Alano di Lilla
Filosofo, teologo e poeta francese, nato nel 1128 circa e morto nel 1203. Gli eventi della sua vita ci sono in gran parte ignoti; sappiamo però che, dopo essersi formato probabilmente nelle scholae dictaminis delle rive della Loira, passò quasi certamente per la scuola di Chartres, prima di giungere a Parigi dove insegnò almeno sino al 1165. Nell'ultimo periodo della sua vita sembra abbia insegnato in scuole meridionali (forse anche a Montpellier) e partecipato anche alle ‛ missioni ' contro i Catari e i Valdesi. Poco prima della morte divenne monaco cistercense e finì i suoi giorni a Citeaux. Le sue opere più importanti sono le Regulae de sacra theologia, la Summa quoniam homines, il Tractatus de virtutibus, de vitiis et de donis Spiritus Sancti, il De Fide catholica contra haereticos, la Summa quot modis, il Liber poenitentialis, la ‛ satura ' De Planctu naturae e il poema dottrinale Anticlaudianus. Ma, per una completa discussione critica dell'opera di A. e dell'autenticità degli scritti che gli sono attribuiti, si veda l'introduzione di M. Th. d'Alverny all'edizione dei Textes inédits, Parigi 1965.
A. è evidentemente influenzato dalla tradizione dei maestri di Chartres e dalla scuola porrettana, è un buon conoscitore della cultura latina, ma è anche molto aperto alle suggestioni dei testi ermetici e pseudoermetici, delle nuove conoscenze scientifiche divulgate dalle prime traduzioni dei testi arabi e della teologia greco-bizantina affidata alla fortuna dei luminari di Cappadocia. Egli non è però soltanto un notevole maestro scolastico che, con i suoi scritti teologici (soprattutto le Regulae e la Summa quoniam homines) contribuisce a orientare il nuovo corso metodico della scientia de divinis, ma un filosofo e conoscitore del mondo della natura che, sull'esempio di Bernardo Silvestre, si rivolge a un pubblico più vasto, esponendo le proprie dottrine cosmologiche ed etiche in due opere (appunto il De Planctu naturae e l'Anticlaudianus) costruite secondo i più elaborati dettami dell'arte letteraria e retorica del suo tempo.
Sono appunto questi scritti che hanno maggiore interesse per gli studiosi di questioni dantesche non foss'altro che per la possibile eventualità di una loro diretta o indiretta influenza sulla struttura e su alcuni temi della Commedia.
Nel De Planctu, più che il pretesto iniziale della satura (la condanna della sodomia, segno di una generale eversione delle leggi naturali e divine), ha particolare importanza la raffigurazione dominante della Natura, vera protagonista del dramma cosmico concepito da A. e raffigurata come l'eterna potenza produttrice e generatrice dalla quale sgorga l'inesauribile molteplicità di tutti gli esseri individuali. Scaturigine di ogni modo e forma di vita e, insieme, principio di bellezza e armonia universale, la Natura compie l'opera di Dio, continuando il miracolo della creazione, attribuendo a tutte le cose la loro struttura universale, il loro fine e la loro particolare perfezione. Essa è dunque, come il Demiurgo platonico o, meglio, come l'anima mundi di cui si parla nel Timeo platonico, l'intermediaria tra le Idee divine e l'ordine fisico, tra la perfetta, immutabile perfezione degli archetipi universali e la loro realizzazione nel fluire perenne delle cose mondane. Perciò la maggior colpa che l'uomo possa compiere è appunto la ribellione alle leggi di Natura e, in particolare, l'eversione del giusto ordine dell'amore sessuale, mediante il quale Imeneo, sposo di Venere, e il suo figlio Cupido, regolano il perpetuo ripetersi delle generazioni e la continuità della specie umana. L'adulterio di Venere che, nella sua unione con Antigamo (il ‛ nemico del matrimonio '), ha generato Iocus, ha infatti introdotto nell'ordine naturale una radicale perversione che sembrerebbe invalidare il disegno divino dell'universo e impedire il giusto procedere di tutte le cose mondane. Perciò la satura si conclude con l'intervento di un altro personaggio, Genius, presentato come un sacerdote della Natura, il quale scaglia contro tutti i peccatori contro natura (ma soprattutto contro i maghi e i sodomiti) il suo definitivo anatema.
