risolve in un'antologia di novelle, unite da un pretesto architettonico. Il Gil Blas, invece, possiede una maggiore unità psicologica nella figura del protagonista, che non è semplice spettatore, ma partecipa a tutte le azioni innumerevoli e precipitose del romanzo. Gil Blas percorre la società contemporanea, dalla vita della provincia pittoresca e angusta, a quella della capitale più operosa e più infida. Al servizio di un'infinità di gente, proprio come i "picari" spagnoli, egli ne conosce e ne svela i modi, i costumi, i gesti, le linee del volto e dell'anima, l'educazione e il tono dell'ambiente sociale a cui essa appartiene; cosicché dinnanzi ai suoi occhi e in rapporto con la propria vita, si articola una multiforme teoria di vicende umane: nei villaggi, nelle campagne, nelle strade provinciali, nelle vie cittadine, nelle case aristocratiche, nei ministeri, nelle regge, dalla Spagna all'Italia, dall'Occidente europeo al Mediterraneo e all'Oriente, nella concreta varietà delle classi, delle professioni, dei mestieri, il diverso dramma, cioè, dei sensi e della passione, visto nei colori amabili e caricaturali della commedia, a tinte fortemente sociali e realistiche, e nel giuoco degl'interessi, degli egoismi, senza l'ala di un qualsiasi ideale. La vita per L. è un'alternativa romanzesca, imprevista, affollata d'intrighi, di bassezze, d'esperienze contrastanti, per lo più grige e utilitaristiche, su cui il volger degli anni, l'incalzare degli avvenimenti e l'ineluttabile uguaglianza della morte portano una spontanea e naturale giustizia. Per quanto il romanzo sia tutto sonoro di echi letterarî della Spagna e vi ritornino episodî e tipi del Lazarillo de Tormes, del Marcos Obregón, del Guzman de Alfarache, dell'Estebanillo González, tanto che al gesuita Isla potè sembrare traduzione da un originale castigliano, tuttavia lo stile del L. e la contemporaneità francese della sua esperienza ne fanno un libro nuovo e personale, con una sua lingua che ha tutte le risorse della grande arte narrativa: garbata, rapida, spezzata senza nervosismi, vivace senza stento, fortemente incisa nella brevità della frase dialogata, epigrammatica, evidentissima, a volte distesa in un periodare ampio, classico, rievocatore: con questi mezzi e con questo contenuto più moderno il L. rinnovava la tradizione del romanzo, contrapponendosi a quello di tipo arcadico e sentimentale.
Opere: l'attività del L. s'iniziò con la trad. delle Lettres d'Aristémte (1695); del 1704 è la riduzione del Don Quijote dell'Avellaneda; interessante il suo Théatre de la Foire (voll. 10, 1721-1737), con cui riprese la tradizione italiana degli Arlecchini e da cui trasse di che vivere. Lavori di adattamento sono: Guzman d'Alfarache (1732); Estebanille Gonzalès, che conservano il titolo dell'originale spagnolo; Le bachiller de Salamanque (1736); La valise trouvée (1740), imitata dal Corriere svaligiato del Pallavicino; e l'ultimo centone: Mélange amusant de saillies d'esprit (1743). Œnvres complètes, ediz. migliore, a cura di Renouard, Parigi 1821, voll. 12. Qualche composizione è tuttora inedita alla Bibl. Nat. di Parigi: v. Arlequin colonel, ed. L. Claretie, in Revue litt. et crit., aprile I892 segg. Del Diable boiteux, interessante l'ediz. del 1878, voll. 2, con notice di Anatole France. Per El Diablo cojuelo, cfr. l'ediz. di Fr. Rodríguez Marín, Madrid 1927.
Bibl.: F. Brunetière, A.-R. L., in Revue des Deux Mondes, maggio 1883; id., La question de Gil Blas, in Histoire et littér., Parigi 1891, II, pp. 235-269; L. Claretie, L. romancier, Parigi 1890; E. Lintilhac, L., Parigi 1893; A. Le Breton, Le Roman au XVIIIe siècle, Parigi 1898, pp. 39-57; per Turcaret, cfr. l'intr. di C. Levi alla sua trad., Firenze 1922.