DONATI, Alamanno
Nacque a Firenze il 20 maggio 1458 (Arch. di Stato di Firenze, Tratte, 444 bis, f. 174r) dal notaio ser Marchionne. Fu scolaro di Giorgio Antonio Vespucci, che, apprezzato e famoso insegnante privato di lettere latine e greche, possessore di una ricca biblioteca di testi classici, fu amico e collaboratore di Marsilio Ficino, a lui unito dal comune culto per Platone e dagli interessi speculativi sul tema dell'amore.
Proprio in questo clima culturale il D. - del quale ben scarse sono le notizie a noi pervenute: sappiamo che fu emancipato dal padre il 12luglio 1477 (Ibid., Emancipazioni, 10, f. 51v) - ebbe la sua prima formazione di erudito e di appassionato della poesia. Entrato in diretto rapporto con l'Accademia Platonica e quindi col Ficino, il D. ne dìvenne ben presto scolaro prediletto. Non solo., infatti, , lo stesso Ficino inserì il suo nome nel catalogo dei suoi familiari e uditori (Opera, I, p. 937: in effetti il D. seguì il suo corso sul Simposio), ma in più occasioni parla di lui con simpatia e fiducia. Non è da trascurare, tra l'altro, il fatto che il Ficino (ibid., p. 848) abbia presentato, con un gustoso apologo latino rivolto a Lorenzo de'Medici, la traduzione volgare dell'Historiade duobus amantibus di Enea Silvio Piccolomini, compiuta dal D. e da questo definita esercitazione scolastica.
Ma sono soprattutto eloquenti tre lettere del Ficino, che, per motivi diversi, parlano del Donati. La prima (ibid., p. 716), senza data, è indirizzata al D. stesso, "dilectissimo suo", in risposta ad un quesito che il discepolo aveva rivolto al maestro circa il modo d'intendere il pensiero di Platone sull'anima. La lettera è interessante anche perché, prima di risolvere il dubbio del D., il Ficino esprime il carattere tutto platonico dell'amicìzia che lo lega al giovane discepolo, cioè un mutuo amore confermato da stabile ed onesta consuetudine. La seconda (ibid., p. 834), anch'essa senza data, è indirizzata ad Angelo Poliziano, ed è una discreta, ma al tempo stesso affettuosa ed insistente presentazione e raccomandazione al poeta "Musarum sacerdos", del giovane amico che più volte gli aveva richiesto quell'intervento. Dal calore con cui la raccomandazione è fatta si deduce la profondità della stima che il Ficino doveva nutrire verso il suo allievo ed amico. La terza lettera (ibid., p. 894) è indirizzata ad Americo Corsini e porta la data 29 ott. 1488. In essa il Ficino parla del dolore suo e di altri comuni amici ("fratres in Platone nostri") per la morte improvvisa "crudelis nimium obitus") del D., avvenuta poco prima. Con commozione lo scrittore ricorda come quel "magnanimus iuvenis et facundus", che egli vuol chiamare il "Marte" dell'Accademia perché aveva accanitamente difeso ciascuno di loro contro "lividi detractores" (fra i quali si era distinto nel 1477 Luigi Pulci, autore di attacchi satirici contro il Ficino e i neoplatonici), era tragicamente morto cadendo da cavallo e andando a sbattere in una pietra quasi per malefico influsso delle congiunzioni degli astri. Ma Saturno, conclude poi il Ficino, commiserando la grave sorte del "generosus iuvenis", aveva accolto la sua anima e l'aveva annoverata fra gli angeli e i troni. Si può supporre, anche da queste indicazìoni astronomiche, che il D. sia morto nell'estate del 1488.
Del D. rimangono due opere: la già ricordata traduzione in volgare dell'Historiade duobus amantibus, scritta del 1444 da Enea Silvio Piccolomini, e il trattato in latino De intellectus voluntatisque excellentia. In quest'ultima opera il D. cita un altro suo scritto, tutt'ora irreperibile, un De bono ingenio, proprietate et perfectione ad Laurentium Medicum iuniorem, certamente di derivazione platonica, come del resto riconosce lo stesso Donati. Una datazione precisa dei due scritti a noi pervenuti e impossibile: in essi, comunque, il D. accenna alla sua età ancora giovane e al suo desiderio di una più ampia affermazione nel campo delle lettere.
La traduzione dell'Historiade duobusamantibus - conservatain due soli testimoni, il manoscritto 2670 della Biblioteca Riccardiana di Firenze (mutilo però della prima carta della narrazione) e l'incunabolo 51.A.46 della Biblioteca Corsiniana di Roma - non dovette nascere casualmente, ma come frutto dell'ambiente culturale neoplatonico. Si inserisce, infatti, nell'interesse per il tema amoroso, che è tipico della speculazione del Ficino, e che alìmenta, non a caso, anche l'altro e contemporaneo traduttore fiorentino dell'Historia, Alessandro Braccesi, uno fra i più notevoli poeti latini del circolo ficiniano.