Ben più complessa e ricca di temi filosofici, teologici e scientifici, è invece la trama del poema Anticlaudianus (composto dopo il De Planctu e, con notevole probabilità, intorno al 1181-1184). Già il prologo ci rivela che il poema vuol essere una specie di summa poetica delle sette arti liberali, strettamente intrecciata con la narrazione di un'altissima rivelazione celeste che permetta alle menti umane di ascendere, attraverso il velo dell'immagine poetica, sino alla regione suprema della realtà in cui risiedono le pure Idee, e di qui sollevarsi ancora sino all'immediata contemplazione di Dio. Tale proposito è appunto perseguito dal poeta, mediante il mito poetico della creazione di un uomo perfetto che Natura progetta e vuole dotato di ogni virtù, sì da essere, insieme, umano e quasi divino. Le celesti sorelle (Concordia, Abbondanza, Favore, Giovinezza, Riso, Pudore, Modestia, Ragione, Decenza, Intelligenza, Pietà, Fede, Generosità, Nobiltà), convocate al suo concilio, approvano il suo piano. Ma Intelligenza osserva che l'anima dell'uomo perfetto dev'essere creata da un artefice superiore e che essa non può tentare da sola una simile impresa; sicché la sorella più anziana, Ragione, propone di rivolgersi a Fronesis (o Saggezza) che conosce tutti i misteri divini. Le sette arti liberali costruiscono quindi il carro che, guidato dai cinque sensi, conduce Fronesis, Ragione e Prudenza, attraverso i sette cieli (e la descrizione del viaggio permette ad A. di discutere a lungo di astronomia e astrologia, mostrando una notevole conoscenza di alcuni scritti di Tolomeo e di Albumasar), sino al regno di Theologia, la ‛ dea ' che si ispira direttamente allo Spirito Santo. Qui giunte, Fronesis esprime a Theologia il desiderio di Natura e la prega di mostrar loro il cammino che conduce alla " rocca " di Dio. Solo Fronesis può però salire all'Empireo, il cui ingresso è negato alla Ragione; ivi, dinanzi ai cori degli angeli e dei beati e al cospetto della Vergine, l'umana saggezza può finalmente penetrare nel castello di Dio dove sono dipinte le eterne Idee, la ragione e la causa di tutte le cose, e dove da una fonte risplendente scaturisce a sua volta un fiume di uguale natura e splendore (la generazione del Figlio dal Padre). La preghiera di Fronesis è accolta da Dio; egli fa modellare a Noys l'idea di un'anima perfetta cui imprime il suo sigillo. Poi, dopo che Fronesis ha unto l'anima con un suo balsamo che la renderà immune dalle influenze negative degli astri, il carro costruito dalle arti riprende la via del ritorno. Natura può porsi adesso all'opera; e dopo aver costruito un corpo bello come quello di Adone e di Narciso, adornato dai doni di tutte le sorelle celesti, lo adatta all'anima perfetta. Invano Aletto, temendo la perfezione dell'uomo divino che la caccerà dal mondo, muove guerra a Natura con tutti i Vizi e i Flagelli; l'intervento delle Virtù sconfigge le forze del male; e Iuvenis, l'uomo perfetto, può così instaurare il regno di Concordia e di Armonia, un mondo pacificato e felice dove i frutti nascono spontaneamente, dove anche le rose fioriscono senza spine ed è scomparsa l'antica maledizione che gravava su tutti i figli di Adamo.
La struttura allegorica e dottrinale del poema (e specialmente la descrizione del viaggio nei cieli, il particolare ruolo di Theologia, e l'insistenza su temi scientifici, filosofici e teologici) hanno indotto alcuni studiosi, come il Bossard e, in seguito, il Curtius e il Ciotti, a discutere di una possibile diretta influenza del poema di A. sulla Commedia dantesca. L'ipotesi, certo suggestiva perché potrebbe aprire la via a un'analisi più approfondita dei rapporti tra D. e la cultura filosofica, letteraria e teologica del XII sec., dovrebbe essere però confermata da elementi maggiormente probanti e significativi. Ma è comunque interessante notare la presenza a Firenze di alcuni importanti manoscritti di A. e, in particolare, del De Planctu e dell'Anticlaudianus.
Il nome di A. compare, come var. certamente erronea ma di curiosa genesi (cfr. Petrocchi), in If IV 141, in luogo di Lino.
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