Nel proemio della traduzione il D., dopo una serie di considerazioni sulla gloria, spiega che si dedicò a questo lavoro spinto dal desiderio di esercitarsi sia nella lingua latina sia in quella volgare, ma attenendosi ai criteri di un "fedelissimo interprete", pur nella necessità di emendare le scorrettezze del testo dovute alla "negligenza degli impressori" (dal che si deduce che il D. attuò la sua versione sulla base non di un manoscritto ma di un testo a stampa dell'Historia, la cui editio princeps è del 1470). Va notato che la dichiarazione del D. di voler conservare integro il senso dell'autore, anche "perché sarebbe sacrilegio fare el contrario", induce a pensare ad una nota polemica nei confronti della versione del Braccesi, troppo libera e disinvolta rispetto al testo latino. La dedica a Lorenzo - non lontana dai moduli consueti- è giustificata dal D. con la speranza di non lasciare nell'oblio il frutto della sua fatica (come, invece, sarebbe realmente avvenuto, mentre al contrario vastissima sarebbe stata la diffusione del parallelo volgarizzamento e rifacimento del Braccesi) e col desiderio di avere un giudizio di merito da Lorenzo, "peritissimo in prosa et in versi toscani" e "refugio et porto di tutti e licterati". E forse per sottolineare l'importanza attribuita alla dedicatoria a Lorenzo, o per la volontà di limitarsi al puro racconto dei fatti, il D. non traduce le due importanti lettere a Kaspar Schlick e a Mariano Sozzini, nelle quali il Piccolomini dà spiegazione e giustificazione dell'Historia, e che tradizionalmente precedono (come una specie di cornice) il testo della novella, sia nei manoscritti sia nelle edizioni a stampa. Ma la traduzione - che il D. presenta a Lorenzo "come primitie e saggio dei suoi studi" - è sostanzialmente fedele all'originale del Piccolomini, anche se non vi mancano alterazioni di vario genere (soprattutto una sovrabbondante aggettivazione e una tendenza ad una più diffusa enumerazione), dovute all'interesse per ampliamenti particolari o al gusto per espressioni e modi di dire vivaci e coloriti frutto di un'intonazione popolareggiante che spesso contrasta con l'elegante e ricercata prosa latina del Piccolomini. Non mancano, infine, veri e propri fraintendimenti; ma la traduzione del D. non sconvolge il testo, come avviene nel caso della versione del Braccesi.
L'altra opera del D., quasi sicuramente posteriore alla traduzione dell'Historia e forse scritta fra il 1482 e il 1487, è il De intellectus voluntatisque excellentia (conservato nel solo manoscritto Magliabechiano XXX, 244, ff. 57-69, della Biblioteca nazionale di Firenze e pubblicato nel 1940), che s'inserisce perfettamente nella speculazione neoplatonica fiorentina, e insieme nella ricca produzione umanistica tesa ad esaltare l'eccellenza dell'uomo.
Dopo una breve introduzione, in cui si ricorda l'importanza essenziale che per l'uomo ha il conoscere se stesso, il D., rifacendosi ad una questione sorta pochi giorni prima sulla nobiltà dell'intelletto e della volontà, e al dibattito che su di essa si era sviluppato con la partecipazione di Bernardo Capponi, fratello del destinatario (il frate domenicano Guglielmo Capponi), e di Cristoforo di Carlo Marsuppini, dice di voler esporre alcuni argomenti che per la limitatezza del tempo erano stati omessi nel corso della conversazione, e che egli ha dedotto dai teologi cristiani. Ha quindi inizio la presentazione di dieci ragioni a sostegno della superiorità dell'intelletto, sia visto in generale come dote specifica dell'uomo, sia considerato in rapporto con la volontà. Come potenza che vede, conosce e intende, l'intelletto è da considerarsi quasi Dio; esso compie le sue operazioni senza aver bisogno di niente e di nessuno, neppure della volontà; nobilissima su tutte le altre, la forza dell'intelletto è dunque la più indipendente e perfetta: essa coltiva e adorna la mente, in lei consiste la felicità umana, in lei si trova l'atto più nobile di tutti, e cioè la sapienza, che è conoscenza delle cose umane e divine e il mezzo per cui in questa vita gustiamo la dolcezza della felicità eterna. L'intelletto, forza purissima dell'uomo, a lui permette di contemplare, insieme con gli angeli, Dio stesso e le cose divine. Altrettante sono le ragioni dell'eccellenza della volontà. Sua essenziale caratteristica è la libertà, grazie alla quale essa supera l'intelletto, in quanto è da lei che dipende il comportamento di quello, cosi come è da lei che deriva la bontà; ed essere buoni è più importante che essere dotti. La volontà poi comanda sull'intelletto, il quale è mosso dalla volontà, mentre questa si muove di moto proprio ed è fonte e origine di ogni moto. Inoltre la volontà, per il fatto di seguire cronologicamente all'intelletto, supera questo per nobiltà: e anzi, è essa che raggiunge il massimo della nobiltà, perché è a lei che Dio ha affidato la cura di tutte le forze dell'anima. Ma la volontà eccelle soprattutto perché da essa emana la carità, la più grande delle virtù. Delineate le ragioni dell'eccellenza dell'intelletto e della volontà, il D. ne deduce il motivo fondamentale per esaltare l'eccellenza del genere umano, e quindi conclude con l'esortazione agli uomini perché siano grati a Dio di questi doni supremi, l'intelletto e la volontà, e non preferiscano i beni caduchi della terra.
Il volgarizzamento dell'Historiade duobusamantibus fu pubblicato, forse nel 1492, da Antonio Miscomini a Firenze; il De intellectus voluntatisque excellentia fupubblicato da L. Borghi, in La Bibliofilia, XLII (1940), pp. 108-115.
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